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educazione degli italiani, Sintesi del corso di Storia Sociale

sintesi del libro con appunti integrati

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 07/02/2024

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Scarica educazione degli italiani e più Sintesi del corso in PDF di Storia Sociale solo su Docsity! L’EDUCAZIONE DEGLI ITALIANI: LAICITA’, PROGRESSO E NAZIONE NEL PRIMO NOVECENTO (GIORGIO CHIOSSO) INTRODUZIONE: le due Italie di Credaro e Gentile. Dibattito tra Otto e Novecento: LE DUE ITALIE, ossia due realtà contrapposte, composta da un lato da l’inferiorità morale e sociale del Mezzogiorno e dall’altra dal progresso del Settentrione. Differenza tra ITALIA LEGALE E PAESE REALE. Fin dalla costituzione del Regno d’Italia (Il Regno d'Italia fu lo Stato italiano unitario proclamato il 17 marzo 1861. La proclamazione fece seguito alla Seconda guerra d'indipendenza italiana (1859), combattuta dal Regno di Sardegna contro l'Impero austriaco[6], e alla Spedizione dei Mille, con la conquista del Regno delle Due Sicilie. La proclamazione del Regno rappresentò il culmine di quel movimento culturale, politico e sociale, nonché periodo storico, detto "Risorgimento". Ad essa seguì la Terza guerra d'indipendenza italiana (1866) e l'annessione dello Stato Pontificio, con la conseguente presa di Roma (20 settembre 1870). Il completamento dell'unità territoriale avvenne tuttavia solo al termine della prima guerra mondiale, considerata talvolta come la quarta guerra d'indipendenza italiana, il 4 novembre 1918 (giorno della diramazione del Bollettino della Vittoria che annunciava che l'Impero austro-ungarico si arrendeva al Regno d'Italia) in base all'armistizio firmato a Villa Giusti, nei pressi di Padova. Con il successivo trattato di Saint-Germain-en-Laye, nel 1919, l'Italia completò l'unità nazionale con l'annessione di Trentino, Alto Adige, Venezia Giulia e Istria, oltre a Zara di Dalmazia); la scuola fu considerata una trave portante nella creazione dell’unità nazionale sia per quanto riguardava la formazione del ceto dirigente sia con l’attenzione rivolta alla lotta contro l’ignoranza tra i ceti popolari. Non vi poteva essere un’Italia degna delle altre Nazioni europee se non c’erano condivisione degli ideali posti alla base del nuovo Stato, una dirigenza del Paese affidabile e all’altezza della situazione e se gli analfabeti continuavano a risultare la maggioranza dei cittadini italiani. Nonostante l’impegno profuso i risultati restarono inferiori alle attese: nel 1901, ad esempio, gli analfabeti rappresentavano circa il 50% degli italiani e i bambini che sfuggivano all’obbligo scolastico erano ancora un 1/3 del totale. Le celebrazioni nel 1911 del primo mezzo secolo di storia unitaria furono perciò l’occasione per stendere un bilancio anche in materia scolastica, di quanto era stato fatto e di quanto era ancora incompiuto. In quegli anni fu perciò particolarmente intenso e significativo il dibattito sulle politiche scolastiche tanto sotto il profilo quantitativo (aumento del numero delle scuole, lotta all’analfabetismo, miglioramento degli edifici scolastici e delle condizioni dei maestri, ecc.) quanto sul piano delle strategie ideali (verso quale progresso bisognava orientare gli italiani, in che senso andava intesa l’espressione “educazione nazionale” ricorrente in quegli anni). 1 Luigi Credaro e Giovanni Gentile, entrambi ministri dell’Istruzione a distanza di pochi anni, furono i due principali protagonisti della vita scolastica tra la stagione giolittiana e il dopoguerra, incarnando due diverse visioni non solo di scuola e di educazione nazionale, ma anche di modello sociale e del benessere futuro. Credaro – ministro tra il 1910 e il 1914 – era un solido montanaro della Valtellina, uomo concreto e pratico, alieno dalla retorica nazionalistica. Secondo Credaro occorreva che la scuola fosse «utile», espressione da intendere nella maniera più estensiva possibile e cioè funzionale alle trasformazioni in corso («una costola del progresso», con grande importanza attribuita alla cultura scientifica e tecnologica) e capace di valorizzare tutte le risorse del Paese. Combattere l’ignoranza significava contribuire allo sviluppo della civiltà moderna. Se si volevano sconfiggere le arretratezze scolastiche non c’era altra strada che disporre di una schiera di maestri in grado di mettere in campo pratiche didattiche bene organizzate. La pedagogia doveva perciò restare lontana dalle «astruserie metafisiche» e seguire le strade indicate dalla ricerca empirico-sperimentale. Gentile – ministro tra il 1922 e il 1924 - figlio di una famiglia della piccola borghesia siciliana. A Al filosofo non sfuggivano i cambiamenti che stavano mutando la fisionomia dell’Italia e la necessità di farvi fronte con la formazione di persone capaci di comprendere e affrontare con spirito vigile le sfide della modernità. La partecipazione alla vita moderna non poteva tuttavia venire condizionata dalla categoria del progresso descritto dalla scienza e dalle leggi dell’economia. Viziato dalle teorie illuministiche e positivistiche, non era questo genere di progresso a poter imprimere un senso rigeneratore alla vita nazionale. Il progresso non poteva insomma identificarsi con la vita produttiva e le scoperte utili. Senza una salda coscienza di sé come popolo e come Nazione il progresso destinato a ridursi a puro materialismo. Solo mediante una forte coscienza ideale – l’appartenenza alla Nazione – era possibile mantenere salda, di fronte alla pretesa del primato del progresso materiale, la superiorità delle forze spirituali. Filosofia, storia e letteratura erano dunque i capisaldi culturali intorno a cui organizzare l’educazione degli italiani. Non si comprende la diffidenza di Gentile verso la scienza e la tecnica se non si pone in relazione con l’approccio scientista e materialista di larga parte della cultura positivista del secondo Ottocento che aveva innalzato il “fatto” a vera e propria ideologia. Già negli anni Ottanta Antonio Labriola aveva denunciato la deriva positivista verso “nuove metafisiche della natura”: la metafisica cacciata dalla porta rientrava per la finestra. Se non si voleva cadere nel rischio di una scienza ideologica – annotava Gentile – bisognava renderla subalterna alla formazione “dell’uomo in quanto uomo” e cioè di un individuo capace di pensare, riflettere e agire con piena responsabilità verso di sé e verso gli altri. L’approccio con la scienza e la tecnica non era negato in assoluto, ma andava spostato più avanti, a livello di formazione superiore e regolato secondo un approccio strumentale, non sostanziale. Poste queste premesse di carattere generale è facile comprendere l’ostracismo che Gentile e i suoi allievi e collaboratori (in primo luogo Giuseppe Lombardo Radice ed 2 libertà di pensiero attraverso l'impiego di una modalità di insegnamento basata sul metodo scientifico. A livello metodologico, molto forte è la critica che il Gabelli avanza nei confronti delle strategie didattiche tradizionali, che non ritiene atte, con la loro impostazione volta a una trasmissione di un sapere preconfezionato, allo sviluppo critico dello “strumento testa”. Egli suggerisce dunque un investimento sul metodo scientifico, visto come formativo in quanto, partendo dall'esperienza diretta, esso porta allo sviluppo dello spirito di ricerca, della capacità di analisi, dello spirito critico. Fu in questo brodo di cultura che prese corpo e si sviluppò il progetto di revisione del positivismo della “Rivista di Filosofia e Scienze Affini” (1899) voluta da Giovanni Marchesini la quale documentò lo sforzo di tenere insieme la fiducia nel progresso garantito dalla razionalità scientifica e la necessità di fare i conti con la formazione della coscienza collettiva relativa alla conquista della modernità. 2. L’umanismo della “Rivista di Filosofia e Scienze Affini” I densi fascicoli della rivista si svolgono tra il riconoscimento dei limiti del positivismo e lo sforzo di superarli senza rinnegare l’eredità lasciata. Infatti, la linea teorica della rivista a poco a poco si orienta oltre il positivismo pur senza eliminarlo ma condividendo l’idea di un progresso necessario, di un ignoto che si svela poco per volta con il progressivo svilupparsi della conoscenza. Quindi il positivismo delle generazioni precedenti è visto come un punto di partenza non da negare ma da sviluppare. La storia di questa rivista si divide in due momenti principali: IL PRIMO (che va dalle origini fino al 1904) prevale l’interesse teorico riflessivo; NEL SECONDO (ultime annate) tematiche etico-educative). Presente è anche la figura di ROBERTO ARDIGO’ che pubblica almeno tre quattro volte l’anno all’interno della rivista, significato che alcuni collaboratori non condividono la loro posizione positivista in tutto. Per Marchesini il “vero positivismo” non trascura i problemi dello spirito, ma li affronta senza appellarsi a realtà ignote o accettate per fede. L’interesse per l’umano non deve limitarsi all’affermazione dell’uomo come centro di iniziativa ma si accompagna al suo riconoscimento in quanto essere che pensa, produce simboli ed elabora valori, lasciandolo nella sua libertà di scelta. In questo contesto le tematiche pedagogiche e scolastiche assunsero una notevole importanza considerando, come lo stesso Marchesini affermava, l’uomo non più come spettatore ma come attore protagonista (saggio IL VALORE DELL’UOMO). Marchesini non rinuncia a condividere con Ardigò la convinzione che una filosofia, che accetti metodo scientifico e voglia dirsi scientifica, rifiuta quindi le tesi metafisiche, le entità trascendenti inverificabili, accetta le ipotesi da verificare. Ardigò insistette sulla necessità di una psicologia ed una pedagogia scientifiche, soffermandosi sul ruolo delle abitudini. L’educazione, infatti, sul piano naturale può essere ricondotta all'acquisizione di comportamenti sedimentati e certi; questo significa il passaggio da una pedagogia metafisica ed astratta ad una pedagogia intesa come scienza dell'educazione: «la pedagogia è la scienza dell'educazione, per questo l'uomo può acquisire le abitudini di persona civile, di buon cittadino.» 5 Per Marchesini esiste un nesso tra educazione e abitudini ma queste non devono essere meccaniche comportando l’inerzia dello spirito umano. 3. Determinismo, “moderno idealismo” e psicologia Marchesini rileva, inoltre, la necessità di ampliare i discorsi relativi al determinismo. Concezione filosofica, questa, secondo la quale ogni fenomeno del presente è determinato da un fenomeno o un evento accaduto nel passato. Tale filosofia esclude dunque ciò che viene valorizzato invece da Marchesini ossia il ruolo dell’uomo e delle sue capacità di protagonista nell’attribuire senso e valori a ciò che accade. Ugualmente interessante risulta anche il confronto con il “moderno idealismo”, tema al quale si dedica anche Cesare Ranzoli. Nell’espressione moderno idealismo vi è la convinzione che la scienza è impotente e incapace a dare un senso alla vita dell’uomo. Ranzoli indaga attentamente le ragioni della fortuna del “moderno idealismo” a partire da quello che viene giudicato “il limite più grave del positivismo” e cioè quello di “aver creduto d’aver colto direttamente la realtà senza comprendere che un fatto assolutamente reale esistente fuori da ogni relazione con la coscienza umana è inconcepibile”. L’uomo dunque andava concepito non solo nella sia individualità ma anche nello svolgimento della storia e nella concretezza della vita. Marchesini e Ranzoli non esitano a ricorrere all’espressione “positivismo idealistico” con la quale intendono sottolineare la possibilità e la capacità anche della filosofia positiva di promuovere il nuovo profilo dell’uomo e del suo rapporto con la natura. 4. La costruzione della morale positiva e razionale Da qui l’interesse prevalente non è più rivolto alle leggi dello sviluppo universale, ma si svolge in un campo d’azione più ricco e articolato, orientato da un’attenta conoscenza psicologia dell’uomo. La rivista di MARCHESINI è priva di uno spazio dedicato alla politica, nel suo periodico è radicato un territorio solo accademico. Particolare importanza viene mostrata per le tematiche morali legate ad iniziative educative e sociali. Marchesini: 1905 saggio “le finzioni dell’anima” e “la dottrina positiva delle idealità”. Si parla anche di etica apostolica, ossia quando l’uomo è libero solo quando è interamente ragionevole. Secondo Marchesini la perfetta moralità si compie all’interno della stessa psicologia dell’uomo che è unione di sentimento e ragione. Nella capacità umana di avvalersi della razionalità sono poste, inoltre, le vere fonti non solo della moralità ma anche della giustizia e della stessa felicità. Solo l’uomo razionale è nelle condizioni di orientare la storia, dirigendola verso fini etici e morali; tale processo si svolge, tuttavia, lungo una linea fatta di incertezze tipiche dell’essere umano sull’essere e il volere ma soprattutto per il contrasto sociale tra la tendenza alla conservazione della tradizione e l’esigenza del rinnovamento. Per quanto riconosca al metodo positivo un’intrinseca moralità, Marchesini ne teme tuttavia l’insufficienza a spiegare la complessità dei processi 6 individuale a regolare la convivenza sociale e sostiene che il fine morale dell’uomo è l’utile collettivo, senza aderire a sistemi assoluti e precostituiti ma analizzando l’aspetto psicologico di ogni individuo. 5. La pedagogia e la funzione sociale della scuola In questo periodo un’attenzione crescente fu riservata alla pedagogia alla quale fu affidato il compito di trasferire nella vita quotidiana la nuova morale positiva e di progetto di una società fondata sul progresso. Quindi la pedagogia doveva diventare scientifica (cioè possedere i caratteri tipici della scienza) ossia essere fondata sui fatti, ottenere riscontri oggettivi e procedere attraverso la generalizzazione di dati empirici (fatti dimostrati). Saggio di ANTONIO MARTINAZZOLI: “dizionario illustrato di pedagogia” curato insieme a CREDARO: il fatto educativo va esaminato per scoprire le costanti e la prevedibilità. A questo modello di pedagogia si rifecero anche altri collaboratori della rivista interessati ad approfondire la funzione sociale dell’educazione in due principali direzioni: - rimarcare il nesso scuola-società, quindi la scuola era chiamata a riuscire nello stesso tempo ad agevolare lo sviluppo e a adattare al fine sociale le attitudini di ogni individuo. Da qui la necessità di diffondere l’istruzione per innalzare la dignità del lavoratore e combattere quindi l’ignoranza. - migliorare l’insegnamento, basato sul desiderio che il progresso scientifico potesse fecondare il mondo scolastico e favorire l’impiego di criteri più razionali di insegnamento. Lino Ferriani individua, inoltre, nella scuola un’occasione di igiene della psiche collettiva cosi come Vitali sosteneva che la scuola può far penetrare nel pensiero di tutti le norme, le pratiche e quindi in direzione di una patria come comunità solidale di cittadini accomunati dall’impegno di perseguire il progresso. 6. La superiorità della pedagogia positiva Le tematiche pedagogiche e scolastiche conquistarono crescente spazio sulle pagine della rivista soprattutto dopo che Marchesini ne divenne il direttore. Le ragioni sono diverse. In quegli anni Marchesini stava maturando maggiore attenzione verso la pedagogia collegata all’ampia discussione dell’azione scolta nell’educazione degli italiani, egli in quel periodo scrisse “corso sistematico di pedagogia generale 1907”, “il disegno storico delle idee educative 1913” e “i problemi fondamentali dell’educazione 1917”. Marchesini partì da alcune osservazioni sul piano pedagogico di Gentile sostenendo che esso fosse illusorio in quanto il processo educativo era ben lontano dal compiersi in forme auto formative e il rapporto tra maestro e allievo non si poteva concepire in termini spiritualistici. Marchesini inneggiò alla superiorità delle teorie educative positive in quanto richiamavano gli educatori al fine reale dell’educazione 7 anche in Italia nel “ritorno a Kant” tra fine 800 e inizi 900 vanno considerate due questioni: 1. la prima riguarda Gentile, per il quale ogni realtà esiste solo nell'atto che la pensa, e la storiografia da lui orientata di liquidare come irrilevante e anzi dannosa una filosofia (quella kantiana) vista come pigro uso dell’intelletto. 2. la seconda riguarda il variegato mondo neokantiano, difficile da circoscrivere entro uno stretto perimetro. A giudizio di Credaro il merito principale dei cultori della filosofia di Kant era stato quello di indagare criticamente sui metodi e sugli esiti delle scienze della natura e di sostenere la funzione pratica della filosofia come guida morale e ideale. La filosofia doveva tornare ad essere quella che era stata con Kant ossia analisi delle condizioni di validità della scienza e degli altri prodotti umani come la morale, l’arte, la religione. Da qui l’avversione verso qualsiasi propensione spiritualistica o idealistica, una ricerca principalmente preoccupata di garantire la correttezza della conoscenza e di giustificare i diversi ambiti del sapere. Kant era cosi proposto come sicuro modello di una riflessione sui fatti e sui valori centrati sull’agire dell’uomo guidato dalla ragione e non dalle emozioni o dal misticismo. “Filosofare” significava, quindi, dare senso alla realtà e all’agire dell’uomo; non bastava contemplare il mondo occorreva orientarlo in direzione del bene e del giusto (filosofia pratica). 2. “Herbart è il Kant della pedagogia” Forti di questa impostazione fu quasi inevitabile che i neokantiani manifestassero un interesse tutto speciale per le questioni educative. L’attenzione per la pedagogia e l’istruzione rappresentava il naturale prolungamento del primato assegnato alla ragion pratica e al suo compito di assicurare ordine al mondo. La pedagogia era concepita come scienza autonoma con teorie e metodi propri e interattiva con le altre scienze umane ossia con quelle che permettono di conoscere meglio l’uomo come la psicologia, la biologia o la sociologia e con quelle che conferiscono senso al suo agire come la filosofia e l’etica. Tra la pedagogia del positivismo e la pedagogia neoidealista di Gentile, i neokantiani proposero una terza via. Essa era fondata, da un lato, sul primato riconosciuto all’educazione morale, dall’altro, sulla conoscenza degli alunni e sulla messa in atto di appropriate procedure didattiche. Tra questa via e le dottrine pedagogiche di Herbart vi era molta affinità, quest’ultimo era riuscito a tradurre sul piano dell’azione educativa la filosofia di Kant e con esso condivideva il concepire il dovere come suprema legge morale e della vita sociale. Con il suo metodo Herbart aveva fatto in modo che l’apprendimento non si risolvesse in un meccanico nozionismo e si svolgesse in modo da mobilitare in pari tempo le capacità intellettuali degli allievi e la loro volontà. La formazione di un carattere conforme a un ideale umano improntato al rispetto dei supremi valori etici era vista come il fine principale del processo educativo. Il grande merito di Herbart consisteva nel far passare in secondo piano la personalità dell’insegnante rispetto all’organizzazione didattica. Negli ultimi due 10 decenni dell’800 anche in Italia vi fu una prima circolazione dell’herbartismo grazie a Luigi Credaro il quale spinse in suo favore. La scadente qualità dei mastri e delle maestre, specialmente quelli dei contesti rurali (quindi stragrande maggioranza dell’Italia), la confusione metodologica specialmente della scuola elementare tra 800 e 900 la difficoltà di spostare la didattica sul terreno degli apprendimenti legato alla realtà, favorirono l’insediamento della pedagogia herbertiana. Infatti, nel 1905 si compì il primo tentativo di innestarla nella scuola italiana con l’emanazione dei nuovi programmi per la scuola elementare, tali programmi si basavano sui quattro principi individuati da Herbart (chiarezza, associazione, sistema e metodo) su cui ordinare i livelli di apprendimento (gradi). Dettagliate istruzioni allegate ai programmi avevano lo scopo di aiutare i maestri ad attuare il nuovo metodo. I risultati, tuttavia, furono molto deludenti perché i maestri non avevano la preparazione giusta per far propria una metodologia molto più impegnativa rispetto alle pratiche consuete affidate al binomio ripetizione/memorizzazione. Il metodo richiedeva infatti di mettere in relazione l’apprendimento con l’evoluzione della vita mentale nelle sue varie dimensioni cognitive, emotive e affettive. C’era anche una seconda ragione a favore dell’herbartismo. Il “senso del dovere” kantiano combinato con la pianificazione dell’apprendimento aveva inoltre il pregio di veicolare un insieme di valori funzionali alla stabilità sociale e alla coscienza patriottica. La formazione del carattere attraverso l’istruzione scolastica come suggeriva Herbart corrispondeva ad un “ordinare le folle” che si affacciavano sulla scena pubblica, dar loro degli ideali cui fare riferimento e rafforzare il carattere. Non fu casuale che la questione dell’educazione nazionale, a ridosso dell’Unità, fosse coltivata da numerosi studiosi kantiani e sostenitori della pedagogia di Herbart. La scuola era vista come veicolo per rigenerare costumi e mentalità arcaici e rispondere alle esigenze dei nuovi tempi. Il rapido evolvere delle conoscenze scientifiche e tecniche, l’irrompere del lavoro industriale, la competizione economica a livello internazionale erano segni di cambiamento che occorreva governare razionalmente. Ciò significava rilanciare la centralità dell’uomo capace di trasformare in suo favore la realtà. 3. “Tutto nasce nella pratica e nella pratica ritorna” Nel 1908 per iniziativa di Luigi Credaro prese avvio la “Rivista Pedagogica” il gruppo portante fu rappresentato da neokantiani. Il periodico costituì l’espressione più autorevole e compatta fra quanti in ambito scolastico ritenevano necessario rinnovare l’impianto della scuola e adeguarlo a una realtà ormai diversa da quella passata. Punti qualificanti del progetto cardiano furono il sostegno all’associazionismo dei maestri e dei professori, la creazione in Parlamento di un “partito della scuola”, il potenziamento della scuola elementare e popolare, il miglioramento della formazione degli insegnanti mediante la riforma della scuola normale e l’istituzione delle scuole pedagogiche universitarie. La Rivista Pedagogica avrebbe dovuto rappresentare il più accreditato luogo di discussione delle questioni educative italiane non essendo mai di parte. Forte della convinzione che “tutto nasce dalla pratica e nella pratica ritorna” e della vanità di 11 qualsiasi dottrina incapace di produrre i suoi frutti sul piano dell’utilità sociale, Credaro sosteneva che la società italiana avrebbe continuato a progredire solo a condizione di sviluppare al suo interno il senso della giustizia e della solidarietà e a tal fine il ruolo della scuola era primario, sia come luogo di formazione sia come creatrice di valori comuni e sia come sede dell’emancipazione dei ceti popolari e della democratizzazione della vita sociale. 4. Antidealismo e idealità nazionali in Vidari, Calò e Maresca Tra gli herbertiani di maggior rilievo ricordiamo Giovanni Vidari secondo il quale l’ideale educativo riflette la perpetua tensione tra essere e dover essere il cui svolgimento si realizza mediante il contributo della psicologia (che indica il progressivo maturare delle energie spirituali), della storia (che mostra lo svolgersi delle società) e dell’etica (che divulga la rettitudine). Erano questi gli elementi su cui poggiare l’agire pedagogico. Era netta, qui, la distanza con la visione di Gentile. Vidari condivide la tesi che l’educazione è un processo spirituale ma non nel senso dello spirito di cui parlare l’idealismo bensì l’iniziativa educativa era possibile soltanto nella precisa distinzione dei due soggetti del rapporto educativo, il maestro e il discepolo, ciascuno con un diverso ruolo e una diversa responsabilità. Inoltre, bisogna sottolineare che, Vidari inserì due varianti nel modello Herbertiano: 1. recupero della concezione classica dell’uomo espressa dalla tradizione greco-latina e inteso perciò come energia attiva che si appropria delle forze esterne, le trasforma in elementi e motivi della propria esperienza interiore. Più che un essere da plasmare ì, l’uomo era concepito come in volontà e pensieri che valgono per sé. 2. Inserzione di valori storici precisi dell’etica educativa. Nessuna reale esperienza pedagogica poteva avvenire al di fuori della società, come storicamente si era formata. Poiché l’efficacia educativa è strettamente connessa alla condizione dell’uomo che vive e si realizza in un determinato momento della storia, la creazione della coscienza politica era uno degli obiettivi essenziali dell’educazione. Gli ideali nazionali erano condivisi, quindi, da tutti e individuati, cosi, come “amor della Patria”. Secondo la prospettica nazional-patriottica non potevano esistere contrasti tra gli interessi della patria e quelli delle masse se l’educazione nazionale andava di pari passo con le riforme necessarie ad elevare il popolo in direzione di una convivenza armonica in una società liberale. Altro herbertiano di spicco fu Giovanni Calò, allievo di Francesco De Sarlo, il quale vedeva nella pedagogia herbertiana la risposta più convincete per congiungere la realtà viva dell’educazione e la pedagogia costruita su due basi sicure, psicologia ed etica. Scrisse “fatti e problemi del mondo educativo” e “l’educazione degli educatori”. Vari erano i punti in comune con Vidari. Comune fu la convinzione di oltrepassare l’Italia attuale all’insegna di una nazione capace di trasformare la vita e sollevarla sempre in alto. Calò, inoltre, si oppose alle tesi di Gentile sostenendo che i protagonisti dell’evento educativo era due distinti soggetti e non una indistinta autoformazione dello spirito. Nonostante le riserve di Vidari e le polemiche di 12 questo periodo andavano anche diffondendosi nuove aspettative di indipendenza sociale, grandi sentimenti di emancipazione e forti richieste per il suffragio universale. La più ampia e distesa visione della donna nella società si accompagnava, a sua volta, a un’attenzione più puntuale alle precarie condizioni di vita e spesso di sfruttamento dei bambini e dei ragazzi più poveri e al proposito di assicurare un destino per le bambine non inferiore a quello dei maschi. Prendeva cosi fisionomia una professione magistrale; se per gli uomini svolgere la professione di maestro era un ripiego, per le donne costituiva invece un’occasione di emancipazione, una delle ancora poche vie per migliorare la propria condizione sociale e godere di autonomia personale. 2. Il dibattito sulla scuola normale Vari provvedimenti, dalla creazione di scuole normali miste alla trasformazione dei corsi magistrali, sortirono in breve tempo gli effetti sperati. Il cambiamento all’interno dell’ambito della figura magistrale fu facilitato dalla richiesta di impiegare nelle poche regioni che lamentavano ancora carenza di maestri (Piemonte, Lombardia, Umbria, Abruzzo) quelli che erano sovrabbondanti altrove (come in Sicilia). Le esigenze belliche fecero il resto in quanto i maestri chiamati al fronte furono rimpiazzati dalle maestre che erano in esubero. Restò invece la questione della fisionomia del maestro e della sua preparazione culturale e professionale. Le vicende e le contrastate riflessioni che accompagnarono il riordino della formazione dei maestri meritano attenta considerazione per varie ragioni: 1. la prima riguarda il rapporto tra la formazione del maestro e l’avviamento alla professione, la scuola preposta alla preparazione dei maestri andava concepita come un vero e proprio istituto professionale. Quindi ad una visione della professione nutrita di sapere colto andava sostituita/affiancata una visione nutrita da una competenza metodologica-didattica. 2. la seconda riguarda il ruolo educativo affidato al maestro legato alla progressiva inserzione dei ceti popolari nella vita politica e negli stili di vita borghesi e il significato etico-sociale da attribuire ai cambiamenti modernizzanti in corso almeno in una parte di Italia. 3. Una riforma mai attuata Credaro nella sua visione di riforma della formazione dei maestri, esaltando l’organizzazione esemplare della scuola elementare prussiana, indicava alcuni punti chiave: 1. la scuola normale doveva essere scuola con finalità professionali e tutta la cultura in essa impartita doveva riflettere il metodo da usare nelle scuole elementari. 2. non si poteva insegnare nelle scuole normali una materia allo stesso modo in cui si insegna in una scuola media; 15 3.i professori che posseggono una cultura puramente teorica non si debbono ammettere nelle scuole normali e in queste non avrebbero dovuto insegnare se non persone che avessero diretta conoscenza della scuola elementare. 4. il tirocinio andava organizzato in modo che i professori delle scuole normali facessero lezioni dinanzi ad allievi-maestri. Il richiamo al senso pratico non poteva essere più chiaro. Per i maestri era necessaria una cultura realistica funzionale alla futura professione sostenuta da un metodo ben strutturato e facile da attuare. Mediante il tirocinio l’allievo-maestro imparava a intrecciare la trasmissione del sapere con la conoscenza dell’animo umano e l’osservazione di casi particolari. La pedagogia era perciò, insieme, scienza e pratica e cioè padronanza di regole generali applicate secondo le circostanze specifiche. In sostanza Credaro pensava a un maestro capace di attuare un insegnamento metodico, rigoroso ed efficace e senza fantasia. Bisognava sconfiggere rapidamente l’ignoranza operando su due piani: - il rinnovamento dei metodi didattici - la promozione della moralità necessaria per far progredire la democrazia. In tal senso si ipotizzavano un corso normale quinquennale con un triennio di formazione culturale e un biennio specificatamente orientato alla preparazione professionale. Così facendo, nel bagaglio del maestro avrebbero potuto avere spazio conoscenze e saperi non circoscritti al puro e semplice esercizio della professione. Allo stesso tempo, però, vi era la preoccupazione che, se non si fosse rafforzata la cultura a base classica del corso normale, ben difficilmente i maestri avrebbero potuto accedere a pieno titolo agli sbocchi universitari. Nel 1914 giunse finalmente in Parlamento un progetto di riforma della scuola normale che prevedeva un ciclo di studi settennale articolato in un quinquennio di formazione generale e un biennio professionalizzante. Il progetto restò sulla carta, poco dopo la sua presentazione Credaro lasciò l’incarico ministeriale. 4. I “Nuovi Doveri” e i maestri Pochi mesi prima dell’uscita della “Rivista Pedagogica” erano apparsi a Palermo i “Nuovi Doveri” di cui il principale animatore fu Giuseppe Lombardo Radice, docente di pedagogia e amico e allievo di Gentile. “Nuovi Doveri” diventò una voce critica contro la riforma di Credaro (della scuola normale e la concessione solo ai maestri migliori di occuparsi di insegnamento secondario) ma più in generale vero l’intera politica ministeriale. Radice fissava il punto della propria riflessione sostenendo che la pratica magistrale era vista non come somma di abilità e competenze professionali ma bensì come esito personale della cultura del maestro, centrata non più su conoscenze empiriche (l’igiene, la psicologia, l’antropologia, la pratica didattica) ma sulle leggi dello 16 spirito. Anche Gentile e Radice pensavano alla pedagogia come disciplina portante della scuola normale ma non nei termini di esercizio didattico ma, appunto come generale capacità di indagine e riflessione sul senso dell’educazione. La capacità riflessiva andava conquistata mediante la consuetudine di riflettere filosoficamente, e indagare i grandi temi pedagogici (libertà/autorità, istruzione/educazione, educazione positiva/negativa ecc) e nel dialogo con i classici che avevano da sempre sciolto le antinomie. Secondo Radice la pedagogia e la didattica doveva essere regolata mediante la libera iniziativa del maestro, moderata dalla capacità di valutarne di volta in volta la coerenza con la situazione scolastica. Un maestro, quindi, non applicatore di regole precostruite ma capace di riflessione ed iniziativa in proprio, ricco di fantasia e di conseguenza un maestro un po' filosofo ed un po' artista. Per Radice, inoltre, il bambino non era argilla da plasmare ma un giovane da far crescere del quale bisognava rispettarne le caratteristiche personali e l’originalità, evitando le trite nozioni. Perché ciò fosse possibile il maestro anziché essere un semplice istruttore doveva essere ricco di interessi e di passione intellettuale. 5. Il maestro come “uomo armonioso” Alla fine del 1911 “Nuovi Doveri” mutò non soltanto titolo, ma anche e soprattutto impostazione editoriale, diventando una vera e propria rivista pedagogica, “Rassegna di Pedagogia e di Politica Scolastica”. Dedicò un notevole spazio alla discussione della preparazione dei maestri elementari, ospitando, in particolare, numerosi contributi di Ernesto Codignola. Quest’ultimo concepiva il maestro come un “uomo armonioso” che nell’intensità della relazione interpersonale sapeva proporsi come modello esemplare e promuovere la vitalità interiore degli alunni. Solo una ricca e ampia formazione filosofica poteva aiutare il maestro a raggiungere tale obiettivo. L’esperienza più direttamente legata ai “Nuovi Doveri” fu quella della rivista “Nostra Scuola” la quale invitava a: - combattere il tradizionalismo e il materialismo didattico, esaltando il valore dell’intuito e dell’estro del singolo maestro nel far sentire come la didattica scaturisca dalla cultura e dalla conoscenza filosofica di ogni disciplina - far rivivere la vita del fanciullo in quanto l’osservazione di fatti, i discorsi, i lavori e tutto quando provengono da lui stesso. 6. L’educazione nazionale e la scuola elementare. Il confronto su come rilanciare e svolgere l’educazione nazionale rappresentò uno dei principali motivi di riflessione pedagogica e politica al tempo stesso tra guerra e dopoguerra. Il dibattito sulla formazione dei maestri fu parte, per l’appunto, di questa riflessione. L’accento cadeva sulla necessità di mettere a punto un ampio piano di rafforzamento della scuola elementare, di iniziative a sostegno dell’obbligo di istruzione e delle varie forme di educazione popolare (biblioteche, scuole per adulti, scuole professionali). Solo con un impegno cosi orientato gli italiani potevano sfuggire 17 riguardava il metodo didattico si partica dagli esercizi finalizzati al retto uso dei sensi specialmente quelli del vedere e sentire. Il culmine, tuttavia, era raggiunto nelle istruzioni relative all’insegnamento delle varie discipline, in primo luogo la lingua italiana e l’aritmetica; attraverso la ripetizione e la copia dei modelli esemplari. Le “lezioni di didattica” ribaltano questo impianto e Radice muove tutto partendo da una concezione anti-manualistica. Lo scopo è duplice: - puntare all’astrattezza di una pedagogia insensibile all’originalità e spontaneità dell’infanzia - erodere l’egemonia positivista sulla scuola Propositi condivisi dallo stesso Gentile. Lombardo Radice entra subito nel vivo affrontando la trave portante dell’educazione scolastica ossia il tema dell’educazione morale (la disciplina) e sostiene che soltanto con l’interiorizzazione del senso del dovere garantisce una disciplina solida, obiettivo possibile se maestro e allievo sperimentano insieme la condivisione delle regole. Esalta, quindi, le capacità della buona relazione interpersonale (comunicazione spirituale) tra il maestro e i suoi allievi. Dalla conquista della disciplina personale attraverso l’esempio del maestro Lombardo Radice faceva derivare alcune conseguenze: 1. il costituirsi della classe come organismo spirituale caratterizzata da affiatamento tra compagni di classe 2. sintonia tra i docenti 3. buoni rapporti con le famiglie Tutti elementi alla base dell’ordine sociale. Il maestro era davvero tale se sapeva coltivare la propria interiorità e avvertiva la responsabilità sociale (nazionale) della sua professione. L’arte di far scuola non dipendeva infatti da regole precostituite, ma dall’umanità che il maestro realizzava in sé stesso, dalla cultura che egli viveva nel suo pensiero e dalla capacità di rinnovarla continuamente. Il positivismo e l’herbartismo in modi diversi si sforzano di elaborare un metodo scientifico che scoraggia la scuola all’improvvisazione. Lombardo Radice prospetta una via diversa nella quale è utile soffermarsi sulla nozione di lezione. Secondo il suo punto di vista essa è un atto di vita, non dunque lezione pianificata mediante contenuti rigidamente prefissati ma un’esperienza libera costruita intorno alla concretezza quotidiana e ai suoi problemi (ogni accrescimento spirituale è possibile solo quando si raggiunga la soluzione di un problema reale), attenta ai bisogni di ciascun allievo e rispettosa delle consuetudini locali. Da qui l’obbligo del maestro a non estraniarsi dal paese in cui insegna e a imparare a conoscere i suoi allievi anche osservando ciò che avviene nel paese dove vivono, quali sono gli interessi dominanti, quali le tradizioni sociali, gli usi, la lingua, l’arte, il pensiero morale. Quindi, solo collegando scuola e vita è possibile sfuggire agli esercizi oziosi e artificiosi con cui si cercava di modellare l’intelligenza infantile, soffocare l’originalità e quindi uccidere l’animo/spirito. Su questi presupposti poggia la tesi della scuola ordinata non più rispetto ai bisogni sociali (utilità) e disciplinata dalle 20 leggi ma ispirata alle caratteristiche proprie dell’anima infantile. Altri elementi a sostegno di questa tesi Radice li trae dal mondo della “scugnizzeria” tipica della realtà del Sud conosciuta per esperienza diretta, ricca di fantasia, anche se un po' ribalda, ma disponibile a mettersi sulla buona strada se qualcuno se ne prende cura. Sono questi i bambini e i fanciulli protagonisti di quella “scuola serena” che Lombardo Radice andrà promuovendo. Il pedagogista trasferiva nel progetto di “scuola serena” quell’approccio all’infanzia più rispettoso della personalità del bambino che si stava gradualmente estendendo nelle abitudini educative della società europea d’inizio secolo. Per vie diverse anche Ellen Key, Stanley Hall, Alfred Binet e altri giungono allo stesso pensiero ossia che se il bambino era libero di manifestare i suoi bisogni e i suoi interessi, cioè la sua vitalità, era più facile integrarlo nella vita sociale, evitando quelle forme autoritarie e talvolta violente che suscitavano lo sdegno degli educatori più sensibili. In analogia a questa prospettiva la scuola della vitalità infantile viene opposta alla scuola del programma. L’alunno entra nella scuola non per ascoltare ma per comunicare esperienze, esprimere sentimenti e raccontare il proprio mondo interiore. Lombardo radice riserva un ampio spazio alla conquista della lingua. L’educazione linguistica libera le migliori energie degli alunni ed essa va appresa dal vivo ed è affidata alla capacità dell’allievo di esprimere sé stesso (inizialmente anche con l’uso del dialetto). Severo è il giudizio sulla grammatica tradizionale la cui pretesa costituisce un ostacolo alla libera espressione, sulla composizione scritta elaborata secondo modelli precostituiti e sulla memorizzazione senza comprensione. Alla fase linguistica arricchita dalla dimensione espressiva (disegno, canto) si accompagnano, in un secondo tempo, le cosiddette “attività riflesse” come la conoscenza storica, l’esplorazione geografica, l’osservazione scientifica e il ragionamento matematico. La storia, per esempio, andrà raccontata facendola vivere come se fosse una favola (storia-poema) e le nozioni scientifiche potranno maturare attraverso la scoperta del mondo della natura, facendosi piccolo naturalista. La valorizzazione, infine, dell’insegnamento religioso si svolge non sul piano catechistico ma in termini di esperienza popolare come parte viva. 3. Dalle “lezioni di pedagogia” alla collana “Scuola e vita” Il 1913 è un anno importante per Lombardo Radice sia per l’apparizione delle sue “lezioni di didattica” sia per la nascita della collana “scuola e vita” la cui trama si svolge intorno ai tre protagonisti delle Lezioni: il maestro, gli allievi e le esperienze didattiche. La figura del maestro è centrata sul contrasto tra il direttore della scuola, di rigida fede pedagogica herbertiana e un giovane insegnante che si sforza di portare nella scuola la passione educativa, il rispetto delle esigenze e delle aspettative degli allievi. La figura degli allievi è vista in una prospettiva di valorizzazione della loro spontaneità eliminando ogni prevaricazione didattica e auspicando una “scuola per gli allievi”. Infine, per quanto riguarda le esperienze didattiche vengono intese e presentate come esperienza irripetibile e creativa, basata su una concezione narrativa e incentrata sulle risorse degli allievi e sulla loro spontaneità. Quindi una didattica vista come riflessione 21 del maestro sulla propria e altrui esperienza, attività del docente vista come una vocazione e una missione. 4. Dai “Nuovi Doveri” all’educazione nazionale “Nuovi Doveri” è una raccolta intorno al tema dell’educazione nazionale che Lombardo Radice indaga sotto tre principali aspetti: 1. come rivitalizzare le idealità del Rinascimento 2. come rafforzare il senso di appartenenza dei ceti popolari 3. come conciliare il ruolo dello Stato con il riconoscimento delle autonomie locali La Nazione è definita come la libera unificazione degli individui e delle loro associazioni nella quale si compie l’autoeducazione dell’individuo che culmina appartenere a uno stato nel quale ciascuno è chiamato a svolgere la propria parte. Il popolo non è solo un’entità da disciplinare, esso è piuttosto l’interprete di ideali, tradizioni, istanze da rispettare e innalzare a livello di coscienza matura e cioè colta. Sarà sulla base di questi presupposti che Lombardo Radice non si riconoscerà nello stato fascista che a causa del suo centralismo statalista soffocava qualsiasi riconoscimento delle aspirazioni popolari a esprimere la propria cultura. Lo stato fascista non poteva essere uno stato autenticamente nazionale ma solo totalitario, in quanto rinunciava ad accettare le diversità e puntava ad ordinarle dentro un’univa visione del mondo. La concezione democratica della nazione è accompagnata dalla visione positiva della laicità, in quanto chi è davvero laico sente il valore di ogni pensiero politico e religioso e sa costruirsene uno suo, esercitando la propria capacità critica; da qui la sua concezione di cambiamento scolastico basata sul coltivare nelle coscienze delle persone la consapevolezza etica. 5. Il crogiuolo della riforma La direzione dell’istruzione elementare a fianco di Gentile ministro consentì a Lombardo Radice di tradurre sul piano anche normativo l’ideale di “scuola serena”. Nonostante qualche dubbio di Croce, Lombardo Radice seppe pilotare il cantiere dell’istruzione elementare. Sono sui i principali documenti della riforma, tra cui spiccano i Programmi del 1923 che segnarono un netto spartiacque nel modo di intendere la scuola elementare. La vita scolastica si era basata per molto tempo sulla convinzione che l’efficacia dell’educazione infantile, ridotta all’essenziale nei contenuti, dipendesse dalla capacità di imprimere nei piccoli alunni il senso della disciplina. Lo scopo era quello di assicurare alfabeto e ordine sociale, sostenuto da positivisti illuminati come Gabelli, gli herbertiani e Credaro. Anche per Lombardo Radice ordine e disciplina erano requisiti costitutivi dell’educazione nazionale. Ma anziché di guardare ai ceti popolari e ai bambini come destinatari dell’educazione, occorreva farne i soggetti della stessa educazione. La nazione non poteva essere imposta, andava vissuta in presa diretta nella pluralità e diversità delle situazioni. Questo era possibile se i maestri sapevano entrare in sintonia con il popolo e scoprirne il cuore, ciò significava parlare la stessa lingua (compreso il dialetto), sentirsi immersi nelle medesime 22 Tutte queste tematiche ruotavano, anche, intorno al non poter tradire (secondo i religiosi), da parte della scuola, la fiducia delle famiglie che le affidavano i figli e le chiedevano di prolungare i valori appresi in casa. Finché la coscienza non era ancora formata, non poteva esserci libertà se non c’era coscienza, la quale poteva essere formata e guidata dall’insegnamento religioso. Secondo la rivista “Civiltà Cattolica” tutte le proposte e le richieste anticlericali avrebbero fatto da apripista ad una revisione legislativa che non solo sopprimesse qualsiasi presenza religiosa nelle aule pubbliche italiane, ma che limitasse ulteriormente (o addirittura escludesse) la libera iniziativa delle congregazioni religiose di insegnare in ambito scolastico. In verità Giolitti, interessato a rafforzare i rapporti con il mondo cattolico, aveva più volte affermato che mai avrebbe acconsentito a una revisione in senso anticlericale. In questo clima di continui scontri in materia di scuola laica e di laicità di insegnamento la “Civiltà Cattolica” non diede risalto al diverso tono e alla differente impostazione di Giovanni Gentile, il quale si prefiggeva di indicare ciò che era vivo e ciò che era superato nella tradizione cristiana per costruire un modello di nuovo rapporto tra religione e filosofia e, di conseguenza, tra chiesa e stato. 2. La relazione di Gentile al congresso napoletano della Fnsim Era stato Salvemini a fare il nome di Gentile per l’annuale incontro del congresso della Fnsim (federazione nazionale inseganti) a Napoli al quale quest’ultimo un impianto più filosofico che politico-scolastico. L’intervento di Gentile si articolò intorno a tre questioni: 1. la prima consisteva nel promuovere e compiere le grandi idealità della nazione e nell’educare i cittadini. Scuola e stato erano perciò due aspetti di un’unica realtà. La scuola laica non poteva dirsi “neutra” (nello scontro tra favorevoli e contrari all’insegnamento religioso) e collocarsi in moto equidistante rispetto a tutte le posizioni in gioco ma doveva testimoniare quella fede intorno a cui si costituiva lo stato come valore. 2. la seconda consisteva nel riconoscere che appariva controproducente combattere ad oltranza il sentimento religioso, questo ero anzi prezioso per assicurare il senso della vita là dove non poteva giungere la forza dell’autocoscienza filosofica. Gentile si dichiarava, perciò, favorevole all’insegnamento religioso nella scuola elementare e cioè fin tanto che il soggetto non fosse stato sorretto da un adeguato sviluppo del pensiero critico. 3. la terza riguardava il rapporto tra scuola di stato e scuola privata e la definizione del principio delle libertà d’insegnamento. Gentile, nell’affermare che ogni volta che si compiva l’educazione dell’umana si poteva parlare di educazione, pensava naturalmente che le scuole dello stato rappresentassero la sede per eccellenza per la formazione e ne auspicava il miglioramento e il potenziamento, ma riconosceva alle scuole confessionali (con insegnamento religioso) la forza educativa che derivava dalla fede alla quale si ispiravano. Non era, dunque, mediante l’ostracismo ideologico (mettere al bando una ideologia, pensiero ecc da parte di una comunità) che si dovevano combattere le scuole 25 confessionali, ma soltanto attraverso l’esercizio più completo della ragione libera. Questa visione della scuola costituiva la più ferma condanna della scuola positivista e della sua pretesa di insegnare verità scientifiche, mentre l’obiettivo era piuttosto quello di ridare all’uomo il senso della sua unità spirituale. Queste riflessioni spingono Gentile a insistere sulla responsabilità educativa degli insegnanti. 3. Una diversa concezione della libertà Proprio in conseguenza di una diversa concezione della libertà, Gentile si trovò in disaccordo con le tesi prevalenti del congresso della Fnism proposte da Alberto Fioravanti. Nel complesso la laicità invocata da Fioravanti non escludeva la necessità di rifarsi a qualche ideale (sempre che non fosse di natura religiosa), ma essa era principalmente associata a uno stile educativo contrario a qualsiasi forma di dogmatismo. Soltanto le scuole statali potevano garantire un tal genere di laicità e, quindi, erano le uniche in grado di assicurare un’educazione libera, garante del progresso e baluardo contro le fedi religiose. Su una posizione ancora diversa si situava Salvemini, il quale non condivideva le aperture in materia di insegnamento religioso enunciate da Gentile. Secondo Salvemini la scuola laica non andava vista soltanto contro la fede cristiana e la chiesa e neppure poteva identificarsi nel primato della cultura scientifica secondo l’accezione positivista del termine. La scuola laica era quella in cui la coesistenza di idee e visioni della vita diverse si congiungeva senza pretendere alcun privilegio, era quella nella quale gli insegnanti dovevano essere assolutamente liberi nell’esercizio della loro missione, dei loro eventuali errori di metodo, delle loro eventuali intolleranze dogmatiche ecc. 4. La tesi dei liberisti neokantiani In occasione del congresso napoletano Gentile non si scontrò soltanto contro coloro che promuovevano una libertà scolastica gestita totalmente dallo Stato ma anche contro coloro che, in modo più “liberale”, si schieravano a favore di una minore ingerenza scolastica dello stato. Gli apporti più significativi, a sostegno di quest’ultimo punto di vista, giunsero dal neokantiano Alfredo Piazzi secondo il quale era giunto il momento di assegnare maggiore libertà ed autonomia agli insegnanti e di non considerarli meri esecutori di un programma scolastico già interamente definito e che le scuole non governative (come le scuole private) fossero cresciute ad immagine e somiglianza di quelle governative. Anche Vidari, riconoscendo pari legittimità tra scuola privata e pubblica, riconosceva, inoltre, la possibilità di un sistema d’istruzione non egemonizzato dalle scuole dello stato. Tornando al tema centrale del congresso, il dibattito aperto sulla laicità della scuola consentì a Gentile di chiarire tutti gli aspetti del problema della libertà scolastica: 1. il primo riguardava il principio della libera concorrenza tra le scuole 2. il secondo si riferiva all’esercizio della libertà dell’insegnante posta come architrave della vita scolastica 3. il terzo sanciva il superamento del contrasto tra autorità del maestro e libertà del discepolo nell’unità dello spirito. 26 5. La libertà di insegnamento secondo “La Civiltà Cattolica” L’approccio di Gentile manifestava, dunque, alcune significative novità rispetto alle tendenze prevalenti della cultura laica del tempo. Il filosofo esprimeva in particolare il valore formativo della religione, incluso l’insegnamento religioso scolastico almeno a livello primario e riconosceva che la scuola nazionale non poteva essere identificata solo con la scuola dello stato. Gli ambienti cattolici di maggior spicco di quegli anni non considerarono, tuttavia, subito Gentile come un interlocutore affidabile. Secondo la rivista dei gesuiti (“la civiltà cattolica”) la religione andava posta come base del carattere morale e di conseguenza nessuna morale laica era comparabile con la forza educativa che sprigionava la dottrina cristiana. Era proprio quanto Gentile aveva sostenuto nei suoi interventi. Ma per spiegare il non considerare affidabile il punto di vista gentiliano, bisogna ricordare che gli ambienti cattolici erano spesso condizionati da preclusioni che portavano ad escludere quanto non si presentasse come esplicitamente religioso e, inoltre, il filosofo siciliano era un intellettuale di minoranza, noto, ma con una visibilità ancora assai modesta sul piano pubblico. La chiesa, nell’avversare la laicità scolastica, non poteva accettare una libertà scolastica indiscriminata perché soltanto essa, in quanto depositaria della verità, aveva il diritto di dirigere e vigilare l’insegnamento. In seguito alla crisi di fine secolo e al “disordine morale divenne più marcato l’argomento della forza regolatrice dei valori educativi cristiani. L’educazione religiosa e le scuole cattoliche potevano concorrere ad assicurare quell’armonia sociale che sembrava andare smarrita. Nei primi anni del 900 lo stato moderno e laico ha in sé i germi del disordine e non ha quindi i titoli per educare; l’educazione non è compito dello stato, ma spetta alle famiglie, e quella scolastica va intesa come il prolungamento di quella domestica, e poiché le famiglie sono in maggioranza cattoliche l’unica educazione coerente è quella a forte impronta religiosa. Lo stato veramente liberale avrebbe dovuto lasciare piena libertà di organizzazione alle famiglie riconoscendone il diritto educativo a ricorrere all’insegnamento delle scuole private (riconoscendo la loro funzione sociale). Di fronte ai rischi a cui andava incontro la gioventù studiosa stava l’obbligo per i cattolici di reagire con tutti i mezzi a disposizione perché l’educazione si svolgesse entro un contesto religioso e nel rispetto delle scelte educative delle famiglie. Il vescovo Tedeschi chiamava perciò a raccolta le diversi componenti della società del tempo, (i padri di famiglia, gli insegnanti, gli uomini pubblici, i liberi cittadini, la stampa), per un’offensiva educativa a vari livelli: - fondazione di scuole libere, private, parrocchiali - compilazione di testi, libri di lettura e tutto il necessario per la scuola - istituzione di oratori, ricreatori e doposcuola. L’analisi di Tedeschi esprimeva la volontà di non rinchiudersi entro l’orizzonte della semplice protesta ma di agire con e per la scuola. A questo parziale cambiamento di toni non erano estranee le riflessioni scolastiche nel frattempo avviate nell’Unione Popolare Cattolica Italiana nel 1906 allo scopo di dare unitarietà alla presenza sociale dei cattolici. 6. Le proposte dei cattolici democratici 27 Giolitti in particolare) era disposto a considerare l’attenuazione del monopolio scolastico statale come parte di una parziale contrattazione politica. CAPITOLO 6 Gentile e l’educazione nazionale 1. “Il risultato di studi seri, diligenti, controllati” La questione educativa e scolastica, a parere di molti, dava la misura di quanto l’unità di Italia fosse ancora incompiuta. Dal punto di vista di Giovanni Gentile per “riformare gli italiani” bisognava puntare su insegnanti all’altezza del loro compito, colti, patriottici ed esemplari. Inoltre, Gentile ribadiva come la scuola continuava, e a maggior ragione dopo la guerra, a essere vista come lo strumento per realizzare il risveglio dei sentimenti fondamentali della rinascita collettiva e spettava al fascismo il merito di aver dato la forza necessaria a tradurre in atto tutte quelle idee che si dovevano e potevano attuare. 2. Una scuola senza fini pratici Secondo Gentile la scuola media non aveva scopi pratici o finalità utilitaristiche in quanto essa è una scuola di scoperta e di consolidamento delle disposizioni interiori che fanno dell’individuo un uomo, è quindi scuola formativa per eccellenza e non enciclopedica. È perciò scuola umanistica e la cultura che la pervade non può essere che educazione dello spirito. Un ruolo formativo principale è assegnato alla filosofia cui è affidato il compito di coltivare l’intelligenza, di fornire idee e aprire le vie a trovarne di nuove; ad essa viene perciò riservata la regia dell’educazione della coscienza giovanile. Solo mediante lo studio e la riflessione filosofica ed attraverso il dialogo con il maestro il discepolo matura la propria autocoscienza e cioè l’espressione più alta del pensiero umano. Non bastano, dunque, insegnanti abili nel padroneggiare un metodo, occorrono educatori generosi e sapienti capaci di sperimentare insieme ai loro allievi la forza della vita spirituale. La figura del maestro è spiritualizzata e associata alla generazione del sapere e del senso etico, non una professione come le altre, ma qualcosa di molto diverso e superiore. Dal rapporto più o meno autentico instaurato tra maestro e scolaro, secondo Gentile, dipendono il senso di appartenenza alla vita sociale e la lealtà allo stato. La dimensione interpersonale consente infatti di sperimentare l’esperienza di un’autorità accettata non per un’imposizione esterna, ma intimamente condivisa per l’evidenza della sua forza culturale ed etica. La società, a cui Gentile si riferiva, era pensata come aggregazione di individui opposta ad una società unificata da una tradizione che si riconosceva in uno stato nel quale l’io particolare si fondeva e si annullava volontariamente in una suprema visione etica. 3. Rigenerare il carattere degli italiani. La guerra fu vista da Gentile come un’irripetibile occasione per rigenerare il carattere degli italiani e l’educazione ispirata ai valori nazionali fu concepita come lo strumento privilegiato per trasmettere cultura e moralità. Alla guerra Gentile guardò, infatti, come a una straordinaria opportunità pedagogica in quanto i dolori della guerra avrebbero svegliato tutte le forze della nostra anima nazionale. Là dove prima lo stato era visto come una semplice aggregazione di interessi particolari, la prova della guerra poteva aiutare a forgiarlo sulla moralità della nazione. La riflessione del filosofo siciliano perse le caratteristiche 30 dell’analisi accademica e si fece pedagogia politica. Il rinnovamento dell’Italia cominciò ad essere posto nella coincidenza tra l’esperienza spirituale dell’educazione e il luogo storico della rinascita nazionale, la scuola come fondamentale veicolo di educazione nazionale. Da qui, l’unità spirituale creata dalla guerra era la linfa per far rivivere l’appartenenza nazionale; bisognava sopprimere l’uomo rinchiuso nei suoi interessi particolari e incapace di rinunciare al proprio egoismo e fare degli ideali nazionali il faro della vita sociale. Tornata la pace questo compito era assegnato alla scuola. All’educazione della guerra si doveva sostituire l’educazione della scuola. La ricostruzione della scuola diventa il perno della rinascita nazionale e un motivo centrale nella riflessione etico-politica gentiliana. La nozione di spirito, fino a quel momento considerata principalmente in rapporto allo svolgimento soggettivo e alla maturazione dell’autocoscienza filosofica personale, incrociò la proposta politica. Consapevolezza personale e partecipazione a un ideale erano le ragioni alla base della funzione nazionale della scuola. Il tema della nazione, della sua identità, dell’educazione ai valori espressi dalla tradizione nazionale e rappresentati attraverso voci del Risorgimento, come Gioberti e Mazzini, divenne il centro dell’analisi gentiliana. Di Mazzini Gentile sottolineava la concezione della Nazione come un dovere da compiere, un futuro da creare, un’occasione di esercitare l’infinita libertà dello spirito per rivivere la tradizione; con la figura di Dio insita nel processo storico e morale a garanzia di una politica sottratta a qualsiasi particolarismo. La nazione gentiliana non si identifica tuttavia in toto con quella mazziniana la quale perseguiva l’obiettivo della creazione di una fede religiosa laica e l’affratellamento delle genti. Per Gioberti il Risorgimento doveva invece immettersi nella tradizione cattolica in quanto bisognosa di essere purificata e inoltre niente era possibile se non era innestato in un processo storico. Nell’intrecciare il duplice insegnamento di Gioberti e Mazzini, Gentile poneva due fondamentali tasselli della sua concezione nazionale: 1. l’idea spirituale di nazione, dove non bastano alcuni elementi fisici, geografici e storici comuni per identificare una nazione. Il fattore decisivo è la volontà di un popolo consapevole di voler essere una nazione. La nazione non è perciò una realtà preesistente ma un’esperienza da costruire e questa concezione di nazione viene minata da materialismo e utilitarismo (in grado di disciplinare ma non di educare un popolo). 2. il Risorgimento come evento di lunga durata, concezione maturata intorno alla riscoperta di una tradizione dimenticata dove si auspicava ad una società nuova e ad un uomo nuovo. L’idea è quella di riprendere l’Italia dei combattenti e portare a compimento gli ideali del Risorgimento dove la guerra è vissuta per il senso del dovere e per la fede nella patria. 4. Come reinterpretare la tradizione. La filosofia di Gentile viene definita attualismo/idealismo attuale (dove l’unica realtà è l’atto puro ossia il pensiero e precisamente l’atto dell’uomo che pensa, autocoscienza) e si basa sull’assunto che il Risorgimento non è solo un momento della storia ma è la storia nella quale quotidianamente l’uomo realizza sé stesso. Non si concepire l’uomo al di fuori di una tradizione (storicamente presente) perché è la tradizione stessa a fornirgli la ragione 31 del suo esistere (dalla storia e dalla tradizione lo spirito trae lo stimolo ad acquisire coscienza di sé via viva una coscienza sempre più profonda). Non c’è da sapere senza inserzione nella storia perché ogni sapere è radicato nella realtà dove esso si esprime. Il principio di nazionalità è sinonimo di storicità e l’esperienza umana si svolge nella storia mediante il continuo manifestarsi di nuove forme ideali emergenti dalla realtà. Le ragioni essenziali della vita spirituale dei popoli sono deposte nella lingua e nella memoria. Perché la scuola sia educatrice il patrimonio culturale non va trasmesso come un sapere preconfezionato ma come un’esperienza vitale, lo spirito individuale si eleva attraverso la lezione del passato nel confronto con il presente. Il che significa scoprire che l’io autentico non è mai l’io individuale, ma sempre e solo quello collettivo condiviso. Gentile elabora quindi una proposta pedagogica centrata sulla trasmissione culturale e sulla formazione di persone capaci di rielaborarla continuamente e di renderla interattiva e non solo da conservare ma da sviluppare. 5. Nazione, patriottismo, nazionalismo Intorno alla questione educativa nazionale si affollarono varie proposte e i primi ad affacciarsi furono: - Vincenzo Cento il quale, intrecciando nazionalità e identità culturale, sosteneva che la coesione nazionale dipendeva dalla consapevolezza e partecipazione a una storia culturale identitaria comune. - Vidari che rilanciava la sua proposta di pedagogia patriottica compatibile con il pacifismo, la democrazia e la libertà. - Combattentisti, secondo i quali la trincea era stata una formidabile educatrice di uomini. A questa realtà guardò, ad esempio, il mondo del combattentismo. La guerra aveva rappresentato un terribile sforzo collettivo dove i valori sprigionati dal conflitto dovevano sconfiggere gli antichi mali italiani e far prevalere l’Italia dei combattenti contro l’Italia dei rinunciatari. Se combattentismo e Gentile convergevano nel riconoscere il valore pedagogico della guerra diverse erano invece le conseguenze sul piano dell’analisi politica. I combattenti italiani non erano stati spinti né dell’odio né dal desiderio di gloria ma dal nobile senso del dovere e dell’amor di patria, pronti anche a riconoscere i diritti degli altri popoli. Aveva inoltre fatto sperimentare nuove idealità come la fraternità solidale e un futuro di pace. Secondo gli ex combattenti quei sentimenti e queste esperienze erano la base per una nuova Italia e un rinnovato ruolo del popolo. Educativa e promotrice di idealità non era stata solo la trincea. Nelle città come nei piccoli borghi la guerra aveva fatto scoprire forme di partecipazione al conflitto mediante iniziative assistenziali e di sostegno ai combattenti. Secondo molti studiosi, fra cui Lombardo Radice, la guerra non era che la continuazione della vita di un popolo povero, buono, ingenuo e lavoratore che si rivede nella concezione di patria costituita non solo da tradizione e memoria ma anche da fraternità, aiuto reciproco aiuto e vita comunitaria. A questa visione, di un popolo pacifista, Gentile sosteneva che se non di al popolo una fede/ideali a cui credere sarebbero prevalsi gli interessi individualisti su quelli collettivi. Bisognava abbassarsi al livello delle masse contadine e aiutarle a coltivare degli ideali e 32 politica vera e propria, Lombardo Radice scommette sulla trasformazione del quotidiano e sulla forza elevatrice della cultura. La scuola non è terreno di conquista ideologica e va perciò tenuta rigorosamente fuori dalla lotta fra i partiti. Fu su queste basi che Lombardo Radice avrebbe contrastato l’integrazione/assorbimento del Fascio di Educazione Nazionale al partito fascista. 8. Una riforma per la Nazione Nel 1922 Giovanni Gentile fu nominato ministro dell’istruzione nel primo governo presieduto da Benito Mussolini. La partecipazione del filosofo rientrava negli scopi di Mussolini ossia concentrare intorno al suo governo le intelligenze e le competenze migliori che vantasse l’Italia, ma bisogna sottolineare che vi era una certa distanza tra la visione scolastica di Gentile e quella del fascismo. Più tardi lo stesso Gentile avrebbe confessato di non aver prestato una particolare attenzione allo spirito del fascismo e neppure all’opera personale di Mussolini. La riforma del 1922 fu un affare di pochi mesi e basata su quattro decreti fondamentali: 1. amministrazione 2. istruzione elementare e popolare 3. scuola media 4. università. Nella riforma coesistono tutti gli aspetti principali nei quali si condensa la visione nazionale della scuola gentiliana. Innanzitutto, c’è il rapporto tra lo stato e la scuola, non ci può essere nazione se non c’è uno stato che è insito nell’educazione dei cittadini mediante l’esercizio di un’autorità severa e una disciplina rigorosa. Ciò va incontro anche alla visione di Gentile che il sapere fosse aristocratico e che la vita sociale fosse gerarchicamente strutturata; presupposti, questi, che lo conducono a prendersi cura soprattutto delle élite destinate a reggere le sorti della società. Lo stato deve avere le sue scuole, poche ma buone, e le sue università, nelle quali formare i giovani migliori. Per il resto c’è spazio per le iniziative dei privati. Gentile assegna alla cultura la forza civilizzatrice, per il popolo, che rappresenta un’esperienza spirituale e, in quanto tale, capace di entrare nelle vene della vita e animarla. Non si può, inoltre, distinguere l’uomo dal contesto culturale nel quale egli vive e dallo stato che ne è l’espressione, l’uomo colto è davvero tale quando ha coscienza di essere, esistere e agire. Gentile puntualizza che, anche se la scuola secondaria non è scuola di scienza essa è scuola di preparazione alla scienza e alla vita, pensata in stretta relazione con la progressione degli studi superiori; l’intreccio università-scuola è ispirato alla visione unitaria della dimensione culturale. Il cuore di Gentile è naturalmente scaldato dalla forza educativa della filosofia alla quale assegna il supremo compito di promuovere la consapevolezza critica e l’autocoscienza; la centralità della filosofia viene integrata con altri capisaldi come la letteratura e la storia che si svolgono lungo l’asse della rinascita e della cultura italiana. Inoltre, all’indifferenza dello stato laico di origine illuminista positivista e all’idea della religione come affare privato, Gentile oppone il valore della tradizione cattolica. Il passato non va, dunque, negato (come pretendevano i positivisti). ma 35 accolto e assorbito, e alla fede va la forza di instillare una visione complessiva dell’esistenza. L’obiettivo non nascosto di Gentile è quello di far rivivere la legge Casati, alleggerendola dagli elementi ormai obsoleti, ma salvaguardandone il nucleo fondante ossia il primato umanistico, l’eccellenza degli studi, l’aristocrazia del merito e la scuola ordinata per ceti sociali. 9. Tra scienza e religione della Patria. Nell’ottica nazionale alla cultura scientifica spetta uno spazio secondario. Il sapere veicolato dalla scienza non è in grado di formare la capacità di riflettere su di sé che per Gentile rappresenta la finalità essenziale della scuola secondaria. Secondo il suo punto di vista, la scienza deve restare nel proprio ambito e non può pretendere che gli strumenti tipici della razionalità empirica e sperimentale siano impiegati anche per trovare quelle risposte che rientrano nell’ambito della filosofia. La cultura scientifica non ha dunque i requisiti per garantire la formazione dell’uomo e la scuola ha perciò il compito soltanto di preparare alla scienza che potrà essere praticata solo in un secondo tempo, quando la personalità sarà sufficientemente consolidata. Il giudizio gentiliano sulla scienza e sul lavoro scientifico è profondamente condizionato non solo dal contrasto con il positivismo ma dall’intento di eliminarlo dalla cultura comune e dalla scuola. Il piano educativo nazionale di Gentile non si rinchiuse all’interno dei programmi di insegnamento ma ambì anche a creare uno stile di vita scolastica. Ne sono documenti gli interventi del ministro e le iniziative promosse nelle scuole per celebrare la solennità della patria e il ricordo dei caduti. Gentile si dichiarava convinto che la scuola dovesse rispondere all’aspettativa dei giovani in cerca di una vita vissuta con la stessa sincerità, con la stessa serietà, con la stessa religione con cui la vita si viveva nelle trincee. Punti forti degli interventi di Gentile ministro furono il valore della disciplina e l’importanza degli studi, sosteneva anche che una nazione non sarà mai tale se i suoi cittadini non sapranno rispettare la legge, riconoscersi nell’ordine e obbedire all’autorità superiore. In questo scenario, la scuola è descritta come luogo religioso dove si celebra il rito dell’educazione e dell’iniziazione culturale. Essa è alimentata oltre che dai valori trasmessi dalla tradizione culturale, dal sacrificio di chi ha dato la sua vita per la patria; e a tale scopo Gentile mobilitò ogni risorsa per fare della scuola una palestra di italianità. L’esaltazione della guerra ci appare oggi una vistosa contraddizione con la visione romantica e innocente dell’infanzia di Lombardo Radice, egli stesso reduce dai campi di battaglia, nei quali aveva perso due fratelli, attribuiva all’esperienza della guerra un significato non solo morale ma addirittura pedagogico. Tra il bambino con l’elmetto e il bambino scolaro alla scoperta gioiosa del mondo c’era tuttavia minore distanza di quanto si può pensare. La guerra era infatti entrata a vele spiegate nel privato infantile in tanti modi in quanto ogni famiglia aveva pagato in vario modo il suo tributo alla guerra. 10. Dall’educazione nazionale all’educazione fascista Mussolini si schierò a fianco di Gentile ma i punti di resistenza alla riforma erano svariati: 36 - rapporto tra scuola statale e scuola privata in quanto molti fascisti ritenevano che non si potesse parlare di educazione nazionale senza rafforzare il ruolo scolastico dello stato e quindi soltanto la scuola dello stato aveva titolo di rappresentare i valori su cui lo stesso stato si reggeva. Per gentile e il suo ideale di nazione era invece il principio di natura religioso che doveva ispirare l’agire educativo ovunque esso si svolgesse e a questo disegno si potevano associare anche gli istituti privati che compivano bene il loro compito educativo, in quanto anche su di essi incombeva l’obbligo di formare bravi cittadini. L’esame di stato era lo strumento giuridico attraverso cui, da un lato, le scuole private testimoniavano la loro subordinazione all’autorità dello stesso e, dall’altro, si tendeva la mano ai cattolici per un’educazione nazionale più inclusiva. A tutto ciò si affiancava l’esigenza di smaltire il sistema scolastico statale, scaricando sulle scuole private una parte di popolazione studentesca in costante crescita; cosi da disporre di buone scuole con docenti selezionatissimi. - il fascismo non era soltanto gerarchia e ordine sociale, era altresì espressione di quella piccola borghesia e dei ceti popolari emergenti che ambivano per i figli una promozione sociale attraverso la scuola e quindi con l’esame di stato, previsto dalla riforma, per selezionare i migliori si rischiava di minare tali aspettative. - malcontento anche tra le classi della media e alta borghesia perché la maggiore severità scolastica rendeva più difficile l’accesso all’università. - fascisti che non tolleravano l’introduzione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari. Mussolini non poteva tollerare che i dissapori indebolissero l’azione di Gentile e quindi continuò ad appoggiarlo schierandosi nettamente a favore dei provvedimenti previsti dalla riforma. Ma ben presto, la decisione di fascistizzare la scuola, inquadrandola nel movimento di Mussoli, dispose la riforma in un contesto diverso da quella da cui era maturata. In quest’ottica il fascismo era visto in funzione pedagogica e gli si affida il compito educativo di salvare la tradizione, interpretando il fascismo come compimento del Risorgimento. Era dunque, su questa linea di continuità storica che andava plasmata la coscienza sociale, educando il popolo a superare le divisioni, a partecipare attivamente alle sorti della nazione e a sentirsi italiani e fascisti. Per i gentiliani, quindi, il fascismo rappresentare una splendida occasione per “rifare gli italiani” mobilitandoli in nome di alti ideali integrando a piena educazione nazionale con educazione fascista. Codignola aveva un punto di vista diverso, più politico che filosofico, ed il punto di non ritorno con Lombardo Radice coincise con la diversa reazione all’assassinio di Matteotti. Lombardo Radice accompagnò lo sdegno con la denuncia degli errori politici del fascismo che avevano gettato nell’incertezza più grave il paese e facevano rischiare alla scuola di essere assalita dalla passione del parteggiare. Codignola giudicò invece il delitto Matteotti un semplice incidente di percorso distinguendo tra la natura buona del fascismo e gli eccessi intemperanti e riprovevoli di alcune frazioni minoritarie. I destini dei due pedagogisti, che erano stati vicini a Gentile durante la riforma, si sarebbero ulteriormente divaricati negli anni successivi. In quanto, Codignola scelse di proseguire la milizia nel fascismo per proteggere la riforma (il fascismo non avrebbe dovuto snaturarla) mentre Lombardo Radice preferì lasciare la politica e tornare all’insegnamento universitario. 37 parlava coraggiosamente di falsi maestri e di insegnanti dalla meschina mentalità partigiana. De Sarlo e Cento denunciavano le ambiguità e i rischi cui andava incontro una riforma che stava diventando espressione di un regime politico. Altro motivo di opposizione riguardò l’inattualità della riforma sia in riferimento alle attese delle famiglie e sia rispetto alle esigenze della società moderna e del progresso economico. Anziché guardare avanti e tenere conto delle trasformazioni che stavano modernizzando l’Italia, Gentile era accusato di restaurare la scuola del passato e soprattutto di privilegiare le lingue classiche, la filosofia, la letteratura a scapito della cultura scientifica e delle lingue moderne. Sul rapporto tra cultura classica e cultura scientifica e le conseguenze educative che ne scaturivano interveniva anche De Sarlo secondo il quale l’educazione scientifica era un elemento costitutivo di qualsiasi forma di istruzione, per quanto da solo ovviamente non bastasse. In nessuno stadio dell’educazione era dunque lecito escludere l’educazione scientifica mentre nella riforma vi assegnava non solo un posto accessorio o secondario ma anche la spogliava di qualsiasi importante contenuto. Secondo De Sarlo (e con lui Credaro) le conseguenze di queste scelte si sarebbero fatte sentire in un avvenire non lontano e in un mondo che era difficile immaginare. Nel ricorrere all’argomento dell’utilità sociale della scuola, i due studiosi insinuavano il sospetto che l’architettura della riforma gentiliana non solo interrompesse il rapporto tra istruzione e progresso, che si era consolidato nei decenni a cavallo dei due secoli, ma non corrispondesse alle aspettative produttive ed economiche di un paese che ambiva a svolgere un ruolo di pari dignità tra le nazioni più progredite. 5. Le polemiche sulla scuola elementare e sull’esame di stato Queste critiche non furono accompagnate da analisi altrettanto efficaci su altri aspetti della riforma e, in particolare, sull’assetto della scuola elementare e sull’esame di stato. Fu proprio nell’ambito dell’istruzione elementare che i toni furono particolarmente aspri, forse confidando di poter organizzare la protesta dei maestri, molti dei quali erano impreparati o poco disposti ad applicare i nuovi programmi e ad insegnare la religione cattolica. Il compito di smontare l’assetto della scuola primaria fu assunto da Mariano Maresca, che per qualche tempo aveva intrattenuto buoni rapporti editoriali con Lombardo Radice, il quale ribadiva la convinzione che l’idealismo attualistico, applicato alla pedagogia, fosse incapace di fondere ed esprimere un positivo sistema educativo. Spinto da un eccesso di critica, Maresca finì con l’attaccare i programmi di Lombardo Radice sostenendo che la riforma era pedante, soffocante e la libertà del maestro era solo espressa a parole ma non nei fatti. Per Maresca (stravolgendo le indicazioni didattiche lombardiane) al centro della vita scolastica erano posti l’allievo e non più le materie di studio, le regole didattiche, la disciplina come suggeriva la pedagogia herbertiana. Era un orientamento che si sforzava di proporre una presenza scolastica più coerente con le caratteristiche proprie dell’età infantile. Lombardo Radice, invece sosteneva, che in ogni caso l’attività del maestro non poteva, in nome della libertà didattica, bandire regole e programmi. Un insegnamento sganciato da ogni programma e norma era un assurdo didattico perché non sarebbe stato un insegnamento veramente libero ma anarchico; i maestri avrebbero potuto assumere iniziative individualistiche incapaci di conciliarsi con il bisogno di creare una diffusa 40 coscienza civile e nazionale. Accanto al tema della scuola elementare la “Rivista Pedagogica” individuò un secondo caposaldo da colpire ossia l’esame di stato. Fu ancora Mariano Maresca a denunciare quelle che, a suo avviso, erano le contraddizioni dell’esame di stato. L’esigenza di porre alla pari i candidati delle scuole statali e quelli delle scuole private e l’istituzione di commissioni di giudici esterni compromettevano la libertà dell’insegnamento con un risultato che era giudicato esattamente l’opposto di quello dichiarato dai neoidealisti. I programmi d’esame categorici, orientativi e precisi rivelavano infatti la volontà di piegare la scuola italiana, tesi basata anche sulla sua esperienza da esaminatore, ma le proposte di revisione (di Maresca) all’esame di stato erano tuttavia segnate da una forte inattualità rispetto all’andamento del dibattito del tempo. Maresca proponeva, per risolvere il problema dell’istruzione non statale, di dar credito alle scuole private parificandole alle pubbliche. Si trattava di proposte che, più avanti, avrebbero avuto un loro sbocco con il ministro Bottai, ma che nel 1924 apparivano dettate più dall’intento polemico che da una reale possibilità di far breccia nella compattezza dell’impostazione data all’esame di stato e Maresca proponeva di sopprimere ogni forma di esame. 6. Le critiche (deboli) dei maestri. Negli anni precedenti la salita al ministero di Giovanni Gentile nella scuola elementare non si era verificato alcun fenomeno, era stato specialmente Lombardo Radice a seminare un’immagine di infanzia e un modello di scuola elementare alternativo alla pedagogia herbertiana, mentre Codignola aveva disegnato un nuovo profilo del maestro, dai tratti più culturali che professionali. Soltanto nel 1922 piccoli e combattivi gruppi di maestri fascisti cominciarono ad organizzarsi con l’obiettivo di stroncare le vecchie associazioni degli insegnanti ed i loro propositi erano essenzialmente 3 (con la speranza di avere l’appoggio di Mussolini): 1. portare a buon fine alcune istanze da tempo attese come la riforma delle pensioni e le nuove tabelle degli stipendi 2. incentivare la resistenza all’introduzione dell’insegnamento religioso 3. promuovere la riforma della scuola normale. Non secondarie furono le intimidazioni che giungevano direttamente dal ministero. Dopo alcuni incontri con i rappresentanti dei maestri all’indomani del suo insediamento Gentile assunse una drastica distanza dalle associazioni dei docenti verso cui nutriva forte diffidenza. Secondo il ministro Gentile esse erano portatrici di interessi particolari e incapaci di avere una visione globale del problema scolastico. Non esitò, inoltre, tramite una circolare a procedere per vie disciplinari i maestri che utilizzavano la stampa per attaccare il sistema scolastico. Anche se Mussolini non aveva subito dato corso al decreto sulla stampa, la prospettiva che la circolare diventasse un decreto esecutivo introdusse nel mondo dei giornali un clima di grande insicurezza e i giornalisti scelsero spesso la comoda strada dell’autocensura. Tra la fine del 1924 e gli inizi del 1925 apparvero sempre più evidenti due fenomeni: 1. il sostanziale accostamento delle maggiori testate al fascismo 41 2. l’irreversibile crisi dell’associazionismo democratico che portò con sé anche la fine di gran parte di quella pubblicistica locale che fino a quel momento era stata espressione della vitalità del mondo scolastico italiano. La conseguenza fu dunque il ripiegamento e, in seguito, l’affiancamento filofascista sempre più esplicito delle testate maggiori. 7. La nomina del ministro Fedele e l’illusione di “tornare all’antico”. Nel 1925 fu chiamato come ministro Pietro Fedele personalità, non gradita a Gentile, scelta da Mussolini per contenere l’egemonia gentiliana sulla scuola. Noto era il suo atteggiamento critico verso la riforma ed egli era considerato l’uomo adatto per modificarla. Codignola avvertiva il nuovo ministro a non azzardarsi ad intraprendere una politica scolastica opposta a quella fatta, Credaro lo invitava invece a trarre il dovuto insegnamento dalle vicende della riforma e a provvedere a rivederne alcuni aspetti. Il dibattito fu segnato dalla critica rivolta da numerosi senatori a diversi aspetti della riforma e dal contemporaneo invito al nuovo ministro di procedere nel più breve tempo possibile ad alcuni ritocchi. Credaro sostenne un vero e proprio contraltare rispetto a Gentile e propose l’ipotesi di far risorgere, migliore e modificare con l’estensione ai docenti delle scuole secondarie, le preesistenti scuole pedagogiche universitarie per i maestri. Il ministro Fedele si dimostrò interessato al progetto, dichiarandosi pubblicamente favorevole. Si trattava di un segnale concreto che lasciava intravedere la volontà di intervenire nel merito della riforma. Ma i fatti che seguirono ben presto ridimensionarono le aspettative di Credaro. Le poche iniziative intraprese rappresentarono una revisione di tipo essenzialmente tecnico e la riforma Gentile continuò a costituire il sistema di coordinate, al cui interno si delineava la politica scolastica del regime. Nel frattempo, i provvedimenti conseguiti alla scolta autoritaria nel 1925 messi in campo spostarono il dibattito sulla riforma in secondo piano di fronte al repentino mutare delle regole del quadro politico. Leggi come quelle sul giuramento di fedeltà dei pubblici dipendenti e sul controllo dello stato sulle associazioni pubbliche, la progressiva riduzione della libertà di stampa furono altrettanti segnali che il fascismo intendeva rinunciare ad ogni parvenza di pluralismo per fondare uno stato autoritario. La questione di maggior rilievo di fronte alla dichiarata volontà del fascismo di esigere, come disse Mussolini, che la scuola educhi la gioventù italiana a comprendere il fascismo ed a vivere nel clima eroico creato dalla rivoluzione fascista, divenne quella dei rapporti tra scuola e politica con lacerazioni profonde all’interno del gruppo gentiliano. In quel periodo anche Credaro prendeva atto della fine delle speranze e la sua rivista si rinchiudeva in un orizzonte strettamente accademico-culturale senza più inoltrarsi nel delicato e ormai quasi proibitivo terreno politico. Due anni più tardi il percorso di allineamento era definitivamente concluso con un atto di incondizionato omaggio al fascismo. Ad esso era riconosciuto il merito di essere riuscito a dare alla scuola primaria un più ampio respiro, ai maestri maggior dignità di vita, di cultura e il gran bene di una serena vecchiaia con la riforma del monte pensione. Lo scontro sulla riforma si chiudeva per la “Rivista Pedagogica” e per il mondo scolastico laico democratico con un bilancio negativo: le diverse strategie messe in campo tra il 1923 e il 1925 (il tentativo di un dialogo con Gentile, le aspre critiche alla scuola elementare e all’esame di stato ecc) si esaurirono e con la fine del 1925 la “Rivista Pedagogica” divenne una voce appartata, di cauto dissento e molti silenzi, attraverso la quale 42
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