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Effetti collaterali: la sfida sociale dei cambiamenti climatici, Tesi di laurea di Scienze Sociali

Tesi triennale che approfondisce il ruolo dell'assistente sociale all'interno dell'odierna situazione di emergenza climatica che tutto il mondo sta vivendo. Prima parte introduttiva che parla di cosa sono i cambiamenti climatici, le cause, le conseguenze e il ruolo del capitalismo a riguardo. Seconda parte gli effetti sociali, con un approfondimento sulle migrazioni climatiche. Terza parte il lavoro sociale in questa realtà.

Tipologia: Tesi di laurea

2019/2020

In vendita dal 10/08/2020

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Scarica Effetti collaterali: la sfida sociale dei cambiamenti climatici e più Tesi di laurea in PDF di Scienze Sociali solo su Docsity! CORSO DI LAUREA IN SCIENZE DELLA SOCIETÀ E DEL SERVIZIO SOCIALE TESI DI LAUREA TRIENNALE EFFETTI COLLATERALI LA SFIDA SOCIALE DELLE TRASFORMAZIONI CLIMATICHE RELATRICE / RELATORE CH.MA PROF.SSA ELISA MATUTINI LAUREANDA ANNA BIANCO MATRICOLA 869450 ANNO ACCADEMICO 2019/2020 1 Alla versione migliore di noi stessi… 4 In questa nuova realtà il ruolo degli assistenti e degli operatori sociali sarà importante; si troveranno infatti a gestire una crescita sempre maggiore di domande di aiuto e di sostegno, da parte della parte più debole della popolazione. Gli assistenti sociali devono farsi promotori di una società più equa e sostenibile. È necessario che essi siano in prima fila nel chiedere la transizione ecosociale ai politici, portando alla loro attenzione le conseguenze di questa crisi climatica sulle popolazioni più fragili, per evitare che diventi crisi sociale, se non si agisce rapidamente per controllarne efficacemente lo svolgersi. Fondamentale è la continua formazione degli assistenti sociali, facendo rifermento agli scienziati naturali riguardo alla situazione climatica e alle sue conseguenze, per poter preparare interventi in risposta a possibili disastri ambientali. È necessario poi che essi coltivino la capacità di resilienza loro e delle persone, per educare e stimolare la capacità di adattamento psicologico e mentale rispetto a nuove, e a volte imprevedibili, situazioni di disagio. Nell’ultima parte si vuole proporre uno strumento che potrebbe rivelarsi utile all’assistente sociale nel suo impegno verso una società sostenibile: la permacultura. Si spiegherà cos’è, quali sono i suoi principi, e verrà riportato uno studio condotto in una comunità basata su tale metodo. È necessario intraprendere al più presto la strada verso una società più equa e sostenibile, in quanto la società capitalista sta rubando il futuro a chi verrà dopo di noi. Il viaggio è lungo e difficoltoso, perché si tratta di smantellare abitudini ormai radicate nelle società attuali, soprattutto quella occidentale e tra la borghesia di India e Cina, che stanno vivendo una sorta di occidentalizzazione del consumismo frenetico. In questa corsa contro il tempo, l’assistente sociale si ritrova ad essere una figura importante nell’aiutare le persone, incentivandole a rivedere le proprie abitudini e, nel momento del bisogno, nell’essere un solido appoggio. È necessario che torni a concepire il suo lavoro strettamente connesso alla comunità, incoraggiando la vita e le relazioni comunitarie tra le persone. Solo unendo le forze, è possibile un cambiamento. Solo un cambiamento renderà possibile un futuro. 5 CAPITOLO UNO LE TRASFORMAZIONI CLIMATICHE Le trasformazioni climatiche, chiamate anche con il nome inglese di “climate change”, costituiscono un tema di rilievo nell’attuale panorama internazionale, trovando spazio all’interno degli approfondimenti di ordine scientifico, prima di tutto, ma anche politico, economico e, poco alla volta, anche sociale. Ancora non fortemente sentite come questione di livello sociale, le trasformazioni climatiche stanno avendo ripercussioni sia sulla natura (dalla perdita della biodiversità all’estinzione di specie animali e vegetali) che sull’uomo. Siccità, desertificazione, alluvioni sono solo alcune delle conseguenze che possiamo collegare al cambiamento climatico, e sempre più vanno ad influire e a sconvolgere la vita delle popolazioni. È un fatto, dunque, che il cambiamento climatico ci vede convolti. In questo capitolo, rispetto alle trasformazioni climatiche, si cerca di: 1. approfondire quali sono le trasformazioni climatiche in atto, le loro radici, in particolare a partire dall’influenza che ne hanno ricevuto dalla Rivoluzione Industriale. 2. considerare il ruolo che hanno il capitalismo e l’attuale modello di società occidentale, basato sullo sfruttamento delle risorse e l’intensificazione dei processi produttivi. 1 Quali sono le trasformazioni climatiche in atto Le trasformazioni climatiche, che naturalmente avvengono nel corso di milioni di anni, da fine Ottocento hanno avuto un’accelerazione insostenibile a causa dell’influenza antropogenica, attraverso l’utilizzo di combustibile fossile prima, della deforestazione e degli allevamenti intensivi poi. Queste attività umane producono una rilevante quantità di gas serra, che a loro volta vanno ad aggiungersi a quelli già presenti nell’atmosfera, alimentando in questo modo l’effetto serra e il riscaldamento globale1. I gas serra prendono questo nome dal loro effetto, cioè quello di agire come una grande cupola che impedisce al calore sviluppato dall’energia solare di uscire dall’atmosfera, producendo così un 1anomalo aumento della temperatura terreste. Molti gas emanati sono già presenti in natura, ma l’attività umana aumenta la concentrazione in atmosfera di alcuni di essi, come: 1 Fonte: Commissione Europea 6 • Anidride carbonica (CO2) • Metano • Ossido di azoto • Gas fluorurati L’attività umana produce soprattutto anidride carbonica (CO2). Responsabile del 63% del riscaldamento globale causato dall’uomo, la sua concentrazione nell’atmosfera supera del 40% i livelli registrati agli inizi dell’era industriale2. Gli altri gas, sebbene anch’essi emessi dalle attività dell’uomo, sono meno incidenti. Quali sono le cause dell’aumento delle emissioni? Quattro le principali3 su cui porre l’attenzione: • La combustione di carbone, petrolio e gas, che produce anidride carbonica e ossido di azoto. I combustibili fossili vengono utilizzati per produrre energia (75.2% delle emissioni di gas ad effetto serra), richiesta a sopperire il bisogno sempre crescente che viene dalle attività umane. Pensiamo solo all’energia elettrica necessaria agli impianti di condizionamento delle abitazioni e dei luoghi di lavoro: l’aumento delle temperature porterà ad un maggiore utilizzo dei condizionatori, e quindi ad un aumento delle emissioni, in un circolo vizioso sempre più difficile da interrompere4 e per il settore dei trasporti (14.2%, automobili ed aeroplani)5. • La deforestazione. Nella regolazione del clima, gli alberi aiutano assorbendo parte dell’anidride carbonica emessa in atmosfera. Venendo a mancare gli alberi, l’assorbimento non vi è più, con conseguente innalzamento dei livelli di CO2 in atmosfera. Da portare all’attenzione è il massiccio disboscamento che l’Amazzonia, chiamata anche il “Polmone Verde” della Terra, sta vivendo negli ultimi decenni. Tra le cause di questa deforestazione, citando Eva Alessi, responsabile sostenibilità WWF: ““La produzione di soia è la principale responsabile della deforestazione in Amazzonia, insieme con l’espansione dei pascoli per il bestiame allevato, agli incendi, al 2 Fonte: Rete Clima – Cause e conseguenze dei cambiamenti climatici 3 Fonte: Commissione Europea 4 Fonte: Wired.it, Dotti Gianluca (giornalista scientifico), 29 giugno 2019 5 Fonte: Lifegate.it, Perrone Tommaso, 3 luglio 2017 9 Importanti in questo senso sono gli studi che hanno permesso grazie all’estrazione di carote di ghiaccio, la scoperta di svariati ceppi di virus e batteri sconosciuti e in via di analisi11. Altro problema è la desertificazione12, cioè l’inaridimento delle terre causato da attività antropiche come la deforestazione, la distruzione della diversità vegetale (per fare spazio ai pascoli per il bestiame e all’agricoltura intensiva) e la mala gestione delle risorse idriche. La desertificazione è una conseguenza anche del cambiamento climatico: l’innalzamento delle temperature porterà alla scomparsa del clima temperato, diffuso in molte aree terrestri (tra cui l’Italia) provocando gravi danni all’agricoltura. Le popolazioni vedranno diminuire i raccolti e, di conseguenza, vi sarà un aumento del numero delle persone a rischio denutrizione. È in atto un calo consistente e pericoloso della biodiversità, specialmente vegetale, fenomeno che potrebbe portare, a breve, ad un rallentamento della lotta alle malattie e un aumento della diffusione di patologie infettive e autoimmuni. Da sottolineare che la conservazione della biodiversità vegetale, in sinergia con la presenza animale, permette un maggior assorbimento di CO2. Con il cambiamento climatico e il rispettivo aumento delle temperature, saranno sempre più frequenti fenomeni come le alluvioni e siccità. Le prime sono dovute al fatto che un clima più caldo porta all’incremento delle evaporazioni dalla terra e dal mare, col conseguente incremento delle precipitazioni (quando il clima raggiunge livelli estremi, prepara il palco a gravi precipitazioni); la seconda è la diretta conseguenza delle alte temperature. Entrambi i fenomeni vanno a colpire la vita dell’uomo, principalmente riguardo alla produzione di cibo e alla disponibilità di acqua potabile, entrambe gravemente ridotte in tutto il globo. Il conseguente rialzo del prezzo dei viveri, inoltre, induce le persone a fare scelte meno salutari in fatto di qualità. Tutto ciò sta colpendo in maniera diseguale le popolazioni mondiali, rendendo la situazione di quelle più vulnerabili e marginalizzate ancora più grave (guerre, incremento del tasso di malattie, mortalità). Il costante aumento dei livelli di biossido di carbonio nell’atmosfera dovuti alle attività umane fa sì che le temperature globali aumentino costantemente, portando a eventi climatici sempre più estremi. Il cambiamento climatico e le sue dirette conseguenze hanno perciò significanti e devastanti effetti sugli ecosistemi naturali, sulle comunità e sugli individui. 11 Fonte: iconaclima.it, Terenghi Elisa, 20 novembre 2019 12 Fonte: Lifegate.it, Brenna Lorenzo, 16 giugno 2017 10 1.2 Impatto sugli ecosistemi, sulle comunità e sugli individui L’impatto del cambiamento climatico sugli ecosistemi è evidente: molti sono i documentari a riguardo, che da anni ci dicono come il cambiamento climatico stia portando alla distruzione di ecosistemi millenari, alla perdita di migliaia di specie animali. Molte hanno cambiato le loro abitudini, l’andamento migratorio, l’interazione tra di loro. Ma i cambiamenti climatici si stanno verificando a ritmi talmente veloci che numerose specie animali e vegetali non riescono ad adattarsi e scompaiono. Ciò che è invece passato inosservato per troppo tempo, alle società occidentali, colpevoli della stragrande maggioranza delle emissioni, è il potente impatto che i cambiamenti climatici stanno avendo e avranno sulle comunità e sugli individui. Eventi climatici estremi hanno determinato la mancanza di acqua potabile e cibo, e hanno portato a disastri molto costosi non solo a livello economico13 ma anche in termini di vite umane. L’impatto del cambiamento climatico e sue conseguenze non è equo, e determina l’acuirsi di criticità in termini di giustizia sociale e internazionale. Questo sarà l’argomento approfondito nel prossimo capitolo. Ciò che andremo ora ad analizzare sono le radici del cambiamento climatico nella Rivoluzione Industriale e il ruolo giocato dall’economia capitalistica. 2 Le loro radici nella rivoluzione industriale La nascita della società industriale moderna possiamo ritrovarla nello scoppio della Rivoluzione Industriale ed è stata questa che ha dato alla luce l’inquinamento ambientale come lo conosciamo ora. Con la nascita e la diffusione delle grandi industrie a carbone e altri combustibili fossili, del settore chimico industriale e dei trasporti a vapore, e la poca consapevolezza dei metodi più sicuri di smaltimento dei rifiuti, questo periodo storico ha dato luogo ad un inquinamento senza precedenti14. Evento simbolo di questo fenomeno, che ha dato il via a riflessioni a riguardo, è stato il “Grande Smog15”, una catastrofe ambientale che colpì Londra nel finire del 1952. Per quattro giorni, la 13 Fonte: ansa.it, Redazione ANSA, 8 ottobre 2019 14 Fonte: wikipedia.org 15 Fonte: wikipedia.org 11 città fu avvolta da una coltre di smog16 che, si stima, fece circa 12.000 vittime, e svariate centinaia di migliaia di persone si ammalarono. Questo avvenimento è considerato il peggior evento d’inquinamento atmosferico nella storia della Gran Bretagna, e uno dei più importanti per portare l’attenzione della comunità scientifica e dell’opinione pubblica sul tema dell’inquinamento. Fece smuovere il governo, che promulgò la legge Clean Air Act17 (Decreto Aria Pulita), che rimase in vigore fino al 1964, utile ad evitare che si ripetesse una simile crisi ambientale. Essendo uno dei primi atti legislativi relativi al problema dell’inquinamento atmosferico, l’emanazione di questo è ancor oggi ritenuta pietra miliare della storia del movimento ecologista del Novecento. Rispetto all’era preindustriale, la temperatura media terrestre è cresciuta di 1°C, questo perché con la Rivoluzione Industriale si è dato il via ad un’attività economica fondata sull’utilizzo del carbone, che come abbiamo visto in precedenza, è uno dei principali colpevoli dell’aumento di diossido di carbonio in atmosfera. Non è un’esagerazione dire che il capitalismo, frutto di questa rivoluzione, sia stato fondato sul carbone. Ed è da questa premessa che andremo ora ad analizzare il ruolo del capitalismo all’interno del fenomeno del cambiamento climatico. 3 Il ruolo del capitalismo Scrive Naomi Klein nel suo libro Il mondo in fiamme: “Semplicemente non c’è modo di far quadrare una fede che spregia l’azione collettiva e venera la totale libertà del mercato con un problema che richiede invece un’azione collettiva a livelli mai visti e una spettacolare limitazione delle forze di mercato che hanno creato e aggravato la crisi.” (Klein N, 2019; 75) Questa è la frase d’apertura scelta dall’autrice per introdurre il capitolo denominato Capitalismo contro clima, frase che sintetizza al meglio ciò che andremo ad analizzare in questa sede. Perché capitalismo e tutela dell’ambiente sono in diretta contraddizione? Il capitalismo è un sistema socioeconomico basato sulla crescita costante, che vede lo sfruttamento delle risorse naturali e la produzione di livelli insostenibili di rifiuti. In più, essendo l’obiettivo quello di 16Nebbia scura e pesante […], costituita da minutissime particelle provenienti da varie fonti (traffico veicolare, impianti di riscaldamento domestico, attività industriali), che agiscono sia come centri di condensazione per l’umidità atmosferica sia come superfici catalitiche per reazioni tra i gas presenti nell’atmosfera Fonte: treccani.it 17 Fonte: legislation.gov.uk 14 CAPITOLO DUE GLI EFFETTI SOCIALI È inevitabile che i cambiamenti climatici abbiano ripercussioni sulle popolazioni. Molto spesso gli studiosi si sono concentrati sull’estinzione di qualche animale o qualche specie vegetale (al riguardo c’è un grande numero di documentari scientifici), senza dare abbastanza peso agli inevitabili effetti sociali delle modificazioni del clima. In questo capitolo si vogliono indagare tali effetti, sia a livello globale che locale. Inevitabilmente, parleremo quindi di giustizia sociale e giustizia climatica, e di come quest’ultima non possa essere scollegata dalla prima. 1 Le conseguenze sociali a livello globale La comunità umana non si è interessata molto alle conseguenze del cambiamento climatico fintanto che gli effetti toccavano “solo” la perdita di biodiversità animale e vegetale. Ora ci si sta accorgendo di quanto sia vitale l’interconnessione tra la vita delle persone e il mondo naturale, e si comincia a studiare il problema in modo serio e approfondito. Ad oggi, secondo una stima fatta dalle Nazioni Unite, il deterioramento del suolo e la conseguente perdita di biodiversità hanno già influito sulla vita di 3.2 miliardi di persone21. La metà più povera della popolazione mondiale contribuisce al 10% delle emissioni, mentre il 10% della popolazione più ricca ne è responsabile al 50%22. Paradossalmente, però, l’impatto socioeconomico e sanitario dell’inquinamento globale grava in maniera molto più pesante sui Paesi poveri. A tale riguardo svariati studi affermano che una condizione di degrado socioeconomico e ambientale va ad influire negativamente sulla salute psicofisica delle persone23. I Paesi economicamente più deboli, nonché più esposti ai fenomeni atmosferici, sono quelli che vivono situazioni socioeconomiche e politiche più fragili, causate, per esempio, da guerre per l’assoggettamento di territori ricchi di materie prime (petrolio, coltan e metalli pesanti) da parte dei Paesi industrializzati. Oltre al tragico costo in termine di vite umane, l’“effetto collaterale” delle guerre economiche è l’impatto a livello ambientale, con la distruzione di fragili ecosistemi che non permettono più la sussistenza delle popolazioni. A fronte del degrado ambientale e sociale, milioni di persone sono costrette a emigrare per cercare un futuro migliore. 21 Fonte: am.pictet, luglio 2019 22 Fonte: investiresponsabilmente.it, 14 marzo 2019 23 Fonte: fondazioneveronesi.it, Comitato Etico, 2015 15 Il cambiamento climatico sta aumentando inoltre la disuguaglianza economica, e di conseguenza sociale, tra i paesi ricchi e i paesi poveri. Lo studio “Global warming has increaded global economic inequality24” pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (Pnas) da Noah Diffenbaugh25 e Marshall Burke26 del Department of Earth system science della Stanford University, dimostra che dagli anni Sessanta del secolo scorso, le disuguaglianze economiche sono cresciute a causa del riscaldamento globale. Lo studio continua affermando che “la maggior parte dei Paesi più poveri è notevolmente più povera di quanto sarebbe stata senza il global warming.” E mentre questi si impoveriscono, la maggior parte dei Paesi ricchi accresce la propria potenza economica, in misura maggiore rispetto a quanto si sarebbe arricchita senza riscaldamento globale27. Nella loro ricerca, Diffenbaugh e Burke riportano i dati28 riguardanti i Paesi più colpiti economicamente dal riscaldamento globale: - Sudan (41 mln abitanti): -36% - India (1,3 mld abitanti): -31% - Nigeria (191 mln abitanti): -29% - Indonesia (264 mln abitanti): -27% - Brasile (209 mln abitanti): -25% Ci sono anche Paesi economicamente “favoriti” dal riscaldamento globale, tra i primi cinque troviamo: - Norvegia (5 mln abitanti): +34% - Canada (37 mln abitanti): +32% - Svezia (10 mln abitanti): +25% - Gran Bretagna (66 mln abitanti): +9,5% - Francia (67 mln abitanti): +4,8% A prima vista, questi dati non sembrano dire tanto. Serve porre attenzione al numero di abitanti presenti in ogni stato: diventa allora significativo constatare che il numero di abitanti dei Paesi 24 Fonte: pnas.org, Diffenbaugh Noah S. e Burke Marshall, 22 aprile 2019 25 Climatologo americano all’università di Stanford 26 Assistente professore al dipartimento di Scienze del sistema terrestre all’università di Stanford 27 Traduzione e sintesi dello studio da greenme.it, 24 aprile 2019 28 Le percentuali si riferiscono alla variazione mediana del Pil pro capite derivante dal riscaldamento globale tra il 1961 e il 2010. 16 negativamente colpiti a livello economico dalla crisi climatica è notevolmente maggiore rispetto a quello dei Paesi favoriti. È lo specchio della società capitalistica attuale: pochi si arricchiscono mentre molti soffrono. Inquinando il pianeta e sfruttando i Paesi (resi) più deboli e poveri, i Paesi più ricchi stanno guadagnando sempre più, arricchendosi sulle spalle dei più deboli. Nasce in questo contesto la connessione tra ingiustizia sociale e ingiustizia climatica. Possiamo affermare, quindi, che l’impatto del cambiamento climatico non è equo. Il vocabolario Treccani, come definizione di equità, riporta: “Giustizia che applica la legge non rigidamente, ma temperata da umana e indulgente considerazione dei casi particolari a cui la legge si deve applicare […]29” L’equità sociale è un ideale che vuole riconoscere a tutte le persone, indipendentemente dalla posizione sociale e luogo di appartenenza, la possibilità di essere considerati alla pari di tutti gli altri individui in ogni contesto30. Si parla qui di equità in termini sociali, quindi di equità sociale (anche denominata giustizia sociale), per cui ci può essere uguaglianza tra le persone solo nel momento in cui sono garantite pari opportunità e pari risorse per accedere a servizi socioassistenziali, all’istruzione, al diritto di voto, alla libertà di parola e pensiero, etc. Pertanto, quando si parla di iniquità rispetto all’impatto sociale del cambiamento climatico, si vuole portare l’attenzione al fatto che questo non colpisce le popolazioni (sia a livello globale che locale) in modo uguale. Lo studio Climate Change, Human Rights and Social Justice31 pubblicato su Annals of Global Health nel 2015 da Barry Levy32 e Jonathan Patz33 afferma che: “Le conseguenze sull’ambiente e sulla salute dei cambiamenti climatici, che colpiscono in modo sproporzionato i Paesi a basso reddito e le persone povere nei Paesi ad alto reddito34, influenzano profondamente i diritti umani e la giustizia sociale. Le conseguenze ambientali […] 29 Fonte: treccani.it 30 Fonte: wikipedia.org 31 LEVY B. S. E PATZ J. A., Climate Change, Human Rights and Social Justice, pubblicato su Annals of Global Health, 27 novembre 2015 32 Tufts University School of Medicine 33 Global Health Institute dell’università del Winsonsin-Madison 34 A riguardo, se ne parlerà nel terzo paragrafo di questo capitolo. 19 mancanza di risorse, e da qui si arriva a possibili conflitti per l’accaparramento delle risorse stesse. È tutto molto correlato.39” I “migranti climatici” sono numerosi ed esistono da anni, ma solo nel 2016 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite di New York ha riconosciuto formalmente gli impatti dei cambiamenti climatici come fattori delle migrazioni forzate40. Molte delle migrazioni climatiche ancora non toccano gli Stati occidentali. La più grande migrazione di massa, senza distinzione tra migrazioni climatiche, economiche, etc., si sta compiendo, infatti, all’interno di Africa e Asia. L’analisi “The Migration Response to Increasing Temperatures”, portata avanti da Cristina Cattaneo e Giovanni Peri all’interno del Journal of Development Economics, si prefigge di studiare il collegamento tra l’aumento della temperatura globale e la migrazione internazionale, prendendo a campione 116 paesi, tra paesi poveri e a medio reddito, in un lasso temporale che va dal 1960 al 2000. Alla base della ricerca, c’è l’ipotesi che le popolazioni rurali vengano impoverite dal riscaldamento globale, e di conseguenza anche la migrazione si modifichi, in base al reddito. Riguardo a ciò, traspare che l’aumentare delle temperature non influisce solo sul numero di migrazioni ma anche sulla loro destinazione. Ogni migrante, in base alla disponibilità economica/di reddito di cui dispone, deciderà se gli convenga migrare, e, in caso positivo, qual sia il luogo meno dispendioso e con maggiori opportunità di miglioramento sociale. Le migrazioni internazionali sono costose, e spesso i potenziali migranti hanno una ridotta capacità economica per finanziare i costi della migrazione. Si ritrovano quindi “intrappolati” nel loro stato di povertà. Sempre dall’analisi, risulta che i flussi migratori causati dal cambiamento climatico sono principalmente verso destinazioni limitrofe, entro una distanza fino a 1000 km.41 Non c’è nulla di vero, quindi, nei proclami politici di molti partiti di destra dei Paesi occidentali, quando urlano all’invasione. Si ritiene anzi, che proprio a causa dell’impoverimento dovuto al 39 Fonte: formiche.net, Scaringella Francesca, novembre 2019 40 Fonte: iom.int 41 CATTANEO C. E PERI G., The migration response to increasing temperatures, pubblicato su Journal of Development Economics, settembre 2016 20 cambiamento climatico e alle sue conseguenze, gli abitanti dei Paesi a basso e medio reddito non intraprenderanno migrazioni ad ampio raggio. Per cui è improbabile che Paesi come Stati Uniti o Europa si vedranno obbligati ad affrontare un’”invasione” da parte di migranti climatici nei prossimi decenni, o almeno non da paesi d’origine a basso reddito. Secondo l’IDMC (Internal Displacement Monitoring Centre), solo nella prima parte del 2019, ci sono stati 7 milioni di nuovi spostamenti associati a più di 950 eventi catasfrofici in 102 tra Stati e territori. La maggior parte di questi eventi si concentrano tra l’Africa42, Asia e Sud America. Il ciclone Vayu, verificatosi in India a giugno, ha provocato 289mila sfollati, mentre le inondazioni ne hanno provocati 405mila nelle Filippine, 190mila in Etiopia e 75mila in Bolivia43. Tra il 16 e il 21 maggio 2020, circa 2,6 milioni di persone sono state evacuate in India e Bangladesh a causa del superciclone Amphan, i cui venti hanno colpito le città a velocità pari ad un uragano di categoria 244, a 160 km/h45. “Con l’arrivo del ciclone Amphan, almeno 19 milioni di bambini in Bangladesh e India sono a rischio a causa di inondazioni improvvise, tempeste e forti piogge. In particolare, desta preoccupazione la situazione dello stato indiano del Bengala Occidentale, che ospita più di 50 milioni di persone, tra cui oltre 16 milioni di bambini46.” Quello del Bangladesh è il caso che palesa la gravità dei cambiamenti climatici e le conseguenze che questi hanno sulla popolazione. Ergendosi nella bassa finale del sistema fluviale Gange- Brahmaputra, più precisamente nella regione del delta del Gange, questo Paese è soggetto a inondazioni, cicloni tropicali e mareggiate, quasi ogni anno. Con l’innalzamento del livello del mare, si stima che un quinto della popolazione di questo Stato rischia di finire sott’acqua47. 42 I migranti africani tendono a non lasciare il continente dando luogo a migrazioni interne. Fonte: vita.it, Dotti Marco, 29 novembre 2019 43 Fonte: Rapporto di metà anno 2019 del IDMC, internal-displacement.org 44 Fonte: wikipedia.org 45 Fonte: greenme.it, Mancuso Francesca, 20 maggio 2020 46 Fonte: unicef.it, 21 maggio 2020 47 Fonte: repubblica.it, 14 novembre 2019 21 L’Unicef, ad aprile 2019, ha emanato lo studio Gathering Storm: Climate Change clouds the future of children in Bangladesh48, in cui si riporta che il futuro di più di 19 milioni di bambini. È necessaria un’azione collettiva, globale in risposta al cambiamento climatico. Le Nazioni mondiali, soprattutto le più inquinanti hanno la responsabilità di cambiare rotta, in modo da ridurre le emissioni e mantenere bassa la temperatura terrestre, per limitare le conseguenze e le rispettive catastrofi che inevitabilmente saremo costretti a fronteggiare. Questa azione collettiva e questa presa di responsabilità sono necessarie soprattutto nei riguardi dei Paesi più poveri, che si vedranno inermi davanti a eventi che non hanno contribuito a provocare. 3 Le conseguenze sociali a livello locale Quello che succede nella realtà mondiale, tra Paesi ricchi e Paesi poveri, è un meccanismo che si ritrova nelle singole realtà locali in giro per il pianeta. Nelle realtà locali, coloro che risentiranno di più dei cambiamenti climatici e dei loro effetti, saranno anche coloro che faranno più fatica a fronteggiarli, sia economicamente sia riguardo alla salute. Il divario a livello globale tra Paesi poveri e Paesi ricchi si ritrova anche all’interno degli stessi paesi ricchi, nei quali il 10% della popolazione più ricca emette gas serra in misura maggiore rispetto al resto della popolazione, ma ne risente di meno in quanto si trova ad avere “le spalle coperte”. Le fasce più colpite saranno ovviamente quelle già più vulnerabili, economicamente e fisicamente (anziani, soggetti con malattie cardiovascolari, diabete, malattie respiratorie croniche e gli abitanti delle aree urbane). L’avanzare del riscaldamento globale le renderà ancora più povere e soggette a malattie. Con l’impoverimento, avranno accesso ad una alimentazione meno sicura e salutare, poiché saranno costrette ad optare per alimenti meno costosi e di dubbia qualità. È risaputo che la qualità del cibo che si ingerisce fa la qualità della salute. Senza contare che l’aumento delle temperature avrà ripercussioni sempre più profonde sui raccolti e sul bestiame, portando all’aumento di malnutrizione. Il cambiamento climatico influenza direttamente e indirettamente una gamma estesa di patologie, come una forza moltiplicatrice. Molte malattie infettive si diffondono velocemente a causa dei 48 Fonte: UNICEF BANGLADESH, A Gathering Storm: Climate change clouds the future of children in Bangladesh, pubblicato su unicef.org, aprile 2019 24 Attualmente la professione si vede inoltre pressata, secondo il New Public Management52, da una nuova gestione del pubblico, sullo stile di gestione delle imprese, che ha portato nel servizio pubblico il modo di fare utilizzato nel privato. All’interno di un mondo globalizzato, lo stato- nazione si sta strutturando col fine di promuovere gli interessi del capitale globale e delle ideologie neoliberali. È in questo contesto che gli assistenti sociali devono far fronte al proprio mandato professionale, che prevede l’aiutare le persone a migliorare la propria condizione di vita, sia a livello individuale che collettivo. Allo stesso tempo, le loro attività vengono gestite con l’impronta del cosiddetto metodo del “nuovo managerialismo”, per cui viene chiesto loro di essere maggiormente efficaci ed efficienti nel razionare gli interventi, potendo fare affidamento su meno risorse, mentre la richiesta di aiuto da parte della cittadinanza si fa sempre più insistente e drammatica (Dominelli, 2005; 37-38). Gli aspetti più importante di questa gestione sono diventati quindi la maggiore razionalizzazione possibile delle procedure per contenere i costi e la rapidità degli interventi, in un contesto sociale caratterizzato sempre più da insicurezza e dal bisogno delle persone di poter far affidamento sulla presenza di professionisti53. Questa realtà ha portato l’assistente sociale ad avere sempre meno tempo per interagire con l’utente e intraprendere percorsi di aiuto propriamente detti, e a ripiegare sull’essere una figura utile solo a compilare documenti necessari alla burocrazia, allo scopo di ottenere contributi economici. C’è bisogno di un cambio di rotta, sia individuale che istituzionale, per cui ogni professionista deve alzare la voce contro un sistema che vuole cancellare il pubblico a favore del privato. È necessario portare all’attenzione dei policy makers i problemi presenti nel proprio territorio, ed è vitale la disponibilità a mettersi in gioco attivamente per il bene comune. La crisi climatica, che consideriamo nuova sebbene abbia radici lontane, è già in atto, perciò i tempi si sono fatti brevi per farci trovare pronti e forti ad affrontarla, lavorando in sinergia e avendo ben chiaro il compito e il campo d’azione di ogni professione. Il lavoro degli assistenti sociali sarà essenziale per portare alla luce i bisogni delle persone, per individuare le categorie di persone più deboli, per studiare gli interventi più utili per affrontare il futuro. Sarà indispensabile 52 Fonte: wikipedia.org 53 Fonte: welforum.it, Dellavalle Marilena, 1 ottobre 2019 25 che l’assistente sociale educhi prima sé stesso in merito al cambiamento climatico, per aiutare i cittadini a fare scelte il più ecologiche possibili, e costruire una società più etica e sostenibile. 1.1 Educare sé stessi Per farsi portavoce e attivisti in prima persona, gli operatori sociali devono essere disposti a voler educare sé stessi costantemente, attraverso gli studi della comunità scientifica, sul tema dei cambiamenti climatici e su cosa possono provocare a livello naturale e sociale. La professione sociale, come molte altre professioni, è sempre in evoluzione, quindi ricade sull’operatore sociale il dovere di tenersi costantemente aggiornato. Come citato nel Codice deontologico della professione, al titolo III, tra i doveri e le responsabilità dell’assistente sociale, vi è quello della formazione continua: art. 24: “L’assistente sociale è tenuto alla propria formazione continua al fine di garantire prestazioni qualificate, adeguate al progresso teorico, scientifico, culturale, metodologico e tecnologico. A tal fine, contribuisce alla ricerca, alla divulgazione della propria esperienza, anche fornendo elementi per la definizione di evidenze scientifiche.54” Nella nuova visione di green social work (Dominelli, 2012) gioca un ruolo importante la collaborazione con altre professioni e discipline. Lo scambio di informazioni e di dati pervenuti dagli scienziati fisici su terreni franosi o più soggetti ad alluvioni, per esempio, permettono una programmazione anticipata di interventi attivabili in caso di emergenza, e quindi la limitazione dei danni che questi eventi naturali possono causare alle persone e a ciò che possiedono. L’utilizzo di documenti storici e d’archivio, e la successiva applicazione di metodi statistici ai dati ottenuti per calcolare la frequenza con cui gli eventi si manifestano, possono aiutare a comprendere quanto è vulnerabile un territorio al manifestarsi di tali eventi. Anche lo studio di determinati eventi inevitabili (es. terremoti, eruzioni vulcaniche, uragani, etc.), sia come probabilità che pericolosità di manifestazione, è essenziale per poter lavorare su una pianificazione a tutti i livelli, in modo da poter rendere le comunità meno vulnerabili55. La stretta e fattiva collaborazione tra gli scienziati naturali e gli “scienziati” sociali, in questo mondo sempre più soggetto ad eventi straordinari dovuti ai cambiamenti climatici, può risultare 54 Fonte: Consiglio Nazionale Ordine Assistenti Sociali 55 Fonte: scienzainrete.it, Leone Ugo, 11 settembre 2017 26 salvifica, perché offre la possibilità di preparare in anticipo le comunità a ciò che potrebbe succedere, e preparare quindi gli interventi statali necessari per aiutare coloro che si vengono a trovare in difficoltà a causa di questi eventi. 2 Il lavoro sociale e la crisi climatica La crisi climatica in atto ci porta a ripensare la società capitalista in cui siamo immersi, e che influenza tutti globalmente, in un modo o nell’altro. Intuiamo che la realtà socioeconomica che abbiamo costruito non è sostenibile, ed è necessario un cambiamento significativo in vari comparti della società. Per poter costruire una società maggiormente sostenibile non è più sufficiente ridurre lo sfruttamento delle risorse naturali della Terra e prendersi maggiormente cura dell’ambiente. Aila-Leena Matthies ritiene che la questione della sostenibilità sociale appartiene ai compiti politici sociali e a quelli del lavoro sociale, come la lotta alla povertà, l’equità e la partecipazione democratica, e il prendersi cura delle persone più vulnerabili. Con l’esperienza in materia di sofferenza e benessere delle persone, di conoscenza della sicurezza e della coesione sociale, di capacità di costruzione della comunità e mobilitazione del capitale sociale, e sapendo quali siano i rischi conseguenti a conflitti sociali ed emarginazione, la politica sociale e il lavoro sociale devono trovarsi in prima linea nella transizione eco-sociale. In questo senso, anche il sociale necessita di una profonda trasformazione, per consentire un futuro più sostenibile (Matthies, 2017; 28). 2.1 Resilienza, vulnerabilità e adattamento In una realtà sociale globalmente intesa, nella quale le situazioni in cui le persone si troveranno a dover affrontare eventi più o meno traumatici e più o meno distruttivi dell’ambiente in cui vivono, è necessario, da parte degli assistenti sociali e degli altri operatori sociali, di un lavoro strutturato sul rafforzamento della resilienza delle persone e sulla preparazione individuale e comunitaria rispetto a possibili catastrofi naturali. Il concetto di resilienza, riferito all’uomo, intende la capacità di reagire di fronte a un trauma e/o a un danno, e auto ripararsi, riuscendo a riorganizzare positivamente la propria quotidianità nonostante gli eventi e le situazioni negative a cui si è andati incontro nel passato o si stanno vivendo. Si abbandona quindi la prospettiva scientifica classica, per cui da una causa ne derivi un effetto su cui l’individuo non ha controllo, e si ragiona sulla potenzialità del trauma subito, 29 rispetto della natura e sarà possibile solo grazie ad una forte resilienza proattiva, capace di affrontare i disastri ambientali ricostruendosi e contemporaneamente migliorandosi. Per poter costruire la resilienza, è necessario che gli assistenti sociali lavorino con gli individui e le comunità, per determinare la suscettibilità del sistema in cui sono immersi, in modo olistico. È un lavoro che prevede la collaborazione di diversi professionisti, dall’ingegnere per la valutazione delle infrastrutture, al sociologo per comprendere come vengano assegnate le risorse in base alla stratificazione sociale61, all’economista per calcolare le risorse economiche disponibili, all’educatore per determinare e sviluppare l’alfabetizzazione per promuovere un impegno attivo da parte di tutti nelle fasi decisionali. L’assistente sociale deve scoprire quali siano le esigenze delle persone, di quale entità esse siano e garantire che vengano soddisfatte incoraggiando le istituzioni. Inoltre, si farà portavoce dei bisogni delle persone presso i policy makers, in modo che sia garantita l’assistenza necessaria, sempre tenendo conto dei valori e delle tradizioni culturali che caratterizzano tutti gli individui (Dominelli, 2012; 67-68). L’assistenza sociale, come è strutturata oggigiorno, ha spesso lo scopo di tamponare alcune problematiche del singolo, senza una importante progettazione sulle cause strutturali che determinano le condizioni di bisogno del singolo. In questo modo conferma una visione assistenzialistica del pubblico. L’impegno dell’assistente sociale nel costruire la resilienza individuale sta quindi nel ricercare le cause del disagio di un singolo nella realtà in cui l’individuo è inserito, per poter modificare la struttura della realtà mentre lavora sul bisogno individuale. L’assistente sociale resiliente (incentiva lui stesso il cambiamento) aiuta le persone e le comunità ad accrescere la resilienza interna, che di conseguenza porta a influire sulle disuguaglianze strutturali, e ad immaginare un futuro diverso, andando oltre ad una visione dello Stato assistenzialista. A riguardo, Dominelli riporta nel suo libro un caso studio di una comunità disagiata della classe lavoratrice britannica, che richiedeva frequenti aiuti statali. Un alto livello di disoccupazione e di degrado ambientale, uno scarso patrimonio immobiliare e il disinteresse degli abitanti per la cura del posto disincentivava l’arrivo di nuovi abitanti. I residenti si sentivano trascurati dal governo, alienati dalla società e isolati dalle sue reti più ampie. 61 In base all’etnia, il genere, l’età e le abilità. 30 Un operatore sociale, Albert, cresciuto con l’amore per l’ambiente, decise di prendere in affitto una stanza da una signora, e cominciò a ripulire il giardino della casa in cui era affittuario, attirando l’attenzione degli abitanti della comunità. Coinvolse un vicino chiedendo in prestito un attrezzo per tagliare l’erba, e poi accettandone l’aiuto in cambio della pulizia del giardino dello stesso. Trascorse i mesi seguenti lavorando nei due giardini, piantando fiori e arbusti, e attirando così l’interesse della comunità. Albert decise di trasformare questa curiosità in un’opportunità, affinché le persone, attraverso la cura dei propri giardini acquisissero un senso di orgoglio per l’ambiente fisico della loro comunità. Nacque un progetto nel quale l’unica condizione era che tutti i residenti adulti vi lavorassero, pena l’espulsione dal programma, e la conseguente sospensione della cura di quel giardino. L’inserimento di sempre più famiglie nel progetto portò alla decisione di chiedere ai proprietari immobiliari il miglioramento del patrimonio abitativo, e ad azioni concrete per ripulire l’ambiente circostante dalle fabbriche dismesse e dai terreni contaminati. Albert aveva portato speranza: potevano migliorare il paesaggio e creare posti di lavoro all’interno della comunità. Le sue azioni avevano stimolato i residenti a creare un ambiente solidale, in cui ci si aiutasse a vicenda. Albert ha funzionato da catalizzatore, diventando espressione di quello che la comunità voleva essere e ciò a cui aspirava. Il tentativo di migliorare l’ambiente fisico ha motivato le persone a pensare a questioni ambientali più ampie che potevano affrontare, chiedendo il suo supporto. Avere speranza di poter fare qualcosa per la propria condizione è fondamentale perché le comunità si sentano potenziate. Incoraggiare le persone a pensare in maniera più ampia, facendo sì che non si ripieghino su sé stesse ma che si mettano in moto per cambiare l’ambiente circostante, è proprio ciò che porta avere una resilienza proattiva forte (Dominelli, 2012; 80-82). Lavorare sulla resilienza delle persone e delle comunità non è una cosa meramente psicologica, ma può essere fatto anche mettendosi direttamente a servizio della comunità, credendo possibile un cambiamento strutturale, in quanto coscienti che il problema di fondo non sia il disagio individuale, ma un sistema sociale che porta le persone a ripiegarsi su sé stesse. 2.2 Povertà ed emarginazione È ormai assodato che la povertà e l’emarginazione sono cause di vulnerabilità. 31 Le risposte inadeguate con le quali il governo americano ha fatto fronte all’emergenza dell’uragano Katrina a New Orleans62 palesano come le popolazioni socialmente più vulnerabili sono quelle che, di fronte a questi eventi, si trovano a soffrire di più (es. la comunità afroamericana, le persone anziane, le famiglie a basso reddito), anche nel paese economicamente più forte. A maggior ragione possiamo immaginare l’impatto di una catastrofe naturale per le popolazioni povere ed emarginate nei paesi del cosiddetto Sud del mondo. Come riporta Dominelli, facendo riferimento allo scritto di Sharkey63, la posizione sociale che le persone rivestono ha un’importante peso sugli effetti che una catastrofe ambientale ha su quel determinato gruppo sociale, cioè influisce sulle possibilità di sopravvivenza, sulla capacità di incrementare la resilienza, di ricostruire la propria vita o migliorarla (Dominelli, 2012; 128). Il lavoro di prevenzione e preparazione alle catastrofi deve riguardare la diretta partecipazione delle comunità nella costruzione di conoscenze e competenze che saranno poi utili a creare realtà di sviluppo comunitario sostenibile, preparato ad eventi naturali catastrofici. Il lavoro dell’assistente sociale non dev’essere la programmazione di un pacchetto di interventi già pronto, che verrà “calato dall’alto” al momento del bisogno in una visione assistenziale di aiuto, ma dev’essere una programmazione co-costruita con la comunità, che dovrà poi implementare gli interventi necessari a fare fronte all’emergenza. Per decenni, nel lavoro con le persone povere ed emarginate, l’intervento dell’assistente sociale si è limitato ad essere quello di fornire la documentazione necessaria alla richiesta di contributi economici, che fungevano da tappo provvisorio ai problemi. Davanti alla necessità di tutelare e proteggere queste fasce della popolazione mondiale nel momento di crisi climatiche, gli aiuti economici e gli interventi individuali non sono più sufficienti. È necessario costruire interventi che vedano al centro il lavoro con la comunità. Per fare ciò, l’assistente sociale deve lavorare sui concetti di solidarietà e di aiuto reciproco, sull’uguaglianza e sul fatto che siamo tutti interdipendenti tra noi e con la natura. Lavorare sulla creazione di comunità basate su questi valori significa allora mettere in discussione la struttura socioeconomica attuale, capitalista neoliberista, basata sul profitto per il benessere di pochi a discapito di molti che non vedono soddisfatti nemmeno i bisogni di base. Creando 62 Fonte: ilpost.it, Misculin Luca, 29 agosto 2015 63 SHARKEY P, Survival and Death in New Orleans: An Empirical Look at the Human Impact of Katrina¸ pubblicato il 1 marzo 2007 34 Il compito degli assistenti sociali è di rendere consapevoli i vari gruppi che il conflitto tra loro non può dare risposta ai loro problemi, ma è necessario impiegare le loro forze nel combattere i comportamenti lesivi delle multinazionali e delle industrie occidentali. Mentre sostengono le popolazioni locali nel chiedere giustizia rispetto a disastri industriali, è necessario che lavorino allo sviluppo di una rete locale resistente e non facilmente sottomettibile allo sfruttamento. L’assistente sociale dovrebbe farsi attivista in prima persona, non limitandosi ad insegnare alle persone cosa fare, ma facendosi interprete, in prima linea, nel denunciare i soprusi e nel cercare la giustizia. Come accadde nei Paesi occidentali con lo scoppio della Rivoluzione Industriale ora, a causa di conflitti, disastri naturali e mancanza di risorse, una grossa parte della popolazione si sposta dalle campagne alle città, e da Paesi in via di sviluppo a Paesi maggiormente sviluppati, dove ci sia richiesta di lavoro. Lo spostamento dalle campagne alle città sta accrescendo rapidamente la presenza di baraccopoli di fortuna nelle periferie delle città, a causa della scarsità di alloggi, creando un ambiente privo di diritti e fisicamente insalubre. Le malattie si diffondono facilmente, a causa della mancanza di acqua e cibo salutari e di personale sanitario adeguato, e la malavita prende il sopravvento. Ciò accade anche quando le persone entrano nel circolo dei campi profughi grazie agli aiuti umanitari. Nei campi, di solito sovraffollati, si vive alla giornata, il cibo scarseggia, i servizi igienici sono inesistenti e le persone, portate allo stremo della sopportazione, rischiano di diventare cattive le une con le altre. In queste realtà, ogni minima situazione può far scattare conflitti, e la sopportazione scende a livelli minimi. Anche la sola diversa appartenenza religiosa di due persone può creare conflitti che sfociano poi nella violenza66. In questi contesti, l’aspetto mediatore dell’assistente sociale gioca un ruolo importante, perché può aiutare a facilitare le relazioni tra i vari gruppi etnici, intraprendendo attività interculturali. Questo lavoro deve essere fatto anche tra gli abitanti locali e i rifugiati dei campi profughi. La collaborazione tra assistenti sociali e ONG presenti nel territorio può sviluppare progetti di miglioramento della convivenza tra gli autoctoni e i profughi. Riguardo al ruolo delle ONG, è importante ricordare che i loro operatori non dovrebbero mai porsi come “salvatori” delle popolazioni in cui vanno a cooperare. Ne parla Nicolò Govoni, 66 Fonte: osservatoriodiritti.it, Maccarrone Cristina, 20 giugno 2019 35 fondatore dell’organizzazione no profit internazionale Still I Rise67, che si occupa dell’educazione dei bambini profughi, in un recente articolo pubblicato su Huffington Post. Govoni ci aiuta a riflettere sulla differenza tra “volonturismo” e volontariato, tra interventi volti ad aiutare efficacemente le persone più fragili, e un “buonismo” che non si occupa seriamente dell’emancipazione delle comunità e nemmeno della distribuzione dei fondi. “Un’esperienza di volonturismo costa in media 2000 dollari, moltiplicata per 1.6 milioni di volonturisti ogni anno, otteniamo oltre 3 miliardi di dollari che potrebbero essere invece donati a organizzazioni etiche di aiuto umanitario volte al sostegno e all’emancipazione delle comunità locali.68” È importante che gli assistenti sociali cooperino, ovunque svolgano il loro lavoro, per la creazione di progetti che vedano coinvolti sia gli abitanti autoctoni che i migranti: non ci può essere l’integrazione degli uni senza una costruttiva collaborazione degli altri. L’accoglienza dei migranti può diventare un modo di ridare vita anche a comunità in disfacimento, come nel caso del modello Riace69. Nel 1998 sulle spiagge di Riace, piccolo paese della Calabria, vittima dello spopolamento, della speculazione edilizia sulla costa e dallo strapotere della ‘ndrangheta, si arenò una barca con un centinaio di persone di etnia curda. Da allora sono arrivati e hanno transitato altri migranti di diverse nazionalità, del Centro Africa e del Medio Oriente soprattutto, tanto che molti tra questi hanno scelto di restare e di diventare residenti a pieno titolo, divenendo parte inscindibile e ben integrata della zona. Nel 1999 Domenico Lucano, ex maestro elementare e poi sindaco, ha fondato a Riace l’associazione Città Futura dando vita ad un progetto di accoglienza «diffusa» avente come scopo il coinvolgimento dei rifugiati all’interno di una comunità rurale che sarebbe stata destinata a scomparire. Le associazioni presenti nel paese, insieme alla giunta, hanno ripulito e ristrutturato strade e case in rovina, realizzato laboratori artigianali che riprendono mestieri dimenticati, aperto botteghe, biblioteche e bar, mantenuto in vita asili e scuole, nonché creato fattorie didattiche, orti e frantoi, facendo rinascere il borgo, dando lavoro e nuove opportunità sia ai locali che ai migranti. Un esempio divenuto virtuoso in tutta Europa, così da far affluire in 67 Fonte: stillirisengo.org 68 Fonte: huffingtonpost.it, Govoni Nicolò, 27 maggio 2020 69 Fonte: ilmanifesto.it, Bassano F. M., 13 ottobre 2018 36 questo luogo prima sconosciuto, visitatori, studiosi, artisti e personalità del mondo culturale. Nel 2018 è stata inaugurata una fattoria didattica, in cui la gente del luogo lavora in collaborazione coi migranti, allevando animali e coltivando la terra con metodi equi e sostenibili. Siamo di fronte alla dimostrazione concreta che un modello di accoglienza e di integrazione è vincente quando coinvolge, dal basso, tutta la popolazione di un luogo, locale e immigrata, educandola a riconoscere e sviluppare in ogni persona le sue peculiarità a servizio della comunità, nel pieno rispetto della natura. Operatori sociali, amministratori locali e politici, ONG e realtà del terzo settore dovrebbero lavorare in sinergia per favorire lo sviluppo di tali modelli di convivenza, indirizzando a tali progetti le risorse economiche necessarie a sostenerli. 3 La permacultura e le comunità Svariate volte abbiamo posto l’attenzione sull’importanza di tornare alle comunità e al lavoro di comunità da parte dell’assistente sociale. L’obiettivo è il ritorno a comunità basate su un sistema ecosostenibile. Un metodo che potrebbe divenire strumento per il lavoro sociale, utile ad aiutare la transizione ecosociale è la permacultura. Il termine “permacultura” viene coniato da Bill Mollison70 e David Holmgren71 a metà anni Ottanta, per indicare un metodo di progettazione dei terreni secondo schemi e relazioni già presenti in natura, capaci di creare un sistema in grado di autoriprodursi e fornire il cibo, le fibre e l’energia necessari a soddisfare le domande della comunità locale72. Non si tratta solo di creare un’agricoltura sostenibile, ma di creare una cultura permanente e sostenibile. Si tratta di modificare le forme con cui noi umani ci relazioniamo con la natura, totalmente intesa, per costruire sistemi fondati sulla stretta relazione tra la stessa e gli uomini. Il metodo della permacultura ha lo scopo di organizzare sistemi autonomi in grado di sopravvivere in toto senza aiuti esterni. È interessante che questo nuovo approccio non risulti applicabile solo in agricoltura, ma anche alle strategie economiche e alle strutture sociali. La sua massima espressione è la realizzazione di eco-villaggi, comunità che si fondano sulla sostenibilità ambientale, cercando di ridurre al minimo l’impatto ambientale attraverso modelli di sostenibilità 70 Fonte: wikipedia.org, Bill Mollison (Australia, 1928-2016), biologo, agronomo, naturalista ed accademico 71 Fonte: wikipedia.org, David Holmgren (Australia, 1955), ecologo, agronomo e educatore 72 Fonte: permacultura.it 39 stimare l’importanza della pratica basata sull’evidenza76 (Fargion, 2013), ha dichiarato durante l’intervista come, per lui, la permacultura non sia semplicemente giardinaggio, ma una teoria di sistemi. La permacultura è ricercare come questo sistema possa risolvere i problemi globali. Le autrici, infine, sottolineano come la transizione ecologica sia stata il catalizzatore di molti degli intervistati, ma che gli stessi descrivono le loro esperienze secondo una visione di transizione sociale. La nuova realtà che si articola attorno al metodo della permacultura aiuta a creare una nuova società basata sull’uguaglianza, sulla condivisione, sul rispetto reciproco, sul valore delle persone e sul loro valore intrinseco. La partecipazione alla permacultura ha benefici in modo olistico sulla persona a livello fisico, mentale e sociale. I partecipanti palesano l’aiuto che hanno tratto da questo nuovo modello per riscoprire il valore della condivisione, della connessione sociale e con la natura, di quanto questo modo di vivere li abbia aiutati ad accrescere e migliorare la coesione con gli altri membri della comunità, in quanto la permacultura aiuta a instaurare rapporti profondi di reciproca stima. Inoltre, la permacultura, e la società che ne consegue, si basa sulla condivisione delle conoscenze senza fini economici, con l’unico scopo di mettere a disposizione del bene comunitario ciò che si conosce, affinché sia parte di tutti. Riportano le autrici il pensiero di Margo: “[…] volevo aiutare le persone e imparare giardinaggio e fare workshop e insegnare… […] abbiamo chiesto alle persone cosa volessero imparare e poi ciò che abbiamo scoperto è che loro volessero condividere ciò che conoscevano […]. Persone che vogliono solo connettersi con altre persone, invece che (pensare) a quanti soldi hai.” L’obiettivo, in questo tipo di società, non è più la corsa all’accumulo di denaro con la convinzione che quello sia il benessere (materiale) di cui necessita l’uomo, ma è il costruire un sistema incentrato sulle relazioni con gli altri e con la natura, convinti che il benessere vada oltre al mero benessere materiale. 76 Consiste in un utilizzo accurato, esplicito e sensato delle migliori evidenze empiriche disponibili da parte del professionista chiamato a prendere decisioni. Si basa su abilità specifiche che consentano di valutare in modo sistematico e oggettivo le evidenze esterne e l’esperienza soggettiva dell’interessato. 40 Apollo, uno dei membri intervistati, fa sapere che: “[…] la bellezza della permacultura è che tutti aiutano tutti, e quando qualcuno se ne va, ha acquistato una buona conoscenza riguardo aspetti della propria vita.” Oltre alla conoscenza della natura, dell’apprendimento di arti e mestieri, e alla connessione più profonda con le persone, la permacultura aiuta a conoscere sé stessi e ad entrare in contatto con il proprio io più profondo e autentico. La permacultura dà l’opportunità di rimettersi in gioco e di riscoprirsi, aiutando ad accrescere la fiducia in sé stessi e in quello che si è. Aiuta ad intraprendere un percorso di accettazione di sé stessi e di conseguenza degli altri, e delle differenze che stanno in tutti. In questo senso, la permacultura aiuta all’inclusione, in quanto tutti siamo diversi e meritevoli di un posto in questo mondo. Nella permacultura non esistono più persone di serie A e persone di serie B. Rispondendo alla domanda che ha dato avvio a questa ricerca, cioè se e come la permacultura possa essere uno strumento pratico per il lavoro sociale, le autrici mettono in relazione le due realtà, entrambe basate su valori etici e su paradigmi scientifici che le rendono uniche. Entrambe cercano di costruire comunità, di promuovere l’uguaglianza e l’inclusione sociale. Il lavoro sociale si trova oggi di fronte alla necessità di riconoscere i problemi causati dalla società capitalista neoliberale, basata sulla crescita continua, ecologicamente e socialmente insostenibile. Può trovare nella permacultura uno strumento utile in quanto questa le può dare conoscenze specifiche riguardo all’ambiente e al modo in cui lavorano gli ecosistemi (Boddy e Ramsay, 2017; 215). Si tratta quindi di integrare i mezzi e i valori su cui già il lavoro sociale si fonda, con la conoscenza della natura, dei suoi sistemi e del metodo di costruzione di comunità ecosostenibili della permacultura. Queste due realtà, lavorando in sinergia, sono in grado di riportare al centro i rapporti comunitari e il rapporto sano e rispettoso dell’uomo con la natura. 41 CONCLUSIONE Il lavoro sociale, considerate la sua struttura e la sua metodologia, si concentra sulla visione olistica della persona e del suo sistema sociale, guardando alle reti in cui è la persona è inserita. Questa visione è andata persa negli ultimi decenni, durante i quali le riforme neoliberali sono andate affermandosi sempre più all’interno della società occidentale. Le riforme neoliberali hanno portato gli individui all’estremizzazione dell’individualismo, facendo perdere di vista la necessità del rapporto con le persone e la natura. Perché avvenga una transizione ecosociale, e si possa costruire una società sostenibile a livello ambientale e sociale, è necessario rimettere al centro dell’attenzione la rete sociale degli individui, e tornare lavorare sulla collettività, perché solo in un contesto sociale sano, equo e aperto, l’individuo può stare bene. Il lavoro con l’individuo è importante nella prospettiva di un benessere che, di riflesso, si riverserà anche sulla comunità e sulla natura. Nel momento in cui la comunità starà bene, si apre la possibilità di lavorare sul rispetto ambientale e sulle relazioni tra uomo e natura. È necessario che si arrivi al superamento definitivo della responsabilizzazione della condizione di marginalità e difficoltà in cui una persona può trovarsi. È appurato dalle molte ricerche fatte in questo ambito, che il malessere non nasce da una responsabilità unica dell’individuo, ma è dovuto anche a cause esterne che vanno ad influire sull’individuo, che poi paleserà il malessere in svariati modi. Il compito dell’assistente sociale è quindi quello di ricercare le cause del malessere nella struttura sociale e nelle relazioni negative in cui è immerso l’individuo, e di lavorare direttamente su queste. Si ritorni dunque al lavoro sistemico, concentrandosi tanto sul sistema sociale della persona quanto su quello ambientale perché, come ribadito più volte, l’ambiente naturale in cui una persona è inserita, influisce su di essa tanto quanto la rete sociale. Si cerchi quindi di incentivare il lavoro di comunità, maggiormente efficace quando l’assistente sociale non è una figura esterna che va, in caso di bisogno, a intervenire sulla comunità in difficoltà, ma è una figura interna alla comunità, attivamente partecipe della vita comunitaria in tutti i suoi aspetti. Sarà importante ridare giusto valore ad una armonica vita comunitaria, nella quale vivere in una condizione di uguaglianza e parità fra le persone, e con la natura. 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