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Migrazioni in Europa: Stime e Tendenze, Dispense di Pedagogia

Le stime effettuate dall’EUROSTAT sul numero di individui non cittadini presenti in Europa al 1° gennaio 2010 e la storia dei movimenti migratori in Europa dal secondo dopoguerra. Vengono descritti i principali progetti educativi promossi dall’UE e gli sviluppi del fenomeno migratorio in Italia e in altri paesi europei. Inoltre, vengono trattate le politiche migratorie adottate da paesi come la Gran Bretagna, la Germania e la Francia.

Tipologia: Dispense

2016/2017

Caricato il 08/07/2017

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Scarica Migrazioni in Europa: Stime e Tendenze e più Dispense in PDF di Pedagogia solo su Docsity! INTRODUZIONE A partire dalla seconda metà del secolo scorso in Europa una consistente mole di persone si è mobilitata da un paese all’altro per motivi di lavoro o di studio; questo fa molto riflettere e sui molteplici mutamenti sociali, politici ed economici. Secondo le stime effettuate dall’EUROSTAT, il numero totale di individui che non sono cittadini del paese in cui risiedono ma sono dimoranti nel territorio di uno Stato membro dell’UE, alla data del 1° gennaio 2010 era di 32,5 milioni di persone (quindi più di un terzo della popolazione era costituito da cittadini di un altro Stato membro dell’UE. In un contesto simile sta emergendo la necessità di sperimentare delle modalità di convivenza basate sul rispetto per le differenze etniche e culturali; ma purtroppo oggi è ancora molto difficile raggiungere quella pacifica convivenza poiché si ritiene che gli immigrati invadano i nostri confini cercando di sostituirsi a noi. Purtroppo gli eventi terroristici hanno influito notevolmente sulle politiche migratorie promosse dagli organi istituzionali dell’Unione Europea. Tutto questo porta ad un atteggiamento di chiusura delle popolazioni locali nei confronti degli immigrati e delle differenze culturali e valoriali di cui costoro sono portatori, spesso percepite più come una minaccia alle proprie tradizioni culturali e al proprio status economico e sociale che come un arricchimento. A questo punto se vogliamo realmente creare le basi per una convivenza pacifica e costruttiva, dobbiamo attivarci per dare vita ad un progetto educativo incentrato sulla consapevolezza che l’attuale pluralismo culturale esige un profondo cambiamento nel modo di pensare e di vivere. CAPITOLO 1 A partire dalla seconda metà del ‘900 le migrazioni diventarono sempre più diffuse, tanto da spingere l’Unione Europea ad adottare una serie di provvedimenti diretti a sollecitare gli Stati membri a provvedere allo sviluppo di una politica comune a favore dell’immigrazione; infatti vennero creati numerosi progetti educativi promossi dall’Unione o da altri organismi internazionali, come ad esempio: l’ONU allo scopo di tutelare i diritti umani universali e di indicare dei principi guida volti a costituire dei riferimenti essenziali per dare vita a politiche comuni interculturali. Tra i documenti più significativi ci sono: • la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e firmata a Parigi il 10 dicembre 1942; • la Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, redatta dal Consiglio d’Europa nel 1950 ed entrata in vigore il 3 settembre 1953; • la Convenzione internazionale contro il razzismo e per l’eliminazione di ogni forma razziale del 1966; • la Convenzione Internazionale sui Diritti del Fanciullo del 1989; • la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europa del dicembre del 2000. L’impegno dell’Unione Europea a difendere i diritti umani ha come scopo quello di creare tra i paesi membri e i paesi terzi un clima di rispetto reciproco per le differenze culturali, etniche e religiose, volto a favorire un dialogo interculturale e porre le basi per una convivenza civile disponibile a riconoscere il valore dell’altro in quanto essere umano. Al riguardo quindi, la stessa UE ha anche inteso dimostrare chiaramente l’intenzione di far diventare questi principi patrimonio comune attraverso la realizzazione di progetti culturali e formativi. Su un piano più generale l’UE ha esortato i paesi membri ad ‘’investire nelle persone, combattendo l’ineguaglianza e la povertà’’; a tale proposito vale la pena ricordare anche il documento contenente le dichiarazioni della Presidenza del Consiglio dell’UE del maggio 2008, il quale pone l’accento sulla necessità di impartire un’istruzione di elevata qualità e di investire con maggiore efficacia nella creatività dell’uomo’’ (essenziale per il raggiungimento del successo in un mondo globalizzato). Altra importanza che viene data da questo documento è riguardo ai problemi legati ai giovani, all’istruzione, ai flussi migratori nonché al dialogo interculturale. Considerando anche la notevole carenza di personale specializzato in alcuni settori, il Consiglio Europeo esorta la Commissione a presentare un proprio documento di valutazione sui futuri bisogni europei in base alle competenze fino al 2020, tenendo anche conto delle ripercussioni dei cambiamenti tecnologici e dell’invecchiamento della popolazione. Una politica comune in materia di migrazione trova la sua concreta attuazione nel cosiddetto Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo, decretato dal Consiglio Europeo alla fine del 2008 volto a una collaborazione tra UE e stati membri sul fenomeno dell’immigrazione. Però non si può non rilevare che negli ultimi anni si registra una maggiore esistenza di problemi comuni riguardanti una preoccupazione di fondo in merito alla sicurezza delle frontiere e al crescente numero di clandestini e di coloro che richiedono asilo. Purtroppo l’aiuto dato si è dimostrato per alcuni, spunto per attacchi terroristici. Tali avvenimenti non solo hanno scosso uno Stato come l’America, che sembrava inattaccabile, ma hanno sconvolto il mondo intero e hanno suscitato ripensamenti in merito all’opportunità di mantenere in vita i tradizionali modelli di integrazione delle comunità straniere. Per quanto riguarda il flusso migratorio, nel nostro Paese il fenomeno si è sviluppato tardi rispetto al altri Paesi come la Francia, la Gran Bretagna, la Germania, la Svizzera e gli Stati Uniti i quali registrano ancora oggi il maggior numero di immigrati. Per comprendere appieno l’evoluzione del fenomeno in questi paesi è istituzioni europee che avrebbe condotto 2 anni dopo alla firma dell’Atto Unico Europeo (AUE); con tale atto la realizzazione del marcato interno diveniva ufficialmente un obiettivo della CEE e si stabiliva un ampliamento delle competenze della Commissione. Al vertice della cooperazione politica l’art. 2 poneva il Consiglio Europeo, un organo politico al massimo livello. L’AUE prevedeva inoltre la costituzione di un Comitato politico composto dai direttori politici dei Ministeri degli esteri e di un gruppo di corrispondenti europei. Tra la fine degli anni 80’ e l’inizio degli anni 90’ le misure adottare dalla cooperazione europea in materia dei visti di soggiorno e delle sanzioni per il trasporto di clandestini, si imposero come punti cruciali di confronto nell’ambito della cooperazione europea e delle politiche migratorie internazionali e portarono ad una serie di accordi tra i vari Stati membri dell’Unione Europea. All’inizio degli anni 90’ l’acuirsi del fenomeno migratorio e il completamento del processo di unificazione europea volto a stabilire la libera circolazione delle persone all’interno della Comunità, pose in risalto la questione dell’eterogeneità delle politiche migratorie europee e del trasferimento dei controlli sugli ingressi dalle frontiere nazionali alle frontiere esterne dell’Europa. In questo periodo si aggiungono altri poli migratori, tra cui: il Giappone, Singapore, Hong Kong, Stati Uniti d’America, Australia e Canada. Negli ultimi decenni del 900’, la cooperazione Europea consapevole della necessità di avviare una stretta collaborazione tra gli Stati membri in campo economico e decisa a dare una concreta attuazione al Trattato di Roma, realizzò una concertazione intergovernativa (pratica di governo basata sul confronto e la partecipazione alle decisioni politiche) volta alla realizzazione di un mercato interno e una formale assunzione da parte degli Stati aderenti, dell’impegno di adottare politiche comuni nella lotta contro l’immigrazione clandestina dei lavoratori cittadini di paesi terzi. Il primo importante esito di una simile cooperazione fu l’Accordo di Schengen del 14 giugno del 1985 sottoscritto inizialmente soltanto dalla Francia, dalla Germania, dai Paesi Bassi, dal Belgio e dal Lussemburgo e solo in seguito firmato da altri paesi. Tale accordo stabiliva la graduale soppressione dei controlli alle frontiere comuni dei paesi contraenti, in modo da consentire la libera circolazione delle persone all’interno dello spazio comunitario: il cosiddetto ‘’spazio Schengen’’ (dal nome della prima sede dove furono firmati gli accordi). In quella sede tutti gli Stati firmatari si impegnavano ad abolire tutte le frontiere interne sostituendole con un’unica frontiera esterna, inoltre concordavano di applicare all’interno del suddetto spazio, regole e prassi comuni in materia di visti, soggiorni temporanei, richieste d’asilo e controlli alle frontiere. Contemporaneamente allo scopo di garantire un efficace sistema di sicurezza all’interno dello ‘’spazio Schengen’’, furono attuate le cosiddette ‘’misure compensative’’ volte a migliorare e rafforzare la cooperazione permettendo una migliore difesa della sicurezza interna dei paesi membri contro la criminalità organizzata. A tale proposito fu creato il Sistema d’Informazione Schengen (SIS), ossia un complesso sistema comune informatizzato di raccolta dati avente il compito di raccogliere le informazioni e i dati relativi all’identità di determinate categorie di persone e di beni, provenienti dalle sezioni nazionali dei singoli stati e di renderle accessibili a tutti gli altri. La convenzione di Schengen, firmata il 19 giugno 1990 dai cinque Stati membri, ed entrata in vigore nel 1995, integra l’Accordo e stabilisce le condizioni di applicazione e le garanzie connesse all’attuazione della libera circolazione. Sia l’Accordo, sia la Convenzione vanno a formare l’Acquis di Schengen, ossia un insieme di atti legislativi comunitari da conservare. Tra gli obiettivi principali dell’Accordo, oltre a quelli legati alla creazione di un grande mercato unico e di un’unione monetaria, troviamo anche quelli relativi alla creazione di uno spazio in cui siano riconosciuti a tutti i cittadini gli stessi diritti, compreso quello di poter circolare liberamente. Pin piano iniziarono ad essere firmate delle trattative che avevano un approccio più aperto e disponibile nei confronti degli immigrati, come ad esempio: La Convenzione di Dublino (sottoscritta il 15 giugno 1990 ed entrata in vigore il 1° settembre 1997) e in seguito il Trattato di Maastricht (firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1°novembre 1993). Con quest’ultimo la Comunità economica assorbì le altre due comunità storiche (la Comunità del carbone e dell’acciaio e la Comunità dell’energia atomica) prendendo il nome di Comunità Europea e inserendosi nella nuova costituzione. Oltre a tali modifiche il Trattato di Maastricht prevedeva anche l’istituzione di una ‘’unione economica e monetaria’’, ampliava le funzioni del Parlamento Europeo e istituiva una ‘’cittadinanza europea’’ per i cittadini degli Stati membri. Tale trattato conferiva all’Unione Europea la forma di una struttura con tre pilastri, dei quali il primo prevedeva il ‘’metodo comunitario’’, mentre il secondo e il terzo si basavano sul ‘’metodo della cooperazione governativa’’ e si occupavano rispettivamente della Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e della Cooperazione nell’ambito della giustizia e degli affari interni (GAI). Il trattato, inoltre istituiva una cittadinanza europea, rafforzava i poteri del Parlamento e varava l’unione economica e monetaria. Per quel che ne concerne le politiche migratorie, pur essendo riconosciute tra le questioni di interesse comune, restavano escluse dalla competenza comunitaria ed erano state inserite nel terzo pilastro. Nel complesso l’istituzione dell’Unione Europea avviò una nuova fase della storia del nostro continente e si configurò come un momento decisamente significativo per il futuro dell’Europa. Stessa cosa possiamo dire dell’UEM. Alcuni Paesi come l’Austria, la Svezia, la Finlandia all’inizio erano rimasti volutamente ai margini della Comunità, in seguito nel 1995 entrarono a farne parte. L’ingresso dei nuovi paesi rese ancora più evidente la necessità di una revisione del Trattato di Maastricht, soprattutto in materia di politica estera e di sicurezza comune (PESC); le nuove modifiche vennero attuate nell’ottobre 1997 ad Amsterdam ed entrò in vigore il 1999. A questo punto questo testo prese la consapevolezza dei limiti presenti sia nel Trattato sull’Unione Europea sia nei Trattati istitutivi delle Comunità Europee in materia di immigrazione e asilo e affrontò tali questioni trasferendole dal Terzo pilastro al Primo; questo implicava un cambiamento importante, poiché consentiva il passaggio dal metodo di cooperazione intergovernativa a quello comunitario favorendo un potenziamento del ruolo del Parlamento Europeo e della Corte di Giustizia. Il Trattato di Amsterdam ha segnato una svolta importante per quel che concerne le politiche migratorie dell’Unione Europea , poiché ora con il loro trasferimento dal Terzo al Primo pilastro, separa le questioni connesse all’immigrazione da quelle di natura più specificatamente giudiziaria. Tale trattato ha aperto una fase importante infatti i governi degli Stati membri inizieranno ad introdurre nei loro ordinamenti giuridici una serie di disposizioni legislative volte da un lato ad agire sulle cause dell’immigrazione e dall’altro ad assicurare un trattamento non discriminatorio nei confronti dei cittadini dei paesi terzi residenti legalmente nell’Unione. Su questo versante un significativo passo in tal senso fu compiuto al Consiglio Europeo di Cardiff che prendeva in considerazione in un’ottica nuova le problematiche dell’immigrazione, dell’asilo e della protezione temporanea. Tuttavia a determinare ufficialmente l’omogeneità delle politiche migratorie fu il Consiglio di Tampere dell’ottobre 1999 con cui si favoriva l’immigrazione legale e si ostacolava quella clandestina. Fu segnalata l’esigenza di assicurare agli immigrati un progressivo miglioramento della condizione giuridica che prevedesse per quelli da più tempo legalmente residenti diritti e doveri simili a quelli dei cittadini. A tal fine fu decisa anche l’introduzione di misure comuni per combattere il razzismo, la xenofobia e ogni forma di discriminazione economica, sociale e culturale. A seguito del Consiglio di Tampere, la Commissione Europea inviò al Consiglio e al Parlamento due ‘’comunicazioni’’ riguardanti rispettivamente l’asilo e l’immigrazione che furono adottare nel novembre del 2000. In materia di asilo la Commissione sottolineò l’importanza di prevenire un’immigrazione illegale legata alla richiesta di asilo e di favorire invece un’immigrazione magari legata a rapporti di partenariato (quindi sviluppo economico, sviluppo del territorio e integrazione sociale). In materia di immigrazione, invece, riconosciuto il diritto di ogni Stato membro di limitare l’ammissione dei cittadini non comunitari, suggerì di collegare il permesso di soggiorno ad un permesso di lavoro valido per alcuni anni. Per l’Unione Europea iniziava a diventare importante la pluralità di culture che costituivano una ricchezza per il Paese; al riguardo la stessa Commissione esprimeva la convinzione che occorresse rispettare tali differenze senza però dimenticare i nostri principi e i nostri valori. Nel complesso le proposte della Commissione segnavano un profondo cambiamento nel modo di rapportarsi al processo migratorio e mostravano CAPITOLO 2 All’indomani degli eventi terroristici di Londra la constatazione che gli attentatori fossero cittadini inglesi di origine mussulmana provocava un forte sconcerto nel mondo politico e istituzionale britannico e suscitava anche una serie di dubbi sulla validità del modello multiculturale adottato sin dall’inizio dalla Gran Bretagna e da altri paesi europei come risposta all’immigrazione di massa. Purtroppo l’errore è stato far convivere etnie differenti sullo stesso territorio e questo ha portato a numerosi scontri tra comunità senza mai riuscire a trovare un punto d’incontro. A questo proposito, nel 2006, Gordon Brown, cancelliere del governo Blair, sosteneva la necessità di migliorare il modello di integrazione multiculturale inglese codificando un patto. In merito a tale questione ha espresso la sua opinione anche l’attuale cancelliera tedesca Merkel, la quale sostiene che il modello di una Germania multiculturale nella quale convivono benevolmente culture differenti sarebbe ‘’completamente fallito’’ e a questo proposito ha dichiarato che nonostante ci sia il bisogno e la volontà del suo paese di continuare ad accogliere gli immigrati come manodopera, in cambio costoro devono integrarsi e adottare la cultura e i valori tedeschi. Riconoscere i limiti di una società multiculturale non significa però rinunciare al rispetto delle altre culture e al dialogo che è sempre un fattore positivo; ma non deve trattarsi neanche di tolleranza, perché di solito si tende a tollerare la persona che sia considera inferiore. Rispettare le altre culture è un’operazione più complessa, solo rafforzando le politiche di uguaglianza e tendendo a mente i diritti dell’uomo, si possono accettare le differenze. Non ci può essere un’integrazione senza il dialogo interculturale e quindi senza il confronto tra le diverse culture. Se dobbiamo costruire un’identità comune, è necessario che essa si fondi sui valori di ospitalità verso gli altri e di rispetto delle pari dignità di ogni persona. Si sa come la mancanza di apertura e di reciproca comprensione delle differenze possa sfociare in seri conflitti relazionali che, se gestiti in maniera inadeguata, finiscono per alimentare atteggiamenti di esclusione e di intolleranza e tendono a favorire la nascita di comportamenti xenofobi e violenti. Per costruire un’identità europea, questa deve basarsi su valori fondamentali condivisi, sul rispetto del nostro patrimonio comune, sulla diversità culturale e sul rispetto della dignità di tutti. Fondamentale a questo proposito è il dialogo interculturale volto a rafforzare la cooperazione e la partecipazione e permettere alle persone di svilupparsi e trasformarsi e infine a promuovere la tolleranza e il rispetto per gli altri. A questo punto bisogna soffermarsi sulle politiche migratorie adottate da alcuni Stati: la Gran Bretagna, la Germania, la Francia che si sono caratterizzati non solo dal numero di immigrati rispetto ad altri Stati europei, ma anche per una solida tradizione di accoglienza dei lavoratori stranieri. I differenti approcci all’immigrazione trovano una spiegazione nelle vicende politiche e sociali che hanno contrassegnato la storia dei singoli paesi. Per esempio in Gran Bretagna l’immigrazione fu promossa a seguito dell’estensione dei diritti di cittadinanza inglese a tutta la popolazione del Commonwealth. Bisogna sottolineare che, a differenza della Germania e della Francia, in Gran Bretagna la questione dell’inserimento degli immigrati (soprattutto quelli provenienti dalle colonie africane e dal sud-est asiatico, portatori di culture e valori molto diversi rispetto ai modelli britannici) si impose molto presto all’attenzione governativa poiché erano malvisti dagli autoctoni, in particolare per il colore della pelle. Al riguardo basti pensare che nei primi anni 50 la percentuale di immigrati provenienti dall’Africa, dall’Asia e dai Caribi era ancora piuttosto esigua, ma nel gito di pochi anni raggiunse nella Gran Bretagna dei livelli decisamente più alti. I problemi che si presentarono non furono pochi, nei loro confronti infatti, la popolazione locale reagì con una serie di proteste e di atti razzisti che portarono il governo inglese a varare una serie di provvedimenti diretti ad arginare il più possibile l’ingresso di questi immigrati. Nello specifico nel 1962 fu emanato il primo Commonwealth Immigrants Act, volto a regolare i flussi migratori tramite un sistema di visti d’entrata. Nel 1968 una seconda emanazione che però distingueva gli immigrati tra Patrials e non-patrials (cioè coloro che pur possedendo un passaporto britannico, non potevano godere del diritto di residenza nel Regno Unito, garantito solo ai figli di genitori immigrati). Infine a partire dal 1971, proprio allo scopo di limitare l’entrata di lavoratori immigrati di particolare paesi stranieri che non erano graditi alla popolazione locale, fu emanato l’Immigration Act, che sostituì tutta la precedente legislazione sull’immigrazione e introdusse delle norme più restrittive volte a controllare e trattenere,soprattutto tramite la richiesta di visto, i flussi provenienti da particolari paesi. In considerazione delle forti tensioni sociali createsi al riguardo, a partire dalla seconda metà degli anni 60, il governo britannico, decise di tutelare anche le minoranze etniche da possibili episodi di razzismo; fu emanata quindi la prima legge contro la discriminazione razziale nei luoghi pubblici nel 1965. Per un’equità di trattamento nel 1976 fu emanato il terzo Race Relations Act, al quale seguì l’istituzione della Commission for Racial Equality, avente il compito di indagare e denunciare possibili episodi di discriminazione razziale individuale o collettiva, verificatasi sul posto di lavoro o all’interno dei servizi pubblici. Quindi nonostante i limiti posti dalla politica inglese, agli immigrati sono stati riservati diversi privilegi tanto da permettere loro anche di riunirsi in associazioni ed essere eletti in Parlamento. Situazione del tutto diversa è quella che si ha in Francia, dove sino al 1981 le stesse associazioni degli immigrati furono assai contrastate e proibite con la motivazione che il diritto di associazione spettava solo ai cittadini. C’è però un aspetto positivo nel dibattito sugli stranieri in Francia: l’integrazione verte sugli immigrati senza distinzione di razza e di etnia, cosa che invece nel Regno Unito non accadeva, poiché erano proprio i problemi principali. Si possono osservare differenze nei progetti di accoglienza di questi due paesi. Nel caso della Gran Bretagna la scelta del modello multiculturale denota un approccio molto più aperto e tollerante nei confronti delle culture e delle tradizioni della popolazione immigrata; la stessa cosa non si può rilevare in Francia, dove la politica governativa in materia di immigrazione è caratterizzata da un’impostazione assimilazionista (integrazione fondata su uno scambio), infatti in questo paese il processo d’integrazione e l’assegnazione della cittadinanza sono sempre stati subordinati all’abbandono da parte degli immigrati della propria identità etnico-culturale e all’assimilazione della cultura, della lingua e degli usi e dei costumi nazionali. Probabilmente il modello assimilazionista era stato dettato dalla storia della Francia in quanto dopo la rivoluzione del 1987, vide un alto tasso di mortalità e una forte caduta del tasso di natalità ma alla ripresa del paese nel 1820, quando iniziò ad industrializzarsi, la richiesta della forza lavoro era notevole ma non poteva essere appagata, tanto da richiedere altra forza lavoro come immigranti. Fino agli anni 70 il governo francese preferì reclutare la manodopera dai più vicini paesi latini e cattolici, in particolare dal Belgio, dall’Italia, dalla Spagna e dal Portogallo. Tale scelta non era casuale,in quanto assumendo immigrati provenienti da pesi culturalmente affini alla Francia per religione, lingua, usi e costumi, il processo di assimilazione sarebbe stato più gestibile. In seguito la forza lavoro proveniente da queste nazioni cominciò a scarseggiare e iniziarono a giungere immigrati anche da zone più lontane e questi cambiamenti non furono senza conseguenze. La politica di assimilazione iniziava a stare stretta a tutti gli immigrati, anche perché la Francia non prevedeva per loro nessun tipo di aiuto per i loro concreti bisogni. Tutto questo provocò ben presto una forte tensione sociale a partire dagli anni 80’, fino ad arrivare agli anni 90’ che ha visto come protagonisti i giovani immigrati di seconda e terza generazione, decisi a rivendicare il riconoscimento formale della loro cultura di origine. In questa maniera la Francia è stata costretta a dare attenzione ai giovani in quanto, non essendo più silenziosi come i loro genitori che per la prima volta migrarono, tendono a mettere in crisi i precetti delle istituzioni francesi. Ma con il passare degli anni la mancanza di risposte adeguate da parte del governo e gli effetti della povertà, della disoccupazione e della discriminazione sociale e razziale, hanno talmente esasperato gli animi da portare nell’autunno del 2005 ad un’ondata di scontri senza precedenti. Tutto questo ha indotto il governo francese ad una riflessione sullo statuto della democrazia francese e dei suoi modelli, si è iniziato a prendere coscienza del fallimento del modello assimilazionista e dell’inevitabilità di ripensare le politiche migratorie come un riconoscimento di diverse etnie presenti nel paese. Per quanto riguarda la Germania, non aveva una politica assimilazionista come la Francia. Inizialmente in questo Paese la mancanza di forza-lavoro fu colmata dall’ingresso di rifugiati di origine tedesca provenienti dall’Europa centro-orientale e dovevano essere preferibilmente dirette verso gli immigrati provenienti da quei paesi con i quali la Spagna aveva concluso accordi sui regolamenti dei flussi. Per quanto riguarda la cittadinanza bisogna rilevare che il 9 gennaio 2003 è entrato in vigore un nuovo Codice che autorizzava la cittadinanza ai discendenti degli esiliati durante la guerra di Spagna e ai figli nati da madre spagnola e padre straniero (questi a 18 anni dovranno scegliere se mantenere o meno la cittadinanza spagnola ottenuta per nascita). Anche l’Italia a partire dagli anni settanta dovette affrontare la difficile questione dell’arrivo dei massicci flussi d’immigrazione, e non con poche difficoltà confrontandosi con una situazione decisamente nuova, essendoci state in precedenza più emigrazioni che immigrazioni (come era successo anche in Spagna). Non c’erano per questo motivo particolari difficoltà ad entrare in quanto non c’erano normative sull’immigrazione, di conseguenza la condizione di illegalità era molto sviluppata. Solo alla fine degli anni 70’ l’Italia si era resa conto di essere diventata meta a tutti gli effetti di flussi migratori. Dovettero passare 10 anni prima di avere una regolamentazione per le immigrazioni; nel frattempo nel 1981 ci fu la convenzione OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) per un’uguaglianza di opportunità e di trattamento dei lavoratori immigrati. Solo il 30 dicembre 1986 venne approvata la Legge che dava importanza al collocamento e trattamento dei lavoratori extracomunitari immigrati e cercava di eliminare le immigrazioni clandestine. Trovò la piena attuazione, però, nell’art.42 e 55 del 1999 recante il Regolamento di attuazione del testo unico. Il testo della legge garantiva a tutti i lavoratori extracomunitari legalmente residenti nel territorio italiano e alle loro famiglie ‘’parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti rispetto ai lavoratori italiani’’. Un altro aspetto importante sono le competenze riconosciute alle regioni che nello specifico avrebbero dovuto provvedere alla programmazione di corsi di formazione e di riqualificazione professionale dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie. Verso la fine degli anni 80’ e inizio degli anni 90’ si assiste ad un aumento delle nazionalità degli immigrati nel nostro territorio; questi mutamenti erano collegati a diversi eventi esterni come la caduta del muro di Berlino e il crollo del comunismo nei paesi dell’Est e ad eventi interni: la richiesta di manodopera non specializzata nelle regioni del nord e di lavoratori stagionali per l’agricoltura nel Meridione. Di fronte al significativo aumento di immigrati, il governo italiano, erroneamente convinto dell’eccezionalità del fenomeno, iniziò a varare una serie di provvedimenti di natura emergenziale, volti a tenere sotto controllo i problemi in attesa di un ridimensionamento del fenomeno. Ma ciò che veniva mostrato era solo l’inadeguatezza del sistema giuridico italiano e i notevoli limiti di un apparato amministrativo da un lato troppo lento, dall’altro esageratamente restrittivo nelle norme. A ridosso delle elezioni europee del 1989 i due governi che si succedono (De Mita e Andreotti) si mostrano molto solleciti a intervenire sulla materia per l’approvazione di una nuova legge necessaria per gli eventi che si stanno succedendo. A questo proposito il vicepresidente del Consiglio dei Ministri, Claudio Martelli si espresse a favore di una ‘’legislazione tollerante’’ prendendo in considerazione diversi aspetti: ingresso, soggiorno, lavoro, casa e assistenza, riconoscendo i richiedenti asilo provenienti dai paesi diversi da quelli dell’Est europeo.
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