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Edipo a colono, Appunti di Filosofia

edipo a cOLONO DI SOFOCLE

Tipologia: Appunti

2015/2016
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Scarica Edipo a colono e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! Edipo a COLONO Il contenuto della tragedia Edipo, allontanatosi volontariamente dalla città di Tebe per non contaminarla con la sua colpa, vaga di città in città, accompagnato dalla figlia Antigone, finché giunge nel demo attico di Colono, alle porte di Atene. Gli abitanti della città, in un primo tempo, vogliono scacciarlo per paura della contaminazione, poi, impietositi dal racconto della sua vicenda, si rivolgono al loro re Teseo. Giunge nel frattempo da Tebe Ismene, sorella di Antigone e figlia di Edipo. La ragazza comunica al padre il pericoloso litigio per il possesso del regno che oppone i due fratelli Eteocle e Polinice e gli rende noto il responso dell'oracolo, in base al quale la città che avesse offerto la sepoltura a Edipo sarebbe stata inviolabile. Arriva in seguito Teseo, che, dopo aver parlato con Edipo, gli garantisce assoluta protezione nel suo territorio. Il vecchio deve comunque affrontare sia Creonte sia il figlio Polinice, che giungono entrambi con il fine di ricondurre in patria il vecchio re. Edipo si oppone risolutamente al cognato, che addirittura rapisce, per conseguire il suo scopo, Antigone e Ismene. Teseo, però, riesce a recuperare le ragazze e costringe Creonte a tornarsene a Tebe. Per intercessione delle sorelle e di Teseo stesso, Polinice ottiene un colloquio con il padre, che si conclude in modo funesto con la predizione da parte di Edipo della morte dei due fratelli. Quando sulla scena si ode un tuono, Edipo si avvia, seguito da Teseo, verso il bosco sacro alle Eumenidi. Dopo aver svelato al re i segreti necessari a garantire la buona sorte di Atene, Edipo prodigiosamente scompare. La tragedia si conclude con il ritorno di Antigone e di Ismene a Tebe, nel tentativo di migliorare la sorte dei fratelli. La struttura dell'opera L'Edipo a Colono, come l'Edipo Re e come molte altre tragedie di Sofocle, ha per protagonista un solo personaggio, attorno a cui ruota l'intera vicenda; questo personaggio è ovviamente Edipo. A parte questo carattere comune, è però possibile evidenziare anche numerose differenze tra le due tragedie. La più importante diversità, che sottende a tutte le altre, è rappresentata dal periodo in cui Sofocle compose i due drammi: l'Edipo Re è un'opera della maturità di Sofocle, mentre l'Edipo a Colono risale ai suoi ultimi anni di vita. Questo aspetto incide profondamente sulle caratteristiche delle due tragedie. In primo luogo, pur avendo entrambe Edipo come protagonista, ne presentano aspetti differenti: nella prima l'eroe è giovane, nella seconda egli è invece prossimo a morte; cambiano di conseguenza anche le sue caratteristiche peculiari. Anche a livello contenutistico le due tragedie si rivelano quindi profondamente diverse; ma è nondimeno possibile sottolineare la loro diversa struttura compositiva. L'Edipo a Colono è l'opera in cui Sofocle realizza tutta la ricca varietà della sua sapienza compositiva: recitazione, canto degli attori e canto del coro si intrecciano in sistemi complessi, sulla scena si hanno inoltre grandi movimenti di masse, che conseguono un effetto tanto più spettacolare in quanto sono sempre organizzati intorno alla figura del vecchio Edipo. Un'ultima importante caratteristica strutturale è rappresentata dal coro, che è parte integrante dell'azione in base a sistemi di responsione molto articolati e organizzati in base a una struttura simmetrica nella quale dialogano attori e coro. La figura di Edipo La figura del protagonista risulta profondamente mutata nel passaggio dall'Edipo re all'Edipo a Colono. La decisione e l'impulsività sono diventate pazienza, capacità di sopportare, ma anche durezza irosa; l'amore per i figli dimostrato nell'opera precedente, in cui chiamava con questo nome anche tutti i sudditi, si è trasformato in una repulsione totale da un lato, tanto radicale da non dimostrare pietà neanche per il figlio Polinice; d'altra parte è rimasto come sincero e profondo affetto nei confronti delle figlie. Infine la sua fiducia nell'intelligenza e nelle capacità dell'uomo, si è tramutata in stanchezza di vivere. Edipo non risulta inoltre pacificato con il suo destino, in quanto, in questo periodo della sua vita, ha maturato la consapevolezza che, oltre all'oggettività dell'atto, nell'agire umano conta anche l'intenzionalità. La vicenda dell'eroe si conclude quindi tragicamente rispetto agli ideali in cui credeva all'inizio, e la sua morte misteriosa acquista un valore salvifico e liberatorio. Le tematiche dell'opera Indice: un testamento spirituale e un omaggio a Atene la religiosità dell'opera la morte "lirica" e la colpa ereditaria il messaggio sofocleo Un testamento spirituale e un omaggio a Atene Sofocle compone questa tragedia quando è ormai giunto nella vecchiaia avanzata. Egli ha infatti novant'anni e può quindi considerarsi prossimo a morte. In questa situazione egli non ha probabilmente voluto, come sostengono alcuni, comporre un'opera politica, con il fine di parlare indirettamente della difficile situazione in cui si trova Atene in quel periodo. Al contrario sembrerebbe più credibile l'ipotesi che egli voglia astenersi totalmente dal pronunciarsi in un tale campo, per occuparsi invece di altri scopi. L'opera può pertanto essere considerata una sorta di "testamento spirituale", tramite il quale il poeta, ormai giunto alla morte, vuole lasciare testimonianza dei pensieri che hanno occupato i suoi ultimi giorni, compiendo, come Edipo, un bilancio doloroso della vita proprio quando sta per separarsene. In secondo luogo l'opera rappresenta un omaggio all'Attica sotto due diversi punti di vista: per la bellezza della terra, alla quale dedica un'ampia, idealizzata descrizione, e per un omaggio al mito, creato dagli stessi Ateniesi, della vocazione della città a proteggere i supplici, un omaggio quindi alla pietas di Atene. La religiosità dell'opera L'Edipo a Colono è una tragedia pervasa di religiosità. Anche nell'Edipo Re Sofocle non ha esitato ad affermare la sua fede negli dei, ma in quest'opera essa raggiunge il culmine. La tragedia è strettamente legata a elementi connessi con la religione: Edipo giunge in un luogo sacro alle Eumenidi e scompare misteriosamente in un altro luogo destinato a rimanere segreto; i responsi oracolari determinano l'intero svolgersi della vicenda; infine la stessa conclusione dell'opera rivolge l'attenzione agli dei e al mistero religioso. La religiosità presente nell'opera può comunque turbare e affascinare, ma certamente non offre una consolazione spirituale all'uomo; proprio per questo essa richiede una scelta di fede radicale, che Sofocle ritiene possa essere sostenuta unicamente dagli Ateniesi, famosi appunto per la loro pietas. Infatti Edipo non riceve una ricompensa per le sue sofferenze; al termine della tragedia egli acquista maggiore dignità, non certo maggiore felicità. Gli dei, che l'hanno incomprensibilmente abbattuto, ora, altrettanto incomprensibilmente, lo innalzano al ruolo di colui che ha in balìa le sorti della sua città, ma non per questo l'eroe può acquistare maggiore felicità. La morte "lirica" e la colpa ereditaria Il ruolo occupato dalla morte nell'Edipo a Colono è del tutto singolare: essa infatti non è vista come un elemento distruttore, come qualcosa che aumenti il senso tragico. Al contrario, la morte ricompone l'equilibrio spezzato e interviene come un fatto liberatore: se è umanamente doloroso abbandonare la vita, sicuramente non lo è per Edipo, che ha ormai subito ogni prova: è così che si può parlare in questo caso, l'unico nella tragedia antica, di morte che diventa poesia. In contrasto con questo senso liberatorio immediato è però necessario sottolineare che con la morte di Edipo non hanno termine gli eventi tragici che lo riguardano: egli continua a esercitare il suo influsso benefico o malefico sui vivi. Infatti la gravissima colpa dell'eroe, anche se involontaria, esercita la sua influenza sui discendenti, e egli stesso sa che la colpa non esaurirà i suoi effetti fino alla morte dell'ultimo Labdacide. Il messaggio sofocleo Tenendo in considerazione gli aspetti che emergono dall'analisi dell'Edipo a Colono, è possibile giustificare, quasi senza alcun dubbio, la tesi che vede nell'opera un ultimo messaggio che Sofocle ha voluto lasciare ai suoi spettatori, rivolgendosi in particolar modo agli Ateniesi, esaltando da un lato una realtà idilliaca ormai perduta, la realtà di Colono, dell'Atene della sua giovinezza, facendo d'altra parte a se stesso più che agli altri un resoconto della sua vita, in parallelo con quello che Edipo fa di sé nell'opera. moneta: lo fa prigioniero e lo minaccia: “Finché non riconduci quelle due ragazze e non le metti qui davanti a me, tu non ripartirai da questo paese!” (p.416). E qui c’è, ora, un monologo d’Edipo, rivolto a Creonte, che lo accusa d’essere “un parricida, un impuro che ha contaminato il letto nuziale con sua madre…” (p.417). È importante, storicamente e letterariamente questo monologo, perché è un’autodifesa d’Edipo che dà, dell’Edipo re, una rilettura critica scolpevolizzante, un’interpretazione a posteriori di quei fatti, visti in una luce diversa, critica. Edipo riesamina qui la propria storia e proclama la propria non responsabilità umana, la propria innocenza. Una cosa sono le azioni e una cosa sono le responsabilità, dice Edipo. E discute del libero arbitrio e del fato, della volontà degli dei e della libertà dell’uomo. Sentiamolo, tutto questo, dalle sue stesse parole, in risposta a Creonte che gli ha appena rinfacciato d’essere parricida e incestuoso: “Mi rinfacci omicidi e nozze e lutti che non avevo voluto… Gli dei così stabilirono, forse per antica ira contro la mia stirpe… Ma per quanto è in me, dico in me solo, nessuna macchia di colpa è trovabile per il male che ho fatto a me stesso e ai miei. Se attraverso l’oracolo giunse a mio padre una voce divina a dirgli che sarebbe morto per mano di suo figlio, secondo quale giustizia, dimmi, puoi accusare me? A quel tempo… ancora non ero stato concepito… E quando, aperta per me questa vita di dolore, venuto alle mani con mio padre, lo uccisi senza conoscerlo, niente sapendo di ciò che facevo… Dov’è il diritto di giudicarmi, d’infamarmi per un’azione involontaria? … E tu miserabile, mi parli poi di mia madre, mi costringi a ricordare le nozze con mia madre, che era poi tua sorella… Ebbene, dirò anche di lei, tu l’hai cominciato questo folle discorso. Sì, era mia madre, quella che ha generato me insieme alla mia rovina. Ma non lo sapeva, come neppure io lo sapevo. E dopo avermi partorito, partorì poi lei a me i figli della vergogna… Ma so bene una cosa: che tu, spingendomi in questi discorsi, ci provi gusto a insultare me e lei, la memoria di lei… Ma io quel connubio non lo volevo… Purtroppo io caddi in questi mali come si precipita in un baratro, trascinato dagli dei… e se mio padre ritornasse al mondo, penso che non avrebbe da rimproverarmi…” (p.417/418). La sostanza, il senso del fiume di parole che la critica letteraria scriverà, nel corso dei secoli e dei millenni, sull’ Edipo re, ecco , scopriamo qui, tutto era già stato detto, tutto era già stato scritto da Sofocle stesso, già allora, qui in questo monologo dell’Edipo a Colono. Edipo è involontario autore di delitti orribili, il parricidio e l’incesto, di cui non ha colpa alcuna. Sono gli dei che hanno voluto quei delitti, gli dei che hanno scritto il destino d’Edipo prima ancora ch’egli nascesse. Edipo ne è la vittima, non il colpevole. E il poeta e drammaturgo Sofocle, già autore, decenni prima, dell’Edipo re, a chiusura della propria lunga esistenza, con l’Edipo a Colono, ultimo suo scritto andato in scena postumo, volle ribadire un’ultima volta e chiaramente la chiave di lettura della tragedia e del mito d’Edipo, la non colpevolezza. L’uomo Edipo è innocente, ci dice Sofocle, e avendo pagato sulla propria pelle, per l’intera sua vita, colpe non sue, Edipo è santo, muore da santo, e la sua santità irraggia dalla sua tomba e protegge la terra che la ospita. Questo il senso dell’Edipo a Colono, testamento letterario finale d’un poeta novantenne, e dono finale alla sua Atene, la terra appunto, che, nel mito, ospita la tomba, segreta e sacra d’Edipo. Ma riprendiamo il racconto. Teseo, con la forza delle armi, si riprende, e le riporta al padre, le due ragazze, Antigone e Ismene e, tornando da Edipo, lo avvisa che c’è uno straniero, uno che non viene da Tebe, che lo vuole incontrare, che insiste oltremodo per incontrarlo. Edipo capisce al volo di chi si tratta e vorrebbe rifiutare l’incontro, ma infine cede alle insistenze e accetta. È Polinice, suo figlio, attualmente nemico di Creonte e di Eteocle, sul punto di aggredire in armi la propria patria per tentare di riconquistare il trono usurpatogli dal fratello. La sacralità della patria era un sentimento profondo all’epoca di Sofocle e perciò Polinice è figura empia e sacrilega: ha raccolto sette eserciti per attaccare le sette porte di Tebe e dunque sarà maledetto dal padre Edipo. Tuttavia in questa tardiva tragedia del vecchio poeta c’è quasi, più nel poeta Sofocle che nel protagonista Edipo, un senso di tristezza, per le malefatte di Polinice, non proprio di perdono, no, ma almeno di dolorosa comprensione, di amarezza, per le colpe di questo figlio ingrato ed empio che sì compie il male, ma non può sottrarvisi, perché è segno del destino il doverlo compiere… È un triste, Polinice, in queste pagine, non uno scellerato. Falso o sincero che sia, chiede perdono al padre per il male a suo tempo arrecatogli, cacciandolo da Tebe e per l’omissione di soccorso,avendolo abbandonato ramingo… E chiede, ora, protezione al padre: “deponi la tua ira per me, che ho intrapreso la marcia della vendetta contro mio fratello: mi ha espulso e privato della mia patria… Un oracolo dice che la vittoria sarà di quelli che tu proteggi… Siamo tutti e due esuli e mendicanti… tu ed io, dietro un solo destino… Ti riporterò nella tua casa e riprenderò il mio posto dopo aver cacciato”l’usurpatore, e, conclude sconsolato, “senza di te non mi sento nemmeno di aver salva la vita!” (p.428). È empio, è sacrilego, è colpevole, questo Polinice, eppure commuove, perché è un perdente, è un vinto, è un disperato. Nell’Antigone, in realtà già scritta da Sofocle molti anni prima e tuttavia terza ed ultima nell’immaginaria cronologia della saga d’Edipo e dei suoi discendenti, la figura di Polinice sarà al centro della tragedia della pietà famigliare: insepolto da Creonte, sarà pietosamente sepolto dalla sorella Antigone la quale morirà per aver infranto la legge umana seguendo le leggi non scritte del cuore, e dettate dagli dei. È l’ultima volta, qui, che incontriamo Polinice vivo. Ha in sé tutta la tristezza di chi segue un destino fatale: c’è un fondo di cupa consapevolezza, intuisce, sa di combattere per una causa persa, sa di andare verso la catastrofe e la morte e chiede a Ismene e Antigone la pietà di una tomba futura. E, maledetto dal padre, si ritira, con un’unica dolorosa premonizione: “vivo non mi rivedrete… vivo credo non mi rivedrete!” (p.431). Siamo al termine della tragedia. Ecco un tuono percuote la scena… Edipo comprende: è il segnale, il segnale di Zeus: “il tuono, il tuono di Zeus, lo sentite? Mi chiama all’Ade, mi chiama subito…” (p.432). È arrivato per Edipo il tempo di congedarsi dalla vita. Una morte misteriosa, la sua, che avviene fuori scena, unico testimone Teseo che raccoglierà da Edipo le sue ultime parole e le tramanderà poi ai propri discendenti, riti e parole che salveranno Atene dai nemici e la faranno grande e invincibile nei secoli. Bellissimo, nella più soave serenità, il congedo di Edipo. Egli cieco, finora guidato nei suoi passi, all’improvviso si erge guida di Teseo: è il cieco Edipo a guidare il vedente Teseo con passo sicuro verso il luogo misterioso ove morirà, scomparendo alla vista degli uomini, nel segreto del bosco. Scompare, Edipo, “in una calma quasi celeste, uno stupore sovrumano” e muore, sì, ma “della morte più bella, più desiderabile… su di lui si è fermata l’ombra, un’ombra dolce e poi l’ha rapito giù, verso sorte ignota…” (p.438). Sono belle le ultime parole di Antigone, la figlia pietosa che lo ha accompagnato negli anni raminghi dell’esilio, soffrendo con lui e che tuttavia, ora, la rimpiange tale sofferenza, rimpiange, ora, gli anni del dolore: “Forse c’è un rimpianto anche nel dolore, c’è un desiderio del dolore. Quello che non piaceva a nessuno era caro per me, quando potevo tenerlo per mano e camminare con lui… Padre, padre, chiuso per sempre nel buio della terra, cara ombra, il nostro amore ti è vicino anche laggiù!... Ha ottenuto la fine che desiderava, è morto dove voleva morire, in terra straniera” (p.439) conclude Antigone e si rivolge al sovrano Teseo e chiede, per sé e per la sorella Ismene: “rimandaci a Tebe, dove la lotta dei nostri fratelli sta per abbattersi: forse riusciremo a impedirla…” (p.443). La travagliata, terribile, lunga vita tormentata e sofferta di Edipo si conclude nella più dolce e serena delle morti, circondato dall’affetto delle figlie, amato e voluto dalla giusta e generosa città di Atene. Muore vecchio e sereno, in pace con se stesso, in terra amica: “ha ottenuto la fine che desiderava, è morto dove voleva morire…”. Commuove il finale d’apollinea serenità di questa pacata tragedia di congedo: Edipo congeda se stesso dalla scena sofoclea, mentre, sappiamo, è il poeta Sofocle che, nella stessa terra amica d’Atene, la sua Atene, congeda se stesso dalla vita. Pochi mesi, e Sofocle morirà. Il seguito della storia l’aveva già scritto. Anni e anni prima: l’Antigone. DIPO DOPO L’INVESTIGAZIONE Peter T. Koper Department of English Language and Literature Central Michigan University intervento al Colloquium on Violence and Religion (COV&R) Saint Paul University, Ottawa, Canada maggio 31 - Giugno 4, 2006 Nell’analisi di René Girard, il dramma attico si colloca all’interno della sequenza di grandi intuizioni il cui sviluppo, insieme con quello delle corrispondenti intuizioni dell’Antico Testamento, culmina nel Vangelo, e la cui reiterazione costituisce il nucleo della grande letteratura dell’Occidente. Girard pone al centro del suo ragionamento la storia di Edipo, in una lettura che rappresenta l’eroe dell’opera di Sofocle come un uomo accusato di un crimine che accetta la colpa imputatagli anche se la tragedia “non offre alcuna prova per la conclusione” (Griffith 95) che egli sia un parricida incestuoso. Secondo la lettura di Girard, Sofocle avrebbe anticipato i Vangeli nella rappresentazione piuttosto di un’atavica pratica di capro espiatorio che di una investigazione intellettualmente e moralmente eroica. Sandor Goodhart sostiene che Sofocle non risolve la questione del numero di assassini implicati nell’attacco a Laio perché desidererebbe de-enfatizzare la descrizione del comportamento di Edipo nel mito tradizionale. Il tema della tragedia non è la colpa di Edipo ma la tendenza di un pubblico ad assecondarlo nel convincersi del delitto. Pensare che noi sappiamo ciò che Edipo effettivamente ha fatto o pensare che una tale conoscenza sia importante è cadere in una trappola sofoclea. L’ambiguità nel testo è un tentativo di spingerci ad abbandonare un simile “privilegiaredel tutto la questione empirica, e vedere il lato empirico come meno importante della matrice universale della politica del capro espiatorio…” (36). La tragedia è un tentativo di insegnarci a non avere fretta di condannare Edipo in forza di un’accusa mitica pensando che una tale accusa abbia una validità empirica. Vorrei privilegiare la questione empirica perché è su di questa che si impernia il tema della tragedia. Non sono persuaso che la lettura tradizionale dell’intenzione di Sofocle nell’opera sia errata. Una serie di elementi interni, quali l’uso del presagio e della convenzione letteraria associata alla profezia, convincono me, e molti di coloro che leggono il testo, che Sofocle presenti un eroe che, senza ambiguità, ha compiuto ciò che la storia tradizionale dice che abbia compiuto, e che l’Edipo re sia una tragedia intorno alla sua scoperta della sua storia. Questa lettura è compatibile con l’ottica di Girard in alcuni punti importanti. Nella città vi è un assassino (violenza). Edipo, posto di fronte ai danni causati dalla violenza, della quale la peste è la rappresentazione, cerca per prima cosa di uccidere l’uccisore (o gli uccisori). La principale intuizione di Girard è che questa risposta sia mimetica. Quando viene informato della sua colpa, Edipo riflette l’accusa su Tiresia e Creonte. Ma quando incontra l’evidenza del ruolo che egli stesso ha avuto, la sua investigazione sull’identità del reale assassino (o assassini) lo porta oltre il ruolo diaccusatore. L’Edipo di Sofocle non uccide Creonte, una vittima innocente scelta arbitrariamente. Edipo vuole punire l’uomo realmente colpevole. Ciò che Edipo scopre è che ad essere colpevole non è l’uomo che lui ha accusato: è lui stesso, l’accusatore, colui che è colpevole. Questa è un’intuizione importantissima, compatibile con lo sviluppo delle idee di Girard. Edipo a Colono da Girard riceve un interesse molto minore rispetto ad Edipo re. Con la cautela che si conviene, vorrei avanzare la tesi che le due tragedie siano strettamente connesse nel pensiero di Sofocle, che nell’Edipo a Colono vi sia tanta parte del mito di Edipo quanta ve n’è in Edipo re, e che i giudizi di Sofocle entro e circa la prima tragedia non possano essere compresi senza la seconda. I temi dell’Edipo a Colono dimostrano ulteriormente quanto vicino sia il pensiero di Sofocle a quello di Girard. Penso che nelle discussioni che si svolgono nella comunità girardiana l’Edipo a Colono debba svolgere un ruolo della stessa importanza di quello dell’Edipo re. Il mito di Edipo, nel senso del racconto tradizionale, appare per la prima volta in Omero ed Esiodo. Epicasta ha sposato suo figlio: gli dèi fanno conoscere il fatto; secondo il loro volere, Edipo trascorrerà la vita in Tebe, benché lei si sia impiccata, ed Edipo stesso sia tormentato dalle Erinni di sua madre in “un’agonia senza fine” (Odissea 11, 271-280). Un guerriero greco, Mecisteo, “un giorno era stato a Tebe, al funerale di Edipo morto in battaglia: aveva allora sconfitto tutti i Cadmei” (Iliade 23, 678-680). Jebb e altri notano come qui siachiaramente implicito che Edipo non solo visse a Tebe, ma che morì in battaglia (Jebb OT xii). Nel racconto omerico non vi è alcuna menzione di accecamento o esilio: il modo in cui il suo misfatto è venuto alla luce non viene specificato. Omero cita l’attacco di Polinice a Tebe ( Iliade 4, 377-378). Esiodo dice che Polinice ed Eteocle caddero combattendo per le greggi di Edipo (Le Opere e i Giorni 162). Le prime menzioni dell’auto- accecamento di Edipo e del suo avere avuto quattro figli da Giocasta appaiono datare intorno al 450 (Jebb OT xv). Nel demo di Colono sorgeva un santuario dedicato alle Erinni. Jebb pensa che fosse più antico della storia di Edipo (OC xvii). Se colà fosse praticato un arcaico culto di Edipo è altrettanto incerto, ma Kammerbeekpensa improbabile che la collocazione sofoclea sia originale (2). Ciò che rimane della storia tradizionale di Edipo non ha molto in comune con le opere di Sofocle. Questo di per sé non è un problema, ma significa che le interpretazioni delle opere sono discussioni di una “creazione drammatica” di Sofocle. Certamente qualsiasi lettura approfondita sia dell’Edipo re che dell’Edipo a Colono non potrà pretendere di essere una lettura della storia tradizionale. Goodhart su questo è molto preciso. Girard spiega la sua pratica quando dice in uno dei suoi primi lavori che “il mito è l’occhiata su una struttura legata alla genesi della verità” (“From the Novelistic Experience to the Oedipal Myth” in Anspach 12). Mi stanno bene le discussioni del mito di Edipo in Sofocle che riconoscono il suo uso speciale del termine, ma non mi soddisfa molto l’affermazione di Anspach che “potremmo pertanto concludere che sebbene il mito abbia arbitrariamente accusato questo straniero zoppo di essere un provocatore di pestilenze, esso non lo ha mai identificato in maniera credibile come l’uccisore del padre e l’amante della madre” (xvii). Non abbiamo elementi per ritenere che la storia tradizionale menzionasse pestilenze. Marsh combina la storia tradizionale e la trama di Sofocle. In queste tragedie vi è una verità fondazionale. Utilizzerò il loro tema piuttosto che il mito per argomentare quella che penso sia questa verità. La storia tradizionale dice che Edipo è un parricida incestuoso. Se anche l’Edipo re lo faccia è una questione centrale, non marginale, poiché da questo dipende se Edipo sia un capro espiatorio oppure no. La prima riflessione di Girard sulla tragedia enfatizza gli elementi mimetici del conflitto di Edipo con Tiresia. Dopo la pubblicazione delle tesi di Goodhart, si è rafforzato l’assunto che Edipo sia un capro espiatorio, vittimizzato senza causa. Marsh va molto più in là di Ahl e Goodhart, affermano senza esitazione: “Edipo è un capro espiatorio ben riuscito perché si pensa a torto che egli abbia effettivamente commesso i crimini di cui è accusato” (xxvii). Ne Il capro espiatorio, Girard stesso osserva: “O Edipo è un capro espiatorio e non è colpevole di parricidio e d’incesto, oppure è colpevole e non è, almeno per i Greci, il capro espiatorio innocente che Jean-Pierre Vernant chiama pudicamente pharmakos”[Il capro espiatorio, trad. it. di C. Leverd e F.Bovoli, Adelphi, Milano 1987, p.196]. Di qui l’importanza della questione empirica, la questione se Sofocle intendesse presentare un Edipo che ha compiuto i misfatti attribuitigli dalla antica storia. L’evidenza più significativa del fatto che Sofocle nell’Edipo re ha seguito la storia tradizionale è nell’Edipo a Colono. In questa tragedia per tre volte Edipo afferma di essere innocente in termini morali. Queste affermazioni, che sono uno dei centri tematici di quest’opera, non avrebbero alcun senso se il tema reale della prima opera fosse una complessa ambiguità circa la sua condotta. Che Sofocle abbia in mente la prima opera è chiaro dal discorso di Ismene (361 sgg.), che è inserito per conciliare le differenze nei dettagli degli intrecci delle due opere. Un altro punto è lo status di Tiresia. L’analisi di Girard vede delle equivalenze nei due caratteri. Secondo una sua antica impostazione “Creonte, il fratello nemico, e Tiresia, il profeta cieco, sono doppi di Edipo, egli Mentre Edipo, ancora cieco ma guidato misticamente, conduce Teseo nel Boschetto, prega : “Dalle molte e immeritate sventure che lo colsero finalmente un dio giusto lo risollevi!” (1565-1566). Secondo un’altra convenzione drammatica, quel che avviene dopo una preghiera è una risposta alla preghiera. Il nunzio entra in scena per riferire che gli dèi hanno riportato Edipo a casa: la sua tomba sarà per la città una benedizione. La morte del capro espiatorio benedice la città scaricando la sua violenza, allentando temporaneamente la tensione che si è accumulata nella polis come elettricità in un accumulatore. La morte di Edipo benedice la città, ma con un meccanismo molto differente. Le città e le persone che non includono nella loro percezione di sé quello che Edipo rappresenta sono maledette, minate moralmente dalla differenza tra capacità di violenza assunte alla coscienza o ignorate. Esse sono vulnerabili al contagio, portate ad accusare gli innocenti. Quando una comunità è consapevole della sua stessa capacità di male, la identifica, e agisce sulla base di questa sua consapevolezza, c’è qualcosa di differente. Essa potrà agire ancora iniquamente, ma questa iniquità non sarà semplice criminalità o violenza sacrificale atavica. Nell’Edipo a Colono il discorso finale di Edipo è rivolto ad Antigone e Ismene. La sua vita ha avuto un senso, a dispetto della sua storia orribile, a causa del loro amore che lo ha sostenuto durante l’esilio. La presentazione profondamente toccante che Girard fa dell’amore salvifico come necessaria conseguenza della rivelazione evangelica va al di là del commiato di Sofocle in un modo fondamentale. Edipo maledice i suoi figli e Tebe: è un greco che colpisce i suoi nemici. Egli non offre non-violenza. Ma non lo fa nemmeno Girard. L’identificarci col capro espiatorio non ci libera dalla nostra propensione geneticamente codificata alla mimesi e alla violenza che ne consegue. Come in una delle sue recenti Chronicles indica Eric Gans, la “priorità” è sempre in gioco. Edipo e Laio non si scontrano per qualche oggetto. Si scontrano su chi dei due debba avere la precedenza. Dal punto di vista antropologico questo non è senza significato, che la priorità sia costituita dalla precedenza nell’etica eroica, nel monoteismo, nello sviluppo di un mercato, o nel possesso delle armi nucleari. A che cosa serve dunque sapere ciò che sta accadendo? Queste tragedie ci portano direttamente ad una serie di temi sociali, che vanno dallo status dell’omicidio giudiziario alle imprese degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan, che penso abbiano dietro di sé certamente anche dei motivi altruistici, ma che riflettono violenza su violenza. Anche dando per certa la buona volontà di persone intenzionate come Edipo ad agire bene, cosa rimane della virtù nel fatto che, perfino nel tentare di sfuggire alla nostra capacità di violenza, noi la esercitiamo? Il tema di Sofocle nell’Edipo a Colono riguarda queste questioni, e la sua tragedia deve influenzare la comprensione che la comunità girardiana ha di Sofocle in relazione al Vangelo. La città non punisce Edipo. Nell’Edipo a Colono, egli, se non perdonato, è almeno riconciliato con sé stesso, con la polis e con gli dèi. La sua maledizione di Polinice guarda indietro verso il vecchio mondo magico del mito tradizionale. La pietà verso il vecchio peccatore, che è l’ultima risposta che il Coro gli dà, guarda verso il Vangelo e verso un mondo dove posso accettare di vivere. Edipo: l'illusione dell'Identità di Raffaella Colombo La tragedia, come genere letterario che fa la sua comparsa ad Atene a cavallo fra VI e V secolo, non rappresenta semplicemente un'invenzione artistica ma, più profondamente, un luogo di discussione e di messa in crisi dei valori e delle virtù dell'epos, un momento di frammentazione di modelli di comportamento assoluti, in cui l'azione umana non è più considerata come stabile prolungamento della volontà divina. Gli eroi, abbandonato il ruolo di tipi eterni, di archetipi dotati di una rigida identità plasmata dal kosmos in cui vivono, si fanno, semplicemente, uomini immersi in una fitta rete di relazioni di potere in cui umano e divino si confondono non più per donare perfetta armonia all'azione ma, al contrario, per ridefinire l'origine e la legittimità dell'agire stesso. È dunque appropriato affermare, con Vernant, che la tragedia è «la città che si fa teatro» [1], diretta espressione della dimensione della polis in cui le certezze lasciano il posto al confronto e l'individuo si scopre capace di un nuovo modo «di comprendersi, di situarsi nei rapporti con il mondo, gli dèi, gli altri ed anche con se stesso e i propri atti» [2]; capace, in sostanza, di concepirsi non più come essere predefinito ma come apertura verso il fuori, come soggetto che cerca, nella relazione con l'Altro, la propria identità. Mettersi in scena è il miglior modo per oggettivare questa condizione: nello spazio dell'agora o in quello del teatro. Tuttavia, mentre nel primo la discussione pubblica si fa conquista effettiva di una nuova coscienza di sé (o quantomeno del gruppo sociale cui si appartiene), nel secondo il polémos lascia l'individuo smembrato, proprio come Dioniso nell'atto finale della sua passione. Non si tratta, però, di una fine che preveda una resurrezione: infatti, mentre il dio, archetipo della zoé, vale a dire della vita nella sua forma indistruttibile secondo la lettura di Kerényi, riscatta la colpa dell'individuazione con il ritorno alla pienezza originaria che la sua perenne rinascita celebra, l'eroe tragico paga il peccato del principium individuationis, che è ansia di ricerca, di conoscenza, di apollinea volontà di separazione e di chiarezza, con la caduta nell'abisso del non-senso che pulsa al di sotto della limpida apparenza, al di sotto dell'illusione dell'Io [3]. Ciò che rinasce, alla fine del processo tragico, è sempre e soltanto la folla colpita dall'hybris del singolo, la massa che aspetta la sua punizione per tornare alla vita. Mentre l'uomo filosofico e politico va costruendo spazi di autonomia e riflessione attraverso il confronto, si potrebbe dire che la tragedia placa l'euforia dell'individuo mostrando come non possa mai essere «causa e ragion sufficiente dei suoi atti» poiché è «la sua azione che, ricadendo su di lui, gli rivela chi davvero è» [4]. Ciò che il poeta rivela è che poter agire non significa essere davvero liberi di determinare la propria esistenza. Agire è, piuttosto, dare inizio ad un processo di cui non si potrà prevedere la conclusione, perché le forze in gioco non appartengono al solo agente. Si pensi alle parole di Hannah Arendt, «il fatto che l'uomo sia capace d'azione significa che da lui ci si può attendere l'inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile» [5], rapportate ai personaggi tragici. Niente è più improbabile di quello che succede a questi agenti. Quanto più si fanno campioni del discorso e dell'azione [6], tanto più precipitano nell'inatteso. Quanto più cercano, tanto meno trovano. E tanto meno si trovano. Se nella tragedia è racchiuso il senso dell'essere che cerca di plasmare la propria identità con le proprie forze, superando un mondo in cui questa era rigidamente data e predefinita, allora, quella che si prospetta, è una soggettività dilaniata: difficile da trovare e impossibile da mantenere. 1. Ethos antropo daimon Il caso dell'Edipo sofocleo, universalmente riconosciuto come l'incarnazione più limpida dello spirito tragico è, da questo punto di vista, esemplare. Nella sua storia si uniscono, senza soluzione di continuità, i due elementi che, per Vernant, costituiscono la vera struttura della tragedia: l'ethos, vale a dire il carattere di una persona, e ildaimon, la potenza divina o, per estensione, il destino, nella misura in cui questo è deciso della divinità stessa [7]. Il carattere del figlio di Laio appare, senza dubbio, netto quanto il suo destino. Edipo è un re coraggioso e saggio, capace di dare forza alla sua città nei momenti di crisi. Ha sfidato la Sfinge, uscendone vittorioso. In lui impeto e riflessione sembrano fondersi perfettamente e ora, mentre Tebe è sconvolta dalla peste, si appresta a compiere la volontà di Apollo giunta per bocca di Creonte: punire i responsabili della morte di Laio per salvare la città. Davanti alla richiesta, il suo coraggio non viene meno. Edipo intende trovare l'assassino, o gli assassini, perché «chi uccise lui potrebbe ben pensare di colpire, con una mano come questa, me. Mentre difendo lui, giovo a me stesso» [8]. Il suo ethos e la sua posizione lo spingono all'azione, alla decisione immediata e impulsiva di scovare i responsabili, punirli, scacciarli. Deve salvare il suo popolo e difendere se stesso. Il suo daimon, invece, sta per compiersi in tutta la sua assurdità. D'ora in poi, maggiore sarà la forza con cui Edipo cercherà la verità, minore sarà la strada che lo separerà dalla rovina. Se sull'asse ethos-daimon si gioca, per Vernant, la sfida tragica, non è possibile non pensare, a questo punto, alla massima eraclitea Ethos antropo daimon [9]: il carattere è, per l'uomo, un dio, un destino. Ciò che lo storico francese separa come polarità opposte, Eraclito sembra riunire all'interno dell'uomo stesso. La rovina di Edipo non sarebbe, allora, da ricercare nella maledizione che attraversa, come un'epidemia, la stirpe dei Labdacidi [10], ma nella fragilità della sua stessa esistenza, della sua identità, del suo ethos come espressione di ciò che è, e come forma del suo destino. Bisogna dunque chiedersi chi sia Edipo. Un re? Non dall'inizio. Un uomo potente e rispettato? Solo per un momento. È nella sua origine, come in ogni origine, che è racchiusa la risposta a questa domanda, dove per origine non s'intenda un punto stabile d'inizio ma, con Foucault, il luogo «di innumerevoli inizi che lasciano quel sospetto di colore, quella traccia quasi cancellata […] di mille eventi ora perduti» [11]. Edipo è il figlio che non sarebbe mai dovuto nascere; il bambino esposto con i piedi trafitti sul monte Citerone per allontanare dal padre la condanna di Apollo (nessuna progenie, pena la morte per mano del figlio), e sopravvissuto solo grazie all'intervento di un pastore e alle cure del re di Corinto Polibo e della moglie Merope. La sua identità appare da subita scissa e contesa fra due luoghi ed è l'accusa di un ubriaco sulla sua possibile origine spuria, a spingerlo dall'oracolo di Delfi per chiedere, e chiedersi, per la prima volta, “chi sono”, “da dove vengo”. La risposta, “ucciderai tuo padre e sposerai tua madre”, lo portano alla fuga da Corinto, alla fuga dalla città considerata natale e da un destino insopportabile. Ma sarà proprio sulla strada vero Tebe che Edipo incontrerà Laio e, a un crocevia, lo ucciderà. Il doppio movimento da Tebe a Corinto, come figlio rifiutato, e da Corinto a Tebe, come uomo che sfida la profezia dell'oracolo, rivela «una doppia reciprocità in cui le identità sono confuse» [12]: Edipo appartiene ad entrambe le città, ad entrambe le famiglie ma rimane, in realtà, un apolide ignaro della sua vera origine e sarà questo a impedirgli di combattere contro le accuse che dovrà affrontare. Il suo universo è privo di punti di riferimento, privo di modelli certi da rispettare e da temere. Polibo è il padre che l'ha cresciuto e amato: come riconoscere in Laio, in quel vecchio che con arroganza gli ha impedito il passaggio, la figura paterna? In quel momento, Laio non è altro che un rivale. Un uomo identico ad altri che cerca di bloccare il suo cammino, come dimostrano le parole dello stesso Edipo: «Quando, peregrinando, fui vicino al crocevia, l'araldo, e poi quell'uomo ch'era in piedi sul carro, con l'aspetto che dici, mi venivano di faccia, e la guida e lo stesso vecchio, a forza, volevano cacciarmi dalla strada» [13]. Ciò che viene qui a mancare, sono i presupposti per la lettura freudiana dell'Edipo re: il figlio non desidera, nemmeno inconsciamente, la morte del padre per unirsi alla madre. Edipo non vede né il padre, né la madre. I genitori che riconosce sono Polibo e Merope. Non Laio e Giocasta. Davanti a lui, sulla strada, c'è soltanto uno straniero che cerca di farsi largo con violenza, ed è questo a provocare la sua reazione. Quando le maschere dei ruoli cadono, non esistono più re, padri, figli ma soltanto doppi, esseri identici nella violenza e nel desiderio che si affrontano in un mondo ritornato caos, pura origine indifferenziata dove le figure, famigliari o sociali, sono ormai soltanto ombre prive di significato. 2. Un universo di doppi Per capire questo processo, è necessario prendere brevemente in considerazione il pensiero di René Girard. Per l'antropologo francese, in un mondo privo di ordinamenti sociali, politici, religiosi, dunque nello stato originario o in un periodo di estrema crisi, il dominio su tutto è lasciato al desiderio umano che, lontano dal potersi identificare con la volontà di ottenere qualcosa in particolare, si basa piuttosto sull'ipermimetismo connaturato al cervello umano. Se per Hobbes vi era, allo stato primordiale, un universale diritto di tutti a tutto, per Girard si ha un universale desiderio di volere tutto ciò che gli altri sembrano volere. È l'imitazione, in sostanza, facoltà positiva solo se rigidamente diretta e controllata, a guidare gli individui. Più precisamente, è la mimesi del desiderio altrui, che «è sempre desiderio di essere un altro» [14]. Non si desidera ciò che gli altri hanno, si desidera ciò che gli altri sembrano desiderare o ladesiderabilità che sembrano incarnare. Questa ingovernabilità del desiderio “metafisico”, vale a dire mai davvero legato a un oggetto particolare, porta, in assenza di divieti e ruoli certi, a un crescendo di conflittualità che degenera, fatalmente, in violenza indiscriminata: La violenza diviene il significante del desiderabile assoluto […]. Il soggetto adora tale violenza e la odia; cerca di dominarla con la violenza; si misura con essa; se per caso è lui a trionfare, il prestigio di cui quella gode presto svanirà; egli dovrà cercare altrove, una violenza ancora più violenta, un ostacolo davvero insormontabile [15]. Questo “ostacolo davvero insormontabile” ha, nella teoria girardiana, il carattere terribile dell'omicidio fondatore, atto conclusivo della reciprocità mimetica confluita in semplice reciprocità violenta. La vittima è lo skàndalon [16] finale su cui inciampano i comportamenti mimetici. Il suo corpo spezza il ciclo delle vendette incarnando il modello che nessuno, a quel punto, vorrà più imitare. Lo scontro fra doppi, identici o quasi nella forza e nell'aleatorietà del desiderio, incontra così, per la prima volta, l'Alterità nella forma dell'essere ucciso. Il modello-ostacolo è ora fonte di calma inattesa e di stupore. Da quel corpo sorge un sentimento ambivalente di odio-venerazione, simile a quello provato dai figli dell'orda primitiva freudiana davanti al padre ucciso, che porta o “dona”, misteriosamente, la pace. La vittima si è fatta, suo malgrado, veicolo e incarnazione ultima della violenza giunta al parossismo assoluto e il suo potere è ora percepito come qualcosa che, effettivamente, trascende gli individui e su di essi ricade. L'assioma girardiano “la violenza è il sacro” si spiega proprio a partire da questo processo di divinizzazione della vittima. Con la sua morte, la reciprocità violenta è stata espulsa dal gruppo e, nello spazio quotidiano, si è aperta una dimensione nuova: la dimensione del Sacro come forza capace di pacificare gli animi e di indurre, progressivamente, alla nascita di istituzioni religiose e sociali (che per Girard, come per Durkheim, sono aspetti originariamente identici) in grado di differenziare il reale e di scongiurare il ritorno all'indiscriminato. Non si tratta, però, di un fatto dato per sempre. Il mimetismo umano, il «voler essere l'Altro», è un processo sempre pronto a rivelare tutta la sua pericolosità. Solo inducendo il desiderio verso un oggetto preciso, ingannando, in sostanza, la sua natura inappagabile donandogli un'identità cui conformarsi, è possibile arginare la deriva verso un mondo di doppi. È solo nell'illusione di un “Io” e di un “Altro”, che la convivenza pacifica si rende possibile. Si è vicini a qualcosa di simile a ciò che Foucault definisce come “esperienze-limite”, vale a dire tutti quei gesti, segni e decisioni con cui «una cultura rifiuta qualche cosa che sarà per essa l'Esterno» tracciando una divisione, o più divisioni, che le «daranno il volto della sua positività» [17]: la cesura originaria, forse simbolizzata ma sempre violenta, con cui l'Io, di un individuo o di un popolo, lontano dal potersi identificare come sostanza trascendentale, prende forma sulla vertigine quando la crisi esplode, di rivelare la genesi stessa del Sacro. Il re è al di fuori, e al di là, della società e delle sue regole, è il doppio dell'emarginato, è il «modello-ostacolo che provoca il risentimento nietzscheano» [35]: divino solo finché la sua volontà coincide con quella del common sense, vero motore della parola di Dio. 4. Vox populi, vox dei Si pensi per un istante all'Antigone. È la pressione del popolo tebano a spingere Creonte a liberare, anche se troppo tardi, la sfortunata figlia di Edipo. Lo scontro fra il nomos cittadino e quello famigliare, fra una sorta di “ragion di Stato” incarnata nell'editto che impone di non rendere onore al corpo del traditore Polinice, e la ferma volontà della giovane di dare comunque degna sepoltura al fratello, non è deciso dal riconoscimento della superiore giustizia divina, ma dalla paura dell'opinione del popolo. Infatti, quando Emone ricorda al padre Creonte che Tebe è dalla parte della fanciulla, il re, in un moto di hybris, chiede: «Sarà la gente, ora, a dirmi che comandi dare? […]. Altri, non io, deve essere guida del paese?», la risposta del figlio: «Paese possesso d'un solo? Non esiste» [36], dichiara quanto sia inconsistente ogni forma di diritto o di giustizia che si supponga autosufficiente. Il fratello di Giocasta, dopo la guerra che ha lasciato sul campo i corpi dei gemelli-nemici Eteocle e Polinice, ha conquistato il potere e crede ora di godere di una legittimità illimitata e sicura, ma si sbaglia. Creonte, come ogni re, è soltanto un usurpatore posto in cima alla gerarchia sociale. Crede di parlare per tutti, ma scopre di essere solo. Antigone, al contrario, splendido esempio di coscienza libera pronta a sfidare ogni ordine, umano o divino, pur di fare ciò che ritiene giusto, ha il sostegno di una folla che mostra il suo volto pietoso. Quando il sovrano lo capirà, quando capirà che non esiste potere «sopra una terra vuota» [37], sarà ormai troppo tardi per porre fine al terribile ciclo di distruzione e morte che conclude la tragedia. Il successore di Edipo, il suo accusatore, si ritrova nella stessa posizione del vecchio sovrano. Come lui s'illude di governare con la ragione e la forza del suo ruolo. Come lui s'illude di sapere chi è e cosa può. E come lui si troverà a replicare alle profezia di Tiresia, sempre pronto a lanciare condanne quando l'umore intorno al trono cambia, e ad affrontare il crollo del suo regno e delle sue certezze. Esattamente come il figlio di Laio, smetterà di essere idolo per farsi mostro. Ecco che, di nuovo, il ciclo tebano rivela un universo «in cui ogni creatura che aspiri all'unità, soccombe al dualismo» [38], dove non esistono né veri padri, né veri re e dove tutto è generato da scontri fra metà, Edipo e Laio, Creonte e Edipo, Eteocle e Polinice, che danno vita a una successione di esseri terribilmente simili nelle azioni e nel destino, a una successione difratelli che scoprono «lo Stesso dove prima si vedeva l'assoluta Differenza» [39]. Infatti, come fratelli non sanno fermarsi di fronte all'ostacolo che impedisce loro di desiderare e volere. Non c'è padre e non c'è potere ad ammonirli. La loro uguaglianza rappresenta la tragica uguaglianza di tutti gli esseri umani e l'illusione, a volte benefica, altre volte inutile, del “chi sono” e del “chi sei”. La scissione fra individuo e senso comune che la tragedia mette in scena, non si limita a mostrare l'evolversi di un pensiero teso alla ridefinizione del singolo nei suoi rapporti con la realtà circostante. La sua transtoricità, la sua capacità di comunicare attraverso il tempo, risiede nella perenne ripetizione del destino di ogni soggettività che creda di poter trovare soltanto in sé la misura del proprio potere, della propria possibilità di agire e di cercare. Per quanto spazio o credito l'idea di un ‘Io’ trascendente possa trovare, o per quanti diritti possa acquisire, la sua esistenza è per sempre determinata dalla partecipazione a un mondo che plasma maschere e categorie con cui imbrigliare il desiderio, un mondo che dona un'identità, affinché non si guardi altrove. Fornire modelli certi da rispettare e replicare nella propria personale azione, è certo una pratica «rivolta all'immediata vita quotidiana che categorizza l'individuo, lo segna nella sua individualità, lo fissa alla sua identità, gli impone una legge di verità che egli deve riconoscere e che altri devono riconoscere in lui» [40], ma non si tratta di una questione che nasce dal potere; si tratta, piuttosto, della questione che fa nascere il potere. È infatti a partire dall'indifferenziazione originaria, e per impedirne il ritorno, che il kosmos viene formato, dando un ordine e un indirizzo al reale e agli individui che ne fanno parte. Evitare le categorie o i gruppi, sfuggire al sistema sociale scegliendo, come suggeriva Foucault, di non farsi governare, significa esporsi all'incomunicabilità e, soprattutto, al ritorno violento della folla, che è il vero indiscriminato anche quando è convinta di detenere il privilegio di un'identità assoluta, naturale, incorruttibile, nei momenti di crisi. Nella tragica sofferenza di Edipo, è racchiuso il senso di un agire che «deriva in ultima analisi dalla luce molte più forte del dominio pubblico» [41], a volte come rassicurante certezza, altre volte come crollo dell'io o manipolazione dell'identità personale per conformarla a stereotipi che non urtino con la precaria costituzione dell'organizzazione sociale. Si tratta di un problema tanto più forte, quanto più una società si crede libera. In un mondo in cui la dimensione collettiva è ancora rigidamente suddivisa e giustificata da un Assoluto, come un'ideologia religiosa o politica, la libertà dell'individuo coincide, quasi totalmente, con la realizzazione di ciò che ciascuno necessariamente è. Ma in un sistema in cui le relazioni di potere appaiono mene evidenti e forti, il dissidio di uno o di molti con il senso comune e la richiesta di un maggior campo d'azione, apre le porte a un rischio ancora maggiore di generare lo smarrimento dei ruoli e la riscoperta della sostanziale identità e interscambiabilità di tutti. Ecco perché le istituzioni sociali agiscono continuamente per compensare ciò che è concesso e ciò che è negato. Operazione che si fa tanto più chirurgica e impercettibile, quanto più una società si mostra liberale e giusta. Il panoptismo foucaultiano, la sorveglianza continua per avvicinare i comportamenti personali alla norma comune che sostituisce la punizione diretta o l'indagine, non è che un modo più raffinato di perpetrare l'antica arte del sacrificio, del limite tracciato per stabilire il dentro e il fuori. 5. Io non sono te Non si tratta però, necessariamente, di un processo cosciente. L'illusione della differenza, che è illusione di essere migliori, più abili e portatori per natura o volontà divina di diritti particolari, si nutre della convinzione che le cose stiano, effettivamente, così, e il suo potere è troppo grande e protettivo per lasciare spazio al dubbio che non abbia fondamento. Dove la ricerca positiva della propria Identità porta al rischio del crollo delle certezze e alla vertigine dell'uguaglianza, affermare che “Io non sono te” diventa, invece, la via più breve per definire la propria essenza. Come l'ordine si staglia sullo scarto sottratto alla pienezza originaria, in quel passaggio alla quantità discreta di cui parla Lévi-Strauss, così l'ordine si mantiene a costo di continui sacrifici, violenti o mascherati dietro l'esclusione o la retorica della tolleranza che è sempre tentativo di conformare l'eccezione alla norma, capaci di far rivivere la sinistra euforia di una collettività che si forma e si riconosce contro qualcosa, o di un Io che si plasma nell'inganno dell'assoluta diversità dall'Altro. Edipo, pharmakos che si allontana da Tebe liberando la città dal male, è il paradigma atemporale dell'individuo che, cercando troppo a fondo la verità, finisce col cadere vittima di tutti i piccoli, relativi, frammentati ,“giochi di verità” in cui ciascuno ha un ristretto margine di azione, vale a dire di libertà, ma dove nessuno detiene, davvero, il dominio della situazione. Mentre tutti si fermano un istante prima di cadere, il figlio di Laio prosegue fino a trovarsi davvero solo, fino all'assoluta perdita di direzione e senso, fino a porsi al di là del margine che fa di lui, definitivamente, l'Escluso. Compiuto quel passo, Edipo può diventare tutto ciò che la folla vuole: sono gli “altri” a suggerirgli la sua mostruosità, ed è negli occhi degli altri che la legge per la prima volta. Accecarsi, sottraendosi al loro sguardo,non è che sottrarsi alla vista delle maschere che il mondo gli ha fatto indossare: prima re, poi assassino; prima idolo, poi mostro; prima figlio rifiutato, poi straniero respinto. E in questa doppiezza, in questo oscillare fra opposti accomunati dal segno della diversità, sta il senso di un'identità personale che non può mai davvero cercarsi o costruirsi liberamente, e di un Io che non può mai illudersi di realizzarsi al di fuori di un sistema che esiste, come ricorda Foucault, prima di esso, in esso e con esso. Sistema che include per giustificarsi ed esclude per fondarsi e sopravvivere, costruendo nemici e confini contro cui plasmare la propria forma proprio come, nella tragedia, dalla distruzione dell'eroe, dal suo essere precipitato nell'indifferenziazione dionisiaca, riprende vita l'apollinea armonia sociale. RENE’ GIRARD Un saggio su MIMETISMO E RIVELAZIONE in Girard. Vita René Girard nacque ad Avignone, in Francia, nel 1923.Ha studiato a Parigi all'Ecole des Chartres in cui divenne archivista-paleografo nel 1947. Ha studiato poi negli Stati Uniti dottorandosi in storia nel 1950 all'Indiana University. Divenne "incaricato" in questa stessa università come anche nella Duke University, fu assistente al Bryn College, professore alla State University di New York (Buffalo) e al dipartimento delle lingue romanze dello John's Hopkins University (Maryland),dal 1981 é professore di lingua, letteratura e civiltà francese alla Stanford University. Opere: Mensogne romantique et vérité romanesque Pubblicò questo libro nel 1961, in esso le sue tesi rimangono circoscritte allo studio del romanzo moderno.Individua l'iter del desiderio umano attraverso una mimesi di dinamica triangolare (esso muovendosi verso l'oggetto é guidato da un mediatore, per cui l'uomo desidera sempre secondo "l'altro").Egli studia le opere di Dostoevskij e individua già il nesso fra desiderio e religione:l'assolutizzazione del desiderio crea il sacro e la divinità. La violence et le sacré Nel 1972 Girard pubblica questo libro. Quest'opera attrae l'attenzione del mondo intellettuale, poiché l'autore osa criticare Lévi- Strauss e Sigmund Freud,ma anche perché con essa offre le basi di una nuova teoria della religione. Soprattutto con lo studio dei miti e dei riti, egli dà i fondamenti scientifici alle intuizioni precedenti, ossia alla dinamica del desiderio e della violenza che considera ormai come cause sempre presenti dei riti e dei sacrifici delle religioni primitive. In tal modo il ciclo della violenza trova il suo epilogo, la cultura e la società la loro fondazione e riorganizzazione sotto la protezione minacciosa del sacro inteso come proiezione della violenza. La violenza si accende per "desiderio mimetico",per il quale nella società tutti desiderano ciò che hanno o che desiderano gli altri. All'origine della società umana Girard individua infatti un assassinio sacrificale e alla vittima sacrificale vengono riconosciuti attributi divini e sacrali, proprio perchè la sua uccisione funge da mezzo per sopire la violenza. Scaricando su un capro espiatorio la violenza che oppone ciascuno a tutti gli altri, placa i conflitti interpersonali e fonda il vincolo sociale. Il sacro assume quindi grande valore di coesione e la religione è quindi "il sentimento che la collettività ispira ai suoi membri, ma proiettato fuori dalle coscienze che lo provano, e oggettivato". La religione è quindi un insieme di simboli e riti che hanno per contenuto fondamentale i valori di fondamento della società. Des choses cacheés depuis la fondation du monde A questo punto l'autore si trova pronto ad ampliare la sua teoria in direzione del giudeo-cristiano e persino di tutta la cultura. Questo libro, pubblicato nel 1978 sotto forma di interviste fatte dai due ricercatori psichiatri J. Michel Oughourlian e Guy Lefort, suscita subito un grande clamore. In quest'opera di antropologia fondamentale, l'autore, riprendendo la sua teoria precedente, si spinge verso le cose ultime nascoste "fin dalla creazione del mondo", custodite dalla parola biblica, ma rese di difficile lettura a causa delle interpretazioni precedenti ove, evidentemente per lui, ha operato una certa forma di meccanismo vittimario. Leggendo i Vangeli non più come una storia sacrificale, Girard dimostra che soltanto la rivelazione cristiana, svelando il meccanismo del capro espiatorio, rivela la radice unica del sociale, del religioso e del sacro, nonché la loro natura. Le bouc émissaire Pubblicato nel 1982, non aggiunge nulla di nuovo alla sua teoria. In questo libro l'autore dimostra che quel misconoscimento che permetteva la designazione del capro espiatorio, inizia a non funzionare più.La vittima, uscendo dalla sua passività, proclama la sua innocenza e "diventa l'Agnello di Dio". In tal modo anche l'uomo diventa il solo responsabile della violenza, il sacro trova la sua immanenza e Dio la sua vera trascendenza. La route antique des hommes pervers L'opera è stata pubblicata nel 1985 e vi è un'attenta analisi del libro di Giobbe, nel quale trova conferma alle sue teorie. Girard individua il concetto mimetico-rivale della violenza nell' uomo e nella società (la violenza diventa per contagio "mimetismo di folla"). Cristo è delineato come vittima perfetta ed innocente che, rivelandosi attraverso il logos di Dio, sta dalla parte delle vittime. Premessa Girard resta soprattutto legato ad un tentativo che si autodefinisce come un’ipotesi di antropologia generale razionalisticamente protesa ad una 'spiegazione' unitaria dell'insieme dei comportamenti dell'umanità, vale a dire una 'reinterpretazione globale' ove concorrono letteratura, etnologia e psicologia. Credo infatti che se Girard suscita interesse nella cultura contemporanea è proprio per il suo approccio antropologico allo studio della religione e per la sua nuova interpretazione del sacrificio elaborata coniugando teorie diverse. Questo, spero, giustificherà il seguente studio, guidato da un interesse esclusivo per l'interpretazione girardiana del sacrificio e per il suo approccio alla religione sul versante dell'antropologia socio-culturale. In esso: una breve e volutamente parziale sintesi della sua interpretazione del sacrificio (§ 1), parti dedicate agli studiosi - Durkheim e Freud - che più hanno pesato sulla sua formazione ai quali esplicitamente si richiama ma dai quali anche si distacca (§ 2, § 3) e una a Burkert che si è occupato del sacrificio cruento e a cui è interessante accostare la teoria girardiana (§ 4), in vista di un approfondimento della metodologia che lo studioso francese ha adottato nell'indagine dei fenomeni religiosi e dell'alternativa fenomenologica alla lettura sociologico-funzionalista presentata da Girard (§ 5). § 1. L'interpretazione girardiana del sacrificio 1.1.Una nuova teoria del religioso Girard porta il fenomeno religioso, punto sia di partenza che di arrivo della sua ricerca, al centro dell'interesse dell'antropologia contemporanea. Egli sviluppa una nuova e 'rivelatrice' teoria sulla religione essenzialmente in quattro opere legate da un rapporto molto stretto. Nel 1961 ha pubblicato un primo volume di saggi letterari, Menzogna romantica e verità romanzesca,1 ove le sue tesi non rivelano ancora tutto il loro aspetto innovativo in quanto circoscritte allo studio del romanzo moderno. Nel libro è fondamentale l'intuizione (di antropologia e psicologia interindividuale) che il desiderio umano è sempremimesis (imitazione): il desiderio è 'triangolare', per cui tra il soggetto desiderante e l'oggetto desiderato esiste un mediatore che indica gli oggetti da desiderare. Tutti i comportamenti, quelli individuali, quelli sociali e quelli dell'intera cultura umana, possono essere ricondotti al triangolo del desiderio. Lo stesso desiderio diventa poi principio di critica letteraria che consente di delineare una storia della letteratura: quest'ultima consente di leggere le grandi tappe della storia moderna e poi dalla storia alla metafisica che vi sta dietro e rivela che le assolutizzazioni dei desideri degli uomini sono diventate dèi. Solo dieci anni dopo, quando nel 1972 esce La violenza e il sacro2, il mondo intellettuale si interessa di Girard, sia perchè osa criticare pensatori come Freud e Lévi-Strauss, sia perché getta le basi di una nuova teoria del religioso. Girard, che aveva già teorizzato che il desiderio fa nascere un altro desiderio e una violenza fa nascere un'altra violenza, ora mostra come, per liberarsi da questo circolo vizioso, siano nate le istituzioni religiose tradizionali e soprattutto il sacrificio. E' in questa seconda importante opera, che contiene il nucleo fondamentale del suo pensiero, che egli descrive il meccanismo della vittima espiatoria per mezzo del quale, potendo la violenza cambiare direzione e sfogarsi su un oggetto di ricambio, la società si libera dalla violenza. In Francia il pensiero girardiano diventa oggetto di discussione vivace e contraddittoria solo nel 1978, quando viene pubblicato Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo3, un grosso volume di interviste rilasciate a discepoli ed amici, in cui Girard riprende tutta la sua precedente teoria e dimostra che solo la rivelazione cristiana permette di svelare la natura del sociale, del religioso, della violenza primitiva. Nel suo libro del 1982, Le bouc émissaire,4 non aggiunge nuovi elementi sostanziali alla sua teoria: la verità del mito viene confermata con la verità dei testi di persecuzione, i quali iniziano a demistificare gli schemi sacrificali in quanto la storia dell'Occidente si è sviluppata da un testo (il testo della rivelazione giudeo-cristiana) che contiene le verità decisive sui desideri dell'uomo e sui meccanismi della violenza.La Bibbia contraddice la religione sacrale sul punto limitato ma essenziale che la vittima è innocente, per cui il misconoscimento che permetteva la designazione della vittima espiatoria non può più funzionare: Dio ritorna nella sua trascendenza e l'uomo ridiventa il solo responsabile della violenza. Questo scritto si presenta quindi come un'ulteriore postilla esplicativa all'ipotesi mimetica e al tentativo, che aveva già compiuto, di estenderla alla spiegazione della genesi di ogni ordine sociale e culturale. 1.2. I1 sacrificio Girard ritiene che 1'azione sacrificale sia necessariamente 'misteriosa', sottoposta cioè ad un misconoscimento: i fedeli non conoscono e nemmeno devono conoscere il ruolo che nei sacrifici è svolto dalla violenza. Si rivela perciò necessario, come primo miti sono intimamente associati ai rituali, ove si tende chiaramente a privilegiare il rito nei confronti del mito, è stata abbozzata da Robertson Smith45 ed ottiene poi ampi consensi quando viene accettata dal Frazer e assunta come presupposto fondamentale del Ramo d'oro46. A favore di questa teoria si schierano poi classicisti47, storici delle religioni del vicino Oriente48 e antropologi49. A proposito di questo rapporto mito-rito Girard riporta la tesi di Hubert e Mauss che "riconduce al rituale non solo i miti e gli dèi ma, in Grecia, anche la tragedia e le altre forme culturali"50. I1 sacrificio appare quindi a Hubert e Mauss51 come l'origine di tutto il religioso, per cui i due antropologi non ritengono necessario interessarsi né dell'origine né della funzione del sacrificio. Si dedicano invece alla descrizione sistematica dei sacrifici dalla quale emerge che la somiglianza dei riti nelle diverse culture che praticano il sacrificio è stupefacente e che le variazioni da cultura a cultura non sono mai sufficienti per compromettere la specificità del fenomeno. Girard critica quella che definisce come 'posizione rinunciataria' dei contemporanei che accettano la tendenza prefigurata da Hubert e Mauss di descrivere il sacrificio al di fuori di ogni cultura particolare, come se si trattasse di una specie di tecnica52 e non si preoccupano più né di riferire il rituale al mito né il mito al rituale. Girard rimpiange la curiosità dei predecessori perché "non basta dichiarare formalmente inesistenti certi problemi con una benedizione puramente 'simbolica', per insediarsi, senza incontrare opposizioni, nella scienza. La scienza non è una soluzione di ripiego rispetto alle ambizioni della filosofia, una saggia rassegnazione. E' un'altra maniera di soddisfare quelle ambizioni''53. Si rallegra invece del fatto che di tanto in tanto si levi però una voce, cita ad esempio quella di Jensen, a ricordare la stranezza di un'istituzione quale il sacrificio, dal momento che "ci saranno volute esperienze particolarmente sconvolgenti per portare l'uomo a introdurre nella sua vita atti tanto crudeli. Quali ne furono i motivi? ... Il pensiero mitico ritorna sempre a ciò che è accaduto la prima volta, all'atto creatore, ritenendo a giusto titolo che è quello a fornire su un dato fatto la testimonianza più viva''54. Allontanandosi dalla 'rinuncia' di Mauss e avvicinandosi a Jensen nel ritenere importante stabilire ciò che è accaduto la prima volta, Girard approfitta per specificare ulteriormente la sua tesi fondamentale. Innanzitutto crede che a questo punto sia obbligatorio chiedersi se "la prima volta non sia realmente accaduto qualcosa di decisivo. Bisogna ricominciare a porre le domande tradizionali in un quadro rinnovato dal rigore metodologico dei nostri tempi''55. Se esiste un'origine reale che i miti non smettono di rammentare e che i rituali non smettono di commemorare, deve trattarsi di un evento che ha fatto sugli uomini un'impressione che, sebbene sia cancellabile dal momento che essi finiscono per dimenticarla, è tuttavia molto forte. La molteplicità delle "commemorazioni rituali che consistono in una condanna a morte fa pensare che l'evento originario sia di norma un'uccisione''56. Un pò ovunque si ritrovano tracce della tesi che fa del rituale l'imitazione e la ripetizione di una violenza unanime e in realtà basta porla in evidenza per chiarire nelle forme rituali e mitiche certe analogie che passano spesso inosservate: spicca ad esempio che in uno straordinario numero di sacrifici deve essere soddisfatta l'esigenza di partecipazione collettiva, perlomeno sotto forma simbolica57. La considerevole uniformità dei sacrifici fa inoltre pensare che si tratti proprio dello "stesso tipo d'uccisione in tutte le società"58. La soluzione proposta da Girard è, ancora una volta, rintracciabile nella crisi sacrificale e nel meccanismo della vittima espiatoria. E' a questo punto che si presenta nuovamente allo studioso francese l'occasione di delineare ancora piu chiaramente la sua posizione funzionalista: benché il religioso sia l'unica istituzione sociale di cui la scienza non sia mai riuscita ad individuare l'autentica funzione, egli identifica la funzione del religioso nel perpetuare o nel rinnovare gli effetti del meccanisno della vittima espiatoria, ossia nel mantenere la violenza fuori dalla comunità. Girard pensa che la violenza contro la vittima espiatoria potrebbe essere fondatrice nel senso che, ponendo fine al circolo vizioso della violenza, avvia un altro circolo vizioso, quello del sacrificio rituale, che potrebbe essere proprio quello dell'intera cultura. Tutti i miti d'origine che si rifanno all'uccisione di una creatura mitica affermano, anche se non apertamente, che la violenza fondatrice costituisce realmente l'origine di tutto ciò che gli uomini tendono maggiormente a preservare: è una violenza dunque ad essere indicata come la fondatrice dell'ordine culturale59. L'individuazione del meccanismo della vittima espiatoria permette di comprendere che i sacrificatori mirano allo scopo di riprodurre il più esattamente possibile il modello di una crisi anteriore che si è risolta grazie al meccanismo della vittima espiatoria. Tutti i pericoli che minacciano la comunità vengono assimilati alla crisi sacrificale, il pericolo più terribile che possa affrontare una società. "Il rito è la ripetizione di un primo linciaggio spontaneo che ha riportato l'ordine nella comunità perchè ha ricreato contro la vittima espiatoria e attorno ad essa l'unità perduta nella violenza reciproca"60 . Fra gli esempi portati da Girard al fine di avvalorare la sua tesi interessante è quello sui sacrifici animali. Poichè ritiene che non ci sia differenza essenziale tra il sacrificio umano e il sacrificio animale, Girard pensa che anche il sacrificio animale possa definirsi come mimesi di un omicidio collettivo fondatore. Allo scopo di mostrare che anche un sacrificio animale ha per modello la morte di una vittima espiatoria si rivolge a una società in cui il sacrificio è ancora vivo ed "è stato descritto da un etnologo competente''61. Lo studioso francese si riferisce a Lienhardt che ha dettagliatamente descritto parecchie cerimonie sacrificali osservate tra i Dinka e che "definisce la vittima come scapegoat, un capro espiatorio che diviene il veicolo delle passioni umane''62: "è nel momento immediatamente precedente la morte fisica della bestia, quando l'ultima invocazione risuona più alta e la lancia viene conficcata più in profondità, che quelli che partecipano alla cerimonia sono più chiaramente membri di un solo corpo indifferenziato, tesi ad un unico scopo comune. Dopo l'uccisione della vittima i loro caratteri individuali, le loro differenze personali e familiari e le diverse esigenze e diritti pertinenti al loro status appaiono di nuovo chiaramente"63. L'etnologo in questo passo, descrivendo il sacrificio Dinka, intendeva delineare le fasi di aggregazione e di segmentazione che caratterizzano la maggior parte dei rituali: gli individui e i gruppi si riuniscono per rappresentare un rituale durante il quale abbandonano gradualmente il loro senso di identità separata per sentirsi parte di una più vasta totalità sociale unita da legami di parentela, di commensalità, di scopo comune. Lienhardt osserva che il momento in cui finisce l'aggregazione e comincia la fase di segmentazione è quello in cui la vittima viene uccisa e la sua carne divisa: la segmentazione sociale coincide con la divisione sacrificale della carne, mentre l'aggregazione fa riferimento ad una vittima intera che contiene già nel suo corpo la potenzialità di essere divisa in pezzi differenti. Anche Girard sottolinea "l'esigenza di partecipazione collettiva, perlomeno sotto forma simbolica"64 dei rituali e conclude che la funzione del sacrificio "non solo permette ma richiede il fondamento della vittima espiatoria, ossia dell'unanimità violenta"65. La funzione essenziale del rito consiste nell'evitare il ritorno della crisi sacrificale e nel convertire la violenza 'cattiva' e 'contagiosa' in valori culturali positivi: "il rito elegge una certa forma di violenza come 'buona', palesemente necessaria all'unità della comunità, di fronte a un'altra violenza che rimane 'cattiva' perché resta assimilata alla cattiva reciprocità"66. Dunque Girard individua uno speciale rapporto fra rito e mito, un rapporto in funzione del quale l'azione rituale è interpretata come ripetizione, rinnovamento, ricostituzione di un modello prototipico. L'atto sacrificale diventa ripetizione rituale di sacrificio: in tal senso il rituale sacrificale di tipo ripetitivo potrebbe rientrare nei riti di rifondazione di beni ed istituti culturali, nella misura in cui il sacrificio costituisce un istituto che conserva e garantisce una struttura culturale67. E' invece del tutto assente l'aspetto del ricordo, della commemorazione, della memoria: è costante l'oblio dei meccanismi costitutivi del sacro, nascosti dalla testualità mitica e dai comportamenti sacralizzati. I testi mitico-religiosi, i racconti delle gesta eroiche dei fondatori, i riti studiati dall'etnologia, sono l'ambito in cui la verità nascosta del meccanismo fondatore è presente ma non del tutto chiara, poiché viene occultata dalla necessità stessa del suo funzionamento. Il polarizzarsi della violenza collettiva su una vittima espiatoria68 dà vita ad un sistema di rappresentazione articolato in miti e riti con strategie che saranno poi prolungate anche nel lavoro e nella scienza. "La 'rottura epistemologica' ci permette di non riconoscere nel rito il nostro educatore di sempre, il primo e fondamentale modo d'esplorazione e di trasformazione del reale"69. Se il meccanismo della vittima vuole avere successo deve dissimularsi: la verità del capro espiatorio (la sua innocenza) è sovversiva in quanto presenta l'inerme e dilacerato corpo della vittima come mezzo per attuare la riconciliazione del gruppo sociale. § 2. L'eredità di E. Durkheim Nell'approccio al fenomeno religioso Girard è debitore della tradizione dell'indirizzo sociologico francese che difficilmente può venir separato da E. Durkheim, orientato ad una 'spiegazione' del religioso entro il quadro sociale. Ecco in breve i punti di contatto e di distacco. La fondazione positivistica delle scienze sociali operata da Durkheim ha influenzato profondamente una delle più importanti tradizioni della sociologia contemporanea. Il presupposto principale da cui Durkheim parte consiste nella convinzione che, ontologicamente, i fatti sociali sono 'cose' e quindi simili ai fatti naturali, per cui il mondo sociale presenta un'oggettività che può venir indagata col metodo scientifico. Postulando tale 'oggettività' Durkheim è convinto che si possono scoprire gli effettivi processi della società e che, in tale compito, lo scienziato sociale deve dascrivere i fatti sociali e le loro reciproche relazioni come se gli fossero estranei, ossia eliminando tutto ciò che possa inerire alla propria soggettività. Pertanto l'attività scientifica che ha per oggetto la società si presenta come indipendente dalla società stessa e tale indipendenza è il presupposto fondamentale per individuare le leggi della società. Questa è anche la posizione di Girard che con la sua 'nuova' teoria sul religioso ritiene di essere in grado di proporre una 'spiegazione' oggettiva e può pertanto essere accostata ad un tentativo complesso di critica della ideologia 'religiosa' nello studio dei fenomeni religiosi. Un altro aspetto dell'eredità durkheimiana in Girard. Durkheim ha affermato che la sociologia è una scienza dello stesso tipo delle altre, il cui fine ultimo è la scoperta di relazioni generali fra i fenomeni: questa capacità di non dissociare il lavoro pratico da quello teorico, di mettere l'osservazione al servizio della spiegazione, è il frutto più prezioso dell' 'origine filosofica' della sociologia francese. Kroeber aveva attribuito all'origine filosofica della sociologia francese la sua ripugnanza alla ricerca sul terreno e le aveva rimproverato di basarsi su concetti falsamente generali, come quello di 'dono' o di 'sacrificio', in realtà attinti dal senso comune. Quando Kroeber paragona Mauss che utilizza concetti come 'dono' o 'sacrificio' ad un fisico che si accontenti di nozioni della vita quotidiana come 'piatto' o 'rotondo', intende porre in discussione la legittimità stessa delle scienze unane a compiere generalizzazioni che non siano storicamente limitate70. Se non ci si potesse svincolare dal particolarismo della storia culturale per formulare ipotesi su questioni generali, se non si potesse leggere anche in un solo caso, benché ben scelto e significativo, una risposta capace di assumere valore universale, allora la grande ambizione di un'analisi delle società alla ricerca di elementi nascosti e fondamentali che sono costitutivi dei fenomeni verrebbe a cadere. La sociologia di Durkheim indica una via verso una scienza che aspiri a leggi universali, tra il vuoto genericismo della filosofia sociale ed il rinunciatario particolarismo della storia culturale. Sembra che Girard tenti di conciliare l'aspirazione di Durkheim alla sociologia come scienza con la prudenza critica rivolta contro tutte le generalizzazioni non documentabili: solo le conoscenze accumulate dagli etnografi possono offrire una solida base documentaria su cui verificare ogni possibile ipotesi e realizzare la costituzione di una scienza sociale che in Durkheim si era rivelata come un fecondo auspicio. In Girard emergono molte spie dell'intenso dialogo promosso fra sociologia e antropologia culturale: si trova ad esempio confermato piu volte l'interesse per l'organizzazione sociale e per i sistemi di parentela71. Questi pochi esempi bastano per mostrare la ricchezza delle problematiche che confluiscono nella formazione del pensiero di Girard e per sottolineare la tendenza a fondere un'attenzione al particolare con ipotesi esplicative di carattere generale, che mostrano quanto grande sia il debito di Girard verso la sociologia francese, soprattutto verso la maggiore disponibilità di quest'ultima per il momento della teoria in quanto tale. Il ruolo riconosciuto alla sociologia di Durkheim non impedisce a Girard di prendere però le distanze dal sociologo francese soprattutto su due punti fondamentali: in primo luogo, tiene distinte la ricerca delle origini da quella delle funzioni, il punto di vista storico da quello logico; in secondo luogo, non contrappone l'individuo alla società, l'approccio psicologico a quello sociologico. Quanto alla distinzione origine/funzione, essa non è affatto assente in Durkheim72, ma è vista alla luce di un rapporto di complementarità tra i due concetti, dato che l'individuazione delle funzioni mira solo a ribadire quanto già messo in luce dall'analisi genetica. Se è vero che solo nella struttura interna di una società si trovano le cause degli altri fatti sociali73 è anche vero che gli elementi di tale struttura ed i loro rapporti si rivelano unicamente ad un'analisi genetica che ne ricostruisca il processo di formazione, che si basa sull'evoluzione sociale che in Durkheim non è però né rettilinea né mossa dalla tendenza ad uno scopo, ma è invece retta da cause meccaniche. Per quanto riguarda il fenomeno religioso nella teoria sociologica di Durkheim non interessa scoprirne l'origine storica, ma piuttosto "le cause sempre presenti da cui dipendono le forme essenziali del pensiero e della prassi religiosa"74: l'intento del sociologo francese è di individuare la causa in assoluto astraendo da ogni contingenza storica e pertanto egli preferisce decidere del valore e del significato della religione in quanto tale piuttosto che della sua origine storica. Invece Girard, benchè ne veda un legame, tiene separate l'origine e la funzione del sacrificio: riguardo alla prima ritiene sia necessario rifarsi a "quanto è accaduto la prima volta"75. Riguardo la seconda Girard individua una funzione reale del sacrificio che si propone a livello dell'intera collettività in quanto "è l'intera comunità che il sacrificio protegge dalla sua stessa violenza"76: peculiare del sacrificio è pertanto la funzione di "placare le violenze intestine, d'impedire lo scoppio dei conflitti"77. I1 sacrificio, comportamento definito in un insieme collettivo, ha pertanto preso in Girard consistenza sociale e culturale: gli attribuisce una natura riducibile alla vita sociale e utile al suo progresso in base ad una documentazione etnografica. Dunque, riguardo al rapporto origine/funzione, la separazione tra punto di vista logico e punto di vista storico, non reperibile in Durkheim, denuncia l'influenza su Girard di molteplici fonti quali gli antropologi Malinowski e Radcliffe-Brown. Più complesso è il problema relativo al rapporto individuo/società, perché implica una discussione sulla natura dei fatti sociali. Ad esempio, Durkheim spiega la proibizione dell'incesto interpretando quella che in certe popolazioni, ma non in tutte, può essere stata l'origine di tale proibizione come la funzione universale e permanente in virtù della quale essa si perpetua. Inoltre, stabilendo una contrapposizione tra il carattere non intenzionale dei processi collettivi di evoluzione sociale e la intenzionalità dell'agire individuale, non tiene conto del fatto che non tutti i processi psichici sono anche coscienti e che proprio a livello inconscio gli psicoanalisti e i linguisti hanno reperito dei sistemi che sono da un lato collettivi e retti da leggi come quelli che i sociologi pretendono di ritrovare nei fatti sociali e dall'altro orientati ad uno scopo come quelli che gli psicologi ricostruiscono nelle personalità degli individui. Se nel pensiero durkheimiano la soluzione data non è univoca, rimane però costante la tesi che la sociologia si occupa di quella classe di fatti che risultano dall'associazione degli individui: concessi alla psicologia i fatti riconducibili agli individui in quanto individui, restano sempre dei modi di essere che sono irriducibili agli individui in quanto singoli, ma sono risultanti esclusivamente dal fatto che essi sono associati e costituiscono un'unità di nuovo genere. Sia nella sociologia religiosa sia nella sociologia della conoscenza, la spiegazione sociologica riconduce sempre i fatti umani al modo di essere dei raggruppamenti di individui. Non stupisce dunque che Durkheim abbia progressivamente accentuato l'importanza del concetto di 'coscienza collettiva'78 ed abbia spostato il suo interesse verso le società primitive ricche di una maggiore effervescenza di sentimenti collettivi79. Per Durkheim maturo la società non è tanto una associazione di individui quanto di coscienze individuali da cui risulta una sorta di ipercoscienza, mentre lo stesso ambiente sociale viene inteso come fatto essenzialmente di idee, valori, abitudini e tendenze comuni80. L'accento passa dalla morfologia alla fisiologia sociale, dalla struttura sociale alle rappresentazioni collettive81: la sociologia è sempre più una sorta di psicologia collettiva. Nel suo pensiero passando da La divisione del lavoro sociale a Le forme elementari della vita religiosa la soluzione varia: si accentuano tendenze82 che portano la sociologia religiosa a diventare, e non a caso, il principale campo d'indagine perché, se la società è essenzialmente una comunanza di sentimenti, pensieri e valori, si può comprendere come in dio, secondo la nota ipotesi delle Forme, gli uomini non adorino che la società stessa e come la religione sia il germe di tutte le istituzioni sociali83. Questa tesi costituisce l'asse portante delle Forme e rappresenta l'implicito punto di raccordo dei suoi due grandi temi: da un lato l'identificazione della società con dio (sociologia religiosa) e dall'altro lato con il concetto di totalità, base di tutte le categorie logiche (sociologia della conoscenza). I due temi solo apparentemente corrono paralleli lungo tutta l'opera: in realtà il tema specifico dell'opera, l'analisi del totemismo australiano, ne costituisce già un punto d'incontro, perché il totem, prima forma del 'sacro', è simultaneamente il nome e l'emblema del clan. Questo duplice ruolo del totem da un lato indica che se uno stesso simbolo può significare contemporaneamente dio e la società elementare (il clan), allora dio e la società sono la stessa cosa; dall'altro indica che l'origine della società, della religione84, della conoscenza e del linguaggio costituisce un processo unico e perciò il primo dio è anche il primo simbolo ed il primo concetto85. In questa prospettiva il sacrificio viene interpretato come il momento in cui l'aggregazione del gruppo e la polarizzazione psicologica che ne deriva agiscono in modo tale che ogni individuo si sente pervaso dalla forza collettiva che di solito percepisce come esterna, da cui deriva lo stato di effevescenza collettiva che si determina; Girard accenna a questo parlando dell'antagonismo 'contagioso' di tutti contro tutti entro la tragedia greca86. Dunque, riguardo al rapporto individuo/società il discorso si rivela complesso: Girard da un lato avverte l'esigenza, in parte stimolata da Mauss e dall'antropologia americana, di un più stretto rapporto tra sociologia e psicologia; dall'altro lato però la direzione nella quale cerca soluzione al suo problema è ancora fortemente debitrice del concetto durkheimiano di società intesa come sistema di valori. La problematica di Girard resta dunque durkheimiana sia perché intende proporre una teoria originale sulla genesi della religione sia perché intende l'antropologia come una scienza sia perché suo oggetto restano forme collettive di rappresentazione e di condotta. La continuità con Durkheim è però interrotta su alcuni punti decisivi: un accordo non del tutto precisato da Girard ma comunque importante fra antropologia e psicologia; il delinearsi, sia pure ancora allo stato embrionale, della tematica natura/cultura. Ampio spazio è dedicato al processo di ominizzazione: il meccanismo vittimario è per Girard un processo di ominizzazione che permette la crescita della comunità umana, è lo spazio del fragile discrimine tra animalità e umanità. §3. L'eredità di Freud Alcuni temi portanti del pensiero di Girard - quello della violenza e quello del meccanismo della vittina espiatoria e dei suoi rapporti con la psicologia interindividuale - mostrano, implicitamente o esplicitamente, la loro derivazione da alcune intuizioni del pensiero di Freud. Girard parte dalle tesi freudiane ma poi le supera rimproverando al fondatore della psicoanalisi di aver soltanto intuito la forza operativa della visione mimetica del desiderio che però rimane poi inefficace sia nel caso del complesso di Edipo sia nel caso dell'uccisione collettiva dell'orda primitiva. Ora, in sintesi, presento le affinità e le differenze dalla teoria freudiana della quale Girard si occupa ampiamente e a più riprese87. 3.1.La proibizione dell'incesto Girard ritiene che l'elaborazione mitica e rituale, benché suscettibile nei particolari di infinite variazioni, non può non ruotare intorno ad alcuni grandi temi tra i quali la proibizione dell'incesto. Anche nel caso dell'incesto il pensiero rituale ripete il meccanismo fondatore e l'azione rituale ha come funzione unica ed essenziale quella di evitare il ritorno della crisi sacrificale. A proposito di tale proibizione Girard sostiene l'inevitabilità della sua teoria mostrando, anche se non esplicitamente, l'inconsistenza delle altre88: quella del Tylor89, del Morgan90, di Westermack91, di Freud92, di Malinowski93, di Durkheim94, di Lévi-Strauss95. Fra tutte queste interpretazioni Girard sceglie di riprendere nei dettagli quella freudiana, di cui riconosce la validità per certi aspetti ma da cui poi si distacca. Lo studioso francese ritiene che sia stata l'assenza quasi assoluta del tema dell'incesto nella cultura occidentale alla fine del diciannovesimo secolo a suggerire a Freud che tutta la cultura umana è sottoposta al desiderio universale e universalmente rimosso di commettere l'incesto materno; a confermare tale ipotesi interviene la presenza dell'incesto nella mitologia primitiva e nei rituali. Freud, dietro l'incesto del mito edipico, intuiva qualcosa di essenziale per ogni cultura umana; per Girard nel campo dei miti e delle religioni non si può attribuire alla psicoanalisi nessun altro successo paragonabile a questo, per quanto parziale e limitato esso sia. Ma la psicoanalisi non è mai riuscita a mostrare come e perché l'assenza dell'incesto in una determinata cultura significherebbe esattamente la medesima cosa che la sua presenza in molte altre96; Girard è invece convinto che l'incesto generalizzato rappresenta il termine assoluto della crisi sacrificale. Lo studioso francese ritiene che la sua concezione mimetica del sacrificio non sia mai assente in Freud, anche se non arriva mai a trionfarvi poiché Freud insiste invece sull'altro polo del suo pensiero in favore di un desiderio rigidamente oggettuale, cioè dell'inclinazione libidica per la madre. La prima identificazione descritta da Freud ha per oggetto il padre e chiarisce che il bambino manifesta un grande interesse per il padre e lo innalza a suo ideale. Evidente è la somiglianza tra 1'identificazione con il padre e il desiderio mimetico girardiano in quanto entrambi consistono nella scelta di un modello97 che indica al discepolo l'oggetto del suo desiderio col desiderarlo egli stesso: il desiderio mimetico non è radicato né nel soggetto né nell'oggetto ma in un terzo (il rivale) che desidera a sua volta e di cui il soggetto imita il desiderio. Per Girard in tutti i desideri oltre ad un soggetto ed un oggetto c'è anche un terzo termine, il rivale, che desidera lo stesso oggetto del soggetto. La rivalità non è il frutto di una convergenza accidentale di due desideri sullo stesso oggetto: in realtà il soggetto desidera l'oggetto perché lo desidera il rivale stesso. E' il rivale che, desiderando questo o quell'oggetto, lo indica al soggetto come estremamente desiderabile. Perciò il desiderio, ricalcato su un desiderio-modello, è essenzialmente mimetico: elegge lo stesso oggetto del modello. Ma due desideri che convergono sullo stesso oggetto si ostacolano scambievolmente e ciò sfocia automaticamente nel conflitto. L'identificazione di cui parla Freud è un desiderio che cerca una propria realizzazione per mezzo dell'appropriazione degli oggetti del padre: il figlio cerca di sostituire il padre sotto ogni aspetto e quindi anche nei suoi desideri, desiderando ciò che il padre desidera. Nella prima definizione Freud insiste che l'identificazione con il padre è anteriore a qualsiasi scelta di oggetto e che soltanto dopo l'identificazione con il padre viene l'inclinazione libidica per la madre. Sono pertanto individuate due origini del desiderio per la madre: la prima è il mimetismo, cioè l'identificazione con il padre; la seconda è la libido direttamente fissata sulla madre98. Per constatare che Freud si allontana dalla via del desiderio mimetico che gli si apre innanzi, Girard suggerisce di leggere la definizione stessa del complesso di Edipo ove si trova una strana indicazione: quando il figlio si scontra con l'ostacolo paterno la sua colpa nei confronti della vittima uccisa; tentativi di scusa e riparazione sono contenuti nel rituale134, che spesso passa bruscamente al grottesco, al punto che Meuli ha coniato il concetto di "commedia dell'innocenza''135. Di fronte all'esperienza della distruzione della vita come mezzo di sopravvivenza (uccidere per mangiare) il cacciatore neolitico scarica il proprio senso di colpa ritualizzando l'atto dell'uccisione sotto forma di sacrificio. Dopo la presentazione di questa tesi Burkert dedica ampia parte del testo ad esempi portati per avvalorare la sua tesi con un continuo raccordo dei dati storico-filologici con le indicazioni dell'etologia, dell'antropologia e della psicoanalisi. Per quanto riguarda il rapporto mito-rito Burkert riconosce che sotto il profilo dello sviluppo storico i riti sono molto più antichi dei miti, in quanto risalgono sino al mondo animale, mentre il mito divenne possibile solo molto più tardi con la facoltà specificamente umana del linguaggio. Rimane però la costatazione che un racconto di fatti in quanto tale è qualcosa di nuovo rispetto ai riti biologicamente comprensibili: per questo il mito non deriva immediatamente dal rituale136. Indubbiamente mito e rito si connettono con successo proprio in quanto forme di tradizione culturale. Burkert ritiene che il mito non è di per sè necessariamente una parte del rituale (come voleva l'indirizzo della myth and ritual School), mentre invece si può parlare di mito anche al di fuori della celebrazione di un rituale: solo la questione opposta, se cioè tutti i miti greci rimandino a loro volta a rituali, è controversa. Conclude che, pur con mezzi espressivi molto differenti, il rito è ordinatore quanto il mito: come la leggenda esso organizza la realtà, la scandisce e le dà un senso. Come unico esempio delle analisi di Burkert137 ricordo la sua interpretazione della tradizione romana dell'uccisione di Romolo da parte dei primi senatori come un mito di fondazione della società romana, nel quale trova conservati importanti elementi del racconto proto-indoeuropeo della creazione. In questo saggio Burkert si ispira al mito proto-indoeuropeo della creazione138 che racconta come il primo sacerdote officiò il primo sacrificio nel quale le vittime erano il primo re suo fratello e il primo bovino. Si noti che mentre il sacrificio perfetto comprende sia una vittima animale sia una vittima umana come nel primo sacrificio, l'offerta animale sarà poi per lo più considerata sufficiente. Il fatto del primo re comunque ci interessa in particolare perché, secondo il mito, dal suo corpo fu creato il mondo: non solo il mondo naturale (dagli occhi il sole, dal sangue il mare, dalla carne la terra) ma anche il mondo sociale (dalla testa la classe dei sacerdoti e dei regnanti, dal torace e dalle braccia quella dei guerrieri, dalle parti inferiori del suo corpo quella della gente comune)139. Secondo tale interpretazione i materiali di etnologia religiosa mostrano quindi come il sacrificio protoindoeuropeo dovesse essere inteso come una ripetizione rituale della creazione ed insieme sociogonia e cosmogonia. Durante tali riti le vittime, umane o animali, venivano uccise e smembrate e i loro corpi venivano poi suddivisi con la più grande cura e parti delle membra venivano distribuite agli uomini e mangiate; era il diverso valore e prestigio dei vari tagli di carne a rappresentare la posizione gerarchica dell'individuo o del gruppo. Tralasciando gli altri possibili significati molti studiosi si interessano solo del fatto che ad ogni sacrificio l'ordine sociale viene riconfermato, essendo il sacrificio così come altri rituali un meccanismo potentissimo volto alla conservazione della società: in questo caso ogni sacrificio proto-indoeuropeo viene dunque interpretato come la ripetizione della creazione ed il rinnovamento della società e del cosmo140. Burkert si inserisce in questa tematica esaminando certe tradizioni romane: nella citata uccisione di Romolo ha richiamato in particolare l'attenzione sulla distribuzione delle parti del corpo a ogni senatore, sottolineando che le famiglie patrizie fondate dai primi senatori avrebbero da allora in poi costituito il nerbo della società romana. Così finché Romolo visse incarnò da solo la totalità romana, ma grazie alla sua morte, una morte quasi sacrificale caratterizzata dallo spargimento di sangue e dallo smembramento avvenuto in un tempio, quella totalità fu infranta e le varie famiglie assunsero i diversi ruoli come diverse membra dello stato. L'interpretazione del mito giunge fin qui, ma l'analisi di Burkert si spinge ancora più in là arrivando a paragonare la storia dello smembramento di Romolo a vari rituali fra i quali le Feriae Latinae141, uno dei più antichi sacrifici italici. Le Feriae erano un rituale di solidarietà e gerarchia nel quale si celebravano nello stesso tempo la coesione della Lega latina e il diverso prestigio dei suoi membri142. Sia nelle Ferie che nel racconto mitico dello smembramento di Romolo Burkert riscontra motivi simili: in entrambi i casi un corpo viene tagliato a pezzi, proprio come la societa è fatta di tante parti o segmenti. Questo cenno alla teoria di Burkert permette di fare alcune considerazioni sul metodo che ha adottato nell'approccio al fenomeno religioso. In primo luogo si può affermare che Burkert inquadra la propria analisi in una prospettiva storica secondo la quale la religione conserva il 'ricordo' del passato. All'origine, frutto dell'aggressività innata dell'uomo, si colloca un atto fondamentale: uccidere per mangiare, per cui l'uomo si definisce come homo necans . Ma a questo atto del primo cacciatore si accompagna immediatamente un senso di colpa: di qui nasce il valore sacro dell'atto di uccisione, che diventa rito e prende così la forma di un sacrificio con la precisa funzione di riparazione e di discolpa. In secondo luogo si può dire che la dimensione storica si articola poi in una prospettiva funzionale. Il valore sacro del rito di morte risale ai tempi in cui la caccia costituiva l'attività fondamentale dell'uomo. Il metodo è quindi chiaro: alcuni operatori semantici corrispondenti a certi atti fondamentali, come cacciare, uccidere, mangiare, sono messi in relazione gli uni con gli altri secondo la linea storica e si combinano per formare nelle sue varie concretizzazioni il sacrificio, che è visto da Burkert come l'atto religioso per eccellenza. Manca però l'interrogativo sullo statuto di questi operatori143. Quindi in Burkert si è cercato di collegare la prospettiva storica con una prospettiva funzionale. A Burkert la religione, in quanto mantiene il suo aspetto costante di tradizione che si modifica ma che mai viene sostituita completamente dal nuovo, sembra uno straordinario fattore di stabilizzazione sociale nella realtà storica. In questo rapporto con la realtà sociale, tuttavia, la religione non assolve solo una semplice funzione di specchio riflettente: sembra piuttosto correlata a strati più profondi della convivenza umana e ai suoi presupposti psichici144. A questo punto è possibile rendersi conto dei limiti che pesano sulle analisi etologico-psicanalitiche dei riti di sacrificio: si basano sul concetto di iterazione rituale, simulata e sublimata, di quegli atti violenti cui gli uomini dovevano abbandonarsi quando fondavano la loro stessa umanità. Il simbolismo sacrificale replicherebbe l'atto primigenio di distruzione violenta per ripetere in forma volontaria un delitto emblematico e per poterlo religiosamente espiare. La tesi di Burkert, ampiamente articolata nel suo Homo necans, lascia intendere che la violenza rituale non viene soppressa in virtù del rito ma viene riprodotta e trasferita in una cornice sacra allo scopo di poter legittimamente profanare il mondo. E' in parte la tesi di Girard con l'importante differenza che per lo studioso francese gestire religiosamente la violenza serve a rigenerare la religione e il sacro, non ad ampliare la legittimità del mondo profano, sia pure sotto la protezione di quello sacro, come è per Burkert. § 5. Conclusione 5.1.L'approccio antropologico di Girard allo studio della religione Negli ultimi decenni c'è stata un'invasione nello studio delle religioni, e di conseguenza anche del rituale e del sacrificio145, da parte della sociologia, della psicologia e soprattutto dell'antropologia socio-culturale. Quest'ultima, nata dallo studio dei costumi e del comportamento dei popoli primitivi, si è ampiamente allargata incorporando in sé elementi sociologici, psicologici, etnologici, linguistici, simbolici e in particolare elementi religiosi. Pur nelle sue contraddizioni, nell'incertezza dei limiti, nella continua variazione delle definizioni, il movimento antropologico assume pertanto una enorme importanza per le scienze religiose sia per alcune determinate istanze che propone nello studio dei fenomeni religiosi sia per il consistente numero di studi di storici delle religioni che più o meno legittimamente vengono ascritti agli indirizzi antropologici. A proposito del primo contributo mi limito a dire che, pur nella diversità e spesso inconciliabilità delle prospettive, l'approccio antropologico suggerisce un'interessante metodologia d'indagine che si volge ai fenomeni religiosi studiandoli nel loro diretto e costante rapporto vitale con tutti gli altri elementi che formano un organismo culturale o sociale. Emerge cioè in modo indubbiamente positivo la consapevolezza che l'indagine del religioso non può più rinunciare all'esigenza di analisi del quadro umano più vasto e completo che costantemente esprimono il rito e il mito. A proposito del secondo contributo è positiva la specializzazione dell'antropologia nello studio dei rituali religiosi in relazione al loro valore per l'individuo e la società in quanto l'antropologia socio-culturale, "ponendosi come studio dei costumi ed in generale dell'ethosdei popoli, ha una sua concretezza che altre scienze umane non possiedono ed inoltre si pone in linea con il comportamento rituale, che appare anzitutto un'azione o un complesso di azioni di carattere simbolico che - almeno ad una prima indagine - non è dissociabile dal contesto socio-culturale in cui si manifesta''146. E' inoltre evidente che la polivalenza semantica del rituale è stata causa di molte difficoltà sia per una definizione e classificazione del rito in antropologia culturale sia perché è accaduto che "interpretazioni a volte contrastanti o comunque diverse apparissero tutte plausibili''147. Oggi l'antropologia si muove prevalentemente nelle fasi funzionale, strutturale, simbolica, spesso con rapporti fra le diverse dimensioni. I tre indirizzi, pur partendo dalla precomprensione comune che la religione vada studiata in rapporto alla cultura, si differenziano poi notevolmente: l'ipotesi funzionale, per la quale la religione serve alla società; l'ipotesi strutturale, per la quale la religione va decodificata, in quanto è un tipo di codificazione inconscia; l'ipotesi simbolica, che tiene conto di un minimumreligioso. Chiaramente non è qui possibile elencare nelle loro peculiarità le differenti interpretazioni antropologiche del religioso148: basti dire che fra loro il funzionalismo antropologico, che si presenta con una grande varietà di differenziazioni, è la corrente che oggi meglio rappresenta l'antropologia ed è la più disposta a studiare il rituale come un'azione simbolica di estrema importanza all'interno della società. Il suo campo di ricerca preferenziale è dato quindi dalla religione nella sua globalità di manifestazioni, organizzazioni, simboli a livello sociale, ma in cui particolare rilievo assumono i riti come azioni simboliche con rilevanza sociale. Anche Girard si interroga sull'uomo in rapporto alla sua ritualità dal versante dell'antropologia socio-culturale: analizzando il suo pensiero è emersa una posizione che si può definire di integrazione delle linee sociologico-funzionalista-psicologica. Si è visto come già a partire da Durkheim la sociologia ha dedicato la propria attenzione al ruolo dei riti e in particolare del rito religioso nella società, nella convinzione che la società diventa consapevole di se stessa attraverso un'azione comune e che pertanto a intervalli regolari deve confermare i sentimenti e le idee collettive che costituiscono la sua unità149. Fu poi Radcliffe-Brown a sviluppare nel modo più conseguente questa prospettiva funzionale: una società può sussistere solo in virtù di un sistema di concetti e sentimenti collettivi che vengono sviluppati proprio grazie all'influenza della società sull'individuo150. In antitesi a questo concetto funzionalistico di rito si è posto quello della psicologia del profondo che muove dall'osservazione di azioni ossessive nevrotiche151. Sembra tuttavia che l'opposizione tra queste proposte sia più nella prospettiva che nell'oggetto stesso: infatti Girard coniuga ed integra la formulazione della domanda sul piano sociologico funzionale con la ricerca psicologica freudiana. E' emerso che nel pensiero girardiano il fenomeno religioso costituisce sia il punto di partenza sia il punto di arrivo della sua ricerca (§1). Di partenza, perchè l'oggetto sacralizzato è il prodotto della soluzione collettiva che gli uomini danno alla loro conflittualità mimetica, quindi costituisce la genesi di ogni fondazione; di arrivo, perchè nel corso della storia evolutiva del sacro il suo significato è stato nascosto e quindi le sue tracce vanno reperite risalendo le varie tappe dell'attività mitopoietica delle civiltà umane. La storia delle religioni interessa Girard per questo motivo: è la storia del 'misconoscimento' dei meccanismi costitutivi del sacro, sommersi dalla testualità mitica e dai comportamenti sacralizzati (§1, 1.5). Per lo studioso francese il sacro si articola pertanto nei due momenti del divieto e del rituale: il divieto si applica agli oggetti del desiderio che possono scatenare i comportamenti mimetici e il rituale si presenta come ripetizione simulata del meccanismo di regolazione della crisi ottenuta con l'omicidio collettivo. Gli ultimi studi di antropologia ed ecologia possano giustificare una collocazione della teoria del sacrificio di Girard all'interno di una concezione socio-ecologica del rituale. I riti sacrificali sono una specificazione dei riti di offerta di cibo e riguardano più in particolare il sacrificio di animali. Potrebbero essere una delle forme più antiche di rituale, quel rituale per eccellenza da cui, secondo Burkert o Girard, ha avuto origine il senso religioso in quanto tale. La tesi di Girard può quindi essere inserita in un equilibrio che si ritrova all'interno del sociale per sconfiggere l'aggressività e la violenza: egli vede il sacrificio come "equilibratore" delle forze competitive e antagoniste, in grado di riportare l'ordine e di ristabilire l'armonia. La teoria girardiana è complessa e, se teniamo conto delle variazioni a cui è stata sottoposta in questi ultimi anni, si presenta come un lavoro in fieri; nelle sue opere più recenti il francese ha cercato di mettere a fuoco, con una precisione che dall’una all’altra si è fatta sempre maggiore, il meccanismo del capro espiatorio, quel pensiero che per lui è stato l’essenziale negli oltre vent’anni passati da La violenza e il sacro. Fondamentale rimane comunque la funzione ecologica del rito in un contesto ove si ha bisogno di autoproteggersi dalla distruttività e dalla violenza. 5.2.Il metodo di Girard L'interpretazione di Girard ha spesso interessato i critici che, a proposito di questioni che si riferiscono direttamente al suo pensiero152, si sono volti su due piste: la prima consiste in un confronto con l'intero sistema delle idee di Girard153 e la seconda, molto più frequente, in un confronto con alcuni aspetti settoriali presi in considerazione dalla sua interpretazione sintetizzante154. In questo ultimo caso si sono scritti molti saggi soprattutto sul concetto di sacrificio, l'idea chiave attorno a cui si sviluppa tutta la teoria del francese ed inoltre su problemi teologici e su quelli di esegesi biblica. La sua interpretazione del sacrificio mi suggerisce una riflessione sul metodo che ha adottato nel suo approccio antropologico al fenomeno religioso. Mi limito ad individuare due aspetti del suo metodo: la pretesa di 'scientificità' ed il carattere 'riduttivo' delle sue analisi. a)L'aver reso manifesto grazie alla sua teoria il 'misconoscimento' del meccanismo, costitutivo del sacro, della vittima espiatoria, porta Girard a sottolineare con insistenza il carattere strettamente scientifico del suo lavoro, in quanto pensa di aver raggiunto un principio di spiegazione universalmente e definitivamente valido per l'insieme dei fenomeni umani. Ritiene che la sua lettura possieda 'una forza prodigiosa' e di aver trovato "la spiegazione ultima della mitologia, non solo perché all'improvviso non vi è più nulla d'oscuro e tutto diventa intelligibile e coerente, ma perchè si comprende, nello stesso momento, perché i credenti dapprima, e sul loro esempio i non credenti poi, sono sempre passati vicino al segreto, peraltro così semplice, di ogni mitologia"155. Sembra che in tal modo Girard ritorni all'ideale della 'scientificità oggettiva' in un contesto sociologico-funzionalista, in cui ci si interessa soprattutto alle azioni, al comportamento, all'intreccio dei bisogni e alla trama dei significati in parallelo con la vita rituale. Tra gli studi su Girard si trova sia chi conferisce valore di 'scientificità ipotetica' alla tesi dello studioso francese156 sia chi vi riconosce 'un ibridismo assai poco scientifico'157. In realtà Girard si inserisce in quella tendenza generale della posizione scientifica degli ultimi secoli descritta da Apel come il tentativo costante di ridurre dei fenomeni spirituali come il linguaggio, l'arte, la religione, il diritto, a qualche cosa di più semplice: cioè un tipo di causazione di carattere psicologico, fisiologico, biologico158. Intorno al dilemma "spiegare o comprendere" la religione si scontrano oggi gli studi di epistemologia: chi difende la 'spiegazione' cerca quella scientificità che si basa sui concetti di regolarità universale, ripetibilità e controllo sperimentale che consentono di fare previsioni 'oggettive'; chi difende la 'comprensione' ha a che fare con nozioni quali controllo sociale, senso, soggettività, intenzionalità, orientamento di fini e "si dichiara tributario dell'ermeneutica contemporanea impegnata a rivendicare una propria area di originalità alle scienze dello spirito"159. Entro tale problematica è possibile riconoscere nella ipotesi sociologica funzionalista girardiana una spiegazione di tipo causale, in quanto "il rapporto causa-effetto è visto nella relazione inconscia del comportamento che 'sacrifica' per mantenere o riportare l'ordine sociale, in un rigido rapporto di causazione''160. b)Due momenti della visione girardiana si presentano come 'riduttivi' nell'approccio ai fenomeni religiosi. In primo luogo il metodo di Girard consiste in "una specie di avventura antropologica"161 che si basa su un confronto tra il materiale della letteratura soprattutto classica (riferimenti alla tragedia della Grecia classica) con il repertorio etnografico recente (cita etnologi come Lienhardt, Evans-Pritchard) e con le tesi di vari antropologi. Tramite codeste connessioni Girard soddisfa l'esigenza di trovare soprattutto le strutture unificanti della violenza e dei suoi meccanismi. L'evidente attenzione agli aspetti formali unificanti lo porta a presentare la violenza come principio rivelatore di una costante universale. Il pensiero girardiano si caratterizza pertanto per una tendenza alla sintesi, alla riduzione: si sforza non di sottolineare le diversità ma di ridurre la diversità e la complessità di un fenomeno all'unità. Per Girard la semplificazione e l'organizzazione dei dati del sapere costituiscono lo scopo della scienza, in quanto "la ricerca scientifica è riduttrice oppure non è niente''162. In secondo luogo mi sembra che Girard non abbia introdotto elementi religiosi, filosofici o teologici nello studio del sacrificio per concentrare ogni sforzo di 'spiegazione' del fenomeno religioso sulla realtà sociale e culturale cui esso è congiunto. Nei socio- antropologi a cui Girard si ispira vi è la tendenza costante a leggere la religione all'interno dell'universo simbolico culturale che una data società si costruisce e la propensione a considerare la religione in questo contesto mai come pura ma sempre applicata e cioè funzionale alla ricerca di risposte plausibili in mancanza di altre in vista della composizione dell'intero simbolico-culturale. Anche da Girard la religione viene interpretata dunque dal punto di vista sociologico-funzionalistico. Si tratta di un approccio che si concentra sull'aspetto socioculturale e che si risolve pertanto in uno studio riduttivo del fenomeno religioso: il valore funzionale e quello sociologico possono infatti essere solo 'un' aspetto della realtà o di una istituzione, ma non la possono esaurire completamente. 5.3.L'alternativa fenomenologica Passo ora alla sintetica presentazione di un'alternativa che si riferisce ad una tesi feconda ed innovativa: l'individuazione in Girard di "una lettura quasi ermeneutica"163 e l'individuazione di "una fenomenologia latente nell'antropologia funzionale"164. A favore di "una lettura quasi ermeneutica" parto dalla considerazione che nelle ultime pagine de La violenza e il sacro Girard dichiara esplicitamente che la sua tesi risponde a tutte le esigenze di "un'ipotesi scientifica", che essa si pone cioè su un piano eminentemente positivo che è in grado di unificare tutti i fatti etnologici. Ritiene che la sua 'lettura' del sacrificio non abbia il carattere di una interpretazione ermeneutica "perchè si ha interpretazione ermeneutica finché la domanda resta senza risposta''165. Ma, nonostante questa sua opposizione al metodo ermeneutico, la sua interpretazione dei fenomeni religiosi "è suggerita da precise pre-comprensioni di ordine sociologico e non può perciò esibirsi fuori da un contesto ermeneutico''166. Se usiamo il termine ermeneutica in accezione non storica ma eminentemente categoriale per designare qualsiasi posizione filosofica sulla realtà sociale che assuma a categoria fondamentale dell'azione quella di senso, vediamo Girard inserirvisi suo malgrado. In realtà le assunzioni gnoseologiche che caratterizzano ermeneutica e positivismo sono profondamente differenti e costituiscono due diversi modi di concepire l'uomo e la società: qui la scelta cade a favore dell'ermeneutica, che sembra conferisca più senso al mondo sociale. A sostegno della tesi di un Girard visto in contesto ermeneutico cito solo il fatto che la questione del 'senso' in realtà interessa profondamente lo studioso francese, che vede in esso un aspetto essenziale ed ineludibile per l'uomo e che critica aspramente il momento attuale del non-senso: "non si vuole più privare gli uomini della sessualità ma di qualcosa di cui hanno ancora più bisogno, il senso. L'uomo non vive solo di pane e di sessualità. Il pensiero attuale è la catastrofe suprema, perché è la castrazione del significato. Tutti sono lì a sorvegliare il vicino per sorprenderlo in flagrante delitto di credere in qualsiasi cosa"167. Inoltre, e la torsione sociologica del pensiero di Girard è evidente, nel suo pensiero acquistano grande importanza le nozioni soggettive, implicate dall' 'azione', di scelta, responsabilità, senso, convenzione, evidenza, possibilità, fine, regola, intenzione, motivi, valori, norme, tutte fondamentali anche nella prospettiva ermeneutica. Per sostenere la possibilità di "una fenomenologia latente nell'antropologia funzionale" si parte da due tesi. Quella secondo cui "ogni rito ha carattere simbolico-ludico, non è funzionale nel suo fulcro, non è produttivo, non è diretto ad altro, non ha uno scopo, è senza rinvii, è in-utile rispetto a tutte le dimensioni funzionali, utilitaristiche, strumentali, sociali e quella (che sta di rincalzo e a complementarietà alla prima) che consiste nell'affermare che proprio in questa dimensione profondamente ludica, inutile, sta l'esperienza della trascendenza e di Dio"168. Già negli ultimi decenni del secolo scorso l'attenzione degli etnologi fu attratta dalle numerose testimonianze dei nessi che sussistono fra i vari tipi di gioco e di feste e le forme della vita religiosa, soprattutto di taluni riti e cerimoniali che vengono espressamente qualificati come giochi sacri169. Anche gli antropologi hanno intravisto questo lato non funzionale del rito: il senso del "gioco" e la sua "serietà" sono comprensibili solo sullo sfondo del tema del sacrificio. Il gioco, la festa, la gratuità si possono comprendere in tutta la loro valenza antropologica solo se messi in connessione con la liberazione dall’angoscia, come celebrazione dello "scampato pericolo", della fine della paura o della fatica o dell’oppressione. Nel 1912 anche Durkheim formulava alcune tesi sul rapporto gioco- religione e spiegava la presenza degli elementi ludici all'interno delle religioni come un aspetto specifico delle stesse, le quali hanno anche la funzione di divertire, di offrire una specie di ricreazione ai fedeli170. Scopriva l'elemento essenziale di adesione ad un 'altro mondo', ad 'un'altra realtà' che è comune sia al rito sia al gioco, nella misura che entrambe si proiettano in una dimensione che è diversa da quella normale. Come tappa fondamentale rimane poi il saggio di Huizinga171 sull'homo ludens, inteso proprio come categoria della specie umana, analoga a quella dell'homo faber o dell'homo sapiens. Huizinga stabilisce la fondamentale identità fra culto e gioco. Per quanto specificamente riguarda il rapporto che ci interessa e prescindendo dalle altre caratterizzazioni del gioco che presenta, va detto che per lui il gioco ha carattere non utilitario, è 'disinteresse' poiché è fuori della vita ordinaria e del processo di immediata soddisfazione dei bisognil72. Tutta la sua analisi rappresenta un'identificazione di fondo fra gioco e rito e, alla ricerca di una differenza fra le due manifestazioni, si ricollega, anche se senza dichiararlo, alla tesi di quel "qualche cosa in più o qualche cos'altro"l73 che già Durkheim poneva come indice di differenza tra i fenomeni puramente ludici e quelli ludico-sacrali: dice che si tratta di "un elemento spirituale in più, difficilissimo da definire con precisione''174. Siamo sul piano di ricerca di quella componente inspiegabile, irrazionale, emotiva, emozionale, che gli studiosi precedenti hanno chiamato commozione, solennità, serietà: "nella rappresentazione qualche cosa d'invisibile, d'inesprimibile si concreta in forma reale, bella, sacra''175. Stabilisce anche un prima e un poi nei rapporti fra gioco e culto: "il giocare in sé fu il fatto primario"176 e dentro il gioco viene ad inserirsi il senso di un atto sacro. L'azione sacra di ogni tempo "rimane per alcuni suoi aspetti compresa nella categoria del gioco, ma in tale subordinazione non va perduto nulla della sua sacralità''177. Un altro tentativo di delineare il rito oltre che rispetto alla ripetitività anche rispetto alla non-utilità si trova in Cazeneuve, al quale "il rito sembra essere un'azione che si ripete secondo regole invariabili e la cui esecuzione non sembra produrre effetti utili''178. Tuttavia Delle grandi testimonianze «romanzesche», da Cervantes a Dostoevskij, Girard mette in luce l'unità profonda intorno ad un fulcro comune: la rivelazione del carattere mimetico del desiderio, della presenza sistematica di un Mediatore attraverso cui ci è possibile accedere all'oggetto. Il desiderio è un triangolo: ogni linea retta che congiunge l'uomo ai propri oggetti è una menzogna che occulta la presenza dell'Altro, del Mediatore che dà significato e valore a ciò verso cui gli uomini si rivolgono per desiderare.14 La grande letteratura romanzesca non ha per Girard altro oggetto che la storia delle manifestazioni del desiderio «secondo l'altro». Ora, questa storia rappresenta la temperatura profonda della società moderna: dal modello celeste e inaccessibile di Don Chisciotte, che proprio per la sua lontananza si definisce come Mediatore esterno, posto al riparo da ogni convergenza conflittuale col soggetto desiderante, si passa al proliferare di modelli sempre più interni alla sfera del soggetto, come nel dostoevskiano uomo del sottosuolo. Quanto più il mediatore è vicino al soggetto, tanto più cresce la convergenza conflittuale dei due desideri verso un medesimo oggetto. Lo stesso desiderio tende a divenire patologico: «la mediazione di Don Chisciotte è una monarchia feudale, talvolta più simbolica che reale. Quella dell'uomo del sottosuolo è un susseguirsi di dittature, tanto feroci quanto temporanee (... . .) esse sono propriamente totalitarie». Oltre una certa soglia di rivalità, l'oggetto scompare, diviene pura astrazione. Soggetto e Modello ora sono divenuti doppi mimetici: la posta in gioco tra di loro è letteralmente il nulla. Anche l'elemento masochistico del desiderio si accentua sempre di più. Se nel desiderio normale era l'imitazione a produrre l'ostacolo, ora è l'ostacolo a produrre l'imitazione: visto che l'oggetto, una volta posseduto, perde il mediatore e con esso il valore, tanto vale allora cercare gli oggetti impossibili, quelli sempre ostacolati. Ciò a cui Girard punta è la costruzione di quella che verrà definita in DCC «psicologia interdividuale».15 La presenza del Mediatore nella struttura del desiderio, l'altalena mimetica in cui sempre il soggetto è preso, il proliferare di rapporti tra doppi, danno vita ad una interpretazione dei fatti psichici fondata sul primato della relazione. Una psicologia cioè che non consideri, come tende a fare la psichiatria tradizionale, «il malato come una specie di monade»:16 dietro gli stessi deliri, dice Girard, bisogna mettersi alla ricerca del rivale nascosto e della mimesi conflittuale.17 Laddove le scienze umane tendono a vedere essenze, sintomi e caratteri distinti, nella psicologia interdividuale deve subentrare la visione dell'unità del processo mimetico che struttura la diversità e l'alternanza delle posizioni. Analogamente a quanto avverrà nell'interpretazione della mitologia, si tratta di decostruire le false essenze platoniche che tendono a differenziare ciò che in realtà appartiene ad un'unica struttura. Il carattere potenzialmente esplosivo del desiderio è il ponte concettuale che permette a Girard di congiungere le due arcate della sua impresa intellettuale, passando dalla teoria mimetica alla prospettiva vittimaria che domina la sua antropologia. Se il desiderio è imitativo, la potenziale convergenza del soggetto e del modello sul medesimo oggetto è garantita, se non intervengono fattori differenzianti di tipo strutturale a incanalare diversamente la mimesi.18 Ed è proprio una crisi mimetica a caratterizzare per Girard l'origine dei sistemi culturali. 3. La Violenza e il Sacro: la strategia girardiana 3.1. Edipo mimetico 3.2. Narcisismo e potere 3.3. Totem e tabù: Il fascino delle origini Rileggendo oggi La Violence et le Sacré, a trent'anni di distanza dalla sua uscita, si rimane colpiti dalla finalità strategica che governa il testo. Senza mezzi termini, quest'opera rappresenta un guanto di sfida alla roccaforte delle scienze umane del tempo. L'ambizione di Girard, ormai uscito dal recinto della critica letteraria, è ora quella di assumere la radicalità dei temi freudiani e strutturalisti per ricomprenderli in una sintesi differente ed alternativa ad essi. In linguaggio girardiano, diremmo che Freud e Lévi-Strauss costituiscono il «modello mimetico» di Girard. Rivali ammirati e concorrenziali, il loro progetto intellettuale converge sul medesimo terreno su cui Girard intende erigere il suo edificio. Freud è il pensatore più presente nel testo girardiano, ma anche quello che ha subìto i suoi attacchi più virulenti. Esemplare è un articolo del 1972 dedicato al commento de L'Anti-Oedipe di Deleuze e Guattari, 19 in cui Girard critica i due autori perché rimangono in ultima analisi fedeli devoti del freudismo, incapaci di sbarazzarsene. Credono di liberarsi di Freud regalandogli però il monopolio su quell'insieme di fenomeni -- desiderio, rivalità, triangoli -- a cui ora Girard vorrebbe estendere il suo sigillo.20 Ma Girard non si tira indietro: «il terreno di Freud è Freud stesso ad averlo scelto e potentemente occupato; contendergliene il possesso significa, è chiaro, correre notevoli rischi e dar prova perfino di temerarietà».21 Si tratta insomma di sfidare Freud in casa sua, diversamente da Deleuze e Guattari, che si imbarcano in una «tattica da guerriglia». Con una sorta di passo doppio, Girard vuole entrare nelle pieghe del testo freudiano, seguirne gli sviluppi, indicarne i punti morti e uscirne con la preda della teoria mimetica, finalmente liberata dal castello psicoanalitico. Sono due le tesi dell'opera di Freud che la teoria mimetica punta a salvare: la mimesi che strutturerebbe il complesso di Edipo e l'assassinio collettivo. Per il resto, Girard vuole spogliare il freudismo di padri, incesti, infanzie e oggetti. Tenere il triangolo ma senza l'Edipo. Conservare l'assassinio fondatore ma senza parricidio. 3.1. Edipo mimetico Riguardo al primo grande architrave freudiano, il complesso di Edipo, la tesi avanzata da Girard è che Freud, bene avviato sulla strada del desiderio mimetico e dei triangoli che lo strutturano, sarebbe ricaduto -- «a prezzo di una certa incoerenza» -- nella teoria del desiderio radicato nell'oggetto (quello materno). «Il complesso di Edipo, nella mia prospettiva, è ciò che Freud ha inventato per spiegare le rivalità triangolari, non avendo scoperto le straordinarie possibilità dell'imitazione in materia di desiderio e di rivalità.»22 Insomma, Freud avrebbe abortito la teoria mimetica, e sarebbe nata la psicoanalisi. La mimesi è infatti sufficiente a spiegare le due tendenze dell'infanzia -- attaccamento alla madre, ambivalenza verso il padre -- che per Freud solo «in virtù della progressiva e incessante unificazione della vita psichica»23tendono a riunirsi. Sul piano dell'economia freudiana «il padre come modello», «la madre come oggetto, per appoggio», rappresentano due forze originariamente a sé stanti, due movimenti che all'inizio funzionano in parallelo, autonomamente:24 «gleichzeitig», «contemporaneamente» è l'espressione usata da Freud.25 Per Girard invece, il movimento è unico: l'imitazione paterna genera il desiderio d'oggetto. Una sola e stessa forza, la volontà di sostituire il padre sotto ogni aspetto, alimenta l'identificazione con il modello e il desiderio verso la madre. La critica mimetica di Girard tende insomma a sbarazzarsi della libido direttamente fissata sulla madre, di questo secondo lato del triangolo edipico, che per Freud è intrinseco e non copiato. Molto meglio ricorrere al double bind di Bateson per spiegare «quell'elemento critico e potenzialmente catastrofico nei primi rapporti tra il bambino o i genitori o, più in generale, il desiderio-discepolo e il desiderio-modello». È nel passaggio da Psicologia delle masse a L'Io e l'Es, sostiene Girard, che Freud cancella ulteriormente le tracce di mimetismo. «Freud, insomma, ha dapprima tentato di sviluppare il complesso di Edipo sulla base di un desiderio per metà oggettuale e per metà mimetico [...] È il fallimento di tale compromesso a spingere Freud a fondare l'Edipo su un desiderio puramente oggettuale e a riservare gli effetti mimetici per un'altra formazione psichica, il Super-Io».26 3.2. Narcisismo e potere Se il compito della psicologia interdividuale è dissolvere le false essenze platoniche dei caratteri distinti per mostrare l'unità del processo mimetico, se è il desiderio «l'autentico soggetto della struttura»27 che comanda i rapporti tra le caselle del gioco mimetico, sotto la sua lente cadrà certamente il tema del narcisismo, precipitato di ogni desiderio che si vuole bastevole di sé, autonomo e originario, non mimetico cioè. Se la rete del mimetismo, come dice Girard, rappresenta una «veste priva di cuciture»,28 nella grande narrazione freudiana ci sono due grandi figure narcisistiche che per la loro autonomia paiono esserne fuori, rappresentando uno strappo in piena regola. Stiamo parlando (a) del «tipo femminile più puro e autentico»,29 la perfetta narcisista di Introduzione al narcisismo, la quale a rigore ama solo se stessa, e (b) del padre dell'orda primordiale, reincarnato nel capo della massa, «il superuomo che per Nietzsche possiamo aspettarci solo dal futuro» e che invece ritroviamo bell'e pronto «agli inizi della storia umana».30 Entrambi sono avvolti da un alone di «quell'ultimo riflesso del sacro» che è qui la Differenza per eccellenza, dice Girard, la totale autonomia in un mondo di esseri ingaggiati in quella che Kojève avrebbe definito «lotta mortale per il riconoscimento».31 Ciò costituisce il segreto libidico del loro fascino, l'attrazione, erotica e politica, che esercitano sugli altri uomini. Proponendoci addirittura una sorta di doppio registro psicologico, il narcisista e l'oggettuale, l'individuale e il collettivo, Freud non avrebbe colto per Girard il carattere strategico del narcisismo. La felice autosufficienza del modello sarebbe l'illusione di cui è vittima il soggetto affascinato o il suddito obbediente: essa è «il fantasma per eccellenza del desiderio».32 Insomma, conclude Girard, «la civetta la sa più lunga di Freud sul desiderio»:33 il «perfetto narcisista» non ha sostanza, se non quella che accumula carpendola dai devoti che gli si gettano attorno. Freud insomma reificherebbe e immobilizzerebbe delle posizioni che esistono solo in funzione le une delle altre all'interno dell'altalena mimetica.34 Questo stesso mito governa l'economia di Massenpsychologie. Qui Freud fa l'affermazione sorprendente secondo la quale la scienza che studia gli uomini in massa o i fratelli dell'orda, non è la stessa scienza che studia il capo: «poiché fin dall'inizio esistettero due tipi di psicologia, la psicologia degli individui appartenenti alla massa e quella del padre, capo supremo, guida».35 Il padre dell'orda primigenia possiede una differenza specifica, la stessa del perfetto narcisista: non ha bisogno degli altri. «I singoli componenti la massa erano soggetti a legami, allora come lo sono oggi, ma il padre dell'orda primigenia era libero. Pur essendo egli isolato, i suoi atti intellettuali erano liberi e autonomi, la sua volontà non aveva bisogno di esser rafforzata da quella degli altri».36 Credere all'autosufficienza del capo, al perfetto narcisista, direbbe Girard, è un po' come credere alla colpevolezza di Edipo, in altre parole significa non essere avanzati a sufficienza sulla via della demistificazione del mito. Si ignora cioè l'aleatorietà del processo e ci si ferma alla presunta differenza di carattere tra i personaggi, senza cogliere che tutti potrebbero occupare qualsiasi casella. Ciò che rende propriamente funzionante il mito, è proprio il fatto che tra i molti e l'uno vi è una differenzasostanziale, che in Sofocle giustificava l'esilio [poiché tra tutti i tebani uno solo è colpevole], e qui invece fonda una psicologia naturale del potere. Lì il parricida incestuoso, qui il perfetto narcisista. Nei termini sistemici di J.P. Dupuy,37 il padre dell'orda o il capo della folla è, nel testo freudiano, un punto fisso esogeno, cioè produttore e ordinatore della folla. Al contrario, nell'ottica girardiana, egli è un elemento endogeno, «prodotto dalla folla, mentre questa immagina di essere prodotta da lui».38 «Considerare il capo come un punto fisso endogeno, significa affermare che non sono le sue qualità intrinseche[il suo preteso narcisismo o carisma] che gli valgono la sua posizione centrale. Il narcisismo non è che un'illusione, non c'è mai altro che "pseudo-narcisismo".»39 Applicata al padre primigenio di Totem e Tabù, questo approccio, secondo Girard, porta dritti alla tesi della vittima espiatoria, a spese del parricidio. 3.3. Totem e tabù: Il fascino delle origini In una recente rassegna etnologica francese, Girard è stato catalogato, suo malgrado, come «freudiano».40 Il debito che Girard riconosce verso Totem e Tabù è relativo alla tesi dell'omicidio collettivo, «la più grande scoperta di tutta la vecchia etnologia».41 Di questa scoperta, Girard condivide l'ambizione di volgersi ad una sorta di anno zero della cultura umana. Freud con il parricidio, Girard con la vittima espiatoria pensano il procedere della cultura nei termini dell'occultamento del cadavere fondatore. Freud usa il termine illuminante Entstellung per descrivere il rapporto tra cultura e omicidio fondatore, e Girard radicalizza questa prospettiva.42 È nota la freddezza con cui è stato generalmente accolto Totem e Tabù. Lévi-Strauss ha bocciato come radicalmente illusoria questa linea di ricostruzione delle origini. Paul Ricœur, nel suo classico studio su Freud De l'interpretation, ha sottolineato la contraddizione nella quale Freud cade adottando, per la spiegazione degli eventi religiosi, un meccanismo -- un trauma reale -- che invece nell'eziologia delle nevrosi individuali è stato ben presto abbandonato in nome di una costruzione più complessa.43 Girard rompe con questa prospettiva di neutralizzazione di Totem e Tabù, facendo sua la goethiana conclusione di Freud: «in principio era l'Azione», il fatto cioè o anche il misfatto dell'uccisione primordiale. «Nelle forme, nelle idee e nelle istituzioni religiose in genere bisogna vedere il riflesso alterato di violenze che, eccezionalmente, hanno 'avuto successo' in rapporto alle loro ripercussioni collettive e vedere altresì nella mitologia, in particolare, un ricordo di queste stesse violenze (. .)Le religioni e le culture dissimulano questa violenza per fondarsi e perpetuarsi. Portare allo scoperto il loro segreto equivale a dare una soluzione che deve essere definita scientifica al più grande enigma di tutte le scienze dell'uomo, quello della natura e dell'origine del religioso.»44 Girard non vuole privarsi né della sincronia strutturalista, né dell'assassinio di Freud, ma «leggere l'assassinio di Freud nella prospettiva logica di Lévi-Strauss», per giungere all'ipotesi di una vittima espiatoria a fondamento di tutti i sistemi culturali. Del progetto strutturalista Girard conserva l'idea dei miti come vere e proprie «macchine per significare»: il punto è di non vanificare l'intuizione di Freud, ma di aggiungere una terza dimensione, quella storica, all'analisi strutturale, concentrata unicamente sul carattere sincronico del testo. Per Girard, interpretare la Questo, nel suo linguaggio, lo sosteneva anche Lacan, collocando la nascita delle nevrosi in una certa anomìa della famiglia, con il declino del patriarcato e la mancata capacità di regolazione sessuale da parte dell'Ideale dell'Io. In Les Complexes familiaux dans la formation de l'individu, del 1938, analizzando «la forma degradata dell'Edipo» tipica delle nostre società, «anomia che ha favorito la scoperta del complesso», Lacan esplicita questa collocazione: «Forse è a questa crisi che bisogna ricondurre l'apparizione della psicoanalisi stessa. Non è forse solo per un caso fortuito e sublime che proprio a Vienna -- allora centro di uno Stato che era il melting pot delle più diverse forme familiari, dalle più arcaiche alle più evolute -- un rampollo del patriarcato ebraico è riuscito a immaginare il complesso di Edipo».64 Solo nel disfacimento della mediazione esterna -- in termini lacaniani: col «declino sociale de l'imago paterna» e la «rimozione incompleta del desiderio per la madre» -- nasce la psicoanalisi e qualcosa come l'Edipo. Il pharmakon di cui Freud è portatore si inserisce in questa lunga storia di crisi sacrificale e rimedio rituale. Non è un caso che tra le primissime parole del vocabolario freudiano ci siano, tra le altre, termini eminentemente rituali e sacrificali quali abreazione e catarsi. Una volta assunta quest'ottica rituale, diviene particolarmente rivelatore il modo in cui Freud spiega il funzionamento della terapia analitica. L'analista deve maneggiare la traslazione, questo è l'aspetto decisivo della farmacia freudiana: «la parte decisiva del lavoro consiste nel ricreare, all'interno del rapporto con il medico, cioè della "traslazione", nuove edizioni di quei vecchi conflitti [...] La traslazione diventa dunque il campo di battaglia nel quale sono destinate a incontrarsi tutte le forze in lotta tra loro».65 Come i riti mimano la violenza originaria, così, tra le quattro mura del gabinetto analitico, nella relazione analista-paziente si celebra una seconda volta quella «guerra senza memorie né memoriali» per dirla con Althusser,66 che si è svolta nell'infanzia. Riattivata in forme maneggiabili, ora potrà forse risolversi. È il principio di ogni meccanismo immunitario: assumere un po' del veleno del pharmakon per godere di tutti i suoi rimedi.67 Per ritrovare la pace, bisogna, con molta cura, riportare un po' di guerra in vita. La psicoterapia analitica si inscrive dunque nella storia lunga delle virtù sociali del sacrificio. Ne è una sua versione sublimata. Gli ordini culturali sono tanto più efficaci -- si pensi al grande rito dello sport nelle nostre società secolarizzate -- quando riproducono questo funzionamento. 8. Libido o mimesi: Verso un bilancio «Affermare la natura mimetica del desiderio, dice Girard, significa negargli qualunque oggetto privilegiato: si tratti di un oggetto unico e ben determinato -- quale la madre nel complesso d'Edipo -- o, al contrario, di una classe di oggetti, per quanto ristretta o vasta la si supponga. Bisogna inoltre rinunciare a tutti i radicamenti psichici o biologici, ivi compreso, ovviamente il pansessualismo della psicoanalisi.» Sarà questa anche la via di Nietzsche, sostiene Girard, «il primo a staccare il desiderio da qualunque oggetto» attraverso l'elaborazione del concetto di «volontà di potenza», inteso come un desiderio causa sui. Conviene votarsi per intero alla prospettiva mimetica? Così facendo non si trasforma la teoria del desiderio in una sorta di scatola vuota, dove non intervengono mai elementi radicati nella vita istintuale o animale, quali appunto il desiderio sessuale? Non rimangono alla fin fine che un processo, il mimetismo, e delle caselle prese in un gioco di altalene? A che prezzo si compie la sostituzione della libido freudiana con la mimesi girardiana? In Girard spariscono gli oggetti. In fin dei conti per Girard tutto è potenzialmente desiderabile, purché un mediatore sia lì a designarlo: è «il mimetismo a determinare la sessualità e non il contrario». «La sessualità infatti è subordinata alla rivalità (. .), il soggetto umano non sa, al limite, che cosa desiderare».68 Se il padre-modello desiderasse non la madre ma, per esempio, una gita a Hollywood, il bambino -- a rigor di mimesi -- non perderebbe tempo a catapultarsi in un'agenzia di viaggi. Esageriamo per mostrare che, nella misura in cui pretende di essere la chiave di volta della natura del desiderio, la teoria mimetica non si rivela più soddisfacente di tante altre chiavi di lettura. In Girard sparisce l'inconscio, quel «secondo palcoscenico» come dice Freud commentando il caso Dostoevskij, dove «il rapporto tra il soggetto e il suo oggetto paterno si è trasformato, conservando il proprio contenuto, in un rapporto tra Io e Super-Io, in una nuova messa in scena di tale rapporto».69 J.D. Nasio ha mostrato la distanza esistente tra il concetto di imitazione e quello psicoanalitico di identificazione: quest'ultimo rappresenterebbe una «sovversione» rispetto al primo, concetto tradizionale della psicosociologia legato alla relazione duale tra due persone distinte A/B. Con il concetto freudiano, secondo Nasio, usciamo dallo spazio interdividuale ed entriamo nella testa di uno solo di essi. L'identificazione è dunque un concetto assolutamente non riducibile a quello tradizionale di imitazione psicologica o di mimetismo animale. Esso rimane fondamentalmente inconscio: «il padre che il bambino imita è una persona; l'altro padre, morto, con il quale l'io si identifica, è una rappresentazione psichica inconscia». In Girard sparisce la specificità delle relazione genitoriale. «Il parricidio e l'incesto non hanno un'origine famigliare: l'idea è un'idea da adulti e da comunità in crisi, che non ha alcun rapporto con la prima infanzia...» Ma, come si vede, l'obiezione può essere ribaltata. Se girardianamente l'Edipo è un cristallo di desiderio mimetico in azione, si potrebbe anche rovesciare il tema e dire che quelle forme pervasive di mimetismo che Girard assume come fondamento del meccanismo sociale, quel proliferare di rivali e ostacoli, sono interpretabili come riedizione nella vita adulta del triangolo intrafamigliare. Lo stesso paradigma mimetico è ricostruibile pienamente nella grammatica della traslazione, con le sue costituenti ambivalenze. Sparisce analogamente la sessualità infantile. È la totale inesperienza e vulnerabilità del bambino a farlo avanzare senza malizie su una strada minata, dice Girard, riproponendoci un'immagine angelicata dell'infanzia. È l'adulto a reinterpretare nel senso della minaccia, all'interno cioè del suo sistema culturale: è sua, non del piccolo, l'idea dell'incesto e del parricidio. Spariscono soprattutto le differenze, ricondotte tutte alla figura neutra dei doppi, e la possibilità stessa di pensare una fuoriuscita dall'andirivieni mimetico, un desiderio differente ma non reattivo nel senso di Nietzsche-Deleuze. L'Uomo girardiano può affermarsi attraverso una reale differenza, o tutt'al più esimersi dallo sprofondare nella cattiva reciprocità mimetica?70 Come suggerisce S. Kofman nel suo The Narcissistic Woman: Freud and Girard,71 «Girard, come Jung o almeno in maniera altrettanto speculativa -- dice la Kofman -- non fa che ribadire una posizione monistica».72 9. Sullo stile... per concludere Ciò che accomuna maggiormente il linguaggio di Freud e quello di Girard è un certo modo di interrogare i testi e i comportamenti umani, e dunque anche un certo stile filosofico. I loro linguaggi cioè si tengono a distanza dalla riduzione organicista dell'essere umano inteso «come contenitore di geni», come avviene in certe scienze dure contemporanee73 ma anche, all'inverso, dalla roboante filosofia intesa come veggente discorso sull'Essere, come pensiero che si compiace di non aver nulla a che fare con un discorso scientifico sull'uomo e la società. Ma malgrado i loro stili comuni, le differenze tra Freud e Girard risaltano con nettezza. Lo stile Freud è quello di considerare la teoria come un procedere zoppicando74 verso qualcosa. Lo stesso uso dei testi letterari ci pare più che altro allusivo e metaforico in Freud (vale pure per Edipo), non ontologico come in Girard. A Girard capita invece talvolta di non vedere altro, nei documenti che interroga, che sviamenti o rivelazioni di ciò che cerca: la mimesi e il meccanismo espiatorio. L. Scubla ha sostenuto che il modo totalizzante di procedere di Girard sacrifica sull'altare di una teoria perfetta la faticosa realtà che non torna e le sue differenze. Pur assumendo alcuni capisaldi della ricerca girardiana, Scubla evidenzia bene come ci siano culture senza sacrificio, mimesi di imitazione che non sfociano in mimesi d'appropriazione, desideri triangolari che non necessariamente divengono mimetici.75 Inoltre la nascita e la procreazione in molte società giocano quel ruolo di «matrice» che Girard vorrebbe attribuire al solo meccanismo vittimario. «In numerosi luoghi di La Violence et le Sacré -- afferma Scubla -- noi lo sorprendiamo a negare non solamente l'importanza ma anche l'esistenza di questa differenze. Trascinato dalla logica radicale della sua ipotesi, si abbandona lui stesso alla violenza indifferenziata di cui ci ha descritto il meccanismo, cancellando nei testi che commenta tutte le differenze e soprattutto tutte le disuguaglianze che potrebbero impedire lo scatenamento della crisi mimetica».76 Ci sono passaggi in cui Girard dà l'impressione di entrare nella coscienza dell'autore e mimarne le mosse. L'Altro diviene talvolta un Girard in embrione: come nel caso di Freud, ha visto la luce della teoria mimetica, o ne ha subodorato il profumo, ma non ha avuto la forza, o gli occhi, per sorreggere tanta rivelazione e non rimanerne folgorato. Il fascino dello stile di Girard in taluni passaggi prevale sulla fragilità delle costruzioni freudiane. Ma questo fascino è simile a quello degli oggetti troppo perfetti per essere veri. È anche il fascino dell'illusione che scaccia con fastidio la fragilità e la finitezza della ricerca, e in ultima analisi della morte. Cristo ha vinto la morte. La verità ci è stata rivelata e ora per intero arriverà ad affermarsi. «La ricerca è destinata a concludersi, dice Girard, questo vagare non durerà per sempre».77 Questa cornice rigida entro cui si è inscritta la ricerca girardiana, più che le intuizioni che la alimentano, ci sembra alla fine la pietra d'inciampo78 su cui cadono molti dei suoi lettori.
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