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Enrica Morini, Storia della moda XVIII-XXI secolo, Sintesi del corso di Costume E Moda

Il lusso è una delle chiavi interpretative per comprendere la moda. Quando si parla di moda si intende qualcosa di diverso rispetto all’abbigliamento, che nella civiltà nasce come conseguenza del rifiuto della nudità. L’abbigliamento riguarda quindi tutta la società, mentre la moda è stata, a partire dal Medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo della società, che proprio attraverso l’abito manifesta la preminenza del proprio ruolo gerarchico.

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Enrica Morini, Storia della moda XVIII-XXI secolo e più Sintesi del corso in PDF di Costume E Moda solo su Docsity! Enrica Morini, Storia della moda XVIII-XXI secolo IL LUSSO, LA MODA, LA BORGHESIA LUSSO Il lusso è una delle chiavi interpretative per comprendere la moda. Quando si parla di moda si intende qualcosa di diverso rispetto all’abbigliamento, che nella civiltà nasce come conseguenza del rifiuto della nudità. L’abbigliamento riguarda quindi tutta la società, mentre la moda è stata, a partire dal Medioevo, prerogativa di un piccolo gruppo della società, che proprio attraverso l’abito manifesta la preminenza del proprio ruolo gerarchico. L’abito diventa quindi manifestazione del proprio ruolo sociale, secondo regole rigide che appartengono alla sfera della tradizione. Il collegamento fra la foggia dell’abito e il ruolo sociale è stato messo in crisi nell’Europa occidentale fra il XIII e il XIV. Da questo momento l’abito non ha più regole rigide, svolge lo stesso ruolo ma secondo l’inventiva, il gusto, le risorse dei singoli individui. Principalmente il ruolo della moda era mettere in evidenza i segni della ricchezza e del potere. “Far vedere ed essere visti” era la regola che durante l’Ancient Régime rimane indiscussa. La struttura gerarchica europea rimase per secoli invariata, mantenendo fissa la distribuzione dei compiti istituzionali e il controllo commerciale. Alcuni avevano il compito di produrre, altri di consumare. Signori e re erano considerati tanto magnifici quanto era il fasto di cui si circondavano. Il lusso della corte era anche immagine dello Stato e della sua concezione economica. L’accumulo di denaro era stigmatizzato come forma di avarizia, soltanto lo sperpero e la prodigalità potevano essere considerati virtù. Anche questo è stato un forte motore economico, dal momento che trasformava la ricchezza che la nazione forniva al signore, o alla Chiesa, in committenza di lavoro e, contemporaneamente, eliminava l’eccesso di produzione. Con Luigi XIV lo sperpero fastoso esplicitò la propria fondamentale funzione sociale ed economica, ma al prezzo del superamento del modello precedente: la nobiltà, costretta dall’esempio del re e dall’appartenenza alla sua corte, portò la propria prodigalità alle estreme conseguenze della rovina, mentre lo Stato, organizzando in forma produttiva lo sfruttamento del lusso, favorì la crescita della classe dei fornitori e dei finanziatori. La rottura operata dalla riforma protestante portò ad una nuova concezione del lusso, della ricchezza e del loro significato etico. La ricchezza, dono divino, non doveva essere sperperata, ma gestita in nome della comunità. Si arriva alla conclusione che l’aspetto esteriore non ha conclusione diretta con l’importanza sociale della persona. Modestia e moderazione diventarono le doti da comunicare attraverso l’abito. L'abito non comunica più una rarità legata allo sfarzo, bensì una rarità morale e ideologica. possibilità di essere aiutato da un professionista, che gli metteva a disposizione più di un servizio. Fu questo il momento delle marchandes de modes che, per prime, uscirono dalla logica corporativa della specializzazione unica e si posero in una situazione trasversale. Mentre in precedenza anche quello della moda era un mondo maschile, che lasciava alle donne i lavori più nascosti e meno pagati, in questa fase in cui nascevano nuove esigenze esse intravidero spazi per la loro creatività e professionalità. Apparentemente si trattava di un commercio marginale. In realtà era il vero mercato della moda e del gusto. Le mode del Settecento prevedevano un numero di fogge estremamente limitato, variabili all’infinito attraverso i tessuti, gli ornamenti, le acconciature, gli oggetti da mano. Quindi era fondamentale, per essere alla moda o per crearne una propria, avere a disposizione una vasta scelta di decorazioni con cui scatenate fantasie e gusto individuale. Le trasformazioni delle professioni della moda avvennero sul fronte culturale e su quello economico. Da un lato, l’Encyclopédie colse l’importanza del sistema del tessile e dell’abbigliamento nello sviluppo di una società moderna e pose l’attenzione sulla sua struttura produttiva e sulle sue implicazioni. Sottolineò la relatività storica e culturale dei consumi e t4entò di definire il nuovo metro di giustizio estetico: il gusto. La necessità dell’apparire non era stata cancellata, ma doveva assumere nuove forme e non essere più demandata a una corte, ma al gusto e all’etica del “giusto” lusso. L’Encyclopédie disegna una mappa delle professioni della moda, elencando quelle antiche di secoli, ma anche quelle nate di recente o addirittura non ancora codificate. Avere sottratto all’anonimato e al silenzio di secoli gli artigiani della moda aveva un significato preciso: da quel momento la loro qualità era riconosciuta o, quanto meno, era suscettibile di riconoscimento. L’Encyclopédie considerava gli artigiani della moda, al pari dei rappresentanti delle altre scienze, arti liberali e arti meccaniche. Questo quadro corrispondeva alla realtà quotidiana del sistema della moda parigino, quello cui tutte le corti europee guardavano. Si trattava di un’industria che occupava migliaia di persone che già cominciava a servire un pubblico più allargato rispetto a quello della nobiltà di corte. Le corporazioni Il sistema delle Arti e dei Mestieri e i Corps mercantili francesi avevano cominciato a subire trasformazioni già alla fine del Seicento. I sarti (i tailleurs) avevano prima aggregato una serie di lavorazioni inerenti alla confezione e poi, nel 1675, avevano visto riconoscere l’esistenza giuridica della corporazione delle couturières, cui era stato riconosciuto il diritto di vestire donne e bambini. Dalla fine del XVIII la moda interessò, di fatto, solo l’abbigliamento femminile. Nel 1595 era nata la corporazione delle lingères. Era una corporazione femminile che si collocava a mezzo tra la realizzazione e la vendita, così da poter intervenire sia sulle modalità e il gusto di quanto veniva prodotto direttamente, sia sulla scelta delle merci da acquistare e mettere in commercio, sia delle richieste delle clienti cui offrire entrambe le possibilità. Tutto questo era destinato ad avere un grande sviluppo in un secolo in cui il consumo di biancheria ebbe un enorme aumento, anche in ragione delle nuove norme igieniche che l’Illuminismo cominciò a diffondere. Ma i veri padroni della moda parigina erano stati fino a quel momento i merciers. Nei loro magazzini si commerciavano tutti gli oggetti e i manufatti di lusso legati alle più diverse mode (mobili, cineserie, gioielli ecc.) e quindi anche a quelle vestimentarie. Avevano in comune con i drappieri, ai quali saranno aggregati nel 1776, il monopolio della vendita delle stoffe ricche (quelle tessute con oro e argento). Svolgevano una funzione fondamentale ai fini della diffusione delle mode: quella di intermediari fra la corte, cui fornivano le novità desiderate, e il resto della società, cui offrivano, al momento opportuno, quanto era stato precedentemente scelto dai cortigiani. Soprattutto la loro intermediazione aveva un ruolo nei confronti dei fabbricanti, cui trasmettevano i gusti del pubblico affinché fosse possibile indirizzare la produzione. Da questa corporazione prese forma, alla fine del Seicento, una specializzazione che divenne appannaggio delle donne: quella delle marchandes de mode. LE “MARCHANDES DE MODE” Il loro deriva dall’oggetto del loro commercio: vendono solo articoli di moda. In realtà quella delle marchandes de mode diventò una vera corporazione solo con la riforma del 1776. Rose Bertin ne fu il primo sindaco. Esse “inventano”. In questa parola stava tutto il futuro della moda borghese: l’invenzione della novità cominciava a passare dalla corte a un professionista, che prima lavorò in stretto contatto con la corte o con la nobiltà e poi, gradualmente, se ne affrancò. LA MODA E I MODELLI VESTIMENTARI SETTECENTESCHI La funzione delle marchandes de mode era soprattutto quella di creare le garnitures per un sistema vestimentario fatto di pochissime fogge. Due erano le fogge base fra cui potevano scegliere le dame della seconda metà del secolo: - robe à la française, il modello più diffuso in Francia à si indossava con il panier ed era composta dalla sopravveste, una sottana e una pettorina. La sopravveste, aperta davanti e allacciata in vita, aveva dietro due gruppi di pieghe, montate all’altezza delle spalle e del collo, che ricadevano per tutta la lunghezza dell’abito. L’apertura del davanti mostrava la sottana e la pettorina, un accessorio di forma trinagolare che copriva il busto ed era solitamente ricco di decorazioni; - robe à l’anglaise, diffusosi in Francia negli anni Settanta à corpetto attillato e una gonna, montata a piccole pieghe in modo da essere più abbondante sui fianchi e sul dietro, aperta sul davanti per lasciar vedere la sottana. Lo scopo era dare ampiezza all’indumento senza ricorrere al panier, che fu sostituito con imbottiture e rigonfiamenti a tournure. Per ottenere un risultato ancora più vaporoso la gonna poteva venire sollevata, utilizzando nastri, lacci o bottoni, fino a creare un effetto a festoni rigonfi: questa moda fu definita à la polonaise. C’erano poi tipologie che avevano un uso più ristretto e preciso. L’ultima esclusiva dell’Ancient Régime fu l’abito di corte con lo strascico, il grand habit, irrigidito da corsetti steccati e paniers monumentali, arricchito con sontuose decorazioni. Nel corso del Settecento le stoffe con cui confezionarlo passarono dai pesanti tessuti operati a complessi motivi alle leggere sete in tinta unita su cui le marchandes de modes potevano aggiungere fantasiose decorazioni. Dalla fine del secolo l’abito di corte divenne un indumento di rappresentanza, più legato a schemi simbolici tradizionali che alla moda. All’estremo opposto si trovava il cosiddetto casaquin, una versione accorciata della robe à la française con pieghe sul dosso, da indossare come corpetto con una gonna, destinato a un uso più privato che casalingo. Sarte e marchandes de modes si dividevano il compito di realizzare questi indumenti, intervenendo su parti diverse dello stesso capo. Il lavoro della sarta riguardava la perfetta costruzione degli elementi base del vestito, quello della modista era finalizzato a ottenere un’infinita quantità di variazioni partendo da questa struttura immutabile. Alla logica della decorazione sfrenata corrispondeva quella della semplificazione e della ricerca della comodità, favorita dalla struttura aderente della robe à l’anglaise. La rielaborazione più diffusa di questa linea fu, dagli anni Settanta, la redingote, derivata dal costume da equitazione normalmente indossato delle signore inglesi, che introduceva Forse le creazioni per cui è rimasta più famosa sono i pouf au sentiment che coronavano le acconciature anni settanta. Monumenti da testa ispirati spesso ai fatti, quotidiani o eccezionali, che riguardavano la corte (il pouf à la circonstance, dedicato al cambiamento di regno e alla salita al potere di Luigi XVI, la coiffure au Dauphin, creata dopo la nascita del principe). Questa fu però la parte della sua produzione che faceva notizia sulle gazzette e che suscitava lo stupore dei contemporanei. In realtà il suo lavoro fu ben più importante e significativo. Rose Bertin e Maria Antonietta attribuirono un nuovo significato al lusso: “l’eleganza è subentrata alla magnificenza; il lusso ha sostituito il fasto”. Nel XVII e durante la prima metà del XVIII secolo, il fasto e la magnificenza della corte trovavano la loro più adeguata manifestazione nei materiali preziosi e nella perizia artigianale. Ancora sotto Luigi XV gli abiti di re, regine e cortigiani erano confezionati con tessuti pesanti e complessi. Nessuno aveva mai pensato di sottrarsi alle regole dell’etichetta. Con Maria Antonietta tutto cambiò. La moda si sottrasse al compito di dare forma al fasto e assunse quello di giocare con i capricci del gusto di chi l’indossava e con la fantasia di chi la creava. Forme, materiali, colori si alleggerirono, si schiarirono, si moltiplicarono e il modo di apparire passò dal compassato al grazioso. Gli stessi tessuti furono assoggettati a questa ricerca di una nuova immagine della regalità. La giovane e frivola sovrana si vestiva con tessuti semplici e leggeri, non particolarmente preziosi. Nel ritratto ufficiale cha Gautier d’Agoty le dipinse nel 1775, Maria Antonietta indossa un grand habit sostenuto da un immenso panier, ma di una leggera stoffa azzurra su cui sono applicati festoni rigonfi di garza a righe dorate fermate con nastri, passamanerie e gigli bianchi. È difficile dire se il processo sia stato frutto di un vero programma e quale delle due donne ne sia stata l’ideatrice. Bertin proponeva e Maria Antonietta ratificava, ma nulla sarebbe arrivato a Versailles se non fosse stato gradito a sua maestà. Le nobildonne di corte facevano a gara per seguire le mode lanciate dalla sovrana e il resto del mondo copiava Versailles e comprava Parigi. La nuova concezione del lusso e della moda modificò e forse chiarì il ruolo della marchande de modes: se fino a quel momento i produttori di vesti erano semplicemente artigiani e i merciai erano commercianti di accessori, in questo momento cominciò a farsi strada l’idea di un professionista delegato alla creatività. La trasformazione iniziò a mostrarsi nei prezzi: la semplificazione dell’abbigliamento non corrispose a una diminuzione delle fatture. A uno sconcertato marchese di Toulongeon che le obiettava l’assurdo rapporto fra il prezzo degli oggetti e lo scarso valore dei materiali utilizzati per confezionarli, Rose Bertin rispose: “Non si paga Vernet solo per la tela e i colori”. La moda stava sperimentando il passaggio dall’artigianato all’arte, dalla dipendenza dall’inventiva cortigiana all’affermazione di una creatività professionale. Il costo degli oggetti dipendeva dalla fama della marchande. Prezzi esorbitanti davano la misura dell’esclusiva. Rosa Bertin trasse il massimo vantaggio da questo ruolo, per la sua bottega, ma anche per tutti i suoi fornitori e i suoi corrispondenti. La qualifica di “marchande de modes de la Reine” le permetteva di gestire le novità, di scandire i tempi con cui una moda poteva essere estesa alla clientela della sua bottega. Dopo aver fatto la loro prima comparsa negli appartamenti o nei giardini di Versailles, le sue creazioni passavano nei saloni del Grand Mogol a disposizione di una clientela di vastissime proporzioni. Fra i suoi acquirenti figuravano gli acquirenti di tutta Europa. Sarte e modiste, sempre più note e ricercate, stavano diventando inventrici di mode e arbitre di gusto. La moda cominciava ad avere i suoi quartieri, le sue botteghe, le sue vetrine, ma anche un modo per essere creata, fruita e diffusa. La stampa di moda La diffusione delle nuove mode avveniva utilizzando strumenti diversi, dalla poupée de mode già in uso da secoli (bambola, manichino prezioso rivestito dalle ultime mode) alla più moderna stampa. Le incisioni avevano un grande vantaggio sulle bambole: erano meno fragili e meno costose, venivano più facilmente moltiplicate e quindi erano in grado di raggiungere un più ampio pubblico, che le poteva acquistare agevolmente in tutta Europa. Gli antichi repertori di costumi, che erano stati pubblicati dal Cinquecento, avevano avuto l’intento di raccogliere le curiosità; ora la produzione di incisioni sceglieva di comunicare le mode. 1672 viene fondata la gazzetta “Le Mercure galant” - da Jean Donneau de Visé Dal 1678 fu trasformato in “Le Nouveau Mercure galant”. Cominciò a pubblicare articoli accompagnati da illustrazioni che fornivano anche gli indirizzi di alcuni fornitori. Nel numero di marzo comparve addirittura l’interno della bottega di una marchande de mode, con la descrizione in dettaglio degli accessori e dei tessuti in vendita. L’esperimento, però, durò solo un anno e non venne ripreso che nel 1724 dal “Mercure de France”. Probabilmente la stampa periodica non era il luogo più adatto per la diffusione delle immagini di questo tipo, che ormai avevano una circolazione propria e molto più estesa di quella dei giornali. Con il crescere della richiesta di moda nel corso del secolo, aumentò anche lo spazio per un’informazione adeguata e per un vero mercato di figurini. Jean Esnaut e Michel Rapilly risposero pubblicando “La Galerie des modes”, una serie di fascicoli, ciascuno contenente un certo numero di stampe, che uscirono abbastanza regolarmente fra il 1778 e il 1787. Le tavole, realizzate sia a colori che in bianco e nero, era relative ad abiti e acconciature, principalmente femminili. Nel 1779 venne edito un volume che raccoglieva novantasei stampe. Le immagini sono concepite in modo da dare informazioni sia sugli indumenti, illustrati nel disegno e spiegati in didascalia, sia sulle “buone maniere”, ossia sulle regole di comportamento adatte ad ogni tipo d’abito. Le figure rappresentate agiscono come se fossero state fermate in un attimo della loro vita e mostrano le occasioni, i gesti, i modi consoni a ogni parure. La documentazione non si limita agli indumenti della corte e della nobiltà, ma mostra anche i borghesi e persino alcuni mestieri in situazioni concrete. Nello stesso periodo venne concepito un altro repertorio di immagini finalizzato a promuovere all’estero il modello di vita, la cultura e il gusto estetico dei francesi. Finanziato dal banchiere Eberts e pubblicato da Prault, il Monument du Costume. Suite d’estampes pour servir a l’histoire des moeurs et du costume des Français dans le dix-huitième siècle fu illustrato in modo superbo, fra gli altri da Moreau le Jeune. Non si trattava di stampe di moda, ma di un vero “monumento” alla cultura dell’Ancient Régime nel momento della sua scomparsa. I tre fascicoli, pubblicati nel 1775, 1778 e 1783, erano concepiti come racconti per immagini della “storia morale” di due personaggi – una femme du bon ton (il primo e il secondo) e un giovane gentiluomo (il terzo). Il risultato era l’idealizzazione di un modello di vita in via di scomparsa, che si mostrava in tutta la sua inattuale bellezza elitaria. E questo, evidentemente, non favorì la diffusione del Monument du Costume fra i contemporanei, affamati di modelli e regole per il nuovo mondo che si andava creando. Contemporaneamente cominciò a prendere forma la prima stampa femminile, che di univa alle informazioni di moda un intento educativo tipicamente illuminista: plasmare una nuova cultura della femminilità. Tranne “Le journal des dames” in Francia e “The Lady’s Magazine” in Inghilterra, si trattò di imprese effimere, spesso limitate a poche uscite, ma che prepararono il terreno a un nuovo tipo di giornale. La prima vera rivista femminile di moda fu “Cabinet des modes” che continuò a uscire ogni dieci giorni dal 15 novembre 1785 al febbraio 1793, con un successo che le consentì di superare le fasi iniziali della Rivoluzione fino al periodo più duro del Terrore. Il periodico aveva un prezzo piuttosto elevato, ma il pubblico cui si rivolgeva era composto da ricchi borghesi e aristocratici che potevano permettersi questo lusso. Il “lancio pubblicitario”, effettuato con decine di migliaia di volantini di presentazione distribuiti in tutta Europa, produsse mille sottoscrizioni di abbonamento: un vero successo. Il grande movimento di piazza che portò alla presa della Bastiglia. Da quel momento il luogo dell’apparire si spostò violentemente dalla corte alla città, dei salotti alle strade, alle manifestazioni, alle feste pubbliche. Attore principale era il popolo di Parigi. I segni dovevano essere chiari, diretti e fatti per non essere fraintesi, le parole d’ordine erano nazionalismo, uguaglianza e libertà, poi repubblica. La nuova Francia si rappresentò con il tricolore bianco, rosso e blu che diventò, oltre che una bandiera, coccarda da applicare sul vestito e sul tessuto, a righe o a piccole fantasie. E ovviamente divenne la divisa dei soldati della Guardia nazionale, creata da Lafayette. La coccarda, prima semplicemente ammessa, fu l’unico oggetto vestimentario reso obbligatorio come segno distintivo dei “cittadini” francesi. UGUAGLIANZA Più complessa fu la rappresentazione del principio filosofico dell’uguaglianza, che poteva essere interpretato in modi diversi, a seconda dell’idea o del concetto che doveva contraddire. Fu contrapposto al lusso: se il “privilegio” gerarchico si mostrava tradizionalmente attraverso il “privilegio” del lusso, la cancellazione del secondo non poteva che significare l’eliminazione del primo. Alle fibbie preziose per le scarpe si preferirono i lacci o i fermagli con decorazioni politiche, i gioielli si caricarono di preziosismi diversi da quelli tradizionali, i tessuti di cotone o lana presero il posto di quelli di seta. Nelle acconciature scomparve il bianco della cipria, segno di una cura aristocratica e professionale, e comparve la moda del taglio corto o scomposto à la Romaine o à la Titus. La moda cambiò punto di riferimento: non più la corte, ma l’abito borghese e quello operaio fornirono il modello del nuovo apparire. Per tutti gli anni della Rivoluzione, la foggia vestimentaria di base non subì modifiche sostanziali rispetto alla semplificazione già avvenuta, ma venne rivisitata in ragione del nuovo significato sociale che doveva comunicare. La trasformazione fu più evidente nell’abbigliamento maschile: la moda borghese di gusto inglese e poi le divise dei lavoratori offrirono gli strumenti per inventare le nuove uniformi civili. Dalla prima furono recepiti i tessuti di lana in colori sobri, in tinta unita o a piccoli disegni, i capelli rotondi e l’eliminazione di decorazioni lussuose. Dalle seconde prese forma la divisa del sanculotto, dichiaratamente ideologica e legata alla politica giacobina e montagnarda, che comprendeva i pantaloni lunghi e informi, la “carmagnola” (giacca corta a doppia fila di bottoni, usata originariamente a Carmagnola) degli operai, gli zoccoli dei contadini e la pipa. Nel 1792, Madame Tussaud descriveva Filippo D’Orléans con una giacca corta, pantaloni e cappello rotondo, con un fazzoletto indossato sciolto intorno al collo, alla moda dei marinai, con le cocche lunghe e pendenti, i capelli tagliati corti senza cipria à la Titus, e scarpe allacciate con stringhe. Anche lui aveva aderito all’idea che l’abito dovesse essere specchio delle idee. Salì al patibolo vestito con un mantello grigio perla e un abito all’inglese, affidando al linguaggio della moda il suo messaggio di disprezzo nei confronti di chi lo stava ghigliottinando. Nell’abbigliamento femminile il principio dell’uguaglianza era più difficile da cogliere. La moda continuava a proporre la mise di derivazione popolare composta da gonna, caraco e fichu, cui venivano accoppiate fantasiose acconciature (meglio se limitate a cuffie e nastri, visto che i capelli erano considerati troppo lussuosi). Il denominatore comune era la semplicità. Non si trattava più di un vestito di corte né da casa, ma da città fatto per camminare, per stare in mezzo alla folla, per essere comune nei movimenti. I cappelli, per la prima volta nella storia occidentale, vennero tagliati corti come quelli degli uomini. Nei mesi del Terrore furono indagate in profondità le implicazioni vestimentarie del principio di uguaglianza. Se infatti era dimostrato che l'abito era il modo più elementare per mostrare le differenze sociali, avrebbe dovuto essere anche quello più facile da mutare per comunicare la loro assenza. Il dibattito si svolse a partire dall’ ottobre 1793 e da esso scaturì l'incarico dato a Jacques-Louis David, quale maggior artista della Rivoluzione, per la creazione di divise adatte a una società di uguali. David stesso non riusciva a trovare lo scenario sociale capace di fornirgli l'ispirazione per qualcosa che fosse un vero abito e non un costume teatrale, forse adatto per le feste e le commemorazioni pubbliche, ma certamente non per la vita quotidiana. La dichiarazione di uguaglianza non poteva che rimanere un principio generico o, nello specifico, un riferimento a un dogma filosofico che proclamava la sostanziale uguaglianza naturale di tutti gli uomini al momento della nascita. LIBERTà L’8 brumaio dell’anno II (29 ottobre 1793) fu decretata la libertà totale di abbigliamento. Il giorno prima alcune cittadine, appartenenti alla Société des Républicaines Révolutionaires, avevano tentato di imporre con la forza alle donne delle Halles il berretto frigio rosso. Prontamente la convenzione sancì il diritto per ciascuno di vestirsi secondo il proprio giudizio. Libertà voleva dire molte cose: era un'idea astratta, era un principio assoluto dell’ideologia rivoluzionaria. Si comunicava attraverso simboli, il primo e più semplice dei quali fu il berretto frigio di panno rosso. Nella mitologia giacobina, descritta in “De l’Origine et de la Forme du Bonnet de la Liberté” (1796), esso era considerato non solo il segno degli schiavi liberati nell’ antica Roma, ma di tutte le occasioni in cui la tirannia era stata abbattuta. Ma libertà cominciò a voler dire anche mancanza di regole imposte. Le riviste di moda registravano novità di ogni genere, i visitatori stranieri riferivano stupefatti il disordine vestimentario di cui si trovavano a essere testimoni. La libertà vestimentaria contribuiva alla creazione del personaggio. La rivoluzione non stabilì regole e in questo modo sancì il passaggio da una moda che esibiva le separazioni di casta a una che proclamava idee politiche, trasformava i princìpi filosofici in sciarade e, soprattutto suggeriva le differenze individuali, differenze che in breve si sarebbero trasformati in segni di distinzione anche sociale. LA MODA Con la stessa abilità con cui avevano rappresentato i segni dell’Ancient Régime, le marchandes des modes si occuparono della nuova iconografia e la trasformarono in acconciature, abiti, accessori che venivano regolarmente pubblicati dal “Magasin des modes nouvelles”, prima, e dal “Journal de la mode et du goût”, poi. I numeri dell’11 novembre e del 1° dicembre 1789 di “Le Magasin des modes nouvelles” mostravano fibbie per le scarpe à la Bastille, au Tiers Etat e à la Nation, insieme a un bonnet à la Bastille, con pizzi montati a torre e decorato con un nastro e una coccarda tricolore, e a un abito femminile a righe bianche, rosse e blu. Sul “Journal de la mode et du goût”, il 25 marzo, era stata pubblicata anche la femme patriote con “una redingote nazionale di panno bleu de roi”, bordata di rosso è indossata con una gonna di lino bianco. Il 25 agosto la patriota sostituiva la gonna bianca con una di panno blu. “Le Journal de la mode et du goût” iniziò a pubblicare modelli dedicati a coloro che non condividevano gli ideali rivoluzionari, ma che avevano scelto di utilizzare l'abbigliamento per comunicare le proprie idee e le proprie fedeltà. Acconciature e robes à la Coblenz, pouf à la Reine per le donne, ma anche habits à la Coblenz, nodosi bastoni, tenute da muscadin e persino un modello à la Contrerévolution per gli uomini. E nonostante non dovesse essere proprio sicuro passeggiare per Parigi così abbigliati, la libertà proclamata dal governo rivoluzionario garantiva anche questa possibilità. Si sperava che la democrazia promessa dalla Rivoluzione potesse essere estesa anche al lusso e che esso invece di essere concentrato in un piccolo numero di mani, potesse essere diffuso a tutta l'universalità dei cittadini Uguaglianza virgola che faticava a trovare un’applicazione a livello sociale virgola non sarebbe passata attraverso la moda, se non trasformata nel suo linguaggio. Nel 1792, “Le Journal de la mode et du goût” pubblicò un modello à l’égalité, composto di cuffia, fichu, L'illuminismo aveva lasciato in eredità una nuova concezione del corpo e dell’igiene, da tradizione borghese prevedeva una vita attiva, la Rivoluzione aveva rotto con tutti i rituali ed etichette di palazzo sostituendoli con il gusto della città, negli spazi pubblici. La festa continua del Direttorio si svolgeva nelle case dei nuovi potenti e dei nuovi ricchi, ma anche nei luoghi di incontro pubblici alla moda. C’era, per esempio, il Palais Royal con le sue botteghe delle marchandes de modes, c’erano i giardini Tivoli ecc. L'abito femminile si adeguò a tutto questo: eliminate le sottostrutture, si ridusse a una camicia di cotone leggero con la vita alta, segnata, prima da una cintura passata all’interno ad arricciare il tessuto e, poi, da un taglio e da una costruzione sartoriale e vera e propria. Ai piedi le signore calzavano dei sandali, in seguito sostituiti da scarpine, chiamate coturni, coi lacci alle caviglie. Per portare con sé le cose che in passato stavano nelle tasche delle ampie gonne, adottarono una minuscola sacca, chiamata réticule, ma anche ridicule per la sua dimensione. Non era più prevista alcuna distinzione tra abito formale e informale e la nuova moda era caratterizzata dall’assoluta semplicità del modello e dalla sua trasparenza, due cose che mettevano in pieno risalto il corpo femminile. Tanta uniformità, però, non corrispondeva a un principio di uguaglianza: la moda aveva già trovato la maniera per creare nuove distinzioni. L'abito poteva essere fatto di lino o di mussolina indiana, due materiali dal costo decisamente diverso. Poteva essere indossato nella sua totale trasparenza e con gli ultimi accessori usciti dalle botteghe delle marchandes de modes. Poteva essere cucinato in casa o realizzato da una sarta, e anche questo faceva una notevole differenza. L'apparente semplicità dell'abito all'antica nascondeva una vera struttura sartoriale: la schiena era sagomata in modo da essere molto stretta, la gonna era arricchita da fitte pieghe sciolte, che davano anche ampiezza al dietro, all’interno era affrancato a una specie di corpetto che sosteneva il seno e impediva che l'abito si spostasse dalla sua posizione. La mise era poi normalmente completata da una stola, il cui drappeggio richiedeva fantasia e abilità. Anche questo accessorio rientrava nella logica del lusso: era solitamente realizzato in tessuti preziosi, spesso ricamati con bordure a motivi classicheggianti. Nel 1798 i soldati di Bonaparte di ritorno dalla campagna d'Egitto portarono in Francia gli scialli cachemire, tessuti in India fin dal 1XV secolo con una lana proveniente dal Tibet, riccamente operati con il caratteristico motivo a palmette. Questi indumenti costosissimi erano già arrivati in Inghilterra, importati dalla campagna delle Indie, e divennero immediatamente oggetto di una moda incontenibile. In tutti i ritratti femminili realizzati fino ai primi decenni dell'800, lo scialle cachemire è un accessorio obbligato. Anche i gioielli tornarono a fare la loro comparsa su tutte le parti nude del corpo femminile, ed ebbero forme ispirate all’antichità. MODA E Società Il gruppo sociale appena salito al potere era un’élite nata dalle ceneri della Rivoluzione, ricca e desiderosa di godere dei privilegi appena raggiunti e non ancora consolidati. e una borghesia d’affari, pratica, realista, disillusa sulle gioie della virtù democratica, ma molto decisa a recuperare il tempo perduto e a godere del presente vendicandosi delle privazioni del passato. Presente economicamente devastato, minato da un'inflazione peggiorata anche la ritorno alla liberalizzazione dei prezzi. Nel turbinio di balli e dissolutezza, realisti e repubblicani, notabili e nuovi ricchi si riavvicinano e si intendono per estinguere la loro comune sete di eccessi, di piaceri, troppo a lungo sospesi. Furore di vivere e furore di comprare li riuniscono per gustare finalmente la gioiosa leggerezza delle mode e delle infatuazioni, le ricreazioni futili e le brillanti compagnie. Ecco che ritornano quindi, dopo l'episodio del Terrore, i contrasti violenti e dolorosi: lo spettacolo dello sfogo accanto alla disperazione, quello della festa, gomito a gomito con la carestia. Questo nuovo mondo cancellò definitivamente il principio rivoluzionario dell’uguaglianza e proclamò, nell’ottobre 1795, una nuova costituzione che prevedeva una Repubblica basata sulla proprietà e sul censo. Le nuove signore dei salotti parigini, quelle che avevano sostituito la corte nel compito di inventare e imporre le novità, non erano certamente note per le loro virtù domestiche. Per le strade, nei giardini del Palais Royal, al Tivoli e al Frascati e nelle feste, le stesse cose erano indossate dalle giovani donne votate alla moda come fosse un'ideologia, che ne seguivano i dettami, ne anticipavano le frivolezze, non temevano un’esagerazione, tanto che le cronache del tempo parlavano con scandalo delle loro follie dimenticando che lo stesso modo di vestire in realtà si diffuse rapidamente in tutta Europa. Nel 1797, inoltre, avevano ricominciato a uscire le riviste di moda. “Le Journal des dames et des modes” durò fino al 1839. Apparsa il 20 marzo 1797 come “Journal des dames”, dal 1798 cominciò a uscire regolarmente ogni cinque giorni. L’idea di creare una testata destinata alle giovani donne alla moda era venuta a Jean-Baptiste Sellèque e Pierre de la Mésangère, due intellettuali costretti a cambiare vita a causa della rivoluzione. Il primo era un insegnante, il secondo un ex prete. La loro rivista si occupò di temi psicologici, linguistici, storici, biografici, di recensioni di libri e di spettacoli teatrali e di emancipazione femminile. Alle elettrici offrivano poesie, spartiti musicali, pettegolezzi, la racconti di viaggio. Consigli sulla salute, sull'educazione dei figli alla sola gestione della casa e su mille altre cose. Soprattutto, però, si occupò di moda, dando notizia delle novità, annotando tutto quello che Parigi proponeva. A ogni numero erano allegati figurini (intitolati “Costume parisien” e accompagnati da un testo di commento). Presto i disegnatori cominciarono a prendere spunto anche dalle vetrine dei magazins de nouveautés o a copiare le realizzazioni che le marchandes de modes più intraprendenti mettevano loro a disposizione. Per scelta di Sellèque, fino al 1800 la rivista non ospitò vere e proprie forme di pubblicità. Alla fine del secolo Parigi era tornata ad essere il fulcro della moda. LA MODA IMPERIALE LA MODA COME STRUMENTO POLITICO Il Direttorio terminò il 18 brumaio dell’anno VIII (9 novembre 1799), quando Napoleone prese il potere con un colpo di Stato. Napoleone era il capo che la nazione cercava, colui che avrebbe potuto prendere in mano la confusa società postrivoluzionaria e trasformarla in un vero Stato moderno. Ebbe l’appoggio del popolo, ma soprattutto ebbe quello della nuova borghesia arricchita, e di gran parte della vecchia nobiltà, di cui aveva favorito il ritorno in patria dai paesi in cui erano emigrati durante il Terrore. Si trattava di due società diverse, l’una legata alle buone maniere Ancien Régime, ma spesso priva delle ricchezze di un tempo, l’altra composta di banchieri, speculatori e parvenu di ogni tipo, ricca di denaro ma non di cultura. Napoleone cercò in ogni modo di amalgamarle per dar vita a una nuova classe dirigente che le rappresentasse entrambe. Moda e mondanità furono utilizzate come strumenti di Stato per raggiungere questo fine, ma se la società dei ricchi voleva spendere per mostrare le proprie ricchezze, la società dei nobili guardava con disdegno il cattivo gusto di questa ostentazione. Il progetto di Napoleone era assecondare i desideri dei primi con un genere di vita mondana concepito in modo da attrarre anche i secondi, così da mettere in atto un grande processo di accettazione ed educazione reciproca. Il compito di gestire questo processo culturale fu affidato a Joséphine Beauharnais, la moglie del Primo Console, che cominciò a svolgere la sua azione, organizzando alle Tuileries feste e ricevimenti ufficiali che introducevano un nuovo protocollo mondano. Anche il modo di vestire fu rivisto in relazione alle nuove esigenze: il modello a vita alta rimase, ma si cominciò a guardare con sufficienza alle trasparenze più audaci, alle nudità, agli accessi delle giovani donne e delle cortigiane del Direttorio. La veste lunga si cominciò a portare semicoperta da una tunica più corta che prendeva diversi nomi a seconda della foggia ed era completata, per il giorno, dallo spencer, una giacca corta con le maniche lunghe. E, in tutte le occasioni, dall’intramontabile scialle cachemire. Per i ricevimenti ufficiali, Joséphine adottò la sopravveste a strascico, Quando le giovani donne della famiglia Bonaparte diventarono regina di Olanda, regina di Napoli, principessa di Lucca e Piombino, regina di Spagna, si trasformarono in ambasciatrici della moda francese in tutto l’Impero. Le loro corti si modellarono su quella di Parigi. Il vero mezzo di comunicazione dello stile Impero di Francia e all’estero fu “Le Journal des dames et des modes”, fondato da la Mésangère negli anni del Direttorio. Due strumenti, quello politico e quello a stampa, determinarono gli andamenti della moda europea fino alla caduta di Napoleone. Il più famoso fu Louis-Hippolyte Leroy, il couturier che seguì le sorti della moda francese dal Direttorio alla Restaurazione, lavorando sempre per i livelli più alti della società. All’inizio della sua professione era stato impiegato in un magasin de nouveauté, poi si era messo in società con una famosa couturière, Madame Raimbault. Nel 1804 fu incaricato di fornire gli abiti progettati da Isabey per l’incoronazione. Leroy divenne il solo fornitore dell’imperatrice e il punto di riferimento di tutte le dame eleganti d’Europa. Egli vendeva tutto quello che in qualche modo aveva una relazione con la moda. una sua specializzazione erano gli scialli cachemire, che avevano nell’imperatrice un’appassionata collezionatrice. Ovviamente “Le Journal des dames et des modes” pubblicò con metodo e costanza le sue realizzazioni, facendogli una pubblicità che si estese per tutto l’impero. Egli divenne la guida assoluta del buon gusto femminile e in qualche misura fu il vero depositario dello stile Impero e della moda di corte. Non era comunque l’unico fornitore della famiglia di corte. La moda imperiale era di fatto limitata alle corti, al di fuori di esse cresceva quello spirito borghese che aveva provocato i grandi cambiamenti settecenteschi. al fasto delle cerimonie faceva riscontro la morigeratezza della vita casalinga. Alla fine dell’Impero la morale borghese prese il sopravvento: la crisi economica che si abbatté sulla Francia costrinse a un ripensamento, all’abbandono del lusso, alla ricerca di modi migliori per gestire i propri affari. L’AFFERMAZIONE DELLA MODA BORGHESE LA NUOVA CULTURA DEL LUSSO Dopo la morte di Napoleone, tornarono i Borboni. La Restaurazione non significò un ritorno all’Ancien Régime, ma l’affermazione di nuove regole sociali ed economiche alla cui nascita era necessario il pacificato apporto della borghesia. Eliminate le gerarchie ereditarie, ridistribuite la ricchezza, l’identità sociale nasceva da una nuova legittimità politica e culturale, quella dell’uguaglianza dei cittadini sancita dalla legge. Questo principio non eliminava le differenze, sostituiva quelle antiche, basate sul diritto di nascita e di primogenitura, con altre più moderne e borghesi, legate al denaro. Esso diventò la misura del talento, dell’intelligenza, del successo e, quindi, il vero metro della disuguaglianza. La ricchezza non poté più essere considerata uno strumento di consumo, ma qualcosa da reinvestire e accrescere continuamente. Era finita l’epoca del lusso grandioso delle corti e dei signori e iniziava un mondo borghese fondato sul risparmio. Lo spreco era diventato una colpa. Questo non significa che la borghesia rifiutasse gli agi e la ricchezza: semplicemente non si riconosceva nella cultura del lusso ostentato. Il lusso borghese prese altre strade, quella dell’eleganza e quella del comfort di matrice inglese, che s’innestò facilmente nella cultura della casa e del privato. IL “COMFORT” In Inghilterra persino nelle camere delle osterie vi erano, a disposizione dell’ospite, piccole cose per rendergli più comoda la vita e più piacevole il soggiorno. Oggetti destinati alla comodità, all’igiene, alla cura del corpo e della casa, al benessere: lussi privati spesso privi di qualsiasi aspetto esteticamente ricercato. Erano lussi funzionali, resi possibili da una società che tendeva alla tecnologia e al progresso. La Rivoluzione industriale mise a disposizione tutta una serie di beni. La tecnologia fornì, nel corso del secolo, i veri lussi della borghesia: l’acqua corrente, il gas, l’elettricità. Ma tutto questo non era considerato un vero e proprio lusso: rapidamente quello che apparteneva alla sfera del comfort diventava semplicemente utile, abitudine e quindi cultura del benessere quotidiano intesa come necessità generale e egualitaria. IL MITO DELL’ELEGANZA Le qualità che facevano la differenza tra un individuo e l’altro erano l’abitudine, l’educazione e l’apprendimento, ma anche l’istinto, il gusto innato, l’intelligenza. La nuova società non amava l’ostentazione dello spreco, non amava far vedere la propria ricchezza e detestava la vanità tanto quanto temeva il ridicolo. Semplicità, sobrietà, proprietà, ragionevolezza, naturalezza erano le regole fondamentali del nuovo vivere sociale. E se era vero che “l'abbigliamento è l'espressione della società”, tutto questo si mostrava innanzitutto nel modo di vestire. L’ABITO DELLA BORGHESIA L'abito era l'uomo sociale, nel senso che da un lato comunicava con uno specchio fedele, attraverso segni a volte impercettibili, la sua posizione e il suo ruolo, ma dall'altro ne determinava il comportamento adeguandolo all'occasione. La scelta dell’abito appropriato non era ancora eleganza, che dipendeva dal modo di portarlo, ma era già una forma di buona educazione. La borghesia della prima metà dell'Ottocento si vestiva per comunicare il proprio ruolo e il proprio stato sociale. L'uomo che lavorava adottò la divisa di Lord Brummel, ovviamente senza la sua raffinatezza, ma cercando di rispettarne i precetti della semplicità e dell’anonimato. Nero e bianco furono i soli colori ammessi nella vita pubblica. Il principio egualitario richiedeva una divisa che non ostentasse alcuna differenza gerarchica e nessuna forma di lusso apparente. La distinzione stava nei particolari: il nodo alla cravatta la stiratura della camicia ecc. Anche l'abito femminile assumeva una caratteristica simbolica precisa: comunicare le virtù della donna che lo indossava. Alle donne non era stato riservato alcuno spazio pubblico e il loro campo d'azione era stato assolutamente e rigidamente limitato alla casa e alla famiglia. Il passaggio dalle matrone romane dell'Impero alle fanciulle romantiche virtuose della Restaurazione avvenne attraverso un progressivo irrigidimento dell’abito. La gonna assunse una forma a campana, dapprima attraverso una serie di elementi decorativi imbottiti applicati all'orlo e poi, dagli anni 20, con l'aiuto di sottovesti inamidate. Il punto vita rimase alto fino allo stesso periodo, puoi riacquistò la posizione normale, ma la forma e la postura del busto furono garantite fin dall'inizio da un corsetto steccato. Le scollature furono limitate agli abiti da sera. Il vero punto di novità della moda di questo periodo furono le maniche, che cominciarono ad arricchirsi e a gonfiarsi, ad assumere un aspetto decorativo. Il poco che si era conservato della fluidità e della sfrontatezza del Direttorio fu sale da pranzo in stile Rinascimento, finte chiese romaniche, improbabili castelli scozzesi rappresentavano la nuova ricchezza. La moda, in realtà, rimase a lungo esente dalle esagerazioni più vistose e limitò lo spazio della copia fedele alle numerose feste in costume, private o pubbliche, che avevano tanto successo nella buona società borghese. Le sarte parigine seppero a lungo limitare le citazioni d'ispirazione storicista alle decorazioni e agli accessori che arricchivano la foggia di base (gonna larga e corpetto sempre più piccolo) che caratterizzò l'abbigliamento femminile dagli anni 30 agli anni 60. Questo controllo estetico di natura professionale, che consolidò la fama della moda parigina, riguardava però le prime fasi della produzione delle novità, quella della creazione e del loro consumo da parte dell’élite. In realtà la diffusione agli altri stati strati sociali, al mercato, richiedeva strumenti e mezzi moderni adeguati, che furono messi a punto da nuovi professionisti. “MAGASINS DE NOUVEAUTÉS” Il commercio degli articoli di moda si era fortemente sviluppato nel periodo napoleonico: alle marchandes de modes si erano sostituiti i più impersonali magasins de nouveauté, un termine che comprendeva tutti i settori e gli articoli riferiti all’abbigliamento e ai suoi accessori. Forniti di vetrine illuminate fino a notte con lampade a gas, segnalati da insegne fantasiose, questi magasins adottarono l'abitudine di esporre la merce in modo che fosse visibile anche dall'esterno, per attrarre la clientela. Volantini e piccoli manifesti furono il primo veicolo pubblicitario diretto, senza però che questo sostituisse la funzione delle riviste di moda. Dagli anni 40 l'organizzazione divenne più razionale e moderna. Nel 1844 il Petit Saint-Thomas pubblicò un catalogo delle proprie merci da fornire al pubblico,in cui era già scritta la suddivisione della struttura commerciale in reparti omogenei. Nello stesso periodo subì una trasformazione fondamentale anche il rapporto con la clientela. Nel 1841, Deschamps, che aveva lasciato l'ormai famoso Petit Saint-Thomas, si associò con Collinet per aprire À la Ville de Paris. Per pubblicizzare l'evento venne pubblicata sui giornali una sorta di dichiarazione di intenti relativa al nuovo sistema che si intendeva seguire: guadagnare poco su ogni cosa per vendere di più, prezzi fissi, ogni mercanzia viene cambiata e può anche essere rimborsata. Era l'inizio di un nuovo rapporto tra l'acquirente e la merce, che cominciava a essere totalmente esposta con un prezzo certo e non più contrattabile. Con le nuove regole ciascuno era libero di aggirarsi fra i banchi di vendita per vedere quanto era esposto e decidere l'acquisto anche in base a quello che gli si offriva. La produzione industriale aveva costi decisamente più bassi di quelli artigianali. Lo sviluppo dei magasins de nouveautés prima e dei grandi magazzini poi ebbe nell’industria tessile la grande alleata: perché il commercio potesse espandersi, infatti, c'era bisogno di quantitativi di merce adeguati a una richiesta allargata e di livello medio. LA CONFEZIONE La vera grande novità di questa fase della società borghese fu la confezione. Gli abiti degli uomini e delle donne delle classi sociali più alte continuarono a essere confezionati da tailleur e couturière, i cui modelli venivano pubblicati sulle riviste. Ma la borghesia era estremamente stratificata e i ceti medi e piccoli avevano altri problemi: da un lato erano impossibilitati, per motivi economici a servirsi degli stessi fornitori dei ceti alti, dall'altro rifiutavano di ricorrere al mercato dell'usato che tradizionalmente forniva gli indumenti agli strati popolari. Per rispondere alla nuova domanda, nel 1824 Pierre Parissot creò un’impresa in cui vendere indumenti maschili, confezionati in serie nuovi, che all'inizio erano destinati unicamente al lavoro. La serializzazione riguardava soltanto il taglio delle pezze, dal momento che la cucitura delle parti doveva essere ancora realizzata a mano. Il successo fu tale in breve tempo Parissot cominciò a confezionare anche abiti borghesi di tipo corrente, evidentemente destinati a un pubblico maschile che finalmente trovava nei suoi prezzi eccezionali un'alternativa ai servigi di sarti di modesta qualità e al mercato dell’usato. L'idea di Parrisot venne presto ripresa da altri. Ma fu dagli anni quaranta che la realizzazione di abiti pronti ebbe un vero sviluppo, attraverso perfezionamenti tecnici nel taglio e nella cucitura e con una incessante razionalizzazione del lavoro. Così i mestieri legati alla confezione rimangono artigianali nella misura in cui rimangono manuali, ma si organizzano man mano sulla base di un sweating system che raduna sarti e sarte, confezionisti e tagliatori in un atelier in cui vengono eseguiti il taglio del tessuto e l'assemblaggio sommario dei pezzi che saranno in seguito affidati, per la finitura, a operai e operaie che lavorano a domicilio. La confezione femminile, dalla metà degli anni quaranta, riguardò solo indumenti e complementi di abbigliamento che non richiedevano di essere modellati sul corpo e seguì una logica completamente diversa da quella maschile. Sperimentata negli anni quaranta dai magasins de nouveautés, si rivolgeva un mercato di signore ricche ed eleganti cui proponeva capi e accessori costosi e l'ultima moda. Il successo della nuova iniziativa commerciale creò le condizioni affinché cominciassero a diffondersi due nuovi tipi di professioni: le confezioniste e le sarte-confezioniste. Le prime fabbricavano, su un cartamodello e non su misura, mantelline, mantelle, pellicce destinate ai magasins de nouveautés, mentre le seconde realizzavano, oltre ai normali indumenti su misura per singoli clienti, anche vestaglie, camicie e abiti per bambini preconfezionati da vendere direttamente. Prima fase, la produzione di indumenti pronti non riguarda l'abito intero, che le signore preferivano far realizzare su misura da una sartoria di fiducia. Dagli anni 40, l'industria tessile cominciò a realizzare e commercializzare pezze operate e stampate à disposition già pensate in funzione del modello finale. Le manifatture crearono stoffe con motivi ornamentali di grandi dimensioni per la sottana e ridotta in scala per la parte necessaria al corpetto. I produttori associazioni di stampati andarono oltre, inventando la robe de Paris, un taglio di 15 o 18 metri da mettere in vendita in una scatola accompagnato da una litografia che rappresentava una figura femminile vestita secondo una proposta di ripartizione della stoffa e uno schizzo che indicava la maniera di tagliarla specificando quello che corrispondeva al corpetto, ai fornelli e ai volants. Le indicazioni potevano servire da guida sia una sarta sia una signora capace di cucire. Si trattava ancora di tessuto venduto a metraggio, ma questa idea rappresentò una tappa di grande importanza nel percorso della confezione sartoriale: essa consentiva di vendere abiti completi in un periodo in cui era ancora prematuro pensare a una vera e propria offerta di modelli femminili già fatti. La robe de Paris ebbe un successo strepitoso. Solo agli inizi degli anni 70, quando la moda cambiò e all’ampia gonna sostenuta dalla crinolina furono sostituiti drappeggi, le signore tornarono alle tinte unite e alle righe. I GRANDI MAGAZZINI Nel 1848 si verificò una grande crisi economica, che segnò la fine della prima fase dello sviluppo industriale e favorì lo scoppio di una serie di rivolte e rivoluzioni che riguardarono quasi tutta l'Europa. Immediatamente dopo questa fase tumultuosa inizia una ripresa che dal 1850 prese la forma di un vero e proprio boom economico di dimensioni mondiali. La marcia trionfale del capitalismo ebbe nelle Esposizioni universali i suoi giganteschi riti di autoesaltazione. Ma se le esposizioni avevano il compito di mostrare al mondo intero la forza produttiva del capitalismo, la sua vita e il suo progresso erano legati al fatto che lo stesso mondo di ammirati visitatori si trasformasse in un gigantesco mercato per assorbire questa quantità iperbolica di merci. Si poneva il problema di inventare una struttura commerciale che mettesse in rapporto con i veri acquirenti tutte le categorie di beni che facevano bella mostra in sé nei modernissimi padiglioni di quelle fiere. I grandi magazzini furono in qualche modo la forma stabile delle grandi esposizioni, i luoghi in cui la merce poteva essere non solo ammirata, ma anche acquistata. Dagli anni 50 cominciarono a sorgere i nomi grandi magazzini: nel 1852 Boucicaut fondava il Bon Marché, nel 1854 Chauchard creava il Louvre, nel 1856 Ruel inaugurava il Bazar de l’Hôtel de Ville, nel 1865 Jaluzot faceva costruire il Printemps, nel 1869 Cognacq apriva il Samaritaine e così via. Queste imprese cominciarono da subito a ingrandirsi, inglobando le case intorno. La regola del grande magazzino era identica a quella elaborata nell’ultima fase dei magasins de nouveautés: ridurre il margine di profitto sui singoli articoli per favorire le vendite e quindi un rapido giro delle merci e del capitale. Questo più provinciale. Il Printemps scelse un carattere più giovane alla moda, mentre il Samaritaine Rosella si impose alla clientela popolare per i suoi prezzi bassi. Accanto a loro continuavano a prosperare le sartorie di lusso e le maison di moda più esclusive. Il commercio di moda era in grado di rispondere alle esigenze dell'intero mercato borghese e con una modalità che appariva all'esterno assolutamente democratica: tutti potevano accedere, senza alcun vincolo di carattere sociale, alle merci esposte nelle vetrine e sui banchi, tutti potevano guardare, soppesare, scegliere, acquistare qualsiasi cosa senza altre costruzioni oltre al proprio gusto. E alla propria capacità di spesa. Un insieme di stimoli diversi e la quantità delle offerte avrebbero richiesto una padronanza di gusto e un controllo dei segni che in realtà la borghesia della metà dell’800 non possedeva. Le mode si susseguivano senza avere veri e propri centri di emanazione, erano per lo più imposte dalle modiste dalle sarte di grido, ma richiedevano di essere adeguatamente adattate dalla scelta personale. Lentamente si fece strada la figura di un professionista che, dall’interno nel grande magazzino, assunse il compito di guida: un commesso che cercava di interpretare le esigenze della cliente e opera ho una prima selezione fra le merci. In quel momento Charles Frederic Worth fece il suo ingresso nel mondo della moda parigina. CHARLES FREDERICK WORTH (1825-1895) Nato in Inghilterra nel 1825 in una famiglia borghese. Formazione: -Londra: apprendistato in due notissime ditte di tessuti (Swan & Edgar e poi la Lewis and Allenby) - Parigi (dal 1845): - commesso a La Ville de Paris - assistente alle vendite di Gagelin (uno dei più importanti magasin de modes della città) Presto fu incaricato del reparto “scialli e mantelli” e qui incominciò a introdurre la prima innovazione: quella di presentare i capi utilizzando come modella una commessa del reparto, Marie Augustine Vernet, che sarebbe diventata sua moglie. Realizzò abiti con la crinolina che le clienti notarono e richiesero: anche le signore dell’alta società cominciavano a essere attratte all’idea di acquistare indumenti già fatti. Presto nei reparti del magazzino fecero così comparsa le prime nouveautés confectionées. All’Esposizione universale di Londra del 1851 la Maison Gagelin fu la sola ditta a presentare una produzione di capi pronti. All’Esposizione di Parigi del 1855, la medaglia fu assegnata a Gagelin nella sezione “Confezione di articoli di abbigliamento. Fabbricazione di oggetti di moda e di fantasia” per un manto di corte di seta ricamato in oro che si appoggiava alle spalle, contrariamente all’uso Dal 1853 Worth era entrato in società con il nuovo proprietario, Octave-François Opigez-Gagelin. I soci cominciarono ad avere divergenze e l’1 luglio 1858 il sodalizio si sciolse. Worth aveva creato una nuova società insieme a Otto Bobergh, uno svedese. La nuova Maison offriva servizi diversi: vendeva stoffe, ma soprattutto proponeva abiti esclusivi progettati da Worth, anche con varianti di colori e tessuti, che venivano confezionati su misura secondo le modalità imposte dalla creatività del couturier. Fu questa la nascita dell’haute couture. La scelta non competeva più a una confusa signora, ma veniva delegata a qualcuno che, per investitura professionale, si accollava questo compito. LA SOCIETÀ DEL SECONDO IMPERO Il mondo che cominciò a rivolgersi a Worth era quello del Secondo Impero, ruotava intorno alla nuova corte e ai gusti dell’imperatrice Eugenia. Questa società ricca, opulenta e amorale cercava di dare al proprio denaro un’immagine che fosse capace di rendere visibili innanzitutto i propri trionfi, ma anche l’adozione di un modello politico e sociale conservatore, il più possibile lontano da sospetti rivoluzionari. Il colpo di Stato del 1851, che aveva abbattuto la Repubblica nata dalla rivoluzione del 1848, aveva trasformato un “socialista” in imperatore e, con lui, aveva portato al potere un’intera classe dirigente che per l’occasione aveva barattato la rappresentatività repubblicana con la monarchia. Il tipo di borghesia che essi guidavano era affamata di ricchezza e di lusso. L’imperatrice, una contessa di origine spagnola, aveva un mito che poteva essere adottato e pubblicamente enfatizzato come modello estetico e di comportamento: l’ultima fase dell’Ancient Régime prima della Rivoluzione e l”infelice regina” Maria Antonietta, nelle cui vesti Eugenia si era fatta raffigurare da Winterhalter, il pittore di ritratti più in voga delle corti europee. Anche la moda, evidentemente, si adeguò a questo gusto e per tutti gli anni cinquanta s’impegnò a segnalare il lusso e la ricchezza. La crinolina assunse proporzioni sempre più esagerate per adeguarsi al desiderio di revival (e di ostentazione) che percorreva la società parigina e la quantità di stoffa necessaria per confezionare un abito alla moda in pochi anni raddoppiò. LA MODA DI WORTH Worth si inserì in questa moda senza cambiarne la foggia, ma proponendo vestiti più semplici rispetto a quelli che uscivano dalle mani delle couturières di lusso. Tessuto e forme erano sempre strettamente correlati e il taglio si incaricava di costruire una struttura perfetta, su cui poteva essere applicata ogni sorta di decorazione senza intaccare la vestibilità del capo. La sua fama iniziale derivò anche da un modello da sera dall’aspetto lieve e di un romanticismo particolare: il tessuto pesante con cui era realizzata la gonna era coperto di tulle di seta. L’ingombro del vestito veniva mascherato e la sua pesantezza annullata da questa nuvola leggera da cui le “bianche spalle delle signore” emergevano in modo conturbante come da una scultura di zucchero filato, resa ancora più impalpabile per il colore candido con cui veniva normalmente realizzata. Il successo in una ristretta cerchia di clienti della borghesia non era però sufficiente perché il nome di Worth diventasse sinonimo di moda. Per raggiungere questo risultato era necessario conquistare l’imperatrice e le sue dame. L’obiettivo fu raggiunto nel 1860, quando Marie Worth, vestita con un abito del marito, fu mandata a sottoporre i figurini di un album di modelli a una vera aristocratica, la principessa Pauline von Metternich, moglie dell’ambasciatore austriaco. Pauline ordinò due modelli: un completo da giorno e un abito da sera in tulle di seta bianco e argento, con cui si presentò a corte. Segnò il suo definitivo successo. Raggiunta la fama voluta, Worth cominciò ad apportare i primi cambiamenti alla foggia dell’abito femminile. Utilizzando la nuova “vetrina” costituita dalle corse dei cavalli a Longchamp e la moglie come modella, presentò un nuovo coprispalle in merletto di dimensioni ridotte al posto dei lunghi e avvolgenti scialli che in quel periodo coprivano gli abiti, e un cappello che lasciava vedere l’acconciatura, eliminando l’ormai tradizionale bavolet. Presto, sia le corti europee sia la ricca borghesia americana cominciarono a ordinare toilettes per ogni occasione e le riviste femminili documentarono la diffusione delle sue proposte. Le testimonianze concrete degli abiti realizzati da Worth negli anni Sessanta I modelli di Worth erano ricchi: realizzati in stoffe lussuose, spesso tessute appositamente, venivano sfarzosamente decorati in modo sapiente con ricami e applicazioni. Erano vistosi: i disegni dei tessuti erano grandi ed evidenti, i ricami occupavano enormi porzioni dell’abito; gli accessori fantasiosi. Erano unici. In una società in cui tutto cominciava a diventare riprodotto o riproducibile. Si trattava di un concetto di unicità che si legava a una logica di tipo artigianale o artistico: il capo era creato e realizzato dal maestro dell’eleganza. E questo ne assicurava l’autenticità, sancita dall’etichetta cucita all’interno che aveva lo stesso valore della firma su un’opera d’arte. Erano sempre più ispirati a modelli storici o artistici ed esponevano, appena possibile, decori d’epoca, come i veri merletti antichi le loro copie fedeli. IL TRIONFO DEL REVIVAL Fu negli anni Ottanta che Worth concentrò la propria creatività sul gusto storicista, ripercorrendo i modi di vestire e gli stili di tutte le epoche. Le fonti di ispirazione erano facilmente riconoscibili perché spesso si trattava di quadri celebri conservati nei musei. Mente le fogge rimanevano di norma all’interno delle mode consolidate, i tessuti, i particolari sartoriali e le decorazioni si arricchivano di richiami al passato che si susseguivano e si accavallavano proponendo, sulla scena della moda, secoli e corti diversi a seconda delle stagioni. Dal Cinquecento e dal Seicento furono ripresi i colletti a lattuga o le ampie maniche, ma anche nuove soluzioni per mantelli, stole e cappe da sera derivati, a volte in modo diretto, da fogge maschili di diversa provenienza. Il Settecento, d’altra parte, rappresentò per Worth una fonte d’ispirazione inesauribile, con gli engageants, i fichu, i nastri da collo, le marsine trasformate in giacche femminili, la redingote, ecc. Antica aristocrazia e borghesia attuale s’intrecciavano per assecondare i riti della nuova società. La stessa sopragonna aperta sul davanti e drappeggiata sul dietro che richiamava alla mente gli abiti femminili dell’epoca di Luigi XIV poteva essere dotata di due corpetti: uno da sera scollato e senza maniche, con applicazioni di fiori o merletti rigidi, e uno da giorno con lunghe maniche elaborate e collo montante, per meglio adeguarsi alle esigenze e al modo di vivere di una ricca signora dell’Ottocento. Fece sparire la linea verticale dei primi anni Ottanta e tornare di moda la tournure, che dal 1883 ricomparve trionfalmente sotto le gonne, dove rimase fino alla fine del decennio. Non era più il rigonfiamento di crine arricciato degli anni Settanta, ma una piccola gabbia metallica dalla struttura squadrata destinata a sostenere un vero e proprio ampliamento posteriore della gonna. GLI ANNI NOVANTA Gli inizi degli anni Novanta segnarono una serie di cambiamenti nella Maison Worth e nel suo gusto: Jean-Philippe, il figlio maggiore che lavorava nell’atelier dalla metà degli anni Settanta, assunse la maggior parte dei compiti creativi e contemporaneamente si assistette a nuove trasformazioni di foggia e di decorazioni. Comparvero le prime concessioni al giapponesismo. Worth non fu certamente tra i promotori del nuovo gusto o tra i collezionisti di stampe giapponesi, tuttavia adottò per i suoi abiti decori, tessuti o ricamati, che non possono che essere riferiti a quella corrente estetica, come il lampasso a tulipani o il ricamo con il sole tra le nuvole. Abbandonata per la seconda volta la tournure, la figura femminile assunse quell’andamento verticale che la Maison aveva destinato per anni ai modelli da indossare all’interno delle mura domestiche. La gonna fu alleggerita di tutti gli elementi di decoro che la tagliavano orizzontalmente e prese una forma a campana. Pur conservando il busto steccato e i riferimenti di tipo storico, l’abito si alleggerì e si semplificò. La gonna a campana con il breve strascico venne a volte accompagnata con corpetti aderenti, ma più spesso comparve in abiti princess, che mettevano pienamente in risalto la semplicità della nuova linea. Erano i primi sentori di una nuova epoca, anche se l’idea della modernità che gli artisti cominciavano a proporre attraverso l’Art Nouveau e i movimenti secessionisti non era ancora giunta a sconfiggere il gusto storicista ed eclettico che pervadeva fino al midollo la cultura della ricca borghesia occidentale. D’altra parte, le signore che si vestivano da Worth rappresentavano ormai un establishment che voleva essere alla moda senza troppe rivoluzioni e soprattutto senza mettere in discussione la certezza di gusto che la Maison rappresentava e garantiva da decenni. L’introduzione di una semplificazione strutturale non impedì la proposta di nuovi revival, come l’irrigidita linea Impero degli anni Novanta, come gli scolli quadrati ispirati ai ritratti di Holbein, come la giacca Louis Quatorze che, in varie versioni più o meno arricchite da ricami e decorazioni, venne utilizzata nei tailleur da passeggio, e persino come un improbabile riferimento egizio, anche la semplicità di questa moda era ispirata allo stile degli anni Trenta dell’Ottocento, cosa che risultò ancora più evidente quando Worth “inventò” le maniche à gigot, che dovevano avere tanto successo nelle stagioni seguenti. Nei capi di Worth, però, la forma à gigot venne sempre controllata dalla grande sapienza sartoriale della Maison e “gonfiò” la spalla dandole una forma arrotondata senza raggiungere mai gli eccessi che si videro in altri casi. Charles Frederick Worth morì nel 1895. Per diversi anni la Maison continuò ad essere uno dei punti di riferimento privilegiati dall’alta società internazionale; poi, altri assunsero il compito di cambiare le mode e interpretare i tempi. Nonostante ciò, prima Jean-Philippe e in seguito suo nipote Jean- Charles le conservarono una posizione di preminenza nel panorama dell’haute couture almeno fino alla fine degli anni Venti del Novecento. Sparì nei primi anni Cinquanta, inglobata dalla Maison Paquin cui l’ultimo erede della dinastia, Jean-Charles, la vendette. IL RUOLO DEL “COUTURIER” Dal 1870-71, quando Bobergh gli vendette la sua quota di partecipazione, Worth diresse da solo la sua Maison. Poi coinvolse nell’azienda i figli. Worth aveva costruito dal nulla il personaggio di couturier. Già nel 1871 egli stesso diceva di sé: “Le donne che vengono da me vogliono chiedere la mia idea, non eseguire la loro. Si affidano a me con fiducia”. Ma questo ruolo completamente nuovo aveva bisogno di essere riconosciuto e riconoscibile. Worth scelse di comunicarlo utilizzando i segni che caratterizzavano altri professionisti dell’estetica e del gusto: gli artisti. Non i bohémiens scapestrati che affollavano i café di Parigi, ma i grandi e adulati artisti del passato. Felix Nadar lo fotografò, già anziano, in abbigliamento ispirato agli autoritratti di Rembrandt. Il “travestimento” non era casuale. Era finalizzato a rafforzare l’idea di originalità del prodotto e, di conseguenza, di proprietà intellettuale del creatore in un ambito in cui la pratica andava in direzione opposta. Autentico diventava solo l’abito cucito all’interno della Maison e corredato dell’etichetta corrispondente, e l’autenticità costituiva forse la parte più importante del valore dell’oggetto. Ciò si contrapponeva a una pratica tradizionale, cui la metà dell’Ottocento davano sostegno anche le riviste di moda, che proponevano al pubblico figurini e spiegazioni affinché le nuove toilettes potessero essere copiate nelle sartorie e persino in casa. Worth scelse volontariamente di sottrarre le proprie creazioni a tale pratica per introdurre la novità di un diverso statuto professionale del sarto di moda. Il couturier non era più un semplice artigiano, ma rivendicava un ruolo da lavoratore intellettuale o artistico, che punto di vista la nuova toilette non era soggetta a nessuno degli “incidenti” che accadevano alle donne mentre salivano in carrozza o sulle scale, ma il problema stava nei pantaloni: l’Occidente non poteva accettare che una donna indossasse lo strumento simbolo della mascolinità. Per porre termine alla polemica che si era scatenata, la Bloomer dovette tornare all’abbigliamento tradizionale. L’idea fu riprese nel 1881 dalla viscontessa Haberton, che fondò in Inghilterra The Rational Dress Society, un movimento che interveniva sull’abito femminile in nome della salute della donna e dell’igiene, proponendo l’uso di pantaloni alla turca o di gonne- pantalone. Nonostante fossero passati anni dalla provocazione della Bloomer, l’ora per questa rivoluzione non era ancora giunta. L’aspetto più rilevante era, comunque, legare la riforma dell’abbigliamento femminile al processo di emancipazione della donna e, quindi, alle prime rivendicazioni femministe. In Germania venne fondato il movimento della Reformkleidung, che sosteneva una lotta contro la moda, contro gli abiti e i busti antigienici, ma anche contro la Francia. Lo stesso Congresso internazionale “für Frauenwerke und Frauenbestrebungen”, tenutosi a Berlino nel 1896, discusse a lungo questi temi, considerati strettamente connessi al problema generale della lotta per l’emancipazione femminile. Una nuova concezione dell’igiene e le recenti indicazioni sanitarie combattevano il busto per il timore che la sua azione pregiudicasse la gravidanza. Questo timore poteva essere condiviso dalla società borghese, che vedeva nella maternità “il solo status possibile di un’esistenza femminile”. Questo strumento ortopedico da un lato esaltava artificialmente le forme della femminilità, dall’altro rendeva evidente l’incapacità della donna a ogni sforzo produttivo. E infatti “l’invalidamento sociale si manifesta prima di tutto mediante un’invalidità fisica”. Come nei secoli dell’Ancient Régime, gli uomini rivestivano il loro corpo con indumenti adatti all’attività fisica, mentre le donne, dopo la breve parentesi delle tuniche Direttorio e Impero, tornavano a essere private della loro forma corporea, sostituita da quella che stecche e crinoline, cerchi e gabbie alla moda via via inventavano per lei. Il risultato fu una strana alleanza fra la medicina ufficiale, che temeva le malformazioni e le sterilità, e i primi movimenti che parlavano di emancipazione femminile. Per raggiungere l’obiettivo della liberazione del corpo dalla schiavitù del busto, dell’abito pesante iperdecorato e si seguirono, infatti, diversi modelli ideologici che di volta in volta tenevano più conto degli aspetti salutisti che di quelli naturali o estetici. I PRERAFFAELLITI Già alla fine degli anni Quaranta i preraffaelliti avevano creato abiti femminili adatti al loro tipo di pittura. Abiti morbidi dalle ampie maniche. Le donne della confraternita preraffaellita venivano ritratte (con i pennelli o in fotografia) con i capelli sciolti e con questi vestiti che non richiedevano più né busto né crinolina. Ma l’intento del gruppo era molto più ampio e coinvolgeva, almeno nel progetto di William Morris, tutto il contesto di vita moderno. Il movimento Arts and Crafts aveva lo scopo di ridiscutere alla base il gusto delle arti decorative e il modello di produzione capitalistica e industriale degli oggetti: proponeva il ritorno al lavoro manuale, per combattere la spersonalizzazione della nuova forma lavoro; recuperava le raffinatezze delle lavorazioni artigianali antiche, per immettere sul mercato oggetti che avevano tutte le qualità del prodotto artistico unico (pur essendo riproducibili); riproponeva un ideale di gusto elaborato sulla base di un Medioevo fantastico e mitico, visto come luogo della totale integrazione fra le classi sociali e soprattutto come momento del perfetto precapitalismo. Contesto in cui fratellanza, forza ideale e coesione sociale erano il naturale fondamento della convivenza. In tutto questo l’artificialità dell’abito femminile, costruito per mostrare le differenze sociali, era priva di significato: nella terra promessa del Nowhere di Morris, il modo di vestire delle donne doveva essere parte della nuova bellezza complessiva. Negli anni seguenti, la ricerca di un nuovo canone cui ispirare l’abbigliamento femminile s’intrecciò con la scoperta della cultura giapponese e con la moda che ne seguì. La possibilità di creare una sintesi fra il gusto occidentale e le raffinatezze nipponiche affascinò i pittori, che vestirono le loro modelle con autentici kimono, ma anche con vestiti di loro invenzione. L’abito estetico uscì presto dalla cerchia artistica che lo aveva prodotto e divenne una specie di segno di riconoscimento delle signore della società intellettuale che ruotava intorno agli artisti d’avanguardia e cercava modelli di vita alternativi. Il “künstlerkleid” Il progetto di una riforma del modello culturale borghese ottocentesco nel giro di pochi decenni si diffuse in tutta Europa e in vari paesi si formarono gruppi di artisti che perseguivano questa utopia. Il progetto di un modello di bellezza che rivoluzionasse innanzitutto lo spazio della vita quotidiana era finalizzato a una sorta di missione educativa di cui gli artisti si incaricarono nei confronti dei contemporanei: modificare la forma degli oggetti in chiave estetica significava indurre l’abitudine a un gusto più colto e raffinato e quindi costringere la società borghese a operare un salto culturale. Questa educazione al gusto avrebbe portato necessariamente a una trasformazione nella forma e nella funzione degli oggetti d’uso e, di conseguenza, a una messa in discussione del modo di produrli. La rivoluzione del sistema delle arti applicate, che avrebbe dato origine al moderno design, aveva infatti anche l’obiettivo di intervenire sul sistema produttivo industriale spersonalizzato che si andava affermando. Se il problema era identificare i modi attraverso cui l’arte poteva integrarsi nella vita quotidiana, l’abito rientrava nel progetto con la stessa dignità dei mobili, delle tappezzerie. Friederich Deneken organizzò nel 1900, in Germania, una mostra dedicata all’abbigliamento d’artista nel Kaiser Wilhelm Museum di Krefeld, città sede di un’importante industria tessile. Era la prima volta che degli indumenti venivano esposti in un museo e questo sanciva il loro diritto a essere considerati opere d’arte. L’iniziativa ebbe grande successo e vi parteciparono numerosi artisti con proposte d’avanguardia, van de Velde presentò sei vestiti realizzati per la moglie, dal taglio molto semplificato a vita alta e gonna lunga e sciolta, decorati con lo stile innovativo che l’architetto belga aveva ideato per altri oggetti d’arte applicata. Krefeld rappresentò l’inizio di un sodalizio fra artisti e cultura vestimentaria in area tedesca. Negli anni seguenti esposizioni analoghe furono organizzate in altre città contribuendo alla diffusione della moda Reform. Certamente più rivoluzionari furono i risultati raggiunti a Vienna da Gustave Klimt, esponente più importante della Secessione, che disegnò per sé e per la sua compagna, Emilie Flöge, modelli ispirati alle tradizioni orientali, lontanissimi dalle strutture sartoriali del primo Novecento. Semplici nella linea e raffinati nei tessuti e negli schemi decorativi, i vestiti di Klimt sono vicinissimi al gusto dei suoi quadri. Emilie dirigeva in quegli anni una delle case di moda più rinomate di Vienna, Schwestern Flöge, contribuì a diffondere l’idea del nuovo modello di abbigliamento. A Vienna, però, il luogo dedicato alla ricerca dell’abito d’artista fu la Wiener Werkstätte, la scuola di arti applicate fondata nel 1903 da Josef Hoffmann e Koloman Moser. Anche se pieni di fantasia, comunque, i modelli progettati in questa sede rimasero spesso al livello di disegno, questo però non impedì che la loro forza innovativa colpisse Poiret, che dall’esperienza viennese trasse una serie d’ispirazioni che contribuirono a modificare la moda parigina. La Russia postrivoluzionaria aveva un sogno: costruire un mondo e una società completamente nuovi. I vestiti vennero presi in esame come componente simbolica e produttiva del nuovo progetto. L’obiettivo del dopo 1917 non era più scandalizzare i borghesi, era piuttosto creare un abbigliamento per tutti che non comunicasse più i segni della distinzione sociale. Non più i piccoli numeri destinati a un’élite, ma i grandi numeri di una produzione industriale di massa. Il nuovo percorso cominciò nel 1919 con la creazione di laboratori e scuole, come quelli diretti da Nadezhda Petrovna Lamanova, titolare di una casa di mode che aveva fornito abiti alla corte dello zar, o quelli di Sokolnici, gestiti dal Commissariato opolare dell’industria e del commercio, dove elaborare i progetti del nuovo modo di vestire e formare i professionisti che avrebbero potuto metterne in atto la produzione. L’obiettivo politico era dare una nuova forma estetica alla società. Il tema dell’unione delle arti in un grande progetto di fondazione della cultura della prima nazione proletaria attraversò tutte le forme di produzione artistica. Fu la Nuova politica economica (NEP) a dare un vero impulso alla libera creazione di modelli vestimentari e fu nel 1923 che si costituì il primo atelier di moda (Atel’e mod), che presentò la sua filosofia e i suoi modelli attraverso una rivista, “Atelier” (Atel’e). La ricerca di una nuova bellezza in ambito vestimentario tenne conto di due elementi di fondo: la possibilità di una produzione industriale e il legame con la tradizione popolare russa. Sarte e artiste, come Lamanova, Ekster, Muchina elaborarono, ciascuna secondo la propria sensibilità, questi obietttivi. La prima, di grande competenza sartoriale, si concentrò sulla funzione, i materiali, le forme e la decorazione. Il suo metodo di lavoro venne pubblicato la prima volta in un testo del 1925, L’Arte nella vita quotidiana, e poi nel 1928 in forma di punti teoretici che definivano i fattori fondamentali di cui si compone la moda. Al contrario, Aleksandra Ekster e Vera Muchina concentrarono la loro creatività sulla produzione teatrale, che consentiva sperimentazioni molto più complesse e inventive di quanto non permettesse la produzione di abbigliamento di tipo quotidiano. Questo però non impedì la ricerca nell’ambito sia delle toilettes importanti di produzione artigianale, sia degli abiti da lavoro, che, secondo la Ekster, dovevan essere caratterizzati “dalle forme geometriche più più elementari quali il rettangolo, il quadrato, il triangolo, i cui ritmi saranno sottolineati dalle modeste variazioni cromatiche. Confezionati con i tessuti più semplici, questi capi si rivelarono utili e innovativi”. Sul tessuto si concentrò in particolare l’attenzione del gruppo costruttivista: Stepanova e Popova modificarono completamente il disegno tessile della prima fabbrica di cotone stampato di Mosca, innovandolo secondo i principi geometrici del movimento d’avanguardia cui appartenevano, ma in modo totalmente originale e creativo. Tessuto e stampa tessile furono i mezzi attraverso cui svilupparono la loro ricerca in campo artistico. Le loro realizzazioni hanno una forza innovativa che difficilmente si riscontra nella produzione di moda e ottennero un risultato che non fu raggiunto da nessuna delle altre sezioni produttive. Quando la loro ricerca si rivolse alla moda, coerentemente fu adottato come obiettivo l’abito produttivista da lavoro. Stepanova lo affrontò dal punto di vista teorico: “Il vestito attuale è la tenuta produttivista (prozodezda), cioè la tenuta da lavoro che si distingue secondo la professione e la produzione. Ciò universalizza la tenuta e le conferisce un tono particolare. La divisa sportiva è sottoposta a tutte le esigenze fondamentali della prododezda e cambia di aspetto in relazione allo sport.” Le divise della nuova società si differenziavano in base alla funzione, ma anche all’appartenenza: quella sportiva necessitava di emblemi, forma e colore che consentissero di distinguere una squadra dall’altra. Segni e simboli tornavano ad avere una loro importanza. Popova realizzò l’abito produttivista in un laboratorio, puntando però soprattutto sul rapporto fra tessuto e vestito femminile, costruito secondo linee diritte e morbide che esaltavano appieno il disegno dello stampato. Però l’arretratezza del sistema produttivo sovietico non consentiva una vera produzione di massa. I progetti rimasero in gran parte irrealizzati o illimitati a prototipi da esporre nelle periodiche mostre nazionali o al pubblico internazionale. Nonostante ciò, molte delle idee elaborate durante la prima fase rivoluzionaria trovarono la strada della moda atrraverso la produzione delle maison parigine. L’attenzione dell’Europa nei confronti della cultura russa fu alimentata, nel periodo appena successivo alla Rivoluzione, anche dall’arrivo a Parigi della prima ondata di esuli aristocratici. Dopo il riconoscimento dell’Unione Sovietica da parte della Francia, gli scambi aumentarono ed ebbero il loro culmine nella sezione URSS dell’Exposition del 1925. GLI ARTISTI E LA MODQA PARIGINA DEGLI ANNI VENTI La Prima guerra mondiale portò una rivoluzione nell’abbigliamento femminile: le gonne si accrociano, la linea si fece sempre più diritta, il taglio si semplificò. L’invenzione di un nuovo modo di vestire coinvolse spesso gli artisti. In particolare, le nuove forme d’arte e il gusto déco, erano in grado di metetre a disposizione della moda una nuova concezione della decorazione dell’abito, sia come disegno tessile sia come applicazione a ricamo. Molte case di moda ricercarono quindi il contributo degli artisti, questo tipo di lavoro interessò molti dei russi che si erano stabiliti a Parigi in seguito alla Rivoluzione d’ottobre, come Natalia Goncarova, che collaborò con Sonia Delaunay e Gabrielle Chanel. THAYAHT, LA TUTA E MADELEINE VIONNET Particolare è il caso Thayaht, spesso associato al futurismo. Ernesto Michahelles faceva parte di una ricca famiglia colta e decisamente cosmopolita che per una serie di motivisi era stabilita a Firenze. Nel 1920 propose la tuta. Indumento intero composto da camicia e pantaloni, abbottonato sul davanti e trattenuto da una cintura, progettato secondo uno schema geometrico semplice e molto rigoroso, che privilegiava la bidimensionalità del tessuto piuttosto che le forme del corpo da rivestire. Non si trattava propriamente di un’invenzione, dato che questo tipo di tessuto era già in uso come capo di biancheria, da lavoro e da aviatore, ma della sua sostituzione con l’intero guardaroba maschile: “La tuta è adatta per ogni occasione e tutte le stagioni.” Insieme alla versione maschile, Thayaht propose una tuta da donna: una sorta di camicia da uomo allungata, con una parziale bottonatura sul davanti e le maniche corte, da indossare con la cintura stretta in vita. Se la versione maschile fu presto dimenticata lasciando come unica traccia il nome che nella lingua italiana definisce la combinazione di camicia e pantaloni, la tuta femminile era molto più coerente con il modo di vestire chr le donne avevano adottato dopo la Prima guerra mondiale ed ebbero sviluppi insperati. Nel 1919 Ernesto Michahelles iniziò a colaborare con Madeleine Vionnet. La Maison Vionnet era organizzata “like an industry” in cui Madame Madeleine aveva il ruolo principale per quanto riguardava la progettazione sartoriale dei modelli. Una serie di colaboratori si occupavano invece di proporre spunti e idee, di inventare motivi decorativi, di progettare accessori e complementi, di preparare i disegni che le riviste specializzate avrebbero pubblicato. Thayaht si trovò inserito in questa fucina e, nel gennaio 1922, la sarta parigina e l’artista fiorentino cominciarono a lavorare sulla forma della tuta femminile, il cui modello fu brevettato e depositato dalla Maison Vionnet. Il momento storico era perfetto. Le donne chiedevano abiti comodi per muoversi, lavorare, ballare, guidare l’automobile, fare sport. Dalla guerra erano uscite vestite con tailleur maschili o con tuniche diritte che si appoggiavano sulle spalle e non comprimevano il corpo. Pensato d’apprima come robe d’aviation e poi come abito da tennis, il modello della tuta fu presentato nella sfilata del marszo 1922 in forma di abiti interi, di completi con giacca e tailleur confezionati non con l’economica stoffa di cotone che Thayaht aveva proposto due anni prima, ma con i raffinati e costosi tessuti esclusivi della couture parigina: flanelle inglesi a righe, morbida alpaca, cammello. L’impergno affidato a Poiret era di grande rilievo: rinnovare l’immagine della Maison con creazioni più “giovani” e adatte alle signore del nuovo secolo. Egeli tentò con un tailleur dalla linea molto semplice e con un mantello a kimono di panno nero, ma la clientela di Worth era troppo affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami per accettare la novità. D’altra parte gli stessi proprietari non avevano ben chiaro quello che volevano diventare, quindi il rapporto non si concretizzò e si concluse. MAISON POIRET Nel 1903 Paul Poiret aprì la sua prima Maison. Nonostante le esperienze in due famosi atelier, egli non aveva una fama personale a cui legare il proprio esordio. Doveva quindi attirare l’attenzione e a tal fine si servì della vetrina di cui era dotato l’atelier creando esposizioni spettacolari. La sua moda nacque sotto il segno della semplificazione e dell’innovazione delle linee. Poiret cominciò infatti proponendo capi che seguivano le fogge di moda, di cui venivano date versioni prive di decorazioni e fronzoli, sia le linee morbide già sperimentate in precedenza da Worth. Nel 1905 realizzò un mantello-kimono che fu pubblicato sulle riviste di moda con il nome di “Révérend” e che egli ritenne fondamentale per il suo percorso professionale. Lo chiamò “Confucius”. Ogni donna ne comprava almeno uno. Per la moda segnò l’inizio dell’influenza orientale di cui si era fatto divulgatore. Quell’influenza si leggeva sia nella decorazione che nella confezione del mantello: formato da un grande rettangolo di panno bordeaux usato in senso orizzontale e ripiegato ai lati in modo da formare un dorso e due davanti simmetrici, è aperto alle spalle lungo la cimosa del tessuto. Un medaglione dello stesso tessuto applicato, con una decorazione d’ispirazione cinese, delimitata su ciascuna delle spalle due spacchi di lunghezza diversa. Due altri medaglioni sono applicati sul davanti e sulla fodera di seta crème dei due revers. Il modello di Poiret si inseriva nella voga del giapponesismo che in quegli anni aveva invaso Parigi. La stessa invenzione delle maniche a kimono per indumenti occidentali, che da quel momento ebbe grandissimo successo, testimonia l’attenzione diffusa verso un capo di abbigliamento così diverso dal modo di vestire dell’epoca. Poiret ne propose una trasformazione radicale: un capo occidentalizzato e usato come soprabito. Attraverso l’adozione di una modellistica e di tecniche di taglio ispirate alla forma della veste giapponese egli rompeva in modo definitivo con la silhouette femminile di moda in quegli anni, modellata dal busto e dai corpetti aderenti. Nello tesso tempo dava inizio al suo particolare modo di intendere l’esotismo, mescolando segni che venivano da culture diverse. In questo caso la Cina e il Giappone. Nel 1905 sposò Denise Boulet, anche lei figlia di un commerciante di tessuti, che in breve tempo diventò la sua musa ispiratrice e una delle donne più eleganti di Parigi. Nel 1906 l’atelier stava ottenendo il successo sperato. L’espansione avvenne grazie al trasferimento al 37 di Rue Pasquier, dove fu possibile procedere a una riorganizzazione del lavoro per reparti specializzati, seguiti da una nuova équipe. Qui Poiret mise a punto la sua prima vera sfida alla moda dominante, eliminando il busto che costringeva il corpo femminile ad assumere la linea a S e sostituendolo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita la gonna. Il primo abito senza corsetto, denominato “Lola Montes”, fu indossato da Denise Poiret al battesimo della prima figlia. Egli non utilizzò più il busto tradizionale che stringeva in vita, ma lo sostituì con una guaina più lunga, che aderiva al copro in modo uniforme e costringeva soprattutto il seno e il sedere. Fu probabilmente più importante la conseguente eliminazione di quasi tutta la biancheria che fino ad allora si collocava sotto le gonne. I nuovi abiti, morbidi e leggeri, lasciavano spazio alla sola camicia e così eliminavano il peso che le donne erano abituate a indossare. L’ISPIRAZIONE NEOCLASSICA Poiret incominciò a lavorare intorno alla nuova linea e a un’idea di donna assolutamente innovativa. L’ispirazione era rivolta alla moda neoclassica degli anni del Direttorio, ma il percorso creativo fu più complesso. Egli non pensava di riproporre un’epoca storica all’attenzione del presente, al contrario si concentrò sulla struttura di quel modello vestimentario cercando di coglierne gli elementi fondamentali a cui agganciare la progettazione di un abito completamente nuovo. Il risultato iniziale fu un modello diritto, a vita alta, in cui la tradizione settecentesca fu abbinata a suggestioni che venivano da altre fonti, come quelle orientali ed etniche e certamente anche quelle dell’abito Reform. Il tutto venne realizato con materiali innovativi e, soprattutto, con colori e stoffe che derivano direttamente dalle culture vestimentarie extraeuropee, unite a un’attenta osservazione della pittura d’avanguardia e in particolare di quei pittori fauves che avevano esposto le loro opere al Salon d’Automne del 1905. Il modello chiave della collezione prese il nome di “Joséphine” ed era quello che più esplicitamente dichiarava l’ispirazione Impero. Era una sopravveste di rete nera ricamata in oro e la rosa appuntata sotto al seno. Insieme ad esso, però, Poiret propose dei capi dalla chiara ispirazione esotica. C’erano la tunica “Cairo”, che riprendeva nei ricami idee prese dal folklore mediterraneo, il modello “Eugénie”, che accostava la linea Impero a una sfolgorante garza di cotone rossa broccata a pois dorati molto probabilmente di provenienza indiana, il mantello “Ispahan”, di velluto di seta, che testimoniava una dettagliata conoscenza del taglio degli indumenti dell’Asia centrale, e altri ancora. Realizazta la grande trasformazione negli abiti, Poiret si rese conto che doveva trovare un mezzo adatto per comunicarla. Decide di agire trovando un artista adatto alle sue necessità e pubblicando le immagini delle sue creazioni come voleva che fossero accolte dal pubblico. Ammirava in particolare Jean Villemot e Paul Iribe. Fece la conoscenza di Iribe. Nell’ottobre 1908 uscì “Les Robes de Paul Poiret racontées par Paul Iribe”, un album contenente dieci tavole a colori, realizzate à pochoir, in cui Iribe metteva a confronto la novità dei modelli con il punto d’ispirazione utilizzando un linguaggio grafico mai usato prima nel mondo della stampa di moda, con punti di contatto evidenti con la bidimensionalità delle stampe giapponesi. I disegni al tratto rappresentavano figure femminili collocate in ambienti sommariamente definiti in cui si trovano mobili, oggetti, quadri che richiamavano alla mente, in maniera più o meno precisa, il periodo Impero. Le figure femminili rappresentate erano diverse: alte, sottili, senza forme evidenti o artefatte, con i capelli corti semplicemente avvolti da un nastro colorato in armonia con l’abito. L’album fu inviato a tutte le clienti di Poiret e soprattutto a quelle dame del gran mondo che avrebbero potuto diventarlo, ma venne anche messo in vendita come cartella di stampe d’arte per collezionisti. L’IMMAGINE “POIRET” Poiret incaricò Iribe di progettare il marchio a forma di rosa per la sua Maison. Nel 1909 la Maison si trasferì e scelse come sede un hotel del XVIII secolo con un grande parco intorno. L’interno venne ristrutturato e arredato in maniera da diventare l’adeguata cornice dei modelli che il couturier presentava alle sue clienti, accostando elementi in stile Direttorio e orientali in una cornice colorata. Poiret si servì per i suoi scopi professionali anche dal parco, che divenne una specie di secondo marchio della Maison con cui decorare i coperchi delle scatole, lo sfondo delle sfilate, il luogo delle sue feste. L’ORIENTALISMO mescolò volentieri il proprio lavoro con quello di artisti. Aiutò tanti giovani talenti come Dufy, Man Ray, Elsa Schiaparelli. Nel 1910 fece un lungo viaggio attraverso l’Europa per mostrare le sue collezioni. Egli stesso scrisse: “Non rimanevo lì ad aspettare che il mio successo aumentasse da solo”. LA SECESSIONE VIENNESE E L’ATELIER MARTINE Nel suo viaggio Poiret venne a contatto con realtà diverse da quella francese e con movimenti artistici d’avanguardia da cui prendere insegnamenti per il futuro. Poiret ebbe come guida Lamanova, la couturière moscovita che stava conducendo nel suo lavoro esperimenti innovativi. L’Europa dell’Est offrì al sarto parigino nuove idee e soprattutto una serie di elementi decorativi popolari che si aggiunsero a quelli esotici e che trovarono collocazione nei modelli degli anni seguenti. L’incontro che doveva segnarlo maggiormente fu, però, quello con Vienna dove conobbe Gustav Klimt ed Emilie Flöge e, attraverso Josef Hoffmann, la realtà e la produzione della Wiener Werkstätte. Affascinato dal progetto estetico della Secessione viennese. La suggestione fu enorme e scatenò in Poiret una serie di riflessioni sul ruolo della moda. L’ipotesi che la creazione di abiti facesse parte di un più generale movimento di gusto che andava dalle arti maggiori fino agli eventi mondani e alla vita quotidiana. Vienna gli rivelò un modello estetico in cui gli abiti di Emilie Flöge, i mobili di Koloman Moser, i vasi e le posate di Josef Hoffmann erano indissolubilmente iìuniti alle architetture di Josef Olbrich e Otto Wagner e ai quadri di Gustav Klimt. Si cancellava la vecchia divisione gerarchica di arti maggiori e minori. Con grande entusiasmo Poiret sposò la nuova teoria e agì di conseguenza: nell’aprile 1911 aprì in Rue du faubourg Saint-Honoré l’Atelier Martine, uno spazio in cui un gruppo di ragazzine guidate da Madame Serusier dava libero sfogo alla propria creatività in tutti i campi delle arti applicate. L’Atelier Martine fu dotato di un punto vendita, partecipò a varie esposizioni, realizzò diversi arredamenti di case e fu sostenuto dalla Maison che lo utilizzò per diverse iniziative. Ma la sua produzione ebbe sempre un tratto un po’ dilettantesco e quindi non raggiunse mai quel valore di rottura estetica che Poiret sognava. Un discorso diverso, invece, va fatto per la decorazione di tessuti direttamente finalizzati all’abbigliamento, che Poiret affidò a Raoul Dufy sempre nel 1911. Il livello professionale altissimo delle sue realizzazioni attirò immediatamente l’attenzione dell’industria tessile. Nel 1911 “Art e Décoration” dedicò a Poiret un articolo di Paul Cornu dal titolo “Art de la robe”. Iniziò a produrre profumi. Con la collaborazione del dottor Midy, che aveva un laboratorio farmaceutico, nel 1911 fu messo a punto il primo profumo e vene fondata la ditta Rosine che ne curò la fabbricazione. Anche le bottiglie venivano curate direttamente da Poiret e spesso affidate, per la decorazione, all’Atelier Martine. Alla produzione di profumi venne presto associata un’intera gamma di prodotti di bellezza. Anche in questo caso, era la prima volta che il nome di un couturier veniva associato a quello di una linea di prodotti di bellezza. Ormai la fama di Poiret era costruita e i suoi modelli influenzavano la moda. presto nessuno parlò più dello scandalo della jupe-culotte, ma venne accetatta la sua nuova versione del modello abat-jour, con una breve gonna rigida. Nell’autunno 1913, Poiret e la moglie compirono un lungo viaggio pubblicitario in quello che era da sempre il vero mercato dell’haute couture parigina: gli Stati Uniti. GLI ANNI DI GUERRA Scoppiò la guerra. Dopo un primo momento di blocco, la Francia tentò di salvare la produzione di moda, che poteva essere un valido sostegno allo sforzo bellico, utilizzando tutti gli strumenti disponibili. Poiret fu inizialmente mobilitato in un reggiemnto di fanteria dove prestò servizio come sarto, ma nel 1915 venne assegnato agli Archivi del Ministero della Guerra. Nella sua qualità di presidente del Syndicat de défense de la grande couture française collaborò all’organizzazione della Fête parisienne, promossa da “Vogue”, che si svolse nel 1915 al Ritz Carlton di New York. Come couturier partecipò alla maison di moda ancora aperte. La presentazione delle novità della moda parigina aveva lo scopo di mantenere uno stretto rapporto con il mercato americano, ma era stata progettta sia da Vogue sia dai francesi con un secondo obiettivo patriottico e politico: sollecitare sostegni per la Francia in guerra e creare un clima di solidarietà interalleata. Poiret sfilò con abiti diversi da quelli di gusti orientale che il mondo conosceva: scelse infatti di allinearsi con la tendenza che stava caratterizzando quegli anni con gonne accorciate e ampie, sostenute da crinoline, e con elementi di gusto maschile. Nella primavera del 1917 venne organizzata una seconda presentazione di moda a Madrid. Nel 1916 Poiret aveva lanciato anche un profumo “patriottico”, contrassegnato dal tricolore, il cui nome, Mam’zelle Victoire, voleva essere di buon augurio. Ancora nella primavera 1917 tentò di aprire una succursale a New York, ma il progetto non decollò per le difficoltà del periodo di guerra. IL DOPOGUERRA La guerra finì e nulla fu più come prima. Poiret usciva dall’esperienza duramente provato dal punto di vista economico. Aveva dovuto vendere o ipotecare tutte le sue proprietà. L’azienda si divideva in tre aree – moda, profumeria e arredamento d’interni – tutte andate a rotoli durante la sua assenza e quindi non più attive. Inoltre la febbre spagnol gli aveva ucciso due figli, la tragedia aveva minato il suo matrimonio, che anni dopo si concluse con un divorzio. Decise di darsi tempo e, insieme al figlio Colin e a Raoul Dufy, partì per un viaggio in Marocco, dove ritrovò lo stimolo creativo per ricominciare. Tornò alla moda con il Marocco negli occhi, con il desiderio di riprendere il discorso sull’Oriente. Installò negl giardino una grande tenda araba che chiamò l’Oasis, in cui tutte le sere si organizzavano feste danzanti a tema. Le sue collezioni si fecero via via più sapienti e lussuose, i materiali diventarono sempre più ricercati, i ricami elaborati e le ispirazioni colte ed esotiche. Fra il 1921 e il 1922 provò anche a riportare le gonne alla caviglia, nel tentativo di contrapporsi a una moda che non lo convinceva, ma l’accoglienza fu fredda e limitata ad alcune signore nostalgiche. Negli stessi anni gli furono richiesti sempre più spesso costumi di scena e feste mascherate o a tema, nei quali la sua straordinaria fantasia poteva volare e creare forme fantastiche. E non è neppure un caso che, al contrario, diminuisse il suo successo presso la clientela dell’haute couture, anche se Poiret seppe interpretare da maestro anche la nuova moda degli abiti semplici e lineari. Probabilmente, però, l’enfasi data al lusso e alla teatralità allontanò il pubblicò dalla Maison e quindi anche da questa produzione. Nel 1922 aveva fatto un nuovo viaggio negli Stati Uniti, dove gli era parso che ci fosse spazio per l’esportazione dei suoi modelli, ma nello stesso anno era esplosa la moda à la garçonne che sanciva il successo di Chanel e Patou. L’anno dopo Poiret fu costretto per la prima volta a fare i conti con la fine del proprio successo. Gabrielle e Adrienne rimasero per un anno nel negozio come commesse e sarte, poi aprirono una piccola attività in proprio in cui realizzare quelle riparazioni che fino ad allora avevano fatto per la Maison. La conquistata autonomia consentì loro di cominciare a frequentare la vita sociale della città. Chanel tentò la carriera di cantante prima a Moulins e poi a Vichy. Di quel periodo rimasero il soprannome, Coco, dal ritornello di una delle sue canzoni, e alcune foto che la ritraggono con abiti che evidentemente si era cucita da sola e che lasciano trasparire i primi segnali di un gusto che non avrebbe mai modificato, quello della semplicità, della linearità e del rigore un po’ mascolino. Fra gli ufficiali di cavalleria che componevano il gruppo in cui le due Chanel facevano parte c’era Étienne Balsan. Balsan proveniva da una solida famiglia borghese di industriali tessili e nel 1904 aveva utilizzato i capitali ereditati dai genitori per acquistare Royallieu, un antico monastero dalle parti di Compiègne, in cui voleva iniziare un allevamento di cavalli da corsa. Al momento del congedo, nel 1908, chiese a Gabrielle di andare con lui. Chanel scoprì un altro mondo: quello delle scuderie, delle corse, della vita spartana. Una vita in cui ebbe modo di sperimentare a fondo due cose: lo sport praticato a livello professionale, con le sue regole e la sua disciplina, e il mondo delle “iregolari”. Con questo termine venivano definite le compagne socialmente inadeguate di giovani ricchi o aristocratici, alle quali erano riservati momenti e spazi che non dovevano incrociarsi in nessun modo con le famiglie di provenienza e con la buona società. Chanel sapeva di essere una di loro, anche se Balsan aveva meno problemi a mostrarsi accanto a lei. Probabilmente fu in quegli anni che cominciò a elaborare un suo modo di concepire l’abbigliamento. Certamente in tale processo ebbero un peso fondamentale le uniformi: fin dalla sua entrata in orfanotrofio dovette essersi resa conto che la sostituzione del povero abito che aveva vestito la sua infanzia incerta con una divisa nera, uguale a quella di tutte le sue compagne, la immettteva in una società in cui si acquistavano, per miserabili che fossero, un ruolo e una sicurezza. Arrivò alla conclusione che l’identità sociale aveva bisogno di un abito adeguato. Più tardi giunta a Royallieu, scoprì un’altra uniforme: quella indossata dagli uomini che si occupavano dei cavalli, che consisteva in pantaloni jodhpur, semplici camicie, cappelli funzionali e stivali. Una vera divisa per lo sport, pensata per i movimenti da fare. L’equazione ruolo sociale/uniforme aveva poi un polo opposto: anche le “irregolari”, le cocottes, le mantenute avevano un modo di vestire riconoscibile, ma i segni di cui si servivano erano quelli del lusso, dell’eccentricità. Per differenziarsi da loro, quindi, era necessario evitare gli stessi segni. La sua esperienza gli aveva fatto conoscere solo altri due tipi di abbigliamento: quelo maschile e le uniformi,che ritenne certamente più adatti alla vita che stava conducendo. Le fotografie di Chanel di questi anni la mostravano a cavallo vestita da uomo, alle corse con cappelli senza decorazioni, a casa con gonna, camicia e cravatta. Chanel affermò di essersi lanciata in quel mestiere non per creare quello che le piaceva, ma soprattutto per far pasare di moda quello che non le piaceva. E quello che non le piaceva era innanzitutto il modello femminile che la moda incarnava. Chanel non si cimentò subito con gli abiti, ma partì modificando i cappelli che acquistava per sé. Presto la sua abilità destò interesse fra le donne che frequentavano Royallieu e la cosa dovette suggerirle l'idea di tentare questa strada per raggiungere l'indipendenza. Chiese a Étienne Balsan di aprirle una modisteria a Parigi e nel 1909 ottenne la garçonniere che gli aveva conservato in Boulevard Malesherbes. L'attività ebbe un immediato successo nel giro delle amiche di Étienne e delle corse, ma Gabrielle non era una vera modista e aveva difficoltà a mettere in pratica le sue idee. Fu contattata quella che tutti consideravano una promessa nel mestiere, Lucienne Rabaté, che accettò la proposta di lavorare con lei. Sostenitori dell’iniziativa era stato un nuovo amico di Étienne, Arthur Capel un uomo d'affari inglese. In tutti i racconti successivi di Gabriele fu presentato come l'uomo fondamentale della sua vita. Con il suo aiuto economico, nel 1910 lasciò l'appartamento in cui aveva iniziato e affittò la prima sede di Rue Cambon, la stessa in cui si trova tuttora la Maison Chanel (anche se non nello stesso edificio). Gli anni 1910 1911 segnarono il primo successo: le riviste cominciarono a pubblicare i suoi cappelli indossati da attrici famose. Ma la pubblicazione maggiore venne dai cappelli indossati da Gabrielle Dorziat sulle scene del teatro Vaudeville. L'attrice, considerata una specie di arbitri della moda parigina, aveva la parte di protagonista in un adattamento teatrale del Bel Ami di Maupassant. Chanel scoprì l'esistenza di una produzione artistica d'avanguardia che stava distruggendo il modello culturale ottocentesco alla prima di un balletto che fece scandalo: La sagra della primavera, musicata da Stravinskij e messa in scena dai Ballets Russes nel maggio 1913 al nuovo Théâtre des Champs-Élyseées. Vide per la prima volta una forma espressiva che la lasciò sbalordita. Ciò che vita da colpi, tanto che sarebbe tornato prepotentemente nel suo futuro e nel suo modo di pensare la modernità. La cosa che al momento suscitò il suo interesse femminile furono i capelli corti inalberati da Caryathis, l'amica con cui era andata a teatro, anche se Coco impiegò tre anni per decidersi allo stesso grande passo. Nel 1913 la sua attenzione era ancora compresa fra due poli: Boy Capel e la modisteria. Le avanguardie di Parigi erano fuori dei suoi orizzonti, come fosse la minaccia di guerra che sembrava arrivare dalla Germania. Durante l'estate la coppia seguì l’alta società parigina che per allontanarsi dai cattivi presagi, si recò in vacanza a Deauville, in Normandia. Era una cittadina di mare in cui, ormai da alcuni decenni, i parigini e i londinesi si recavano per la villeggiatura. La sera si conversava, si andava al casinò o si partecipa a qualche festa privata. I bagni in mare erano ancora una novità che interessano a qualche eccentrico gli inglesi. Gabriele e Boy intuirono quello che poteva essere il luogo in cui iniziare una vera ttività di moda. Boy le finanziò l'apertura della sua prima vera boutique situata nella via più elegante della città. Le signore erano le stesse di Parigi, ma con esigenze diverse: lentamente stavano entrando a far parte dello stile di vita vacanziero. L'aria di vacanza e il contatto con le più spigliate signore inglesi facevano desiderare un abbigliamento un po più confortevole. I cappelli semplificati di Chanel conquistarono il bel mondo. Ma modificare la foggia del copricapo lasciando inalterato l'abbigliamento non dovette sembrarle sufficiente. Ancora una volta, Chanel si rivolse all’abbigliamento maschile. Provò a realizzare capi di maglia diritta e comodi. Poi cominciò a produrre capi da vendere nella boutique: marinare in maglia , pullover sportivi, blazer di flanella copiati da quelli di Boy. Finora aveva guardato agli abiti da uomo per vestire se stessa; da questo momento frugò negli armadi dei suoi amanti per vestire anche le altre donne. Era la sua prima esperienza ufficiale di sarta ed ebbe un successo immediato, un successo cui, però, la guerra contribuì in modo fondamentale. LA GUERRA 28 giugno 1914 a Sarajevo fu assassinato l'arciduca Francesco Ferdinando. A un mese di distanza la Prima guerra mondiale era scoppiata. Deauville si svuotò: tutti tornarono a casa tranne Chanel, che rimase in attesa degli eventi su consiglio di capelli. Il consiglio si rivelò giusto: alla fine del mese i tedeschi cominciarono l’invasione della Francia e furono fermati poco lontano da Parigi. Deauville divenne la meta di una fuga precipitosa dalla capitale. Le ville furono riaperte e le signore, questa volta sole, cominciarono una vita inusuale. Per affrontare la nuova situazione iniziarono rifacendosi il guardaroba nella boutique Chanel, l’unica aperta, e comprarono gonne diritte, giacche alla marinata, camicette, scarpe a tacco basso e cappelli di paglia. Quando gli alberghi cominciarono a essere trasformati in ospedali per raccogliere i feriti che arrivavano dal fronte, si rese necessario il loro impegno patriottico come infermiere e, di conseguenza, una divisa bianca. Le uniformi delle cameriere dell' hotel, distribuite alle volontarie per ordine dell ufficiale medico, vennero affidate a Channel che le adattò alla nuova necessità. Nella sua intervista disse che non bisognava solo far cappelli per loro, ma presto, in mancanza di un sarto, vestirle. Aveva con lei alcune modiste e le trasformò in sarte. Nel 1920 cominciò a frequentare l'ambiente degli artisti avendo come guida i Sert: una coppia, lui è un pittore spagnolo, lei un personaggio al centro della Parigi delle avanguardie, Misia. Chanel si trovò al centro della società degli artisti internazionali che animavano Parigi e cominciò a capire le loro idee e quello che stavano facendo per rinnovare la cultura occidentale. A Venezia fu presentata a Diaghilev, il fondatore dei Ballets Russes. I Ballets Russes rappresentavano il punto di intersezione di tutti i linguaggi estetici più avanzati del momento. Per ogni particolare Diaghilev ricercava l'artista che meglio poteva contribuire alla realizzazione di un opera d'arte totale. Ma gli spettacoli che metteva in scena, seppure culturalmente fondamentali, non gli garantivano un guadagno adeguato, cosa che lo costringeva a una costante ricerca di denaro conto. Chanel pensò che questo potesse essere un modo per dare un contributo all'arte : al ritorno a Parigi finanziò, in segreto, la ripresa di La sagra della primavera con la coreografia di Massine e ospitò Stravinsky con la famiglia a casa sua. Fu solo l'inizio del suo coinvolgimento nella vita teatrale: nel 1922 Jean Cocteau gli affidò la realizzazione dei costumi per la sua Antigone. La collaborazione fra Chanel e Cocteau, iniziata con questo lavoro, doveva continuare per quattordici anni. Il rapporto con gli artisti dell'avanguardia non impedì a Chanel di essere al centro anche della società alla moda che, in quel primo dopoguerra, stava cambiando le abitudini, i modelli di comportamento e lo stile di vita della borghesia internazionale. Parigi era diventata un punto di riferimento: la sua cultura si stava svegliando e americanizzando; qui più che altrove, si aveva l'impressione che l’Ottocento fosse finito e il mondo moderno stesse prendendo forma. IL PROFUMO E L’INFLUENZA RUSSA Fu in questo contesto che Chanel conobbe il granduca Dimitrij , nipote dello zar ucciso durante la Rivoluzione sovietica. Vissero insieme per un anno, nonostante l'abissale differenza sociale che separava le loro origini, ma a questo punto lei era una ricchissima donna di successo. Grazie a lui Chanel entra in un ambiente ignorato, con regole e modelli culturali affascinanti, da cui, ancora una volta, trae ispirazione per il suo lavoro. Innanzitutto scoprì il profumo. Probabilmente fu lui a indicarle Ernest Beaux, un chimico di Grasse figlio di un impiegato alla Corte dello zar che aveva vissuto a lungo a Pietroburgo. Fu la collaborazione fra Chanel e Beaux a produrre il profumo più famoso del XX secolo. Il chimico elaborò il metodo di fabbricazione, mettendo insieme essenze naturali e componenti sintetiche. Comunque sia Chanel scelse tutto il resto. Il suo profumo non somigliava a nessun odore riconoscibile: non a un fiore particolare, non a una singola essenza. Anche il nome che Chanel scelse non somigliava a nessun altro: N° 5. La confezione era una semplice bottiglia di farmacia trasparente su cui venne applicato un’etichetta bianca con la scritta nera. Tutto era stato pensato per non ricordare nient'altro che l'oggetto che si aveva di fronte. Chanel N° 5 fu la prima realizzazione a uscire dalle sue boutique per imboccare la strada dell’industria: nel 1924 Coco stipulò un contratto con i Wertheimer, proprietari di Les Parfumeries Bourjois (la più grande casa francese di cosmetici), per creare una nuova società, Les Parfums Chanel, incaricata della sua produzione e della sua distribuzione. Gabrielle però non aveva molta esperienza nelle questioni finanziarie e stipulò un accordo che le garantiva di non doversi occupare del profumo in cambio del dieci per cento delle azioni della Parfums Chanel. Era solo dal dopoguerra che il profumo aveva cominciato a essere un genere di lusso adottato da tutte le donne. L'influenza russa esercitato dal granduca Dimitrij, ma anche dai balletti russi e dal gusto che stavano diffondendo a Parigi alcune artiste slave che si occupavano di moda, si videro soprattutto negli abiti che Chanel propose in quegli anni. Un indumento da attirare la sua attenzione: la roubachka, il tipico camiciotto con la cintura che faceva parte dell'abbigliamento tradizionale dei contadini russi, ma che in realtà indossavano anche i soldati. La sua foggia era una semplice variazione del capospalla diritto e appoggiato sui fianchi che Coco aveva copiato ai marinai e agli stranieri, ma, a differenza di quello, era realizzato in tessuto e quindi le permetteva di sperimentare un’altra tecnica di traduzione al femminile di un capo da uomo. Allo stesso modo rimase affascinata dai ricami che scoprì sugli indumenti del suo amante: disegni e motivi geometrici o di figure fantastiche. La collezione che presentò nel 1922 era incentrata su questi due temi di lontana derivazione contadina, ma le roubachka erano realizzate dalle sue raffinate premières e i suoi ricami erano eseguiti dalla Maison Kitmir diretta dalla granduchessa Maria, la sorella di Dimitri. Come diceva Poiret, Chanel aveva inventato “la povertà di lusso”: riusciva a tradurre in un linguaggio che piaceva alle signore dell'alta società gli elementi vestimentari maschili più lineari e disadorni, trasformandoli in segno di libertà, ma anche di distinzione. Nelle collezioni successive l'influenza russa si fece sentire nella produzione di pellicceria. Chanel provò a tradurre le fodere e gli ampi bordi di volpe o di cincillà nel linguaggio occidentale dei mantelli per il giorno e la sera. Quello che cambiava erano il tessuto e gli accessori: per la sera utilizzo seta e lamé, per il giorno impiegò la lana. Da quel momento le variazioni diventareno più libere: la struttura della roubachka rimase, ma divenne un abito intero. Tra il 1924 al 1925 i modelli assunsero una linea a tubo con la vita bassa, una cintura annodata sui fianchi e una gonna, che poteva essere diritta o con effetti di sbieco che ne favorivano la caduta. L’orlo si alzava sempre più verso il ginocchio. Tutte le citazioni e i riferimenti maschili che Chanel aveva usato per costruire il suo abito erano ormai diventati invisibili, trasformati com’erano in semplici elementi di taglio e di comfort di un indumento assolutamente femminile e coerente con la moda parigina. Il 1925 fu l'anno dell'Esposizione Internazionale delle Arti Decorative, quella da cui prende il nome l'Art Déco. Nel Palais des Élegances erano esposte le creazioni dei couturiers: fu il definitivo trionfo dello stile à la garçonne rappresentato, oltre che da Coco Chanel, da Jean Patou, Jeanne Lavine e Madeleine Vionnet. Ma la ricerca di Chanel non era finalizzata a uno schema decorativo: il suo oggetto era un abito funzionale alla vita moderna. Nel 1926 presentò un abitino nero che poteva essere indossato in qualsiasi occasione, contravvenendo alla regola tradizionale di realizzare capi diversi per situazioni sociali differenti. “Vogue” nel 1926 colse immediatamente il significato del modello e lo paragonò a un oggetto: alla Ford. Anche la Ford era utilizzabile in qualsiasi occasione e quindi era fabbricata in un solo colore che poteva rappresentare sia la serietà del lavoro sia l'eleganza della festa : il nero. STILE INGLESE, GIOIELLI E BIJOUX La sua ricerca negli anni successivi si concentrò sul tailleur e sull’abbigliamento informale. Lo spunto viene ancora una volta dal guardaroba di un suo amante: il duca di Westminster. Attraverso di lui Chanel aveva sperimentato lo stile di vita dell'aristocrazia inglese. Le collezioni degli anni tra il 1927 e il 1930 si specializzarono nei completi composti da giacca diritta di modello maschile, gonna e blusa coordinata, cui si aggiunsero gilet a righe e cappotti sportivi ispirati alla sartoria inglese. Ma le creazioni di Chanel, nonostante l’ispirazione maschile, erano sempre rigorosamente femminili. Non si trattava dei capi unisex, ma di indumenti da donna che rispondevano alla filosofia vestimentariaa dell'abbigliamento da uomo: comodità, semplicità, tessuti morbidi e piacevoli da indossare, stile impeccabile, distinzione. E quando il suo modello ebbe raggiunto il più assoluto rigore, allora Chanel si lasciò andare a concessioni alla civetteria e alla contaminazione fra i generi, cominciando ad adottare gioielli sempre più vistosi. Secondo Chanel il gioiello non è fatto per provocare l’invidia, al massimo lo stupore. Amava i gioielli falsi perché li trovava provocanti e trovava anche vergognoso girare con milioni intorno al collo solo perché si era ricchi. Per lei lo scopo del gioiello non era di far sembrare ricca la donna, ma di adornarla. Nel 1924 Chanel aprì un laboratorio per produrre gioielli falsi, bijoux fantastici copiati da quelli veri, ma esagerandone le proporzioni e i colori. Li indossò e li fece indossare. anni era fortemente minacciato dalla concorrenza di coutirières originali, come Schiaparelli e Vionnet. MODA ANNI TRENTA Panorama della moda della metà degli anni trenta risultava molto più variegato rispetto a quello del decennio precedente, Chanel rappresentava solo uno degli stili vestimentari possibili, e non quello più all’avanguardia. Se Vionnet era inconfondibile per la sua straordinaria sapienza sartoriale e Schiaparelli per la sua fantasia provocatoria , Coco dovete specializzarsi in modelli più facili da indossare rispetto a quelli delle sue rivali. Il mercato chiedeva più fantasia, più glamour. Anche lei usò il tulle, il merletto, i ricami di paillettes per realizzare abiti dall’aria romantica con grandi maniche rigonfie, con una maggiore aderenza al corpo e persino con ampie gonne. Anche il tailleur conquistò una vera giacca costruita con una tecnica più sartoriale e femminile. Fecero capolino riferimenti a mode antiche, come i colletti bianchi che comparvero sui semplici fourreaux neri: piccole ruches di gusto settecentesco, jabot o grandi collari che rimandavano ancor più indietro nel tempo. E poi fiori, da posare in testa. Anche se il successo professionale e commerciale continuava, era evidente che Chanel non rappresentava la moda di punta del momento. Inevitabilmente le foto di questo periodo, scattate dai più grandi professionisti del momento, mettono in rilievo soprattutto i bijoux. LA ROTTURA DEL 1936 Poi fu il 1936 che portò alla vittoria elettorale del Fronte popolare e agli scioperi di tutti i lavoratori francesi. Anche le operaie della Maison Chanel entrarono in sciopero. Chanel licenziò trecento persone, ma senza risultato. In realtà quello che gli operai francesi rivendicavano erano proprio la fine del rapporto paternalistico che regolava le aziende e la sua sostituzione con un sistema di diritti garantiti: volevano contratti collettivi, la settimana lavorativa di 40 ore, le ferie pagate. Di fronte al rischio di essere messa nell’impossibilità di realizzare la collezione dell’autunno, Chanel dovette cedere. Chanel non era mai stata attratta dalla politica. Quando anche il suo lavoro fu minacciato, Chanel non seppe fare altro che reagire con rabbia, con disprezzo, ma soprattutto con paura. Il mondo che aveva costruito era entrato in crisi: il compagno con cui aveva pensato di poter dividere vita e professione morì improvvisamente, il sistema di lavoro nella casa di moda adottava regole nuove che rivoluzionavano i rapporti tradizionali consolidati, la sua vena creativa sembrava non essere più in sintonia coi tempi. E il successo di Schiaparelli, tra l'altro, continuava a crescere, costringendo Chanel a confrontarsi con lei sul mercato della moda. Risponde creando capi che, oltre al prediletto contrasto di bianco e nero, prevedevano colori brillanti e modelli in sintonia con la tendenza del travestimento giocoso: dal 1938 comparvero nelle sue collezioni tante forme ispirate ai vestiti da festa dei contadini e degli zingari. Nel 1939 tentò addirittura un discorso ideologico proponendo i colori della patria, o forse nazionalisti : blu, bianco, rosso. Le sue collezioni continuarono a presentare capi che l'avevano portata al successo : tailleur semplici, abitini neri con il colletto bianco ecc , sempre realizzati con grande sapienza, ma non erano in grado di fare proposte davvero alternative alla concorrenza rappresentata da Schiaparelli e Vionnet. LA SECONDA GUERRA MONDIALE E LA CHIUSURA DELLA MAISON Il 2 settembre 1939 Francia e Inghilterra, messe di fronte all'invasione della Polonia, dichiarano guerra alla Germania. Tre settimane dopo Chanel chiuse la Maison, lasciando aperta solo la boutique che vendeva i profumi. Affermò che non era tempo da vestiti. Chiudeva un'impresa enorme che nel 1935 dava lavoro a circa 4.000 operai e realizzava ogni anno circa 28.000 capi. Si era resa conto che non aveva più niente da dire nella moda, che la società aveva assunto una forma che lei non riusciva più a far combaciare con il suo modo di pensare i vestiti e che per evitare una lenta uscita dal mercato era necessario troncare il suo rapporto con esso. Come un artista che smette di creare. Negli anni della guerra Chanel visse al Ritz, che di nuovo era diventato un punto di riferimento e di incontro. Questa volta, però, dei tedeschi che occupavano la Francia. E al Ritz visse la sua ultima storia d'amore, con un ufficiale nazista molto più giovane di lei. Nel settembre 1944, dopo la liberazione di Parigi, fu arrestata dal Comitato d’epurazione e interrogata. Fu rilasciata tre ore dopo e appena potè partì per la Svizzera, dove rimase per 9 anni in volontario esilio e dove, come disse lei stessa, non trovò che la solitudine. Nel 1947 affidò la propria autobiografia a Louise de Vilmorin, nella speranza di vendere i diritti delle sue memorie agli americani, magari per un film, ma negli Stati Uniti non trovò editori interessati. Il testo uscì a puntate sui “Jours de France” nel 1971 e fu pubblicato solo nel 1999. IL RITORNO ALLA MODA Nel 1946 aveva 63 anni e la sua parabola sembrava definitivamente chiusa. Un anno dopo Dior sarebbe comparso sulla passerella della moda internazionale con uno stile, il New Look, che era l'esatto opposto di quello che lei aveva sempre ricercato. Il dopoguerra riproponeva a un pubblico di massa una moda dalle fattezze aristocratiche, elegante, scomoda, difficile da portare. Ma le donne erano impazzite per le gonne lunghe, i tacchi alti, i cappelli minuscoli in bilico sulla fronte, i bustini steccati che facevano vitini da vespa. Chanel era scomparsa, cancellata dal mondo della moda. Le uniche cose che resistevano erano i tessuti, commercializzati con il marchio Chanel, e il suo profumo, che continuava a essere considerato un mito. Nel 1953 le vendite calarono in modo vistoso: i profumi delle nuove griffe stavano soppiantando un marchio non più sostenuto dall’immagine di una Maison. Gabrielle tornata a Parigi prese la decisione di riaprire l’atelier. Uno dei suoi scopi era quello di trovare un fabbricante americano che produceva una linea di prêt à porter su una base di royalty. Ma l'ingresso di un nuovo partner avrebbe complicato ancor di più i rapporti fra Coco e la società che gestiva il profumo, così Wertheimer decise di impegnarsi direttamente nell’iniziativa e Les Parfums Chanel sostenne metà dei costi della collezione di riapertura, che fu di alta moda e non di prêt à porter. La sfilata avvenne il 5 Febbraio 1954: compratori, fotografi, giornalisti, celebrità accorsero convinti di assistere a una nuova rivoluzione, ma non si aspettavano quello che videro. Non lo capirono e interpretarono la collezione come una semplice riedizione della moda degli anni 20. La stampa reagì in modo impietoso. Articoli durissimi affermavano che sembrava di essere tornati al 1925 (Le Figaro). A 71 anni Chanel incassò il colpo, ma decise di continuare. Wertheimer la sostenne e stipulò con lei un ulteriore accordo: la società Les Parfums Chanel si sarebbe accollata tutte le spese della Maison e tutte quelle personali della couturière. Era ormai chiaro che la produzione di alta moda non era più una fonte di guadagno. Quello che rendeva erano gli accessori, i profumi e il prêt à porter, ma la griffe Channel del passato era ormai dimenticata e la nuova non era ancora nata. La società dei profumi acquistò tutto, dalla Chanel Couture agli immobili di Rue Cambon. Gabrielle conservò le royalty dei profumi, il controllo delle collezioni e la scelta dei collaboratori. Per il momento era necessario resistere alle perdite quindi era indispensabile che la società dei profumi, che si era tanto arricchita in passato, accettasse di investire sul rilancio del marchio. La prima reazione positiva alla sua proposta, però, fu più rapida del previsto e venne dagli Stati Uniti : i modelli della prima collezione furono venduti meglio di quanto non ci si aspettasse. Alle donne era piaciuta la nuova rivoluzione Chanel. Poi arrivò la stampa. Per prima “Life”, che le dedicò quattri pagine al suo rientro: “A 71 anni Chanel più che una moda porta una rivoluzione”. Infine, “Vogue” francese, che nel numero di Marzo 1954 mise in copertina una foto di MADELEINE VIONNET (1876-1975) IL LAVORO DI “PREMIèRE” Era nata nel 1876. I genitori si erano separati quando aveva tre anni. Era stata allevata dal padre e aveva frequentato la scuola con risultati brillanti. Ma non era ancora al tempo in cui la carriera scolastica potesse essere presa in considerazione per una donna. A 10 anni, quindi, abbandonò gli studi per andare a imparare il mestiere di sarta. Nel 1893 trovò lavoro nella Maison Vincent a Parigi, dove diventò premiére due anni dopo. Nel frattempo si era sposata e aveva avuto una bimba. Nel luglio 1895 partì per l'Inghilterra. La bimba morì per un incidente un mese dopo e Madeleine divorziò. Abbandonò anche il lavoro e la capitale francese. Ricominciò da capo la sua vita a Londra, prima come guardarobiera in un asilo per malati di mente e poi nell’atelier di Kate Reily, un’importante sartoria specializzata in capi da giorno dal rigoroso taglio inglese. Erano gli anni in cui in Inghilterra si stava svolgendo un intenso dibattito culturale che impegnava artisti e medici sul modo di vestire delle donne. Corpo e abito erano diventati il centro di un dibattito che stava provocando in tutta Europa una grande trasformazione culturale: teorie esoteriche, tradizioni orientali, ritorno alle radici classiche stavano ispirando un’avanguardia che presto avrebbe posto le basi della danza moderna e di un nuovo modello di vita. Agli inizi del nuovo secolo tornò a Parigi dove era stata assunta dalla Maison Callot Soeurs come première di Madame Marie. Il compito di Madeleine era realizzare modelli in tela degli abiti che Madame Marie ideava e drappeggiava sulle mannequin. Nel 1907 lasciò le sorelle Callot per diventare modellista alla Maison Doucet. Il couturier le aveva chiesto di ringiovanire la sua produzione e Vionnet realizzò una collezione di abiti molto innovativi ispirati alle performance che la Duncan aveva presentato a Parigi l'anno precedente. I suoi modelli non prevedevano l'uso di busto. Viennet fu repressa nelle sue proposte sia dalle clienti, sia soprattutto dalle vendeuses di Doucet, che si rifiutavano di mostrare le sue creazioni alle signore. L'unico campo in cui le fu lasciato un vero spazio fu quello dei deshabillés che, ovviamente, rispondevano a logiche vestimentarie e più libere rispetto a quelle dell'abito. Noto come indumento intimo, il deshabillé era diventato nel corso dell’Ottocento il vestito da casa da indossare per ricevere visite e prendere il tè. L’ATELIER Nel 1912 Madeleine Vionnet aprì il suo primo atelier al 222 di Rue de Rivoli. Lantelme, una delle poche clienti di Doucet che aveva apprezzato il suo stile si era proposta come socio finanziatore. Ma Lantelme morì improvvisamente. Il suo posto nell’impresa venne preso da un’altra cliente, Germaine Lillaz. Si tratta di una singolare storia di donne, unite solo da un fatto di gusto, che si trovarono insieme a tentare un'operazione da uomini. E fin dall'inizio si unì al gruppo Marcelle Chaumont, che fu la collaboratrice più importante di Vionnet per tutta la sua carriera. Non ci sono molte testimonianze della produzione di questi primi anni, ma due soli modelli certi mostrano l'insistenza su un tipo di indumento diritto e scivolato sul corpo che non richiedeva busto. L'ispirazione doveva essere stata attratta dal kimono. Vionnet era interessata alla semplicità della sua struttura sartoriale e in particolare all'adattamento della sua manica agli indumenti occidentali, che era già stato sperimentato alla Maison Callot Soeurs. Ma forse anche la rivoluzione portata nelle arti figurative dai movimenti d'avanguardia dovette avere il suo peso nell’impianto geometrico dei suoi modelli. Nel 1914, allo scoppio della guerra, Vionnet chiuse l'atelier e per la seconda volta partì. Viaggiò per l'Europa scegliendo i luoghi e soggiornò a lungo a Roma. Permise alle sue lavoranti di continuare a utilizzare i locali di Rue de Rivoli, ma senza che ciò comportasse la riapertura della Maison. Per farlo aspettò il 1918 e la fine della guerra. LO SBIECO E LA GEOMETRIA Riprese l'attività fondando la nuova società Madleine Vionnet et Cie e con una produzione assolutamente rivoluzionaria: si ripresenta Parigi con abiti in sbieco. Era come se negli anni precedenti avesse fatto il suo percorso individuale, del tutto ignaro delle tendenze che si erano viste nella moda di quegli anni. Crinoline, revival, modelli maschili, pantaloni ecc, erano lontanissimi dalle sue creazioni. Non significava che fosse fuori dei tempi, al contrario li stava affrontando da un altro punto di vista. Quando i suoi vestiti apparvero si cominciò a parlare di robe à la grecque e si collocò nel mondo classico l'origine della sua ispirazione. Anche lei, come Chanel, aveva cominciato a ricercare un modello vestimentario su cui elaborare l'abbigliamento della donna moderna. Chanel aveva scelto il modello maschile, Vionnet voleva qualcosa che non avesse un segno di genere così preciso ed era tornata alle origini. Vionnet ricominciò da capo, tornando all'antico abito mediterraneo e lavorando con il tessuto senza tagliarlo secondo le forme del corpo, ma montandolo in maniera tale che potesse seguire autonomamente le fattezze corporee. Una delle sue prime realizzazioni in questa direzione fu un modello composto di 4 quadrati di tessuto utilizzati in diagonale e sospesi alle spalle con uno spigolo per ciascuno. 4 cuciture lo tenevano insieme e una cintura annodata in vita. Il risultato era una specie di chitone greco con una caduta del tutto nuova, che aderiva al corpo. Di norma le parti dell’abito vengono tagliate nella pezza di stoffa rispettando il senso della tessitura. Più raramente si procede con il taglio in sbieco che prevede l'uso della stoffa in obliquo. La possibilità di usare il tessuto in diagonale rispetto alle coordinate cartesiane di intreccio di fili era già stata sperimentata nell’Ottocento per confezionare i colletti, cuffie e parti di maniche o, più semplicemente, per indossare scialle quadrati ripiegati a triangolo. Non era però mai stata provata per realizzare un vestito intero. Ma se l'aspetto esteriore dei suoi capi poteva far pensare alla classicità greca, la loro struttura nascosta deriva da matrici del tutto diverse: la chiave segreta dei suoi modelli era la geometria. Già nelle collezioni dal 1918 al 1922 furono elaborati motivi fondamentali del nuovo linguaggio: le spalle diventarono il supporto di indumenti diritti, formati da una serie di pannelli di tipo diverso che si articolavano intorno al corpo in modo dinamico, o di giacche a volte tagliate in un pezzo unico. Nelle sue realizzazioni non esisteva un rapporto tradizionale fra la vestibilità del capo e il modo di tagliare il tessuto: se la prima era perfettamente coerente con la tridimensionalità del corpo, il secondo era costituito solo da figure geometriche piane. Certamente Vionnet studiò le diverse tipologie di vesti bidimensionali che erano esistite o esistevano nel mondo. I suoi abiti, però, non venivano progettati “in piatto” attraverso il disegno, ma lavorando il tessuto su un “corpo” particolari. Vionnet usava per questo un manichino di legno d'artista alto ottanta centimetri su cui costruiva una specie di miniatura del modello finito. Solo la scelta di Vionnet di tagliare seguendo schemi geometrici e non l'anatomia del corpo femminile) e anche la lunghezza dei capi era soggetta alle naturali dilatazioni della stoffa lungo la diagonale di caduta. Questa deformazione strutturale era studiabile. Perciò gli abiti realizzati con quadrati e rettangoli venivano appesi al manichino fino a che non avessero raggiunto la loro massima lunghezza (il punto di indeformabilità) su cui regolare l'orlo delle gonne. L'operazione risultava più complessa quando lo sbieco si combinava con la forma geometrica del quadrante: in questo caso si procedeva altrimenti. Il tessuto, una volta tagliato, veniva appeso al muro lungo i raggi e sottoposto alla tensione di pesi calcolati lungo il quarto di circonferenza; così i fili subivano una deformazione omogenea e definitiva che arrivava disegnare la catenaria. Solo allora il materiale poteva essere utilizzato per un vestito. Nelle collezioni fra il 1921 al 1922 Vionnet ricerca soprattutto gli effetti di caduta. A tutto ciò si aggiunse lo studio di un modo che permettesse di ricamare con il filo sullo sbieco senza creare tensioni gli effetti fisici indesiderati. Per questo Albert Lesange, contrariamente alle abitudini, iniziò a lavorare sull’abito finito e inventa una nuova tecnica, che fu chiamata vermicelle au droite fil o vermicelle au carré, in cui ogni punto veniva fissato nel drittofilo del tessuto e le minuscole perline erano collocate con l'aiuto di uncinetto. La ricerca si impose perché Vionnet dava grande importanza al ricamo, ma lo consideravano elemento connesso con la struttura dell’abito e non una decorazione. 50. AVENUE MONTAIGNE La proposta di moda di Vionnet venne accolta positivamente sia sul mercato francese sia su quello americano. Nel 1922 Madeleine trovò il modo per espandersi. Il 22 giugno dello stesso anno fu firmato un nuovo statuto della Madeleine Vionnet et Cie che prevedeva l'ingresso di Bader come nuovo socio. Il primo atto del gruppo fu l'acquisto di un hotel in Avenue Montaigne per dare alla Maison la sede più adatta. Nel giro di un mese si cominciarono i lavori per ristrutturare l'ottocentesca palazzina. La ristrutturazione, nello stile più alla moda, venne affidata a Fedinand Chanut, che si era occupato fino a quel momento di tutti gli interventi architettonici della Galleria Lafayette. Nel 1972 Chanel dichiarò di ricordarsi le terribili condizioni di lavoro di quando era una ragazza e che voleva quindi che il suo atelier fosse meglio. Per questo introdusse una serie di innovazioni che riguardavano sia rapporti contrattuali, sia le condizioni di lavoro. In tutte le sartorie si cuciva sedute su uno sgabello e lei arredò i laboratori con le sedie. Nell'edificio c'erano una mensa, una nursery, un’infermeria e un dentista. Per le sue operaie, Vionnet fondò una cassa di soccorso per le malattie, introdusse i congedi di maternità e le ferie pagate. Nel 1927 istituì anche un corso di formazione della durata di 3 anni destinato alle apprendiste. Nonostante questo, nel 1936 nemmeno Vionnet passò indenne nell’ondata di scioperi che sconvolsero la Francia dopo il successo elettorale del Fronte popolare. La Maison Vionnet aveva già messo in pratica tutto quello per cui si stava lavorando , ma una minoranza di operai sindacalizzate aderì. IL COPYRIGHT Vionnet condusse un'altra battaglia riuscendo a imporre una novità fondamentale per il mondo dell’haute couture parigina: il copyright dei modelli. Uno dei problemi dell’alta moda era la diffusione delle imitazioni, intorno alle quali si era formata una vera e propria industria della contraffazione organizzata. Vi era una legge infatti che difendeva dai falsi la produzione artistica, ma fino ad allora le creazioni dei couturiers non venivano assimilate a quelle degli artisti. Il 30 dicembre 1921 il Tribunal correctionel de la Seine emise una sentenza che assicurava ai modelli di abiti, costumi e mantelli la protezione della legge allo stesso titolo di tutte le creazioni artistiche. Dopo la sentenza, la Maison procedette di conseguenza: fece pubblicare su “Vogue” e “L’Illustration” un comunicato in cui spiegava il modo per riconoscere gli originali (attraverso l'etichetta e l'impronta digitale della couturière, oltre a un numero d'ordine che indicava il modello) e documentò sistematicamente tutti i capi della Maison attraverso fotografie accompagnate dal numero e dalla data di realizzazione. PRÊT À PORTER Il successo di Vionnet fu immediato. ma la vera sfida era il mercato americano. Nel febbraio 1924 presentò la collezione primaverile a New York. Saul Singer aveva firmato un accordo con la Vionnet et Cie per la produzione in esclusiva dei modelli della Maison, ma soprattutto si era formata una nuova società, Madeleine Vionnet, Inc. finalizzata alla vendita di abiti taglia unica , un’assoluta novità nel settore dell alta moda. Nei mesi successivi fu pubblicizzata sui giornali di moda l'apertura di una Boutique Vionnet in Fifth Avenue. Nonostante il successo ottenuto, l'esperimento non proseguì oltre i sei mesi; probabilmente la clientela di élite preferiva acquistare i Vionnet di haute couture a Parigi o nei magazzini di lusso. Nel 1926, Vionnet tentò un secondo esperimento nel settore del prêt à porter con un altro socio americano, lo store John Wanamaker’s, realizzando 40 capi, che vennero venduti in 3 taglie, griffati con l'etichetta della Maison. Anche in questo caso, però, l'impresa non ebbe successo, i tempi non erano ancora maturi perché l'alta moda potesse fare il proprio ingresso nel mercato del ready-to-wear. Nel 1925 fu realizzato il profumo. Veniva venduto sola nella Maison parigina ed esclusivamente a chi lo richiedeva. STILE ANNI VENTI Verso il 1925 i suoi modelli si semplificarono: la linea si fece più squadrata, ma soprattutto gli elementi di decoro si ridussero. Scomparve tutto quello che aumentava il volume dell’abito in favore di singoli elementi di ricamo o di assimetria. Vionnet non frequentava il gran mondo, non conduceva una vita pubblica, non compariva mai e non si faceva vedere nemmeno dalle clienti. Lavorava isolata nel suo grande studio al primo piano della Maison, circondata dai suoi manichini di legno. Quando nel 1929 il mondo venne travolto dalla crisi di Wall Street e rapidamente cambiò lo stile di vita, Vionnet assunse ancora di più la funzione di punto di riferimento. GLI ANNI TRENTA Quello che stava per accadere era che, nella società occidentale e nella moda, il lusso nascosto sotto il pauperismo chic degli anni venti stava per essere sostituito da quello vistoso delle dive del cinema hollywoodiano. Le arti visive abbandonarono lo stile di rottura delle avanguardie storiche e si dedicarono a nuove ricerche che furono spesso indicate con il termine “neoclassico”. Anche la moda adottò un linguaggio “classico”: il fisico modellato dallo sport durante gli anni 20 venne preso a simbolo di una bellezza statuaria, sinuosamente accarezzato da abiti bianchi che ne valorizzano il naturale sex appeal. Il metodo Vionnet diventò di moda: era il sistema più adatto per sottolineare il corpo senza costringerlo in forme precostituite dal taglio. Tutti o quali si cimentarono con lo sbieco. LA GONNA AMPIA biancheria portata da Parigi per questo scopo. Ma la merce scelta si rivelò inadatta al mercato americano. Però Gabrielle le permise di inserirsi nella vita di New York e frequentare un gruppo di artisti Dada e di fotografi d'avanguardia che si erano trasferiti o lavoravano nella città americana. Nel giugno 1922 si trasferirono a Parigi. La bambina fu ricoverata in una clinica ed Elsa trovò lavor presso un antiquario. Il clima culturale e mondano della capitale francese era vivacissimo: sembrava addirittura che il dopoguerra avesse aumentato l’attrazione che la città esercitava sugli artisti e su “bel mondo” internazionale. Gabrielle introdusse Schiaparelli nel gruppo Dada. Fu in questo periodo che avvenne un incontro che segnò il suo destino: quello con Paul Poiret. Elsa definì Poiret il “Leonardo della moda”. In quel periodo cominciò a inventare abiti e il colore e il ricamo, due caratteristiche dello stile di Poiret, furono sempre fra i segni distintivi delle sue creazioni. Ma non cominciò da quell'idea di lusso Belle Époque che stava portando il couturier al fallimento, scelse invece un settore che negli anni venti stava aprendosi per assecondare la crescente partecipazione femminile agli sport. LO SPORT E LA MAGLIA Già dalla fine dell’Ottocento le donne avevano cominciato a praticare alcuni sport, ma fu negli anni ‘20 che la cultura del corpo e l'attività sportiva divennero una moda diffusa, tanto da giustificare l'invenzione di un abbigliamento specifico. Elsa cominciò a realizzare dell'abbigliamento sportivo. Nel 1925, sostenuta dal finanziamento di un’amica, acquistò la Maison Lambal, una piccola sartoria. La sua amica si ritirò dalla società. Elsa ebbe un certo successo personale e riuscì a trovare un altro finanziatore: Alphonse Kahn, Un uomo d'affari che aveva già investito nel campo della moda nella Maison Vionnet. La prima vera collezione fu presentata nel gennaio 1927 in un minuscolo appartamento in Rue de l’Université, dove Schiaparelli abitava. Si trattava soprattutto di maglieria dai brillanti colori, che si ispiravano sia al futurismo sia a Poiret ed era realizzata anche con materiali nuovi. IL GOLF “ARMENO” Il modello che poco tempo dopo la lanciò definitivamente nella moda fu un golf particolare. Lo aveva visto addosso a un’amica ed era stata colpita dal suo aspetto solido ed elastico. Con una rapida indagine aveva scoperto che era stato eseguito da una donna armena. L’idea di golf trompe-l’oeil fu immediata: disegnò un golf con un grande fiocco sul davanti, come una sciarpa intorno al collo. Era un fiocco bianco sullo sfondo nero, e l'interno del golf sarà bianco. Fu lei stessa a indossare la maglia in pubblico immediatamente attirò l'attenzione sulla novità. A tempo di record furono trovate le donne armene che sapevano lavorare a maglia, furono riunite in un albergo dove realizzarono i maglioni, furono cucite le gonne da accompagnare a ciascuno di essi con un tessuto che Elsa aveva acquistato in saldo alle Galeries lafayette. La nuova idea si impose a Parigi attraverso le attrici e i personaggi da rotocalco. “Vogue” francese li pubblicò nel numero di agosto 1927 con il titolo L'eleganza del golfo lavorato a mano e 15 dicembre “Vogue” America li presentò come Opere d'arte. A questo punto la fantasia di Elsa si scatenò e sul golfo comparvero cravatte da uomo, nodi, fazzoletti da collo, scialli, schemi per cruciverba, ma anche effetti misti. Negli anni seguenti la ricerca sul trompe-l’oeil si radicalizzò e la maglia diventò immagine del corpo, allora Elsa la riempì di tatuaggi con cuori trafitti e scritte allusive come fosse il petto di un marinaio. Nel giro di poco tempo tutte le signore alla moda ebbero un maglione trompe-l’oeil, ma anche il mercato delle copie se ne impadronì. Il successo, comunque, fu tale che Schiaparelli dovette assumere un responsabile per questo settore: Aroosiag Mikaëlian, chiamata poi sempre Miki. DALLO SPORT ALL’HAUTE COUTURE L’1 gennaio 1928 Elsa trasferì abitazione e attività in un vecchio appartamento al 4 di Rue de la Paix, nella zona della moda, dove espose l'insegna “Schaparelli Pour le Sport”. Erano abiti sportivi ben costruiti e progettati per i movimenti richiesti, ma colorati decorati con immagini e scritte. Soprattutto dal punto di vista della struttura i suoi modelli presentavano una novità, che in parte interpretavano la moda del momento, in parte derivavano da contaminazioni di generi vestimentari diversi. Il costume da bagno veniva realizzato con lavorazioni a maglia più elastiche e aderenti e si era ridotto eliminando la copertura di braccia e gambe e aprendosi in profonde scollature sulla schiena. Questa novità fu ripresa da Schiaparelli e divenne una delle sue specialità, insieme a quella del pijama da spiaggia e dei completi di spugna siglati e dalle tinte inusuali per il mare. Anche per lo sci cercò soluzioni più eleganti, proponendo completi molto colorati ed estendendo a questo sport i pantaloni jodhpur normalmente utilizzati nel costume da cavallerizzo. Sentiva che i vestiti dovevano ispirarsi all'architettura. Le linee e i dettagli stravaganti o un effetto asimmetrico devono sempre essere in stretto rapporto con questa struttura. Più il corpo viene rispettato, più vitalità acquisisce il vestito . L'armonia deve restare. I tailleur di tweed e le gonne-pantalone diventarono la specialità della casa, insieme agli abiti da sera completati con la giacca. Anche i decori cominciarono a essere più provocatori. Il problema era però la reazione fra la couturier e il “bel mondo” da cui provenivano le sue clienti, alle quali dovevano essere presentati i nuovi modelli. Fra le frequentatrici della maison Schiaparelli cominciavano a esserci attrici di rilievo, ma questo non era sufficiente per colpire l'immaginario dell'intero gruppo internazionale che guardava a Parigi. Elsa, seguendo l'esempio di Chanel, scelse di indossarli personalmente a party e occasioni mondane, soprattutto quando si trattava di soluzioni nuove e stravaganti, quelle che nemmeno le clienti più eccentriche alla moda avevano il coraggio di sperimentare per prime. Ma per poterlo fare doveva essere accettata alla pari dalla società del lusso, una condizione che fu resa possibile dal fatto che lei non veniva dal chiuso mondo della sartoria, ma da quello dell aristocrazia e degli artisti internazionali girovaghi che sapevano vivere e fare gruppo in qualsiasi luogo e situazione. E anche Schiaparelli si sentivano artista. LA MODA SECONDO SCHIAPARELLI All'inizio degli anni ‘30, Elsa Schiaparelli aveva messo a punto una sua silhouette femminile che corrispondeva allo stile a all’ideale di donna che si sta facendo strada dopo la grande crisi del 1929. Finita la “festa mobile” negli anni ‘20 il mondo si trovò di fronte allo spettro della povertà. La ricchezza tornava a essere un bene rarissimo che si poteva comunicare attraverso un lusso e l'estrosità di cui Schiaparelli si mostra maestra. Non si trattava di lavorare sulla trasformazione artificiale del corpo femminile, ma di comunicare la donna del nuovo decennio. Difesa e sicurezza dovevano essere i principi informatori della divisa che l'esercito di donne impegnate nel lavoro indossava di giorno per procedere lungo la strada dell’emancipazione. Ma di sera si apriva lo spazio di un altra battaglia: quella dei sessi, e qui le donne potevano adottare una diversa strategia condotta con le antiche armi della seduzione. probabilmente ripreso da una tappezzeria del primo Ottocento, costituito da un nastro che si appoggiava sugli indumenti ripiegandosi su se stesso durante il percorso. E poi, nella stessa collezione, presentò un cappello che aveva il significato di una presa di posizione a favore del Fronte popolare: una versione haute couture del berretto frigio, che era diventato il simbolo degli scioperi che avevano sconquassato la Francia e le sartorie di alta moda. Anche lei, come Vionnet, aveva risolto molto presto la situazione contrattuale delle persone che lavoravano nel suo atelier garantendo salari più alti della media, tre settimane di ferie l'anno e una particolare forma di assistenza malattia ottenuta riservando perennemente alcuni letti all’ospedale Saint Joseph. Le sue operaie non si unirono lo sciopero del maggio 1936. IL RAPPORTO CON IL SURREALISMO Dal 1936 Elsa cercò di approfondire la riflessione sul corpo e sul rapporto fra soggetto e indumento. L'unica cosa che non aveva mai fatto era stata seguire i metodi e i contenuti tradizionali dell’alta moda: non le interessava creare indumenti graziosi, eleganti e tali da assicurare il desiderio di status della buona borghesia. Voleva che le donne fossero se stesse, osassero essere femminili, fantasiose ed estrose, comunicassero agli altri la propria individualità e la propria forza. Quello che stava facendo agiva sulla cultura dell'apparire, sul significato dei segni vestimentari e corporei tradizionali che venivano travolti, irrisi, usati fuori dal loro contesto. Vestirsi da paracadute o inalberare sul petto tatuaggi da duro marinaio o da galeotto non era un semplice fatto di moda, ma confondeva le carte di un linguaggio che il corpo gli abiti “parlavano” da tempo immemorabile. C'era qualcosa nella sua maniera di fare moda che assomigliava al sovvertimento delle regole delle espressioni e della comunicazione messo in atto dagli artisti dada e surrealisti che Schiaparelli aveva frequentato prima a New York e poi a Parigi. Forse per questo si rivolse a uno di loro per capire meglio quanto il segreto linguaggio dell’inconscio, che il surrealismo stava sperimentando, potesse modificare il linguaggio degli abiti. Le collezioni, a partire dall’autunno 1936 , si articolarono tutte su due doppi filoni: da un lato Schiaparelli si concentrò sull’elaborazione di alcuni temi decorativi specifici attorno ai quali sviluppare l’intera collezione (la musica, le farfalle , gli alberi), dall altro Cocteau e Dalì crearono singoli capi attraverso i quali doveva emergere il nuovo rapporto tra abito, corpo, pulsioni inconsce. Per l’autunno 1937, Cocteau lavorò sul “doppio” e l'ambiguità: una giacca di lino grigio fu ricamata con la silhouette di una donna virtuale a grandezza naturale che si appoggiava al petto di quella reale che indossava l'indumento. Dall’inverno 1936-1937 Dalì rielaborò invece il tema del richiamo sessuale nascosto nella fascinazione vestimentaria. Tradusse in tessuto un soggetto che aveva già sviluppato: la dissacrazione della classica bellezza femminile rappresentata dalla Venere di Nilo. I cassetti con cui aveva sondato i segreti erotici di quel corpo mitico dovevano far emergere quello che la più grande bellezza esteriore nasconde dietro una maschera di serenità e divina superiorità. E gli stessi cassetti diventarono altrettante tasche con pomello ben evidenziate sul cappotto e una giacca. Da questo frugare all’interno della donna emerse l'aragosta che nell’estate 1937 fu dipinta sulla gonna di un abito di organza di seta candida, circondato da ciuffi di prezzemolo. Verso la fine del 1937 la ricerca dell’artista catalano sembrò fissarsi sul feticcio sessuale: nella collezione invernale venne presentato un tailleur di crêpe nero con le tasche rifinite da bocche femminili rosse, completato da un cappello a forma di scarpa con il tacco rosso. Il tema della scarpa come feticcio sessuale dell'altro desiderato è uno dei più classici e noti della cultura psicoanalitica e sadomaso: in questa accezione è fondamentale che soggetto e scarpa siano di sesso opposto. Il cappello femminile progettato da Dalì e rielaborate da Schiaparelli inalbera un vistoso tacco maliziosamente quello colorato di rosa shocking. Mettendo insieme una serie di ambiguità diverse, si arrivò quindi a costruire una perfetta iconografia fallica che veniva peraltro completata dal simbolo sessuale femminile rappresentato dalle bocche decorate sul tailleur. Scomparsa definitivamente ogni illusione di naturalità, quindi, la struttura anatomica della donna non era altro che un “busto da sarta” da vestire per comunicare con gli altri. La “persona” intesa come immagine sociale dell’individuo stava solo nei vestiti. Per l’Exposition des Arts et des Techniques, inaugurata a Parigi il 24 maggio, realizzò un allestimento in cui il manichino che le era stato assegnato fu adagiato nudo (e quindi incapace di comunicare) su un prato e i suoi abiti furono appesi a un filo, come per un bucato. Il nuovo profumo, che si chiamò Shocking come il suo colore rosa, venne commercializzato in una boccetta, disegnata da Léonor Fini, che aveva le forme del busto di Mae West e il tappo coperto di fiori, ancora una volta ispirato a Dalì. Il marchio era scritto su un metro da sarta che passava intorno al collo del flacone. Il messaggio era esplicito: la moda è un metro e un manichino (senza testa e senza vita) da decorare. Solo l'abito può dare un significato a questo essere inanimato e introdurlo nella comunicazione sociale. LA MODA, L’INCONSCIO, L’IMMAGINAZIONE POETICA Da sempre, nella cultura occidentale, il corpo era stato “cancellato” da un abito che assumeva il ruolo di tramite sociale, Ma a Schiaparelli non bastava. La donna era per lei un insieme complesso, composto da una forma anatomica e uno stato sociale, ma anche da un mondo interiore. Il nuovo ruolo che le donne avevano assunto negli anni ‘30 doveva essere rappresentato attraverso una struttura sintattica razionalista e stabile, come la divisa che lei stessa aveva inventato all’inizio del decennio. Rimaneva il mondo interiore, la psiche che andava ricercato secondo le regole della libera associazione studiate dalla psicanalisi e utilizzate nel surrealisti. A questo punto gli abiti realizzati da Dalì dovettero sembrarle troppo rigidamente finalizzati a comunicare un unico significato erotico-sessuale. D'altra parte, era innegabile che il tradizionale linguaggio della moda femminile fosse stato inaugurato nel corso del tempo per esprimere fondamentalmente due contenuti: quale eroticono /seduttivo e quello sociale. L'obiettivo era liberare l'immaginazione poetica, consentirle di ritrovare la strada del meraviglioso, dare sfogo al mondo dei sogni: sarebbe stato impossibile ritrovare la forza interiore del soggetto. Il metodo era la libera creazione di immagini prive di significato e di scopo, lasciate scaturite come nascono nell interiorità onirica o della fantasia. Il sogno, l'infanzia, il favoloso e il meraviglioso erano le fonti cui ricorrere. Schiaparelli probabilmente scoprì che questo metodo le era congeniale per creare un linguaggio vestimentario che comunicasse la dimensione interiore della donna. Scelse il metodo della liberazione dell’immaginazione su temi specifici che certamente affondavano nella sua infanzia. Capì, infatti, che quello che la stimolava maggiormente era considerare il corpo della donna e la forma dell’indumento una specie di pagina bianca su cui scrivere il flusso delle fantasticherie che sorgevano spontaneamente nel momento in cui si metteva a lavorare su un tema. Il problema poteva sorgere nel momento in cui queste immagini dovevano essere accostate alla realtà degli abiti e qui, probabilmente, le venne in aiuto il ricordo di Marcel Duchamp e del metodo di creazione che gli aveva inventato prima del 1915: il ready-made. Schiaparelli scelse lo stesso sistema: le figure si aggregarono sui suoi modelli senza alcun senso preciso che non fosse quello della sua fantasia poetica e quindi non furono più acrobati, insetti o vetrate, ma opere della sua immaginazione. E le sfilate cominciarono a essere messe in scena in modo sempre più teatrale. La prima collezione che seguì fino in fondo questo criterio fa quella della primavera 1938, dedicata al circo. Era la prima volta che una sfilata aveva le caratteristiche di uno spettacolo. I I I vestiti presentati erano i soliti, la novità stava nella decorazione. Lesage eseguì ricami straordinari ed enormi che rappresentavano il circo. Anche in questa collezione Schiaparelli aveva riservato uno spazio a Dalì, che disegnò due modelli da sera. La ricchezza inventiva delle proposte di Elsa, però, poteva ormai fare a meno della metà dei professionisti dell'arte e questa fu di fatto l'ultima collaborazione fra la Schiaparelli e il pittore. Nell’aprile 1938 Schiaparelli presentò la collezione per l'estate intitolata “Païenne”, in cui esplorò il mito della natura. Poi presentò la collezione “Cosmique”, per l'inverno 1938-1939, in cui emergeva tutto il suo immaginario sulla “natura alta”, quella celeste. Partire dalla propria sfera interiore per “riconoscere” ciò che ci circonda: questa sembrava essere il “metodo” raggiunto da Elsa Schiaparelli. La prima sfilata del 1939 si articolò intorno a un tema più ambiguo: la maschera. L'oggetto da cui mosse il flusso creativo fu la Commedia dell'Arte con i suoi personaggi
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