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La Transformazione del Ruolo dell'Educatore: Da Capitano a Educatore Professionista, Sintesi del corso di Pedagogia

La evoluzione del concetto di educatore, dalla figura inesistente a livello lessicale, alla necessità di educazione permanente e l'importanza del professionista educatore. sulla differenza tra l'educazione tradizionale e la nuova forma di formazione, le leggi applicate nell'ambito educativo e la necessità di adattamento. Inoltre, il documento introduce il concetto di 'burn out' e il ruolo dell'educatore in situazioni legate alla sessualità.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 28/03/2018

elena_collini
elena_collini 🇮🇹

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Scarica La Transformazione del Ruolo dell'Educatore: Da Capitano a Educatore Professionista e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Educatori, capitani, supereroi CAP.1 Il concetto di educatore prima non esisteva, né a livello lessicale ne come figura. Molti ancora oggi fraintendono l'educatore come un qualcosa che ha a che vedere con il comportarsi bene. E' educatore anche il genitore allora. Nel 1894 ci sono stati i Programmi elementari, cioè “l'istruzione ai maesti” del ministro Baccelli, che recitava “istruire quanto basta, educare finchè si può”, pensando alle classi popolari. Per istruzione si intende dare delle conoscenze, ma anche delle modalità per aprire la mente, per avere una visione critica, che ti permettono poi di comportarti in un certo modo. Educare invece significa dare dei contenuti ideologici e morali, si rispettano certi princici e si accettano certe condizioni sociali. I media sono statilo strumento del potere (stampa per lutero, radio con mussolini...) però oggi non sono solo questi a condizionare certe scelte. Infatti oggi questi nuovi strumenti di condizionamento ideologico sono ancora più pericolosi, in quanto mussolini controllava la radio ma era lui il referente. Oggi invece, non è realistico identificare i media con un personaggio politico preciso. I media inoltre hanno delle ambivalenze, oggi può essere conveniente aiutare il popolo, domani il ricco etc. Il '68 ha portato a grandi cambiamenti che non sono stati portati avanti a causa di chi non è riuscito a superare il concetto di classe, però le idee sono rimaste. Il concetto di educazione nuova è rimasto! E questo porta al concetto di life long learning, educazione permanente, ovvero tutte quelle situazioni in cui non vi è solo un acquisizione di conoscenze ma un acquisizione di modalità di essere, con la differenza che con il vecchio concetto di educazione, le modalità di essere sono imposte in maniera soft. In questo senso la democrazia è più subdola del totalitarismo, poiché la democrazia ti dice che puoi scegliere ma poi i modelli te li impone lo stesso. Tante cose non si sanno e non sivedono, per causalità o errori vengono fuori e allora qualcosa emerge. → tutto molto oscuro!!! Dopo il '68 però l'educazione come “cambiamento” si afferma. L'Italia in quel periodo si trovava in una situazione di privilegio, in quanto non era un paese totalmente capitalista, ma nemmeno totalmente socialista, cioè vi era il capitalismo ma anche una forma di partecipazione statale e tutto questo poteva favorire una socialdemocrazia. Ma dal punto di vista politico le cose poi non andarono bene. A volte servirebbe prendere posizioni più decise e avere meno compromessi. A tal proposito l'educatore si trova a dover attivare dei compromessi, ma in certe occasioni deve prendere decisioni precise. Nell'ambito educativo ci sono tante leggi, ma la maggior parte non sono applicate per mancanza di volontà → es. abolizione delle classi differenziali, questa integrazione è stata ostacolata perchè è mancata una cultura di adeguamento. Ancora oggi troviamo ragazzi diversabili che svolgono lezioni in stanze a parte. Le esigenze di istruzione anche negli anni '60-'70 esistevano, solo non erano visibili, però c'era qualcuno che se ne occupava. Piano piano sono poi diventati elementi di attenzione all'ente pubblico ed ecco la legge 833/78, 180/78, la 517/77 etc..... Sono nate poi una serie di problematiche che sono divenute protagoniste. Viviamo in una società che produce disagio e allo stesso tempo cerca di recuperarlo, però non lo elimina, poiché continua a riprodurlo. → es. l'immigrazione si interviene ma è un flusso continuo e alla fine non si riesce più a rispondere in maniera adeguata. In più si aggiungono le problematiche legate ai soldi. Il lavoratore sociale deve avere consapevolezza di questo sfondo e delle contraddizioni che generano disagio. E' un lavoro faticoso, poiché ci vuole una grossa motivazione, ma c'è un grosso ritorno in termini etici, effettivi e di autostima. L'educatore vive inoltre, una doppia prospettiva → da una parte deve confrontarsi con esigenze e bisogni concreti e dall'altra deve avere una visione globale. Lavorare sul piano educativo non da la garanzia che poi tutto cambi, ma nel caso specifico invece le cose cambiano davvero, un miglioramento c'è. E' un problema di cultura, occorre un cambiamento culturale, i media al massimo raccontano le storie di cambiamento → es. tirocinio formativo per 5 ragazzi/e down all'hotel a sei stelle. Ma alla fine i ragazzi tornano a casa e tutto finisce li. La tv non gli da la giusta rilevanza, solo quando ciò che è visto viene condiviso che allora si darà vero valore a chi è escluso. A firenze non aumentano le rette ai centri diurni per diversabili da anni e per questo era stato pensato di far pagare la mensa ai genitori, come a scandicci. Ma il comune di firenze non ha avuto il coraggio di dire nulla poiché ha paura di perdere voti! C'è una visione assistenzialistica, ma i diversabili possono essere aiutati a raggiungere maggiore autonomia solo con un approccio educativo. Ed è qui che entra il gioco l'educatore che è ben diverso dal volontario. Deve esserci una formazione ben adeguata per gestire la complessità che riguarda l'ambito operativo di questa professione. Negli anni '80 sono nate nuove esigenze → diversabili che escono dalla scuola, alcolismo, tossicodipendenza, anziani, minori etc.... E hanno capito che le risposte a queste esigenze sociali non potevano essere volontaristiche. Non solo in termini di impegno, ma di tempo! E' necessaria presenza quotidiana e una qualifica. Sono nate così, le prime formule di formazione professionale a livello regionale poi universitario. Il ruolo dell'educatore nel tempo è cambiato, infatti, inizialmente si ipervalutava per difendersi da tutte le altre figure professionali con cui si confrontava, e questo lo portava a fare tutto da solo. Poi c'è stato un capovolgimento infatti, l'educatore manca dela capacità critica e di valutazione delle cose. Serve una formazione forte ma anche capacità di mediazione. Inoltre, serve formazione su temi delicati come l'affettività, la morte e la sessualità → prima se ne occupava la religione o la famiglia, oggi no e c'è un po di disagio. L'ex facoltà di scienze della formazione era composta da scienze della formazione primaria e scienze dell'educazione sociale e l'unica differenza era che, l'educatore laureato in scienze dell'educazione sociale fa un colloquio e gli viene detto sì o no, mentre l'insegnante laureato in formazione primaria viene direttamente assunto e mandato nelle scuole. Anche se non ha motivazione, è incapace e picchia i bambini → Manca una deontologia del lavoro. In cooperativa c'è una cultura diversa, di volontariato e motivazione. CAP. 2 Passaggio da volontario a educatore → Tutto è legato all'ingresso di una nuova figura. Il ricercatore del magistero formava insegnanti. Il pedagogista era una figura che in relatà esisteva solo sulla carta. Poi hanno inventato il pedagogista clinico, che è stato messo da parte per la nascita della figura dello psicologo. Non esisteva la facoltà di psicologia, per cui chi si laureava in pedagogia con l'indirizzo psicologico diveniva psicologo. Esisteva anche a lettere e filosofia l'inidirizzo psicologico. A lettere e filo. Si poteva entrare solo con il liceo classico, mentre al magistero entravi solo con l'esame di ammissione (a parte chi veniva dal liceo scientifico che poteva entrare anche senza esame). Nel '69 è stato abolito l'esame di ammissione per tutti. Chi usciva dal magistero non era il pedagogo (istruttore, insegnante. Era lo schiavo grego che insegnava ai figli dei patrizi romani) ma il pedagogista (studioso di scienze dell'educazione). Nasce poi il bisogno dell'educatore professionale e così le regioni attivano il corso nell'ambito dell'istruzione professionale, corsi triennali di una scuola superiore. Quindi dopo la scuola media superiore c'era una scuola di formazione che però non era l'università. C'era una preparazione a livello universitario e una qualifica. Lezioni condotte da docenti universitari e professionisti nel settore, più il tirocinio di 1200h (400h ogni anno), con frequenza di tipo scolastico. All'inizio di questo corso, si insisteva sull'onnipotenza della figura dell'educatore oggi invece, si cerca di rivendicare il ruolo dell'educatore che non può però, sostituire le altre figure professionali. Occorre che le altre figure imparino a rispettarvi ma niente onnipotenza! Ci deve essere comunicazione e rispetto dei ruoli. Già nel '91 muore la facoltà di magistero e nasce scienze della formazione. Prima era quindi, un corso per educatore professionale extrascolastico, poi è sparito perchè anche l'educatore va nelle scuole. Quando il corso è stato attivato nell'università, la scuola regionale toscana per educatore professionale ha chiuso, ma non da tutte le parti (piemonte e lombardia). Una persona poteva dire di essere educatore professionale dopo aver fatto il corso universiterio o quello regionale. Poi nel '92 ci fu il primo contratto collettivo nazionale delle cooperative sociali. Il livello adesso si chiama D2 dell'educatore professionale ed era riservato a chi aveva il diploma del corso regionale o di un corso parificato per educatore professionale e achi si fosse laureato nella laurea quadriennale di scienze dell'educazione ad indirizzo “educatore professionale”. Poi sono finite le lauree quadriennali e nascono quelle triennali. Nasce così il corso di laurea triennale per educatore professionale a scienze della formazione, con indirizzi: socio-sanitario e socio-culturale. Nacque il corso per educatore professionale anche alla facoltà di medicina e quello di scienze della formazione fu chiamato “socio-relazionale”. Sia chi si aveva fatto la scuola regionale sia chi si è laureato in educazione sociale è un educatore professionale, assunto al sesto livello (D2). Anche se prima si pensava che chi si laureava in educazione sociale fosse educatore sociale e basta. Su questa confusione ci ha giocato medicina ma anche l'ANEP (Associazione nazionale educatori professionisti),inquadrati sotto medicina. In questi anni ha sponsorizzato menefreghismo, l’idea è quella del : passiamolo tanto chi se ne importa! Questo non è rispetto della persona, è immorale e non professionale. Nella nostra facoltà c’è sicuramente maggiore attenzione, maggiore sensibilità nei confronti dei diversamente abili… Però per esempio io mi sono ritrovato a fare dei corsi all’Elsa Morante in cui mi sono ritrovato tra le alunne una ragazzina con la sindrome di down, la quale giustamente, quando io entravo per fare lezione usciva! Usciva perché era in imbarazzo, e la ringraziavo perché tutto sommato anche io lo ero. Quindi professore riguardo alla formazione del diversamente abile forse bisognerebbe valutare caso per caso? Per esempio un’educatrice con la sindrome di down potrebbe lavorare con gli anziani? Sicuramente. Oggi il livello delle persone con la sindrome di down è molto alto dal punto di vsta cognitivo e intellettivo. E quindi i diversamente abili che non hanno la possibilità di poter lavorare, che percorso dovrebbero intraprendere una volta concluso il percorso formativo? La cosa fondamentale è la Qualità della vita. Se il lavoro è qualcosa che migliora la qualità della tua vita, perché sei in grado di farlo, benissimo! Sennò fai un percorso come quello di un Centro Diurno, ma l’importante è che tu sia all’interno di un Sistema che ti accetta e ti permette di essere quello che sei e di essere non “uguale” agli altri, ma alla “pari” nella tua diversità. Perché è importante per l’educatore scrivere testi autobiografici? Su questo ha aperto le porte Duccio Demetrio, sviluppando il concetto dell’autobiografia come “cura di sé”. Il testo autobiografico è importante anche per chi legge, è far conoscere all’altro chi sei. I ragazzi diversamente abili con difficoltà di scrittura non hanno la capacità di, allora è l’educatore che in qualche modo può narrare la sua storia. L’educatore così può far conoscere le sue esperienze di lavoro. Il diario dell’educatore non è la semplice autobiografia in cui si racconta tutto ciò che si è visto o fatto, è un diario in cui si pensa e si fa un discorso educativo, si narra con funzione formativa. Volevo parlare con lei anche degli errori e degli abusi che commette l’educatore. In base alla sua esperienza mi può raccontare degli episodi? L’errore dell’educatore è uno dei punti su cui insisto molto perché bisogna avere coscienza del fatto che quando si intraprende una professione come quella dell’educatore/educatrice si deve essere pronti a rischiare. Rischiare logicamente, non in maniera avventata. Ti racconto un episodio per farti un esempio di errore di valutazione dell’educatore. Nella nostra cooperativa attuiamo un progetto “Stasera esco” in cui i ragazzi imparano a gestire il loro tempo libero. Due anni fa, in vacanza, c’era una coppia di ragazzi che l’ultimo giorno chiese di poter dormire in camera insieme. L’educatrice si è trovata in difficoltà perché non sapeva se permetterglielo, se non permetterglielo o se avvisare i genitori per avere il permesso. L’educatrice lo ha chiesto ai genitori (errore) e infatti i genitori della ragazza hanno detto si e quelli del ragazzo no. Qui l’educatrice ha creato una situazione di aspettativa frustrata dove li ha considerati dei bambini, invece sono maggiorenni! L’educatore deve avere la capacità di fare una scelta, poi questa scelta si può mettere in discussione, ma occorre che prenda una decisione. L’errore dell’educatrice è servito? Certo, però è stata necessaria una riflessione, un’analisi, una presa di coscienza. L’educatrice ha avuto l’accortezza e l’intelligenza di dirmelo. Stiamo parlando di errori in “buona fede”, però a volte chi si cimenta nelle professioni educative fa degli errori per così dire in “mala fede”, perché magari non ha una formazione adeguata o riversa sugli utenti le sue frustrazioni… Quando l’educatore o l’insegnante è direttivo, cioè quando impone delle regole e non le condivide, sbaglia. L’educatore deve sviluppare una transizione educativa, ovvero un modo di accordarsi. Poi si può sbagliare, qualche volta ti devi imporre, ma è la base. Invece se ti poni già con delle regole non condivise fai già un errore. In alcuni casi interventi autoritari possono essere legati all’etica personale dell’educatore, invece l’etica personale deve trovare un confine rispetto alla tua professione. La gente che sbaglia deve poter rimediare, se sbaglia ancora va licenziata. Altrimenti viene penalizzato chi ha voglia di lavorare ed è deontologicamente corretto. Quale è la disposizione d’animo migliore con cui affrontare il lavoro sociale? La motivazione. Il credere in quello che fai, avere piacere in quello che fai, ma ti deve dare anche soddisfazione. Quindi fare le cose con piacere e poi avere una mente aperta e disponibile. Cosa comporta all’utente avere un educatore, un insegnante rigido, dogmatico? Quali danni può creare, cosa può suscitare? Crea intanto uno stato d’animo di accettazione per cui l’allievo o l’utente perde la dimensione critica e accetta tutto quello che gli arriva. In più è frustrato a non fare certe cose, e se invece le fa si sente in colpa. Quanto più un Sistema è rigido e vuole apparire immacolato, tanto più spesso e volentieri è marcio dentro. Laddove c’è una rigidità dogmatica è inevitabile che le cose vadano male. Quindi bisogna essere aperti e accettare i cambiamenti, a mettersi sempre in discussione e soprattutto a formarsi. L’educatore è un agente di cambiamento e il cambiamento ci deve essere sempre. Portarsi dietro l situazioni drammatiche è inevitabile, perché non si ha a che fare con numeri ma con persone, quindi quando finisci di lavorare non puoi chiudere completamente con quello che è successo a lavoro. Se ci riesci allora non fare l’educatore, perché significa che non te ne import nulla. Però se lasci aperto devi trovare un equilibrio. Bisogna andare a lavorare in un certo senso “freschi” altrimenti si assorbe soltanto e non si restituisce qualcosa di positivo, deve esservi interscambio, condivisione delle esperienze e arricchimento reciproco. Riguardo alla vita personale cosa occorre secondo lei per continuare a mantenere e possibilmente incrementare la motivazione a fare un lavoro sociale? A volte c’è il rischio di stare troppo tempo in una stessa dimensione, cioè di lavorare troppo tempo nello stesso Servizio Educativo. L’ideale sarebbe cambiare servizio ogni tanto perché poi rischi vermanete di fossilizzarti, di perdere motivazione e stimoli. Bisogna far sperimentare il cambiamento. Purtroppo è difficile fare una vera e propria rotazione nei vari servizi della cooperativa per una questione di ore (magari un servizio dura 15 ore, uno 20 ecc). CAP. 5: EMOZIONI E TABU’ (COME GESTIRE LE SITUAZIONI DIFFICLI) Ci sono delle modalità di comportamento più strettamente legate a quello che noi siamo e che ci coinvolgono emotivamente in maniera molto più forte. Queste modalità invece ci limitano nelle nostre azioni, nella libertà di esprimerci e di accettare la verità dell’altro. Sono i casi in cui le verità diventano abbastanza assolute. Sono delle situazioni che culturalmente ci hanno condizionato nel nostro modo di pensare, nel nostro modo di comportarci, nel nostro modo di vedere le cose e quindi nel nostro modo di porci nei confronti degli altri. Cosa succede quando l’educatore o l’insegnante nel lavoro con gli utenti affronta argomenti legati alla sessualità? Quando il professionista dell’educazione affronta la dimensione della sessualità comincia a trovarsi in difficoltà. È un aspetto molto carente nella formazione dell’educatore/trice. Spesso in questi ultimi venti anni mi è capitato di andare a fare corsi di formazione sulla sessualità a educatori, insegnanti e genitori perché anche loro si trovano di fronte a queste problematiche. Le paure degli adulti ad affrontare il tema, a rimandare continuamente l’argomento per “proteggere” i bambini può diventare un’arma che si ritorce contro i bambini stessi. I genitori dovrebbero imparare a superare i condizionamenti dei tabù e a fare una corretta educazione sessuale ai loro figli. Quindi sta anche alle figure educative occuparsi di ciò, dare aiuto sia ai genitori che ai figli. Nei comportamenti legati alla sessualità siamo fortemente condizionati dalla religione, e in realtà è fondamentale avere la capacità di cogliere quegli aspetti che rappresentano il confine tra l’etica personale e l’etica professionale (esempio: se io sono omofobo e ci sono due ragazzi gay non posso dirgli: no che schifo non si fa!). Quale oggettività, quale obiettività scegliere riguardo a tematiche come la morte e la sessualità, che chiamano in causa una visione religiosa? L’oggettività non esiste. Ci sono delle situazioni in cui devi fare delle scelte. Se l’alunno o l’utente è di un’altre religione e ha dei rituali diversi io lo devo rispettare. Un educatore spesso si trova in situazioni in cui è necessario mettere da parte l’etica personale per attenersi a quella professionale. Una volta lei mi parlò dell’importanza di separare il livello individuale da quello professionale nell’affrontare situazioni drammatiche. È pericoloso farsi coinvolgere eccessivamente dal dolore dell’utente? In caso di morte è necessario assorbire e rielaborare con loro il lutto. La serenità sta nel sostenere il tutto : “dolore sereno”. Ad esempio quando morì Federica, una ragazza 17enne del centro diurno : era la Vigilia di Natale e durante la festicciola le è preso uno stato di soffocamento. La cosa drammatica è che Federica è rimasta per ore distesa su un tavolaccio ad aspettare l’accertamento dei medici. Quando il centro ha riaperto il 27 nessuno, nemmeno gli operatori, sapevano spiegare agli utenti ciò che era successo. Così quando arrivai (prof. Mannucci) iniziai a parlare e i ragazzi si dimostrarono molto più maturi degli educatori. Con questo, non gliene faccio mica una colpa, dico solo che queste situazioni vanno affrontate con serenità. Altro caso è stato quello di Francisco, ragazzo colombiano che frequentava il centro diurno “il faro”, adottato dallo zio perché orfano e residente a scandicci. Un sabato il centro rimane chiuso, erano stati avvisati tutti, ma a quanto pare gli zii d Francisco se ne sono dimenticati e anche i servizi che normalmente lo accompagnano. Così quel sabato Franci arriva al centro e viene lasciato lì dall’autista del pulmino che pensava fossero tutti in ritardo. La domenica mattina mi telefonano gli zii di franci per dirmi che non è tornato a casa. A questo punto gli educatori entrano in ansia e decidono di lasciare i ragazzi al centro con un solo educatore per andare a cercare franci. Poi se la prendono con me perché dicono che non ero coinvolto in questa faccenda… fatto sta che franci viene ritrovato dopo alcuni giorni sulle colline di scandicci, morto. In questa situazione gli educator/trici hanno perso il loro equilibrio e hanno avuto bisogno di una lunga supervisione per più di un anno. Quando serve realmente la supervisione? Da chi va fatta? Non basta dire “si fa la supervisione”, bisogna vedere come e chi la fa e in che modo sa gestire effettivamente le dinamiche. Spesso questa rischia di diventare una terapia di gruppo in cui gli educatori tirano fuori tutte quelle cose che magari non hanno il coraggio di dire normalmente, ed è pericoloso perché è come se tu fossi protetto da una maschera. È uno sfogo che crea malesseri tra colleghi e che spesso s riversa sugli utenti. Se c’è un problema che sia il soggetto ad andare in analisi, se c’è un problema cn un collega che vadano loro due da uno psicologo e facciano un percorso terapeutico. La supervisione ha senso dal punto di vista educativo, nn psicologico. Un percorso psicoterapeutico dovrebbe essere obbligatorio per gli educatori sociali, anzi dovrebbe essere pagato dallo stato. CAP.6 LA SUPERVISIONE E IL RAPPORTO CON I COLLEGHI (I PERICOLI DEL MOBBING E DEL BURN OUT) Non ci sono regole generali che ti dicono esattamente cosa fare, quando, come e perché. Secondo lei come bisogna orientarsi? Su cosa si deve basare l’educatore quando prende delle decisioni e stabilisce delle strategie educative? Non esiste una regola assoluta, una verità assoluta, una modalità di lavoro di un educatore unica e stabilita una volta per tutte, per cui ci si può trovare a fare due cose opposte che però in quel momento hanno un significato, anche se poi la finalità deve essere quella dell’effettivo cambiamento, ma ti devi sempre basare sulle persone. Il cambiamento reale avviene solo se c’è l’accettazione e la piena condivisione del soggetto. Perché ci sia un cambiamento reale è necessario che il soggetto capisca quali sono i suoi bisogni. Il cambiamento avviene in relazione ai bisogni della persona, quindi si tratta di aiutare la persona a soddisfare questi suoi bisogni, a patto che li riconosca. Non sempre sono chiari, non è sempre facile prendere coscienza dei propri bisogni e quindi occorre lavorare anche su quelli e a volte questi bisoni vengono recepiti dal soggetto, ma non dalla famiglia o dalla società intorno, quindi il problema è molto complesso.
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