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Empatia e neuroni specchio, Tesi di laurea di Psicologia Generale

Empatia e neuroni specchio, come coniugare aspetti scientifici a pratiche di colloquio

Tipologia: Tesi di laurea

2019/2020

Caricato il 08/11/2020

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Scarica Empatia e neuroni specchio e più Tesi di laurea in PDF di Psicologia Generale solo su Docsity! UNIVERSITÀ PONTIFICIA SALESIANA Facoltà di Scienze dell’Educazione Curricolo di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione Tesi di baccalaureato Saper sentire: empatia e neuroni specchio nel colloquio psicologico Studente: Daniele GUGLIELMI Relatore: prof. Raffaele Mastromarino Roma, 2018\2019 INTRODUZIONE Il presente elaborato, dedicato alla conclusione del primo ciclo del mio percorso universitario in Scienze dell’Educazione, curriculum Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione, si prefigge di sviluppare il tema dell’empatia, con particolare riferimento alla scoperta dei neuroni specchio e alla centralità che assume nel colloquio psicologico nelle innumerevoli modalità della comunicazione. Tale tematica ha suscitato in me interesse sin dai miei studi liceali affrontando la lettura del romanzo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera ( 1984), nel quale l’autore dedica particolare attenzione al termine compassione, analizzando l’etimologia della parola sia da radice latina che greca, sostenendo che nelle lingue in cui tale parola si forma non dalla radice “sofferenza” ma dal sostantivo “sentimento”, la parola si bagna di una luce diversa e le dà un senso più ampio: avere compassione (co-sentimento) significa vivere insieme a qualcuno qualsiasi disgrazia, ma anche provare con lui qualsiasi altro sentimento. Affrontando gli studi universitari e concentrandomi in tale prospettiva, ho conosciuto e fatto mio il concetto di empatia, che amplifica la traduzione kunderiana di compassione ad una porta d’accesso dei sentimenti altrui e di ciò che sente la persona che si ha di fronte, intendendo tale possibilità come “l’arte della telepatia delle emozioni” (Kundera, 1984). Sperimentata così anche a livello personale l’empatia nei vari laboratori svolti all’interno dell’università, ho ampliato i miei studi riguardo la scoperta dei neuroni specchio e sugli esperimenti di Rizzolatti e la sua equipè (Rizzolatti,2016). Ciò ha permesso di conoscere il meccanismo neurofisiologico attraverso il quale si percepisce l’intenzione altrui, ovvero valutare a livello cerebrale quali processi avvengono nel momento in cui una persona a noi vicina compie un’azione e con tali conoscenze ho cercato di scoprire, attraverso l’aiuto di differenti bibliografie, come sia possibile leggere tali conoscenze in una chiave meno scientifica ma più pratica e concettuale nel colloquio psicologico. Riguardo ai neuroni specchio, soprattutto oggigiorno, possiamo ritrovare una grande quantità di letteratura che descrive l’importanza di queste cellule nella vita quotidiana. Si ipotizza che il funzionamento dei neuroni specchio sia alla base dell’empatia, dell’apprendimento, della capacità di fare previsioni e che abbia inoltre un ruolo evidente nelle condotte sociali. Si può dire che il meccanismo di tali cellule assuma importanza poichè permette maggiormente di comprendere noi stessi e anche il contesto sociale, in 1 Capitolo I Fisiologia dei neuroni specchio In questo primo capitolo, al fine di dare una visione generale, ma chiara circa l’argomento che andremo a trattare lungo tutto l’elaborato, si è ritenuto opportuno analizzare la struttura e le dinamiche dei neuroni, come essi agiscono, svolgono le loro attività e la loro funzionalità a livello cerebrale per poi allargare e conoscere il meccanismo dei neuroni specchio. Si è ritenuto necessario analizzare in primo luogo la struttura del cervello per poi comprendere il movimento e la funzionalità delle cellule che lo compongono. Inseguito si presenterà la ricerca dello scienziato Giacomo Rizzolatti e la sua equipè per poi analizzare il discorso di tali neuroni nei meccanismi umani quali l’imitazione, il linguaggio e l’immaginazione. 1.1. I neuroni: struttura ed attività Da sempre ci si è chiesti come sia possibile comunicare e comprendere un evento, come si entra a contatto con esso e come tale meccanismo avvenga a livello neurologico. Ci si pone la domanda di quale struttura sia alla base della conoscenza cognitiva del mondo circostante e di come si prenda atto e coscienza di ciò. Per rispondere a tali quesiti si è studiato l’organo più complesso e fantasioso a cui l’uomo possa aver mai acceduto, e per la prima volta l’oggetto d’indagine studiato coincide con il mezzo attraverso il quale poterlo studiare: il cervello. Il cervello umano (più correttamente “encefalo”) è il risultato della sovrapposizione dei tre tipi di cervello apparsi nel corso dell’evoluzione dei vertebrati. Dal basso (alla base del cranio), il cervello più antico, o romboencefalo, specializzato nel controllo di funzioni involontarie come vigilanza, respirazione, circolazione e tono muscolare. Comprende il cervelletto e le parti del midollo spinale che si allungano nel cervello. Salendo, c’è il mesencefalo: una piccola porzione di tessuto nervoso costituita dai cosiddetti peduncoli cerebrali e dalla lamina quadrigemina. Di seguito c’è il prosencefalo, la parte più “moderna”, suddiviso in diencefalo e telencefalo. Il primo, chiamato anche “sistema limbico”, contiene strutture come talamo, ipotalamo, ipofisi e ippocampo, da cui provengono sensazioni come fame, sete o desiderio sessuale. Infine, la parte più recente in assoluto: la corteccia, dove hanno sede le funzioni intelligenza 4 e linguaggio https://image.slidesharecdn.com/sistnervoso- 150316004800- conversion-gate01/95/sistema-nervoso-45-638.jpg?cb=1426484987 La corteccia occupa gran parte del cranio, quindi il suo volume è facilmente intuibile. Difficile, invece, immaginare quanto sia estesa. La corteccia è infatti percorsa da profonde fenditure (le circonvoluzioni cerebrali) tanto che, se potessimo “distenderla”, occuperebbe un’area molte volte maggiore di quella della testa. La fenditura più profonda è quella che separa i due emisferi, uniti però dal corpo calloso, una fittissima trama di fibre nervose: se si recidessero, i due emisferi non comunicherebbero più. Le altre fenditure maggiori distinguono i cosiddetti “lobi”, i quali sono quello temporale (udito ed equilibrio), frontale (movimenti volontari), parietale (sensibilità tattile e gusto) e occipitale (visione). Ad avvolgere l’encefalo troviamo infine le membrane chiamate meningi (pia madre, aracnoide e dura madre): contrariamente a quanto suggeriscono le frasi fatte, non servono a pensare, ma a nutrire e proteggere il cervello vero e proprio. 1 ll sistema nervoso a livello anatomico, ovvero in base alla sua localizzazione nel corpo umano, viene diviso in due parti chiamate Sistema Nervoso Centrale (SNC) e Sistema Nervoso Periferico (SNP). Il sistema nervoso centrale include i neuroni, le fibre nervose presenti nel cervello e nel midollo spinale, contenuto all’interno del canale vertebrale della nostra colonna. Il sistema nervoso periferico è invece costituito dai recettori e dai nervi che dalla periferia inviano informazioni verso midollo e il cervello, e dalle fibre motorie che dal midollo si dirigono verso i muscoli scheletrici. Contrariamente al SNC, quello periferico non è protetto dallo scheletro né dalla scatola cranica. La maggior parte delle nostre conoscenze sulla neurobiologia del Sistema Nervoso Centrale (S.N.C.) e le implicazioni nella diagnosi, terapia e prognosi dei disturbi mentali dipendono dalla fisiologia dei neuroni. Il neurone rappresenta l'unità funzionale del sistema nervoso. La capacità principale del neurone è quella di eccitarsi e trasmettere impulsi elettrici e le sue proprietà morfologiche rispecchiano questa peculiare funzione. 1 http://www.treccani.it/enciclopedia/neurotrasmettitori_%28Dizionario-di-Medicina%29/ 5 I neuroni sono i componenti fondamentali del tessuto nervoso e formano circuiti complessi in grado di ricevere, elaborare, conservare e trasmettere l'informazione con grande rapidità anche a notevole distanza all'interno del corpo umano.2 La scoperta di tali cellule rivoluzionò il modo di comprendere la realtà e segnò il passaggio decisivo per uno studio fisico del cervello. Era il 1873 quando una inserviente di laboratorio buttò per sbaglio nella spazzatura un pezzo di cervello destinato a essere sezionato e studiato. Qualche ora prima, nella stessa spazzatura, lo scienziato italiano Camillo Golgi aveva buttato del nitrato d’argento nello stesso contenitore. Il mattino seguente, recuperato il pezzo di cervello, Golgi notò che il tessuto nervoso aveva assorbito il colorante alla perfezione, con i neuroni ben visibili in nero. Così Golgi scoprì un metodo di colorazione del tessuto nervoso (ancor oggi in uso) che gli permise di identificare per primo il neurone. Fece, però, un errore quando affermò che i neuroni formavano una rete continua di fibre. In seguito lo spagnolo Santiago Ramón y Cajal accertò che ogni neurone rappresenta un’unità anatomica distinta e che tra due neuroni c’è sempre un varco. I due scienziati nel 1906 condivisero il Nobel per la scoperta del neurone. Così da una scoperta serindipita si è andato a scoprire il meccanismo alla base della comunicazione del corpo umano e dei processi che permettono la conoscenza della realtà. 1.1.1. Struttura del neurone Da un punto di vista citologico, i neuroni sono simili alle altre cellule del nostro organismo. Essi sono rivestiti da una membrana plasmatica e contengono organelli fondamentali, quali il nucleo, il reticolo endoplasmatico, i ribosomi, l'apparato di Golgi e i mitocondri. Nei neuroni però tutto è organizzato per svolgere al meglio un solo compito, quello della comunicazione nervosa, una forma molto specializzata di comunicazione intercellulare. I neuroni hanno una forma altamente asimmetrica, caratterizzata da lunghi prolungamenti e mantenuta da uno scheletro interno estremamente sviluppato (citoscheletro neuronale). Inoltre, i vari componenti cellulari e le stesse proteine della membrana plasmatica sono distribuiti in modo fortemente asimmetrico. Nella struttura polarizzata dei neuroni sono riconoscibili quattro principali compartimenti: (a) un compartimento di ricezione dei segnali costituito dai dendriti e parte del corpo cellulare (soma); (b) 2http://www.treccani.it/enciclopedia/neuroni-e-sinapsi_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della- Tecnica%29/ 6 da un ingegnere, incominciava però a insinuarsi qualche piccola crepa. (Rizzolatti, 2012, 21) Ci si trova nell’Università di Parma all’inizio degli anni Novanta. I protagonisti della storia risultano essere Giacomo Rizzolatti, Leonardo Fogassi, Luciano Fagida, Vittorio Gallese e una scimmia macaco. Si studiava l’area F5 del macaco, parte della corteccia premotoria (o corteccia frontale inferiore), zona dove avviene la programmazione del movimento e che si attiva qualche millisecondo prima dell’area motoria. Lo studio mirava a conoscere i meccanismi neurofisiologici alla base dei movimenti della mano per studiare le possibilità di recupero in pazienti con lesioni neurologiche. https://image.slidesharecdn.com/neuronispecchio-150516031819-lva1-app6892/95/neuroni-specchio-v-3-638.jpg?cb=1431746336 L’esperimento avveniva utilizzando macachi a cui erano stati inseriti, in singoli neuroni della corteccia premotoria, elettrodi finissimi collegati a un amplificatore acustico. Ogni volta che i neuroni si attivavano si udiva il suono dei neuroni che “scaricavano”. Durante l’esperimento, gli scienziati registravano l’attività dei neuroni quando alla scimmia era permesso di prendere del cibo, così da misurare la risposta neuronale a specifici movimenti. Durante una pausa dell’esperimento, mentre la scimmia era seduta immobile, un ricercatore ha allungato la mano verso una banana e inaspettatamente i neuroni della scimmia hanno scaricato con la medesima intensità e durata di quando era la scimmia stessa ad afferrare il cibo. Inizialmente gli scienziati hanno pensato di trovarsi di fronte a 9 uno di quei rumori di fondo che spesso “sporcano” la raccolta dei dati. Ma ben presto si sono accorti che questo fenomeno inspiegabile si ripeteva costantemente: i neuroni motori della scimmia scaricavano anche quando la scimmia era immobile e si muoveva invece il ricercatore. Passata l’incredulità iniziale ci si convince che quei fatti curiosi meritino qualche approfondimento. Comincia così una serie di esperimenti volti a studiare l’attività dei neuroni della scimmia quando questa, anziché agire, osserva le azioni di altri soggetti. Esistono così dei neuroni che si attivano sia quando la scimmia compie una certa azione, per esempio quando con la mano porta alla bocca un acino uvetta, sia quando essa osserva la medesima azione effettuata dallo sperimentatore. Data la loro capacità di attivarsi riflettendo le azioni degli altri, a queste cellule della corteccia premotoria è stato dato il nome di neuroni specchio. Si tratta di neuroni che si comportano come i neuroni motori quando si attivano per un’azione propria, mentre mostrano la propria peculiarità quando si attivano in risposta alla stessa azione compiuta da altri (Rizzolatti, 2012, 32) “Il fenomeno del rispecchiamento consiste essenzialmente nel fatto che la semplice osservazione delle azioni di un’altra persona provoca un’attivazione della corteccia motoria che è somatotopica rispetto alla parte del corpo che si osserva compiere l’azione, anche in assenza di qualunque movimento da parte del soggetto che osserva. I neuroni specchio hanno insomma la caratteristica di rispondere sia quando il soggetto fa qualcosa di specifico sia quando lo vede fare da un altro” (Merciai e Cannella, 2005) 1.1.4. Risvolti studi e relative conclusioni La scoperta dei neuroni specchio nella scimmia ha suggerito subito l’idea che un sistema di risonanza simile potesse essere presente anche nell’uomo. Esperienze a favore dell’esistenza nell’uomo di un meccanismo che oggi interpretiamo come meccanismo specchio erano rintracciabili in alcuni studi di elettroencefalografia (EEG), condotti nella prima metà degli anni Cinquanta del Novecento, sulla reattività dei ritmi cerebrali durante l’osservazione di movimenti. La prova più convincente che il sistema motorio dell’uomo possieda proprietà specchio si deve però ad alcuni studi di stimolazione magnetica transcranica (transcranical magnetic stimulation, TMS). La TMS è una tecnica non invasiva del sistema nervoso. Quando uno stimolo magnetico è applicato alla corteccia motoria, con un’intensità appropriata, si riesce a registrare dei potenziali motori (motor 10 evoked potentials, MEP) nei muscoli controlaterali. Dato che l’ampiezza di tali potenziali è modulata dal contesto comportamentale, questa tecnica può essere utilizzata per controllare lo stato di eccitabilità del sistema motorio nelle varie condizioni sperimentali. Tali tecniche però, se permettono di prelevare specifiche attivazioni del sistema motorio indotte in soggetti umani dall’osservazione di azioni compiute da altri individui, non consentono di localizzare le aree corticali e i circuiti neurali che risultano coinvolti e, di conseguenza, di individuare l’architettura complessiva del sistema dei neuroni specchio. (Rizzolatti,2006,113-115) A tal fine ci si è avvalsi di metodologi di brain imaging, in particolare della tomografia a emissione di positroni (Positron Emission Tomography, PET) e della risonanza magnetica funzionale per immagini (functional Magnetic Resonance Imaging, fMRI), le quali permettono una notevole visualizzazione spaziale-tridimensionale del flusso sanguigno presente nelle diverse regioni del cervello dall’osservazione all’esecuzione di atti motori, e di misurarne così il rispettivo grado di attivazione. I primi esperimenti di Rizzolatti (2006) con esseri umani, condotti con immagini di azioni (afferrare) prodotte graficamente al computer, diedero risultati deludenti. La ripetizione degli stessi esperimenti con azioni eseguite e osservate fra persone in carne e ossa diede invece risultati più concreti. Le aree contemporaneamente attive durante l'osservazione degli atti altrui sono risultate:  la porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore;  il settore inferiore del giro pre-centrale;  il settore posteriore del giro frontale inferiore;  in alcuni esperimenti si osservano attività anche in un'area anteriore del giro frontale inferiore  nella corteccia pre-motoria dorsale. Questo per quanto riguarda l'azione e l'osservazione di movimenti fondamentali, ancora slegati da comportamenti emotivi. 6 6 http://www.stateofmind.it/2017/04/neurone-introduzione-psicologia/ 11 sperimentali, si riferisce alla capacità di un individuo di replicare un atto, che in qualche modo appartiene al suo patrimonio motorio, dopo averlo visto fare da altri; la seconda, propria degli etologi, presuppone che tramite l’osservazione un individuo apprenda un pattern d’azione nuovo e sia in grado di riprodurlo nei dettagli”. A seconda dell’assunto teorico di riferimento si ritiene che tale processo avvenga secondo differenti modalità: il primo di basa su «una netta separazione tra i codici sensoriale e motorio: l’imitazione sarebbe possibile in virtù di processi associativi che collegherebbero elementi che a priori nulla hanno in comune. Il secondo, invece, assume che l’azione osservata e quella eseguita debbano condividere il medesimo codice neurale, e che ciò rappresenti il prerequisito dell’imitazione.» (Rizzolatti,2006, 136). Attraverso l’accesso all’imitazione tramite quest’ultimo, Wolfang Prinz e suoi collaboratori si richiamano alla nozione di “azione ideomotoria”, ampliata all’imitazione sotto forma di principio di «compatibilità ideomotoria” dallo psicologo americano Anthony G Greenwald. Asserendo a tale principio “ più un atto assomiglia a uno presente nel patrimonio motorio dell’osservatore più tende a indurne l’esecuzione: percezione ed esecuzione delle azioni debbono pertanto possedere uno “schema rappresentazionale comune”, dove questo schema appare modulato dalla comprensione da parte dell’osservatore del tipo d’atto, ovvero dello scopo o stadio finale del movimento compiuti dal dimostratore.»( Rizzolatti,2006,137) I neuroni specchio riqualificano così il principio di compatibilità ideomotoria poiché lo schema rappresentazionale comune non andrebbe considerato come uno schema astratto, ma come una modalità direttiva dei feedback visivi in atti motori potenziali. Molti tra gli psicologi dello sviluppo si sono interessati a tale tematica. Lo stesso Piaget riteneva che il bambino, intorno al secondo anno d’età, con la fine dello stadio senso- motorio, passa da un livello rappresentativo mentale (gioco simbolico, disegno fino ad arrivare al linguaggio) dove raggiunge la padronanza dell’imitazione anche senza più il modello da imitare (“imitazione differita”) ( Santrock,2017) Anche Vygotskij diede un contributo importante sotto questo punto di vista. Tra le ricerche e le riflessioni che ha svolto in campo infantile, affronta il discorso dell’imitazione all’interno della relazione dinamica che sussiste tra apprendimento e sviluppo. 14 L’imitazione, così, viene affrontata in primis non come processo meccanico e ripetitivo ma come processo creativo. Afferma che l’adulto viene imitato o che fornisce istruzioni ( e anche questo potrebbero essere inteso come una forma di imitazione), su come comportarsi e agire, fa sì che il bambino possa raggiungere e sviluppare molte abilità. In particolar modo, è da tale comportamento imitativo che si andranno a instaurare due processi interdipendenti, non scomponibili e attivi fin dal primo giorno di vita: apprendimento e sviluppo. 7 Alcuni decenni fa due psicologi dell’età evoultiva, Meltzoff e Moore (1977,1983,1997), hanno iniziato a studiare l’imitazione in neonati di pochi giorni e settimane, (addirittura in un neonato di quarantadue minuti di vita) giungendo a conclusioni sorprendenti. Hanno osservato che anche il piccolo nato soltanto quarantadue minuti era in grado di imitare alcuni gesti del volto e delle mani, come aprire la bocca o usare la protrusione della lingua. Inoltre, hanno ipotizzato fina dai loro primi esperimenti che il neonato già alla nascita è predisposto a imitare perché possiede un meccanismo innato comune a tutta la specie umana. L’imitazione precoce è un fenomeno che neurofisiologi spiegano ipotizzando che alla nascita si possiede un sistema di neuroni specchio non completamente maturo ma che comunque permette forme di imitazione semplice. Il sistema specchio, però, possiede anche capacità potenziali di sviluppo grazie a tutta una serie di stimolazioni provenienti dall’interazione socio-ambientale. Tale assunto è il punto di intersezione che lega la teoria imitativa formulata da Vygotskij, quando parla di potenzialità presenti in ogni individuo, che però svilupperà solo in interazioni con i propri simili nel proprio contesto storico- culturale, con le scoperte sui neuroni specchio. 8 A tal proposito si ritiene fondamentale riportare quanto scrive Iacoboni(2008,135,136): “Sebbene sia verosimile che alcune di queste cellule siano attive già in una fase precocissima della vita e facilitino le prime interazioni, credo che la gran parte del nostro sistema dei neuroni specchio in realtà formi nel corso dei mesi e degli anni di queste interazioni. Eˊ probabile, in particolare, che la formazione dei neuroni specchio nel cervello del bambino abbia luogo durante l’interazione reciproca, come abbiamo visto per quanto attiene al sorriso” 7 https://www.neuropsicomotricista.it/argomenti/657-tesi-di-laurea/il-ruolo-dell-imitazione-in-bambini- con-disturbo-dello-spettro-autistico/3451-imitazione-e-neuroni-specchio.html 8 https://www.neuropsicomotricista.it/argomenti/657-tesi-di-laurea/il-ruolo-dell-imitazione-in-bambini- con-disturbo-dello-spettro-autistico/3451-imitazione-e-neuroni-specchio.html 15 Iacoboni(1999) sottolinea come l’esperienza svolta in interazione con i nostri simili porti a far sì che i neuroni specchio vengano potenziati dall’esperienza diventando necessari per lo sviluppo di forme di apprendimento imitative come forme potenziali. “… uno scenario molto verosimile del modo in cui l’esperienza modella e rafforza i neuroni specchio è quello nel quale la reciproca imitazione durante l’infanzia consente al bambino di stabilire un’associazione fra certi tipi di movimenti e il vedere qualcun altro eseguire quegli stessi movimenti. I bambini che in seguito svilupparono l’autismo tendono a non guardare la madre né il padre né altri che si prendono cura di loro, e non sono in grado di fare associazioni fra i propri movimenti e quelli di altre persone che li imitano”. Ne consegue che i neuroni specchio non possono prendere forma né rafforzarsi. Come Rizzolatti presente nel suo libro So quel che fai, il cervello che agisce e i neuroni specchio(2006) , Iacoboni e colleghi hanno dimostrato attraverso l’impiego della PET quali sono le aree corticali che vengono coinvolte durante l’osservazione e l’imitazione. L’esperimento condotto con soggetti adulti, ha rivelato che sia durante l’osservazione che durante l’imitazione di un’azione viene attivato il medesimo circuito corticale. Il circuito in questione comprende la corteccia del solco temporale superiore (che si riferisce all’area 21 di Broadman), il lobo parietale inferiore (riferito all’area 40 di Broadman), la parte anteriore della regione di Broca ( riferita all’area 45 di Broadman) nella circonvoluzione cerebrale frontale inferiore http://1.bp.blogspot.com/npNc3KXDHc0/VP9_cvLee2I/AAAAAAAAACU/2gdQ4NBYuw0/ s1600/Brodmann%2B1.jpg L’area di Broca risulta essere importantissima non solo per le funzioni linguistiche, ma anche per l’imitazione: in un esperimento condotto attraverso la TMS si è visto che se viene bloccata quest’area i soggetti non riescono più a imitare certe azioni, come per esempio premere i tasti di una tastiera del computer. 16 a sostegno dell’omologia tra le aree F5 e di Broca sono di carattere anatomico e citoarchitettonico, e dunque indipendenti dalla scoperta di entrambe di neuroni specchio, il fatto che quelle siano accomunate da un tale meccanismo ( e che esso abbia nell’uomo nuove proprietà utilo per l’acquisizione del linguaggio) starebbe a indicare, a meno di non pensare a una coincidenza fortuita, che lo sviluppo progressivo del sistema dei neuroni specchio abbia costituito una componente chiave nella comparse ed evoluzione della capacità umana di comunicare, a festi prima e a parole poi ( Rizzolatti, 2007) La teoria motoria del linguaggio sostiene che la comprensione del linguaggio parlato non sia dovuta esclusivamente alle aree sensitive, ma anche all’accensione dei circuiti motori implicati nella produzione del linguaggio stesso. La scoperta dei neuroni specchio ha permesso di appoggiare questa teoria, secondo cui, dunque, esiste un sistema che trasforma il fonema udito nel suo equivalente motorio (esattamente come avviene per le azioni motorie osservate, come abbiamo visto nel precedente articolo). Diversi studi sono stati quindi effettuati al fine di trovare una correlazione tra la capacità di produrre fonemi e la possibilità di comprendere i fonemi uditi. Tra questi vi è uno studio volto a misurare i potenziali motori evocati (MEP) dei muscoli della lingua in seguito all’ascolto di stimoli acustici. I MEP sono segnali elettrici registrati a livello dei muscoli, che insorgono a seguito della stimolazione delle vie motorie che li innervano. Se è vero che ascoltare un fonema attiva la via motoria che uso quando lo produco, a livello dei muscoli della lingua dovrei trovare questa attivazione. Effettivamente questo è quello che accade10: l’ascolto delle parole e delle pseudoparole contenenti la doppia r determinava un significativo aumento dei MEP registrati dai muscoli della lingua, rispetto al caso dei suoni bitonali e delle parole e delle pseudoparole contenenti la doppia f (Nda: la f è una consonante che non prevede la mobilizzazione della lingua) (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Tali dati neurofisiologici, tanto quanto quelli di altri studi, sembrano indicare che il lungo cammino dell’evoluzione verso il linguaggio sia stato scandito da una serie di tappe decisive (l’integrazione di un sistema orofacciale con uno manuale, la formazione di un armamentario di protosegni gestuali di matrice per lo più pantatonica, l’emergenza di un proto-linguaggio bimodale- gesti e suoni- e, infine, la comparsa di un sistema prevalentemente vocale), ciascuna delle quali appare a sua volta legata a una fase dello sviluppo di un meccanismo, come quello dei neuroni specchio, in origine deputato al 10 https://il-corpoumano.it/neuroni-specchio-tra-linguaggio-e-riabilitazione/ 19 riconoscimento delle azioni altrui e privo di alcuna effettiva funzione comunicativa di tipo intenzionale. (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006, 163). 1.2.3. Immaginazione Per affrontare il dibattito la correlazione tra neuroni specchio e immaginazione si è svolto uno studio approfondito del pensiero del dottor Alberto Oliviero in Immaginazione e Memoria fantasia e realtà nei processi mentali (2013), nel quale presenta una ampia definizione e descrizione del concetto di immaginazione. Ci si pone la domanda se esiste una differenza tra immagini mentali e proposizioni incentrando il dibattito tra i sostenitori del pittoralismo e quelli del proposizonalismo. Una proposizione è una rappresentazione astratta (generalemente di tipo linguistico), che descrive o asserisce fatti. Nella logica, il concetto di proposizione si riferisce al contenuto concettuale di un enunciato a cui attribuiamo valore di verità o falsità: ne consegue che un enunciato non può essere ambiguo. Secondo i pittorialisti ogni parte di una rappresentazione (immagine mentale) corrisponde alla stessa parte dell’oggetto rappresentato. Ciò comporta l’esistenza di una rigorosa somiglianza tra immagini e figure: in sostanza, secondo i pittorialisti, una figura e un’immagine mentale rappresentano un oggetto in un modo molto simile. Per i sostenitori del proposizionalismo, invece, l’immaginazione dipende dal ricorso a processi di pensiero generale, svolti da un sistema gerarchicamente superiore al sistema immaginativo e a quello verbale. Secondo proposizionalisti, la rappresentazione è dunque una descrizione strutturale, un sottoprodotto di proposizioni astratte che contengono informazioni sulle proprietà delle parti dell’oggetto e sulle loro relazioni spaziali. Questa contesa si è man mano trasformata, grazie allo sviluppo delle neuroscienze, in un dibattito sui processi e le strutture cerebrali coinvolti: per esempio, gli studi di neuroimaging funzionale hanno permesso di accertare che, quando si percepisce e quando si immagina, si attivano le stesse arre cerebrali. ( Oliviero,2013) 1.3.Conclusioni 20 Da tale capitolo si può comprendere l’importanza dei neuroni specchio e come tali cellule siano fondamentali nelle dinamiche di percezione ed intenzione delle proprie azioni. Si è valutata la struttura fisica,l’importanza del suo funzionamento e i risvolti della scoperta di tale neurone nell’immaginazione e nel linguaggio, nel prossimo capitolo si affronterà la relazione tra empatia e neuroni specchio per poter comprendere come tale scoperta possa aver aiutato la comprensione del “sentire l’altro”. Ci si soffermerà sul concetto astratto dell’empatia per entrare in maniera ordinata nella più ampia argomentazione del tema. 21 significativa l’enfasi che egli pone sull’aspetto squisitamente affettivo dell’empatia. (Bonino et all.,2010) Titchener ritenne che il termine più adatto a tradurre Einfuhlung fosse la nuova parola empatia, da lui coniata sulla base del greco empatheia e della sua similarità con il termine simpatia. L’autore applicò tale termine sia al rapporto con gli oggetti che alla relazione sociale, sottolineando la tendenza naturale a “sentire dentro” una situazione o una persona, con la conseguente tendenza all’imitazione dell’emozione compartecipata. Tale tendenza mimetica si concretizza nel tradurre attraverso l’espressività che il soggetto legge nell’oggetto. La capacità di fare propria l’esperienza di un’altra persona era d’altronde già stata descritta ed analizzata da Freud a proposito dell’identificazione isterica. Freud aveva chiarito (1988) che per mezzo di tale tipo di identificazione i pazienti riescono ad esprimere nei loro sintomi le esperienze delle altre persone e a soffrire ciò che gli altri soffrono. L’identificazione isterica non è semplice ed esteriore imitazione, bensì appropriazione profonda di ciò che l’altro vive, sulla base del riconoscimento inconscio di una comune esperienza emotiva, in genere di natura sessuale. L’esperienza di condivisione era quindi ben nota agli psicoterapeutici, ed è proprio in ambito clinico che, a partire dalla prima definizione di empatia, il concetto è stato ampiamente utilizzato, trovando un terreno fecondo per l’approfondimento. L’attenzione si è spostata dalla condivisione dei vissuti altrui, caratteristica dell’identificazione isterica, alla relazione tra il paziente ed il terapeuta, ed il ruolo svolto dall’empatia in tale relazione. Rogers l’ha considerata una modalità indispensabile nel rapporto terapeutico, la quale consente di entrare nel mondo di un’altra persona senza giudicarla. Anche Kohut (1959;1984) ha posto l’empatia al centro della relazione terapeutica, considerandola la modalità attraverso la quale il terapeuta accede al mondo psicologico del paziente. Empatia e introspezione sono per questo autore gli aspetti essenziali dell’osservazione psicoanalitica: senza empatia si registrano solo gli aspetti fisici di un movimento o di un’azione, ma non se ne può comprendere il significato psicologico. Più in generale, l’empatia è per questo autore una capacità innata che permette a tutte le persone umane di comprendere gli stati psicologici degli altri; essa è perciò diversa sia dalla simpatia sia dalla compassione o dall’intuizione. Kohut (1971) ha sottolineato anche la funzione dell’empatia nel creare il legame tra le persone; si tratta di un tema che è stato ripreso dalla recente ricerca psicologica, in particolare nello studio della relazione madre- bambino. ( Bonino et all., 2010) 24 Anche Allport (1937) ha analizzato il concetto di empatia sottolineando la tendenza all’imitazione motoria delle posture e delle espressioni facciali degli altri, riallacciandosi così ai primi studi sull’argomento. In Murphy(1947) si ritrova la stessa enfasi sull’aspetto fisico ed espressivo della partecipazione empatica, ritenuta un’esperienza sostanzialmente affettiva di condivisone: in conseguenza della diretta “apprensione” dello stato mentale di un’altra persona e del suo vissuto, l’osservatore vive ed esprime anche a livello motorio le stesse emozioni dell’altro. A seguito di ciò, si accede ad una concezione fondamentalmente affettiva della personalità, considerata come un’esperienza di condivisione emotiva. Tale concezione si smorza invece a partire dagli anni Settanta, che vedono peraltro un diffondersi dell’interesse per l’empatia anche nella psicologia dello sviluppo. Lo sforzo di comprendere i processi che mediano l’adesione empatica, unito a quello di trovare valide scale di misurazione, porta infatti a spostare l’attenzione sugli aspetti più cognitivi di tale esperienza. Nella letteratura sull’empatia compaiono termini di tipo maggiormente cognitivo, che riguardano la capacità di assumere la prospettiva ed il ruolo di un’altra persona. Inizia una grande fioritura di studi, che comporta però, allo stesso tempo, anche un rischio di dispersione sia sul piano teorico che metodologico. Il termine empatia viene via via identificato in fenomeni diversi, che vanno dalla capacità di riconoscimento delle emozioni altrui e dell’assunzione della prospettiva dell’altro al comportamento di aiuto e di soccorso. Questa breve analisi ci mostra che nel corso di questo secolo il concetto di empatia è stato considerato da punti di vista assai differenti, che hanno focalizzato l’attenzione ora sul contagio emotivo e sull’imitazione motoria automatica, ora sugli aspetti cognitivi, ora sugli aspetti sociali, ora sulla condivisine affettiva. Ne è nata una babele delle lingue e delle definizioni, nella quale si è sovente persa di vista la natura complessa e multidimensionale del fenomeno. (Bonino et all., 2010) Si può concludere che la teorizzazione recente, saldandosi con i primi studi sull’argomento, considera l’empatia un’esperienza sostanzialmente affettiva di condivisione. Eisenberg e Strayer (1987,p.5) così sintetizzano l’attuale definizione di empatia: una risposta emotiva che è provocata dallo stato emotivo o dalla condizione di un’altra persona, e che è congruente con lo stato emotivo o la situazione dell’altro 25 è questa la concezione che guida il lavoro e il modello di questo lavoro, dove la persona empatica non solo comprende, ma anche partecipa e condivide. Questa condivisione non si esaurisce nella mera condivisione cognitiva, ma comporta un sentire comune; senza almeno un barlume di risonanza emotiva, non vi è empatia. (Bonino et. All. 2010, 18). 2.1.1.1. Critica all’empatia: tra cognitivismo e Gestalt Tra le varie teorie postulate riguardo il concetto di empatia, la Gestalt pone una critica fondamentale che mette in crisi l’assunto generale e le modalità di applicazione di tale concetto. Se possiamo ravvisare il nucleo di verità della teoria dell’empatia nell’avere sollevato il problema di ciò che la Gestalt chiamerà “strutture dinamiche” dell’oggetto, e di avere insistito sulla risonanza del soggetto, l’errore è quello di non aver preso abbastanza sul serio le prime, di non avere cioè considerato queste strutture come proprietà originarie delle configurazioni percettive ma come “proiezioni empatiche”, come aggiunte la cui origine veniva cercata all’interno dell’osservatore, quindi fuori dalle configurazioni percepite. È così che verrà presentata le ragioni della Gestalten in favore dell’empatia. Si tratta, secondo tale approccio alla teoria dell’empatia, di un Misconoscimento dei puri fenomeni espressivi il fatto che una determinata teoria psicologica faccia nascere solo da un atto secondario d’interpretazione e li dichiari semplici prodotti dello “immedesimarsi”. Il difetto fondamentale di questa teoria consiste nell’invertire l’ordine dei dati fenomenici. Essa deve prima uccidere la percezione, deve farne un complesso di semplici contenuti sensibili, per poi dare di nuovo vita a questa morta “materia” della sensazione mediante l’atto dell’immedesimazione ( E. Cassier, 1929, III, I, 96) Nel concetto di empatia abbiamo l’assunto della soggettività delle qualità espressive, di contro all’oggettività delle qualità primarie e al dubbio statuto delle secondarie; l’assunto che il significato non inerisca alla percezione; l’assunto della assoluta diversità tra il mentale e il corporeo; l’assunto del solipsismo; l’assunto della dinamicità del soggetto vs la passività dell’oggetto. La passata necessità e la fortuna del concetto è tutta qui. In psicologia saranno i gestaltisti a elaborare una teoria dinamica della percezione e più in 26 esplicita che il nostro corpo o noi siamo dentro il nostro il nostro cervello, semmai il contrario. Solo confondendo la soggettività genetica con la soggettività psichica, ovvero corpo fenomenico e organismo fisico, oggetto fenomenico e oggetto fisico, possiamo giudicare soggettive le qualità espressive, ritenerle localizzate nell’Io e ricorrere alla fantasiosa ipotesi della compulsione a proiettare per incontrarle là dove sono. Come non è possibile localizzare il colore rosso di un oggetto nel nostro io, allo stesso modo non possiamo farlo per le qualità espressive. L’espressione e i colori, della cui oggettività ancora si continua a dubitare, fenomenicamente sono qualità non meno oggettive delle qualità primarie. (Pizzo Russo L., 2009, 52) Dal punto di vista fenomenologico (…) le qualità appartengono al luogo dove le troviamo. E nessuna spiegazione o teoria potrà convincerci che esse non erano dove le abbiamo trovate (…) il problema della loro origine non è il problema della loro attuale localizzazione. (W. Kohler, 1938, 64) Quanto al solipsismo, il cosiddetto “mondo privato” è un puro oggetto di pensiero, e, fermo restando che qualunque oggetto, animato o inanimato, artistico o non artistico, ha qualità espressive, il significato e il valore di un oggetto sono percepiti quanto meno con la stessa immediatezza di colori e forme: “ il roboante crescendo di un tuono (non è) un fatto sensoriale neutro; alla massima parte di noi esso suona “minaccioso”. Le qualità espressive sono qualità-del-tutto o qualità gestaltiche. Non meno oggettive delle qualità primarie (Pizzo Russo L., 2009): L’elevarsi si una vetta montana, l’espandersi di una chioma arborea, lo sporgere di un naso o di un mento colpiscono l’occhio dell’osservatore più direttamente, e vengono meglio ricordati, delle proprietà geometriche delle forme che creano tali effetti dinamici (W. Kohler, 1947, 187) L’espressione fa parte integrante del processo percettivo elementare. Il che non dovrebbe sorprendere. La percezione è un mero strumento che registra colori, configurazioni, suoni, ecc… soltanto finchè non viene considerata isolatamente rispetto all’organismo, di cui è parte. Nel suo più proprio contesto biologico, la percezione assume la figura del mezzo attraverso il quale l’organismo ottiene informazioni in merito alle forze amichevoli, ostili, o comunque significative cui deve reagire. L’essere vivente è primariamente interessato alle forze che sono attive nel suo ambiente e non alle qualità primarie e secondarie dello stesso: un masso che blocca la strada non si definisce 29 innanzitutto in termini di forza, grandezza e colore, ma come una brusca interruzione del fluire in avanti che è l’esperienza dinamica della strada. (Pizzo Russo L., 2009) Ritornando a Lipps, fondatore del concetto di empatia, contrariamente a quanto sostenuto da lui e da quanti ricorrono all’empatia, il “furore” e la “minaccia” o il terrificante sono proprietà dell’oggetto. È importante sottolineare questo punto. È vero che il terrore abita dentro di noi, quando ne siamo colti, ma è ugualmente vero che l’oggetto che causa del terrore è lui stesso a essere terrificante: le sue fattezze sono vedute immediatamente come la diretta cagione del nostro sconvolgimento; vorremmo che dal nostro ambiente fosse rimosso quell’oggetto, non un altro, per trovare sollievo. Il nostro stato d’animo può persino essere di polarità opposta a quello dell’oggetto, come quando da tristi ci si trova nel bel mezzo di una allegrissima festa che potrebbe anche infastidirci. La nostra capacità di leggere nella scena e nelle persone le vere caratteristiche di quella diffusa spensieratezza non dipende certo dal nostro stato d’animo; non è lì che le nostre qualità terziarie hanno origine. Non proiettiamo il nostro rovello interno sui colori del mondo: se quell’allegria ci dà fastidio è appunto perché la vediamo come allegria (P. Bozzi, 1990, 103-104) Per quanto riguarda i sentimenti, che alla fine dell’Ottocento sono stati chiamati “qualità estetiche”, non implica affatto che tutte le qualità estetiche siano sentimenti. La teoria dell’empatia- secondo la quale anche le qualità gestaltiche degli oggetti percettivi sono in realtà sentimenti dell’osservatore, sentimenti che questi in qualche modo proietta o trasferisce su quegli oggetti- non è uno sviluppo della teoria gestaltica dei sentimenti, ma la completa negazione del suo vero significato e una chiara ricaduta in spiegazioni atomistiche. Questo non significa che l’arte non possa emozionare, solo si precisa, contro la teoria tradizionale dell’arte, che non basta l’emozione per far fruire l’arte. (Pizzo Russo L., 2009) Il risalto dato all’arte in quanto emotiva intendeva spiegare l’enfasi posta su ciò che ho chiamato espressione, dato che i mezzi di cui si servono gli artisti per creare le loro opere sono proprio le qualità espressive (R. Arnheim, 1989, 72) Così considerata la differenza tra arte figurativa e arte “astratta” è di superficie, e la prima si allaccia senza soluzione di continuità alla seconda. 30 Verosimilmente, riflette Arnheim, è stata la risonanza corporea del soggetto, il suo “sentire” le dinamiche dell’oggetto, non spiegabile con la teoria tradizionale della percezione, ad avere condotto alla teoria dell’empatia, vale a dire alla nozione che l’espressone altro non sia se non l’esperienza propria (passata o presente) dell’osservatore stesso, proiettata sul precetto. La teoria dell’empatia estetica, e lo stesso vale per l’empatia intersoggettiva, sono sorte proprio per dare conto della nostra reazione alle qualità espressive, qualità significativamente considerate “contenuti psichici” o “contenuti spirituali”, e che pertanto non potevano essere dell’oggetto come le qualità primarie, ma del soggetto, una sua “proiezione” rinvenuta nell’oggetto. La reazione del soggetto, non riconosciuta in quanto tale, interpretata come causa scatenante di un presunto “istinto” a proiettare, è servita a trasformare, con un gioco di prestigio teoretico, l’espressione da oggettiva in soggettiva. In psicologia così scompare l’empatia (col senno di poi: si inabissa), e il meccanismo della proiezione continuerà a esercitare la sua azione entro i confini della psicologia clinica dominata dalla psicoanalisi dove ha la sua ragion d’essere come meccanismo di difesa. Non, quindi, come meccanismo psichico generale, che, sorto e affermatosi per risolvere la contraddizione tra due conoscenze egualmente sicure e innegabili, quella fenomenologia: l’uomo sta nel mondo, e quella fisiologica: il mondo sta nell’uomo, è stato utilizzato dai teorici dell’empatia per spiegare l’espressione. (Pizzo Russo L., 2009) 2.1.1.2. La riscoperta dell’empatia Dopo aver presentato le varie definizioni e speculazioni riguardo l’empatia nella prospettiva di ogni corrente psicologica di riferimento, si terrà presente quella che è l’odierna teoria di riferimento e la ri-scoperta di tale concetto nella realtà quotidiana. «L’empatia sembra conoscere oggi un nuovo periodo di fortuna. Si annunciano studi molto promettenti sulle sue basi biologiche e neurofisiologiche; la psicologia, l’estetica, la riflessione morale tornano a darle rilievo» (Pizzo Russo L., 2009) Per lo più viene trattata come fosse un genere naturale, non una sofisticata costruzione culturale di una stagione passata: non un’interpretazione del “sentire”, accesamente discussa e infine abbandonata, ma il sentimento, l’emozione. Era già Lipps (1900) a lamentare che 31 a meno di non ritornare a guardare facendo attenzione a forma e colori. Le qualità espressive sono le qualità veramente primarie e non sono più difficili da percepire delle cosiddette qualità primarie e secondarie. Rimane vero che sono più difficili da analizzare poiché la maggior parte degli uomini muoiono senza essersi mai resi conto delle strutture dinamiche il cui valore viene da loro percepito in modo immediato nei più comuni sentimenti della vita quotidiana. L’espressione, non solo ha priorità fenomenica nell’esperienza ecologica, ma è il linguaggio delle arti. (Pizzo Russo L., 2009, 14,15) Parafrasando Theodor Lipps, ma invertendo gli elementi del rapporto, “si osserva che esiste un termine che sembra indicare la stessa cosa designata dal termine espressione, ossia il termine empatia (Einfuhlung). Un gesto empatizza gioia o tristezza. Le forma di un corpo empatizzano forma o salute. Il paesaggio empatizza uno stato d’animo. Tale “empatizzare” significa in effetti esattamente ciò che significa il termine espressione.” Ma allora perché non usare il termine espressione? Perché, ci dice Lipps, «il concetto di “espressione” è più ampio di quello di “empatia”. Si dice: una proposizione esprime un giudizio. Non si dice però: empatizzo nella proposizione il giudizio. Certo, lo si può dire, ma un giudizio non è una cosa sentimentale. Un giudizio è un atto logico, è l’atto del riconoscimento di uno stato delle cose. Senza dubbio, nel compierlo, si esperisce questo atto in sé stessi. Ma non si dice di sentirlo. Ci si trova interiormente a pronunciare questo o quel giudizio, ma non ci si “sente” giudicanti allo stesso modo in cui ci si sente appassionatamente eccitati, energicamente tesi, non si sente il giudizio come si sente l’eccitazione passionale» (Lipps.1909,56) Se le cose stessero effettivamente così-vale a dire: se “espressione” significasse esattamente ciò che significa “empatia” e la differenza tra i due termini riguardasse la loro maggiore o minore estensione- lo spazio logico dell’interrogativo verrebbe meno. Non c’è dubbio che il termine espressione è più ampio di quello di empatia; è anche plurisemantico e appartiene di conseguenza a ben diversi orizzonti di sapere. Perciò nasce l’esigenza di delimitarne innanzitutto il raggio di incidenza. Il significato di espressione non collima con quello di Lipps, già a partire dalla forma verbale con cui lo esemplifica, di contro alla forma “avverbiale” della teoria gestaltista; né è quello che l’uso corrente, colto o popolare, gli assegna, legato com’è-questo- alla mente, all’esprimersi dell’uomo e dell’animale per cui si presuppone che la pietra, la cascata e il fulmine non abbiano espressione se non in senso figurato, per analogia col comportamento umano. Un significato, quest’ultimo, più propriamente designato dal termine fisiognomico, considerato sinonimo di espressivo. Se teniamo presente che la fisiognomica è lo studio dei rapporti tra i caratteri corporei, 34 specialmente i tratti del viso, e i caratteri psicologici degli esseri umani, ci rendiamo conto che nell’uso fisiognomico per espressivo è implicito che, propriamente parlando, solo l’essere animato si esprime e possiede espressione. Ed è questo il significato che “espressione” ha in psicologia da quando gli studiosi delle emozioni hanno ripreso la tradizione darwiniana. I termini si possono ridefinire per le esigenze scientifiche, e, in effetti, la definizione gestaltista di espressione sopra riportata, è ad evidenza, una ridefinizione dell’uso corrente. I due termini tecnici, “espressione” ed “empatia”, sono per davvero diversi. Hanno quindi significati diversi, e in più, non stanno sullo stesso piano: il secondo è un modo di interpretare il primo. Quanto al “sentire” o all’ “eccitazione passionale” su cui insiste Lipps, va precisato che, sebbene le qualità espressive siano “i soli aspetti del dato fenomenico in gradi di determinare e influenzare i nostri propri stati d’animo” (Metzger,1963,78), e pur apprezzando quel genere di stimolante partecipazione che distingue l’esperienza artistica distaccata accettazione dell’informazione, anche la mera informazione può suscitare profonde emozioni. (Pizzo Russo L., 2009, 17-20) «come avviene a chi guardi un grafico che descrive l’aumento delle testate nucleari» (Arnheim,1987,279) “Empatia” non ha lo stesso significato di espressione, perché, oltre a significare ciò che “espressione” significa, viene anche a significare il dove dell’espressione e il come l’espressione viene alla luce. Il come, chiamando in causala proiezione, mette fuori gioco la percezione e occulta l’oggettività delle qualità espressive; il dove rimanda al soggetto: l’espressione, sebbene la si incontri nell’oggetto, è del soggetto. (Pizzo Russo L., 2009, 42,43). 2.1.3. Empatia e percezione Definita la differenza empatia ed espressione si presenta la relazione che l’empatia ha con la percezione. Come intendere che “il paesaggio mi esprime uno stato d’animo?” per i teorici dell’empatia davvero un paesaggio può apparirmi triste o allegro. Poiché gli oggetti, contrariamente ai soggetti, non hanno sentimenti, emozioni, passioni, come si fa a rinvenire stati d’animo negli oggetti? Fermo lasciando che gli stati d’animo sono del soggetto, la soluzione del problema la si è ritrovata nel meccanismo della proiezione: è il soggetto a proiettare i propri stati d’animo negli oggetti. 35 l termine proiezione, dal latino proicĕre, “gettare avanti”, può avere un duplice significato e disciplina di appartenenza; in neurologia con tale vocabolo, si intende la corrispondenza tra un apparato somatico recettore o effettore (struttura periferica) e un’area cerebrale (struttura centrale). Nel contesto della psicologia, e della psicoanalisi più nello specifico, la proiezione viene identificata come un meccanismo di difesa; a tal proposito quest’ultimo fa riferimento alla costruzione che una persona fa di se, cercando di tutelare le proprie caratteristiche autentiche, incluse le debolezze, le fragilità e, talvolta l’umanità. Entrando più nel dettaglio, la proiezione è un meccanismo di difesa messo in atto dall’Io per affrontare situazioni di angoscia vissute come un pericolo per l’integrità o l’equilibrio del soggetto: nella proiezione si ha l’attribuzione ad altri di propri aspetti o vissuti negativi. In tal modo, l’individuo allontana da sé qualità, sentimenti e oggetti interni di cui rifiuta ogni coinvolgimento personale. La proiezione è un meccanismo di difesa molto primitivo ed è specifico dei disturbi paranoidi, ma può presentarsi anche nel pensiero comune sotto forma di superstizione.12 “Dal punto di vista psicologico la questione, adesso come prima, è che i sentimenti che appartengono al mio io mi compaiono davanti immediatamente, scavalcando il mio io, come appartenenti all’oggetto, dunque come proiettati all’esterno a partire da me” (Volkelt J.,1927,245) La «natura inanimata», la «forma morta» diventa così viva: proietti dunque la mia stessa vita individuale nella forma priva di vita, come faccio giustificatamente anche con un non- io personale e vivente e mi trovo misteriosamente trasferito e magicamente trasformato in questo non io. (Vicher R.,1873, 115,116) Il fatto, di cui le ragioni esplicitate da Lipps per la sua scelta non rendono conto, è che fin dalla sua nascita il concetto di empatia si basa sul meccanismo di proiezione, corredato via via da “associazione”, “imitazione”, “inferenza per analogia”, “esperienza passata” et similia. La proiezione del soggetto sull’oggetto fa, quindi, parte del DNA del temine (Pinotti A., 2011,12) Come dice Robert Vischer (1873,98) l’“iniziatore” dell’estetica dell’Einfuhlung che si attribuisce pure la paternità del termine, si tratta di un inconscio trasferimento della propria forma corporea e quindi anche dell’anima nella dorma dell’oggetto. Da ciò ho derivato il concetto che ho nominato empatia. 12 https://www.psiconline.it/le-parole-della-psicologia/la-proiezione.html 36 tipologie d’atto, ma spesso provocano in noi rabbia, odio, terrore, ammirazione, compassione, speranza. (Rizzolatti, Senigaglia, 2006) Indipendentemente dal fatto che si traducano in un sentimento consapevole o meno, che scuotano il nostro corpo in maniera esplicita e riconoscibile all’esterno o producano unicamente reazioni fisiologiche interne, le emozioni offrono al nostro cervello uno strumento essenziale per orientarsi tra le molteplici informazioni sensoriali e per innescare automaticamente le risposte più opportune, ovvero quelle atte a promuovere la sopravvivenza e il benessere dell’organismo. Certo talvolta possono ingannare: a chi non è successo di spaventarsi senza motivo? Tuttavia se si fosse incapaci di spaventarsi, o più in generale, se il cervello non fosse in grado di discriminare emotivamente gli eventi percepiti, ricordati o immaginati, sarebbe arduo venire a capo anche delle più semplici tra le situazioni quotidiane. In L’espressione delle emozioni (1872) Darwin insegna come gran parte delle reazioni emotive, e in particolare quelle cosiddette primarie: paura, rabbia, disgusto, dolore, sorpresa, gioia, ecc.), consistano di un insieme di risposte sedimentatesi nel corso dell’evoluzione in virtù della loro originaria utilità adattiva, e come non sia perciò sorprendente che esse rivelino una notevole somiglianza tra specie differenti e, all’interno di quella umana, tra culture diverse. Oggi cominciamo a conoscere abbastanza bene l’anatomia e le funzioni dei principali centri nervosi responsabili delle emozioni primarie quali il dolore e il disgusto, nonché il ruolo che tali centri rivestono nell’organizzazione dell’attività cerebrale e nella regolazione dei processi vitali. Ma lo studio delle basi neurofisiologiche delle emozioni non riguarda soltanto i meccanismi che consentono al cervello di rilevare segnali di pericolo o odori e sapori nauseanti, e di innescare routine di risposte adattive così mirabilmente descritta da Darwin. (Rizzolatti, 2006, 168) Gran parte delle interazioni con l’ambiente e dei comportamenti emotivi dipende dalla capacità di percepire e di comprendere le emozioni altrui. Colpisce vedere qualcuno impallidire all’improvviso e cominciare a tremare: la sua eventuale fuga è uno stimolo emozionale potente, assai diverso da quello rappresentato dalla vista di un semplice atto locomotorio. Lo stesso quando si osserva dipingere sul volto di un altro una smorfia di disgusto: difficilmente ci si lancerà sulla bevanda o sul cibo che l’hanno provocata. I vantaggi adattavi offerti da tali forme di risonanza emotiva sono evidenti. Non solo consentono ai singoli organismi di affrontare in maniera efficace eventuali minacce ( o opportunità), ma rendono possibile l’instaurarsi e il consolidarsi dei primi legami 39 interindividuali. Sappiamo, infatti, che già dopo due o tre giorni i neonati sembrano distinguere un volto contento da uno triste, e che intorno al secondo o terzo mese i bambini sviluppano una “consonanza affettiva” con la madre, al punto da ricorrere in modo più o meno sincronizzato espressioni facciali o vocalizzazioni che ne riflettono lo stato emotivo. L’articolazione e differenziazione progressiva del risveglio emotivo indotto dalla percezione delle espressioni altrui permetterebbero loro di realizzare nei mesi successivi alcuni comportamenti sociali elementari quali, per esempio, l’offrire aiuto o conforto a chi appare in difficoltà. Si tratta per lo più di forme di empatia rudimentali, assai meno sofisticate di quelle che stanno alla base delle nostre condotte sociali mature. E tuttavia, queste come quelle presuppongono la capacità di riconoscere le emozioni altrui, di leggere sul viso, nei gesti o nella postura del corpo degli altri i segni del dolore, della paura, del disgusto o della gioia. Ma qual è il meccanismo che permette al cervello di elaborare gli stimoli proveniente da un’espressone facciale altrui o di codificarli come una smorfia di chi prova dolore o disgusto? Bisogna assumere che l’attivazione delle aree corticali visive inneschi un qualche processo cognitivo in grado di interpretare le informazioni sensoriali come portatrici di una determinata valenza emotiva? Oppure ipotizzare che la vista del visto altrui esprime un’emozione attivi nell’osservatore gli stessi centri cerebrali che si attivano quando è lui stesso ad avere quella specifica reazione emotiva? In altri termini, il riconoscimento delle emozioni degli altri poggia su un insieme di circuiti neurali che, per quanto differenti, condividono quella proprietà specchio già riscontrata nel caso della comprensione delle azioni? Oppure è un processo cognitivo non diverso dal riconoscimento dei volti o, più in generale, delle forme se non per il tipo di informazioni che elabora? (Rizzolatti, 2006) Cercheremo di dare risposte a tali quesiti valutando il concetto di contagio emotivo e simulazione incarnata. 2.2.1. Il contagio emotivo Per comprendere e discernere il concetto di empatia presenteremo il punto di partenza della percezione e condivisione delle emozioni, la forma più primitiva di condivisione emotiva, il contagio emotivo appunto. 40 Siamo a tavola. Gaia, una bambina di un anno e mezzo, è nel seggiolone, accanto a quello di Maria Lucia, bambina della stessa età. All’improvviso, Gaia esplode in un pianto a dirotto. Maria Lucia la guarda e un istante dopo la segue a ruota. Non solo. Prende un pezzo di pizza che ha davanti e glielo porge, come atto consolatorio, mentre entrambe si disperano senza un motivo. Ecco, il contagio emotivo è questo: un sentimento di altri che contagia noi, proprio come se si trattasse di un virus sociale. Con tale termine si raggruppano tutte quelle forme di condivisione emotiva immediata ed involontaria, caratterizzate da assenza di mediazione cognitiva. Si tratta di reazioni automatiche agli stimoli espressivi manifestati da un’altra persona: l’emozione è condivisa non in modo vicario, ma in modo diretto. (Bronzino,2010) L’ipotesi che esista una tendenza innata al contagio emotivo, vale a dire ad assumere in maniera riflessa e cognitivamente non mediata dallo stato emotivo di un’altra persona, risale a Darwin (1872), per il quale l’emozione aveva una funzione eminentemente comunicativa e sociale. Secondo Darwin esiste nell’uomo una capacità innata di riconoscimento delle emozioni, unita ad una tendenza altrettanto innata a rispondere automaticamente a queste in modo congruente. In questa prospettiva teorica, ripresa dalla moderna etologia, la ricca espressività delle emozioni-non solo negli animali ma anche nell’uomo- non è soltanto legata adattivamente alle modificazioni fisiologiche collegate all’emozione stessa, ma agisce da segnale che comunica ai congeneri un certo stato emotivo e ne determina il contagio per imitazione automatica. L’etologia più recente ha ripreso questi temi, in relazione soprattutto all’uomo, cercando di spiegare il valore adattivo che possono avere il contagio e l’adesione immediata alle emozioni negative, in particolare alle espressioni di dolore e sofferenza. Dal punto di vista dell’individuo, infatti, tale condivisione si traduce in un vissuto di disagio e sofferenza, vale a dire in emozioni negative che non sembrano svolgere, almeno nell’immediato, alcuna funzione positiva. In realtà gli studi etologici più recenti hanno sottolineato che lo scambio comunicativo è funzionale a comportamenti come la cooperazione, l’altruismo e l’accudimento dei più piccoli e dei più deboli, i quali hanno avuto un ruolo essenziale per lo sviluppo della specie umana e delle sue peculiarità comunicative non è spiegabile soltanto in forza della spinta adattiva alla lotta ed alla competizione, in base ad una concezione darwinista tradizionale. Secondo molti autori tale sviluppo sarebbe avvenuto soprattutto grazie alla spinta, altrettanto adattiva, verso una relazione sociale individualizzata e stabile. Tutto questo implica, sul piano filogenetico, un bagaglio volto a favorire la sensibilità e la capacità di 41 tra sé ed altro, è meno netta. Così, da un punto di vista ontogenetico il contagio rappresenta la prima forma di attivazione della condivisione emotiva, e può perciò essere considerato un precursore necessario dei tipi evolutivi di empatia. (Bonino et al., 1998) 2.2.2. La base fisiologica del legame tra gli stati affettivi ed i neuroni specchio Per spiegare e presentare la base fisiologica del legame tra stati affettivi e neuroni specchio verrà presentato lo studio relativo ad un’emozione primaria: il disgusto. Relativamente a tale emozione si sono svolti degli esperimenti per comprendere quale meccanismo si trova alla base delle emozioni e della comprensione dell’emozione stessa. Rizzolatti e Senigaglia (2006) presentano nel loro libro So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, l’assunto secondo il quale il disgusto sia legato all’ingerire, assaggiare o annusare del cibo, ed è caratterizzato da movimenti della bocca, delle labbra, da arricciamenti del naso, ed eventualmente da nausea e da conati di vomito. Negli ultimi anni sono stati condotti numerosi studi sperimentali che hanno consentito di individuare le regioni cerebrali principalmente coinvolte nelle reazioni di disgusto a stimoli gustativi o olfattivi. Tra queste un ruolo chiave spetta a un’area corticale nota come insula. Da tempo si ritiene che l’insula non è una struttura omogenea. Suddivisa in due settori differenti dotati di proprietà funzionali differenti, essa sarà costituita da: una regione anteriore “viscerale” e una regione posteriore polimodale. La regione anteriore è fortemente connessa con i centri olfattivi e gustativi; inoltre riceve informazioni dalla regione anteriore della parete ventrale del solco temporale superiore, un’area in cui vi sono molti neuroni che rispondono alla vista delle facce. Di contro, la regione posteriore è contraddistinta da connessioni con le aree corticali uditive, somatosensoriali e promotorie, e non è legata a modalità gustative od olfattive. Parecchi studi di brain imaging hanno evidenziato un’attivazione della sua parte anteriore in risposta a stimoli gustativi e olfattivi. Le attivazioni più forti sono state riscontrate nell’emisfero sinistro, e si è notato come la selettività per gli stimoli fosse indipendente dalla loro intensità. Nell’uomo, come nella scimmia, la stimolazione dell’insula determina reazioni viscero-motorie, provocando 44 nausea, conati di vomito o comunque sensazioni spiacevoli, se non addirittura insopportabili, nella gola e nella bocca. L’aspetto più importante però è che vi sono esperimenti che mostrano come la regione anteriore dell’insula sia attivata dalla vista di espressioni facciali del disgusto di altri. L’ampiezza delle attivazioni della corteccia insulare era funzione di quanto disgusto mostrava il volto osservato. Che l’attivazione della corteccia insulare sia estremamente importante non solo per innescare sensazioni e reazioni di disgusto ma per percepire un simile stato emotivo sul viso altrui trova conferma anche in alcuni recenti studi clinici (Rizzolatti, 2006). Tanto i dati clinici quanto quelli ottenuti tramite brain imaging o elettrostimolazione paiono indicare che il provare disgusto e il percepire quello altrui abbiano un substrato neurale comune, e che il coinvolgimento dell’insula sia in entrambi i casi fondamentale. Ciò sembra suggerire che la comprensione reale del disgusto degli altri, quella cioè in cui uno capisce effettivamente cosa l’altro provi in quel dato momento, non presupponga né si basi su processi cognitivi di tipo inferenziale o associativo. Tuttavia, per poter parlare davvero di un meccanismo specchio occorrono evidenze meno indirette, e tali da garantire che sia proprio la medesima regione dell’insula ad attivarsi sia quando siamo noi ad avvertire un senso di disgusto sia quando lo osserviamo sul volto altrui. Per vedere se le cose stessero davvero così, Bruno Wicker e colleghi ( Wicker et al., 2003) hanno sottoposto alcuni volontari sani a un esperimento di fMRI articolato in due sessioni distinte. Nella prima, olfattiva, i soggetti erano esposti a odori che provocavano disgusto o a odori spiacevoli; nella seconda, visiva, dovevano osservare dei video in cui vedevano delle persone che annusavano un bicchiere contenente un liquido maleodorante, bene odorante o inodore, e reagivano di conseguenza con una smorfia di disgusto, di piacere o assumendo un’espressione neutrale. Tra le strutture attivate dall’esposizione agli odori due sono molto interessanti: l’amigdala e l’insula. L’amigdala si attivava sia per gli odori di disgusto sia per quelli piacevoli, con una chiara sovrapposizione tra i due tipi di attivazione. Di contro, gli odori disgustosi attivavano la regione anteriore dell’insula destra e sinistra, mentre quelle piacevoli un sito più posteriore della sola insula destra. Per quanto concerne la sessione visiva dell’esperimento, solo l’osservazione della smorfia di disgusto determinava un’attivazione dell’insula. Ma la cosa più importante era che tale attivazione 45 coincideva, nella parte anteriore dell’insula sinistra, con quella riscontrata quando i soggetti attivavano gli odori disgustosi. Una certa sovrapposizione tra le aree delle attivazioni provocate da odori disgustosi e dalla vista di soggetti disgustati era presente anche nella regione anteriore della corteccia del cingolo dell’emisfero destro. L’amigdala, invece, non mostrava attivazioni durante l’osservazione di facce disgustose. (Rizzolatti, 2006) L’esperienza del disgusto proprio e la percezione di quello di altrui appaiono dunque rinviare a una base neurale comune, costituita dalla regione anteriore dell’insula sinistra, nonché dalla corteccia del cingolo dell’emisfero destro. La sovrapposizione delle attivazioni cerebrali riscontrate negli stessi individui a seguito dell’inalazione di sostanze maleodoranti e durante l’osservazione delle espressioni di disgusto negli altri conferma l’ipotesi per cui la comprensione degli stati emotivi altrui dipenderebbe da un meccanismo specchio in grado di modificare l’esperienza sensoriale direttamente in termini emozionali. Lo stimolo visivo attivava in maniera automatica e selettiva le medesime aree che erano coinvolte nella risposta emotiva a quello olfattivo, ed era per questi che i partecipanti all’esperimento potevano riconoscere immediatamente nelle facce viste non un’espressione qualsiasi, bensì una smorfia di disgusto. (Rizzolatti, 2006, 177). Analogamente, negli studi di William D. Hutchison e colleghi (1999) e Tania Singer e colleghi (2004), riportati nel libro di Rizzolatti (2006), si è riscontrato che ciò sembra valere non solo per il disgusto, ma anche per altre emozioni primarie quali il dolore. Come afferma Rizzolatti (2006) l’interpretazione proposta della comprensione delle emozioni così presentata non si allontana dalla teoria di Antonio Damasio (2003) il quale ritiene che il sentire un’emozione in prima persona quanto il riconoscerne una altrui dipenderebbe dal coinvolgimento delle aree della corteccia somatosensoriale e dell’insula. La vista di un volto disgustato o addolorato determinerebbe nel cervello dell’osservatore una modifica nell’attivazione delle sue mappe corporee, così si percepirebbe l’emozione altrui come fosse lui stesso a sentirla. Il meccanismo che si presume produca questa sorta di sentimento è una varietà di quello che ho chiamato circuito corporeo “come se”. Esso implica, a livello cerebrale, una simulazione interna che consiste nella rapida modificazione delle mappe dello stato corrente del corpo. Ciò accade quando certe regioni cerebrali, per esempio le cortecce prefontali/premotorie, inviano segnali alle regioni somatosensoriali del cervello. L’esistenza e la localizzazione di tipi di neuroni con tali potenzialità è stata stabilita di recente. Quei neuroni possono rappresentare, nel cervello di una persona, i movimenti che quello stesso cervello vede in un altro individuo, e inviare segnali alle strutture sensomotorie in modo che i movimenti corrispondenti sono “visti in anteprima” in una modalità di simulazione, oppure effettivamente eseguiti. ( Damasio,2003, 143-144). 46 CAPITOLO III L’empatia nel colloquio psicologico: saper sentire per una comprensione autentica di sé e degli altri Conclusa la trattazione riguardo il concetto di empatia e la sua manifestazione ontologica nei neuroni specchio, cercherò in questo capitolo di presentare le modalità attraverso le quali in un colloquio psicologico si possa sperimentare empatia, valutando quali tecniche e su cosa porre attenzione per entrare a contatto con il vissuto di una persona, sentendo ciò che la persona sta vivendo. Verrà presentato il concetto di ascolto attivo nelle relazioni interpersonali; si analizzerà il contenuto di ricezione ed attenzione per poi esplorarlo nelle dinamiche della comunicazione non verbale. Compreso come sviluppare tali tecniche il discorso verterà nella capacità di ascolto che permette di comprendere l’altra persona e sull’importanza del silenzio come forma massima di comunicazione, che permettere all’individuo di entrare a contatto con se stesso e di educarsi alla sua forma d’essere tramite l’ascolto. 3.1. Ascolto ed empatia Ascolto ed empatia sono due concetti che viaggiano su due binari paralleli, poiché per far si che si sviluppi la reale comprensione di chi si ha di fronte si ha bisogno sia dell’una che dell’altra componente. Si intersecano in un rapporto biunivoco secondo il quale per sperimentare chiarezza di ciò che si è, sono necessarie l’uno per l’altra. Il motivo e le modalità attraverso cui ciò avviene sono presentate in modo approfondito nei sottoparagrafi successivi. 3.1.1. Ascolto attivo e relazioni interpersonali Come Colasanti e Mastromarino (1991) presenta nel libro Ascolto Attivo elementi teorici ed esercitazioni per la conduzione del colloquio, l’ascolto, in ambito psicologico, rappresenta la competenza comunicativa fondamentale. Può sembrare un paradosso, in 49 quanto la sua natura fisiologica è priva del contenuto che socialmente viene riconosciuto come comunicazione, ovvero il verbo, ma risulta essere il prerequisito fondamentale di tutte le altre, poiché, non ascoltando ciò che viene comunicato, non è possibile rispondere in modo reale a tale contenuto. L’ascolto può essere definito come un insieme di atti percettivi attraverso i quali entriamo spontaneamente o involontariamente in contatto con una fonte comunicativa. ( Colasanti Mastromarino, 1991, 2) È costituito da tre processi:  Recezione del messaggio  Elaborazione del messaggio  Risposta al messaggio Per quanto riguarda la recezione, qualsiasi contenuto, verbale o non, è un feedback che deve essere percepito e compreso. Nell’elaborazione, una volta accolto il messaggio, deve essere elaborato ponendo un significato al contenuto ricevuto ed infine, nella risposta, avviene l’emissione del messaggio verbale o non, in risposta al contenuto ricevuto ed elaborato. Se nei processi di recezione ed elaborazione del messaggio, le modalità esplicative avvengono in maniera latente, per la risposta esso avviene in maniera manifesta. (Colasanti Mastromarino,1991) 3.1.1.1. Ricezione e attenzione La prerogativa fondamentale per far si che si entri in contatto con il vissuto e il reale contenuto del messaggio ricevuto, è la volontà da parte dell’ascoltatore di centrarsi sulla fonte comunicativa impegnandosi a comprendere il messaggio nel significato che questo ha per l’emittente. Ciò è possibile tramite un’apertura verso la fonte comunicativa e un’attenzione non strutturata, centrata sui messaggi dell’emittente. Tale processo non avviene nel momento in cui il consulente assume un atteggiamento deliberativo, centrando e valutando il livello comunicativo sui suoi schemi valoriali e il suo vissuto personale. Con tale modalità, il consulente non valuta i messaggi del cliente in base al quadro valoriale del mittente, ma al proprio, anteponendo le sue conclusioni soggettive prive di un reale confronto con il contenuto di vita dell’altra persona. Questo avviene quando il consulente non palesa a se stesso e non controlla alcuni meccanismi percettivi che vengono attivati nel contatto e nell’interazione con l’altro. Tra tali meccanismi si collocano: la teoria implicita 50 della personalità, l’effetto alone, gli stereotipi, l’effetto primacy e recency. (Colasanti, Mastromarino, 199) Oltre alla capacità di estraniarsi dai suoi schemi e interpretazioni soggettive, il consulente dovrà essere capace di porre attenzione, nella fase di recezione alle modalità sensoriali che il soggetto usa quando si esprime: visiva, uditiva e cinestetica. In sintesi una esemplare recezione richiede: un’apertura verso il cliente, un’attenzione non strutturata ai suoi messaggi e la capacità di cogliere la modalità sensoriale con cui egli esprime. (Colasanti, Mastromarino, 1991, 4) 3.1.1.2. Elaborazione contenuto Recepito il messaggio si passa all’elaborazione di questo tramite la codifica del significato, tenendo presente, come afferma Franta( 1989) delle dimensioni comunicative oggettivo-constatativa, autorivelazionale, dell’appello e della relazione. Tali dimensioni sono sempre presenti in un colloquio, anche se spesso in modo implicito. L’abilità dell’ascoltatore, in particolar modo del consulente, sta nel cogliere tali dimensioni senza alterarne il significato. Di seguito presento tali dimensioni facendo riferimento al testo di Colasanti Mastromarino: 3.1.1.2.1. Dimensione di contenuto Per dimensione di contenuto si intendono tutte le notizie, informazioni e idee riguardo il soggetto e l’oggetto della comunicazione: in poche parole ci si sofferma sullo scambio di opinioni relative al tema di confronto. Equivale al porsi la domanda “Di cosa si sta parlando?”, in modo tale da poter recepire la comunicazione del cliente. 3.1.1.2.2. Dimensione dell’autopresentazione Per dimensione dell’autopresentazione si intende la modalità attraverso la quale il cliente pone se stesso nella comunicazione. Assumere tale dimensione equivale al porsi la domanda “Come si presenta l’altro a me mentre comunica? Che cosa dice di sé?”, 51  Performativa, cioè la capacità di impiegare i “segni linguistici e segni di altri codici non linguistici in modo adeguato alla situazione e nelle proprie intenzioni” (Zaunelli Sonino,1981) in questo paragrafo si prenderà in esame la comunicazione non verbale. La comunicazione non verbale viene intesa come tutto ciò che viene comunicato al di fuori della parola. In tale visione si includono: segnali gestuali, mimici, posturali e paralinguistici e aspetti spaziali (prossemici) dell’interazione (fenomeni non verbali primari), aspetto esteriore (abbigliamento), luogo in cui si svolge l’interazione ed artefatti (fenomeni on verbali secondari). La CVN svolge nel colloquio un ruolo fondamentale, in quanto consente di comprendere meglio ciò che viene espresso o non espresso tramite il verbo. (Colasanti, Mastromarino, 1991) Distinto il verbale dai codici non verbali, i problemi della definizione della competenza comunicativa si possono riassumere nei seguenti punti: individuazione delle precondizioni, conoscenze e regole di ogni competenza, verbale e non verbale; identificazione dei modi di interazione, ovvero dello strutturarsi delle diverse competenze, in termini di regole per il comportamento comunicativo. (Zaunelli Sonino,1981) Come Ricci e Cortesi (1977) propongono nel loro libro Comportamento non verbale e comunicazione, gli studi di Freedman e Hoffman (1967) hanno distinto i gesti sulla base del fatto che essi siano o meno orientati sul corpo dell’individuo e che siano o no correlati con la comunicazione verbale: essi si distinguono in tal modo i “movimenti centrati su un oggetto del discorso e correlati al discorso” dai “movimenti centrati sul corpo e non centrati sul discorso”. I primi, in conseguenza del loro stretto rapporto con l’eloquio, sembrano chiaramente funzionare come modificatori del processo di comunicazione verbale; il grado di integrazione fra essi e la comunicazione verbale in atto riflette, secondo gli autori, il grado si organizzazione del pensiero stesso. I gesti apparenti al secondo gruppo, non avendo legami con a comunicazione verbale, sono considerati come gesti che rispondono a processi interni, fisici psicologici; la loro funzione, in quanto movimenti che interessano un contatto sensorio diretto, è probabilmente quella di modificare l’esperienza sensoriale; essi possono influenzare lo stato di tensione del corpo, diminuendola o intensificandola. Nell’ambito dei gesti correlati con l’eloquio, Freedman e Hoffman individuano gesti che assumono la funzione di enfatizzare quanto detto, movimenti tesi a riprodurre delle forme o a descrivere 54 qualcosa che manca di un preciso referente fisico come il flusso di una idea. ( Ricci, Cortesi, 1977,46) Tale assunto lo si trova anche in Colasanti e Mastromarino, che nel libro Ascolto Attivo elementi teorici ed esercitazioni per conduzione del colloquio, presentano le ricerche condotte in questo ambito, evidenziando alcune funzioni specifiche svolte dalla CNV, riconducibili a tre:  Trasmissione degli atteggiamenti interpersonali e, più in generale, di tutte quelle informazioni che riguardano questioni di relazione (amore, odio, simpatia, dominanza, sottomissione, dipendenza). Non a caso Ekman e Friesen (1968) definiscono il comportamento non verbale come il linguaggio delle relazioni  Espressione delle emozioni, dei sentimenti e di quegli atteggiamenti che ciascuno ha di sé e della propria immagine corporea  Metacomunicazione, che qualifica il comportamento verbale. L’inflessione della voce, i gesti, la mimica facciale e altri aspetti non verbali concomitanti al linguaggio forniscono, cioè, informazioni su come debba essere inteso il messaggio verbale. (Colasanti Mastromarino, 1991, 105). Tramite l’importanza ed il valore che si è posto nei confronti di questa nuova forma di comunicazione, si è reso noto che per entrare in contatto con l’interlocutore e sperimentare empatia tramite il linguaggio non verbale, è utile riproporre e rinforzare tale modalità attraverso diverse tecniche, quali:  Ripetizione: ripetere ciò che viene dette con le parole  Contraddizione: è presente una discontinuità tra il contenuto verbale e quello non verbale (es.: dire con voce tremante di essere fermo e sicuro). Di solito tra due messaggi contraddittori si tiene maggiore fede a quello non verbale, perché più spontaneo e difficile da dissimulare.  Sostituzione: la CVN si sostituisce alla comunicazione verbale. (Es.: una persona può manifestare empatia per la sofferenza di una persona, avvicinandosi più che parlando).  Complementazione: la CVN modifica o integra quella verbale, completandola  Accentuazione: la CVn accentua parti del messaggio verbale come la sottilineatura per il messaggio scritto  Regolazione: la CVN regola il flusso della comunicazione tra le persone che partecipano all’interazione (Colasanti, Mastromarino, 1991,106) Per entrare in empatia con l’interlocutore e comprendere il suo sentito, è fondamentale porre attenzione al comportamento, ovvero alla modalità in cui il linguaggio non verbale viene messo in atto. Come Colasanti e Mastromarino (1991) nel libero prima citato, verrà preso in esame la ricerca di Ekman e Friesen(1968) riguardo le cinque categorie del comportamento cinesico. Gli aspetti cinesici comprendono le espressioni facciali, il comportamento visivo, i gesti, le posture e gli altri movimenti del corpo. Si possono suddividere tali comportamenti in: 55  Comportamenti emblematici: azioni non verbali con significato simbolico (es.: fare le corna)  Comportamenti illustrativi: azioni non verbali correlate al linguaggio che servono ad illustrare quanto comunicato verbalmente  Espressioni affettive: configurazioni facciali rappresentative di stati affettivi che ripetono ma anche contraddicono il contenuto verbale  Comportamenti di regolazione: azioni non verbali che regolano l’alternarsi del discorso tra due persone  Comportamenti di adattamento: comportamenti presumibilmente sviluppati durante l’infanzia come sforzi adattivi per soddisfare bisogni, eseguire azioni, controllare emozioni, stabilire contatti sociali. ( Colasanti, Mastromarino,1991) Molti aspetti cinesici sembrano essere connessi alle caratteristiche individuali, sia di personalità che fisico-sociali. Il comportamento cinesico sembra riflettere inoltre la psicopatologia e i cambiamenti nello stato clinico dei paziente e le principali funzioni riguardano la trasmissione degli atteggiamenti interpersonali e l’espressione delle emozioni. Gli aspetti cinesi che maggiormente aiutano maggiormente a comprendere le informazioni circa l’atteggiamento interpersonale sono: i contatti oculari, la frequenza degli sguardi, la postura, l’espressione del volto, il riso e il sorriso. Il miglior singolo predittore dell’atteggiamento amichevole sembra essere il sorriso insieme ai frequenti contatti oculari e alla postura rilassata. L’atteggiamento ostile è, invece, tramesso principalmente da una postura tese e dalla fronte aggrottata. Il volto costituisce la sede privilegiata per l’espressione delle emozioni, sebbene siano stati individuati in alcuni movimenti delle gambe e delle mani segnali di incertezza e confusione o inabilità a controllare il comportamento (Colasanti Mastromarino, 1991, 108) La teoria degli studi di Ruesch e Bateson (1983) presente nel libro I GESTI E I SEGNI, la comunicazione non-verbale in psicologia e neurospsicologia clinica e il linguaggio dei segni nei sordi, sostiene che ogni comportamento è comunicazione, in quanto veicola messaggi e trasmette informazioni capaci di influenzare altri comportamenti, rimanendone reciprocamente influenzati. Dalla causalità circolare implicita in questa concezione del comportamento come comunicazione, consegue che ogni comportamento umano, anche apparentemente 56 3.2.2. Il silenzio come forma di comunicazione A cosa serve il silenzio è il quesito da cui partire per comprendere l’importanza del silenzio nella dinamica di conoscenza di se stessi e di un rapporto empatico. Si parte dall’assunto secondo il quale il silenzio è ciò che permette di dare sostanza alla parole, come assumere la dimensione secondo la quale bisogna dare credito al silenzio nonostante la parola sia stata definita il linguaggio dei linguaggi. Ciò perché esse risultano essere due realtà inseparabili e interagenti, fino a combaciarsi per divenire una medesima realtà, significativa e significante. Al giorno d’oggi assumere tale posizione risulta andare contro corrente, nel mondo odierno, in cui tutto converge verso il movimento ed il rumore, l’uomo non sa più stare da solo né riesce a sopportare il silenzio; nell’immensa solitudine a cui la vita frenetica, il progresso e anche l’architettura lo costringono, egli cerca nervosamente la folla e tenta di affogare il proprio sgomento immergendosi in rumori di ogni sorta. ( Bucciarelli,1993, 10) così per chi ha compiti formativi è possibile presumere di essere mediatori di formazione se si capisce che nel rapporto educativo il silenzio dell’uno è condizione perché sia tale il parlare dell’altro. Tanto più il parlare dell’uno avrà valore di comunicazione e di parola parlante quanto maggiore sarà il silenzio di tacere e di ascolto dell’altro. Così infatti, gli uomini non solo si informano, ma si formano insieme: con la parola e la sua condizione, il silenzio. Senza il silenzio altrui la parola, il logos interiore esteriorizzato, non potrà mai diventare dialogo. Il dialogo non può essere preteso alla manipolazione, ma generatore di altri atti di libertà. Il dialogo è un’esigenza esistenziale in cui il riflettere e l’agire dei rispettivi soggetti interlocutori si fanno realtà solidale, orientati verso un mondo da trasformare e umanizzare, ed evitando di depositare idee da un soggetto nell’altro come se entrambi fossero prodotti di consumo. Non c’è dialogo vero se non esiste nei soggetti un pensiero vero, un pensiero critico; soltanto nel dialogo, che comporta un pensiero critico, è capace anche di generarlo. Senza di esso non c’è comunicazione, e senza comunicazione non c’è educazione. (Bucciarelli,1993) La disponibilità a dialogare è, quindi, uno degli elementi fondamentali nei processi formativi. Ma il dialogo suppone la capacità di ascoltare, e la capacità di ascoltare suppone la capacità di fare silenzio dentro di sé. È considerato così come evento umano interiore il 59 silenzio, l’assenza di parola, rivela una sua intrinseca e costitutiva correlatività alla parola dialogante. Questo tipo di silenzio non è mutismo e neppure un puro e semplice tacere. Se il silenzio è un fatto umano interiore, allora l’uomo tace ascoltando qualcuno che parla. Anzi, in tanto l’altro può effettivamente parlare, in quanto parla a qualcuno che lo ascolta ed intende. In caso diverso sarebbe parlare a qualcuno, comunicare con qualcuno, ma semplice chiacchiera o rumore. (Liss J., 2004) In questo senso, allora, il silenzio più che una realtà, è una funzione: impedisce alla realtà di assolutizzarsi, di farsi dogma: permette di entrare dentro di sé, o l’interlocutore del dialogo, ed sentire ciò che l’altra persona vive. Permette di non pretendere l’ultima parola non ancora detta, perchè protetta dal silenzio stessa. Ed è ciò che attraverso l’empatia e il dialogo psicologico si tenta di arrivare, ovvero di educarsi all’ascolto di sé. (Liss J., 2004) Come la Bucciarelli ( 1993) riporta nel suo libro, F Sciaccia, forte sostenitore dell’educazione al silenzio afferma: ogni parola ha un seguito: ma l seguito è dentro di noi, quello che la parola ulteriore non riesce ad esaurire(…). Sicchè l’ultima parola che diciamo è la penultima. L’ultima è il silenzio(…). Di qui l’impossibilità di “conoscere” l’altro fino in fondo e di essere fino in fondo conosciuti. L’ultima parola è lo sprofondare del silenzio dell’uno nel sentire dell’altro. E di fronte al silenzio, rivelatore silenzioso dell’indicibile, dobbiamo astenerci dalla parola. Rispettare le zone di silenzio rivelatrici è “centrarci” nell’esistenza e nel valore, in quell’enigma che ciascuno di noi è di fronte all’altro. Occorre quindi saper introdurre o reintrodurre il silenzio nelle dialogo, altrimenti si rischia di riscoprire le parole vuote, scavate, porose ed instabili. In questo reciproco comunicare e rivelarsi c’è la stessa sovra parlante parola del silenzio. Perciò scoprire le parole del silenzio è cogliere l’essenza di ogni cosa, vedere il cuore degli uomini. Ancora, è vedere i cuore di una persona, vedere l’invisibile, udire l’inudibile. Tacciano tutte le voci, parla il silenzio( F. Sciacca) 60 Educarci all’ascolto significa educarci al silenzio interiore per saper raccogliere l’altro in un dialogo libero e liberante. L’uso del silenzio comunicativo è funzione di un dialogo che favorisca l’esperienza di essere ascoltati e quindi di potersi esprimere. In questo modo il silenzio può essere una fertilissima modalità di rapporto diretta all’integrazione interiore e all’approfondimento del dialogo, una modalità d’essere con l’interlocutore in uno spazio veramente coesistenziale, per condividere un destino di crescita che accomuna i due interlocutori. Il silenzio così è una modalità d’accesso alla comprensione di sé e degli altri. È il mezzo attraverso il quale poter entrare in empatia con la parte più misteriosa e sconosciuta, è come se si potesse definire il verbo dell’ignoto, ovvero la (non) parola che mette tutti sullo stesso lato del dialogo, entrambi concentrati su ciò che non è conosciuto e deve essere scoperto e vissuto. 3.2.3. Educazione all’ascolto di sé: raccontarsi per conoscersi meglio Ogni sentenza e parola utilizzata finora risulta essere compresa e volta al processo di conoscenza di sé. Tale processo risulta essere possibile tramite l’ascolto delle, e nelle, innumerevoli modalità e procedure finora mostrate. Conoscersi risulta essere la risultante del movimento delle proprie possibilità e delle proprie abilità, tramite una attenta manifestazioni di ciò che si è nelle relazioni. Secondo Goleman (2011) le interazioni con gli altri possono essere classificate in due categorie fondamentali: relazioni Io-Tu e relazioni Io-Esso.  Relazioni Io-Tu: ci si immedesima nell’altro, se ne capiscono le esigenze, si sente un’altra persona come proprio simile e ci si cura della sua emotività: sono relazioni positive basate sull’empatia. Questo tipo di interazioni fa sentire connessi agli altri e rende la vita più piacevole. Anche chi vive in condizioni di stress riesce ad affrontare in maniera molto più efficace se può contare su molte relazioni di questo tipo.  Relazioni Io-Esso: l’altro è visto come un oggetto: qualcuno da cui prendere qualcosa, da sfruttare. È quando ci si sente un “Esso” che la relazione è dannosa. 61 BIBLIOGRAFIA Albiero P., Matricardi G., 2006, Che cos’è l’empatia, Roma, Carocci Alfieri S., Marta E., 2017, Empatia e altruismo: come e perché aiutiamo gli altri entrando nel loro panni, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo Anolli L., 2006, Fondamenti di psicologia della comunicazione, Bologna, Il Mulino Anolli L., Legrenzi P., 2006, Psicologia generale, Bologna, Il Mulino Arherim, 1974, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli Battaglia, 1995, Grande dizionario della lingua italiana, Torino, Utet Bellingreri A., 2013, L'empatia come virtù: senso e metodo del dialogo educativo, Trapani, Il Pozzo di Giacobbe Boella L., Buttarelli A., 2000, Per amore di altro: l'empatia a partire da Edith Stein, Milano, Cortina Boella L., 2000, Sentire l'altro: conoscere e praticare l'empatia, Milano, R. Cortina Bolognini S., 2002, L'empatia psicoanalitica, Torino, Bollati Boringhieri Bonino S., Lo Coco A., Tani F., 1998, Empatia. 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Storia di un'idea da Platone al postumano, Roma,Laterza 66 SITOGRAFIA http://www.treccani.it/enciclopedia/neurotrasmettitori_%28Dizionario-di-Medicina%29/- ultima consultazione 21-10-2018 http://www.treccani.it/enciclopedia/neuroni-e-sinapsi_%28Enciclopedia-della-Scienza-e-della- Tecnica%29/ - ultima consultazione 21-10-2018 http://www.stateofmind.it/2017/04/neurone-introduzione-psicologia/ - ultima consultazione 28- 10-2018 https://www.neuropsicomotricista.it/argomenti/657-tesi-di-laurea/il-ruolo-dell-imitazione-in- bambinicon-disturbo-dello-spettro-autistico/3451-imitazione-e-neuroni-specchio.html- ultima consultazione 29-10-2018 https://il-corpoumano.it/neuroni-specchio-tra-linguaggio-e-riabilitazione/- ultima consultazione 13-11-2018 https://www.psiconline.it/le-parole-della-psicologia/la-proiezione.html - ultima consultazione 18-11-2018 69 INDICE INTRODUZIONE 1 Capitolo I: Fisiologia dei neuroni specchio 4 1.1. I neuroni: struttura e attività 4 1.1.1. Struttura del neurone 6 1.1.2. Attività e funzione del neurone 7 1.1.3. Storia dei neuroni specchio: esperimenti e studi Rizzolatti 8 1.1.4. Risvolti studi e relative conclusioni 10 1.2. Funzionamento neuroni specchio nel cervello umano 13 1.2.1. L’imitazione 14 1.2.2. Il linguaggio 17 1.2.3. L’immaginazione 20 1.3. Conclusioni 21 Capitolo II: Empatia e i neuroni specchio 22 2.1. Definizione di empatia 22 2.1.1. Valutazione storica dell’empatia 23 2.1.1.1. Critica all’empatia: tra cognitivismo e Gestalt 26 2.1.1.2. La riscoperta dell’empatia 31 2.1.2. Empatia ed espressione 33 2.1.3. Empatia e percezione 35 2.2. La condivisione delle emozioni e il ruolo dei neuroni specchio 38 2.2.1. Il contagio emotivo 40 2.2.2. La base fisiologico del legame tra gli stati affettivi ed i neuroni specchio 44 2.3. Conclusioni 47 Capitolo III: L’empatia nel colloquio psicologico: saper sentire per una comprensione autentica di sé e dell’altro 49 3.1. Ascolto ed empatia 49 3.1.1. Ascolto attivo e relazioni interpersonali 49 3.1.1.1. Ricezione e attenzione 50 3.1.1.2. Elaborazione contenuto 51 3.1.1.2.1. Dimensione di contenuto 51 3.1.1.2.2. Dimensione dell’autopresentazione 51 3.1.1.2.3. Dimensione di appello 52 3.1.1.2.4. Dimensione relazionale 52 3.1.1.3. Risposta al contenuto 52 3.1.2. Comunicazione non verbale e comportamento 53 3.2. Empatia e relazione con l’altro 58 3.2.1. La capacità di ascoltare 58 3.2.2. Il silenzio come forma di comunicazione 59 3.2.3. Educazione all’ascolto di sé: raccontarsi per conoscersi meglio 61 Conclusioni 63 70 Bibliografia 64 Sitografia 69 INDICE 70 71
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