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Enrico IV e Amleto Riassunto e Analisi, Appunti di Letteratura Inglese

Riassunto e Analisi per l'esame di letteratura inglese 2 con Laudando.

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 12/12/2020

Giusy__899
Giusy__899 🇮🇹

4.6

(5)

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Enrico IV e Amleto Riassunto e Analisi e più Appunti in PDF di Letteratura Inglese solo su Docsity! Enrico IV – Parte 1 – Riassunto L’allegria di Shakespeare è l’allegria pura della creazione, capace di rimanere tale anche quando s’intreccia con la malinconia o con la tragedia. Simile in questo a quella del grande personaggio di Falstaff che troneggia sullo sfondo di “Enrico IV“. Rappresentato la prima volta nel 1597, “Enrico IV” è un dramma storico diviso in due parti, ciascuna in cinque atti. Un’opera monumentale che, come evidenzia il sottotitolo, mette in scena “la storia di Enrico IV con le battaglie contro i ribelli del Nord e le trovate comiche di Fastaff”. Mentre i nobili del Nord marciano su Londra per rovesciare il potere di re Enrico IV (1399-1413), suo figlio Enrico, il principe di Galles, ama trascorrere una vita scapestrata in compagnia di Falstaff, con il quale partecipa comunque alla risolutiva battaglia di Shrewsbury. Qui viene ucciso il rivale Hotspur “Sperone di Fuoco” e Falstaff – novello “miles gloriosus” – cerca di farsene vanto. Nella seconda parte, il sodalizio tra Falstaff e il giovane Enrico cessa d’improvviso con la morte di Enrico IV e l’ascesa al trono del figlio, il quale, negando tutte le aspettative di Falstaff, decide di rompere definitivamente con il proprio scapestrato passato nel nome del primato assoluto della corona “Enrico IV” può essere definito per la mirabile unità tematica nella complessità della struttura, per l’ampiezza della vicenda storica rievocata e la molteplicità dei personaggi, per la straordinaria, virtuosistica ricchezza del linguaggio nell’alternarsi di prosa e di poesia, il capolavoro di Shakespeare nell’ambito delle storie inglesi. Mai come in “Enrico IV” Shakespeare ha saputo fondere la multiforme ricchezza cromatica del chronicle play con la forza dinamica del dramma “marlowiano“, creando una realtà teatrale a un tempo molteplice e unitaria in cui un unico tema – l’allegoria morale dell’ascesa e caduta dei potenti – viene ripreso e modulato in chiavi diverse e messo a contrasto con il tema opposto e parallelo della caduta e del riscatto nei tre grandi protagonisti del dramma: re Enrico, Falstaff, l’immortale “prediletto della luna”, e l’amletico e istrionico principe di Galles, autentico elemento portante e centro focale dell’opera. Scorcio storico epigrafato in una lastra immobile dell’Inghilterra della prima decade del quattrocento. Non la storia di un re, ma l’epopea storico politica di una potenza nascitura. Due drammi di 5 atti ciascuno rappresentati in giorni diversi. L’Enrico IV è la seconda e la terza puntata della tetralogia aperta con la cronistoria di Riccardo II (fino all’abdicazione in favore di Enrico Bolingbroke poi Enrico IV) e chiusa con l’apologia del figlio Enrico V, re di Inghilterra e Francia ed eroe del 1415 ad Agincourt. Ora che la tetralogia è finita è il caso di chiarire le tappe storiche: Riccardo II l’imbelle abdica in favore di Enrico IV; Enrico V, figlio del IV, spadroneggia per una decina d’anni; Enrico VI (tornerò su lui) figlio del V, risulterà meno capace del padre; Riccardo III usurperà il trono di Edoardo IV e sarà sfidato e ucciso da Richmond, futuro Enrico VII. L’Enrico IV è la cerniera fondamentale; il ciglio di unione tra le profezie annunciate a seguito dell’instabilità del regnante Riccardo II e il futuro estuario di glorie e onori, che da lì a cinque secoli, la corona di Londra conoscerà con alterne vicende. Nella maniera più assoluta quindi, il doppio dramma non può e non deve essere (nelle intenzioni di Shakespeare è già chiaro alla fine del ‘500) la narrazione della vita e delle gesta di un re. Il dramma si svincola dai binari del Riccardo II in cui lo stesso dolore di Enrico Bolingbroke futuro re, per la morte di Riccardo abdicante, lasciava presupporre coi suoi stralci apologetici e in qualche modo personalizzati in un possibile dramma successivo. L’ascesa dell’indomabile Enrico aiutata dai Percy e dai nobili più autorevoli della fine del ‘300 inglese (Riccardo muore nel 1399) si ferma con la sua incoronazione, quando l’autorevolezza di un vero re passa per gli sguardi sviliti di un ex sovrano. L’Enrico IV è la storia di un insieme di uomini, articolata con una divergenza di prospettive, finalizzate a inquadrare nel futuro di una grande nazione colui che ne stabilizzerà i destini. Tutto sembra ruotare intorno alla figura nascente di Henry, Principe di Galles, primogenito del re ed erede al trono. A dirla tutta, la cosa non è così evidente almeno nel primo volume del dramma, ma proprio per questo appare ben concepita e quindi ancora più intenzionalmente strutturata. Nell’Enrico IV ruotano secondo i cambi di scena personaggi assolutamente antitetici, superficialmente lontani da una costruzione comune, ma in realtà utilissimi all’architettura del racconto globale. Se da una parte Enrico IV scricchiola davanti alla parete di oppositori che gli si pone di fronte, dall’altra le gesta microcriminali e sciagurate dell’erede al trono sembrano avvalorare il destino diretto ad una nemesi storica evidente. L’antico vigore del sovrano sembra trasformarsi in pavida incapacità; le gesta che ne fecero il salvatore della Patria sembrano rilette in chiave meschina fino a sfiorare la schietta traduzione dell’incoronazione di Enrico IV con l’usurpazione del regno. Il figlio del conte di Northumerland Enrico Percy, detto Hotspur quasi ad evidenziarne la scalmanata foga in arcione, rappresenta l’eroismo possibile a fronte di un insolente e indolente prole (il figlio di Enrico IV, futuro Enrico V), sciamannata, sciagurata, fin oltre i margini dell’orribile condotta e dell’alcolismo. È evidente che a questo proposito assume una leggendaria fama la figura di John Falstaff che sembrerebbe un giubbotto lucido dei nostri tempi, ma in realtà è l’epicentro tragicomico di tutto il dramma (il personaggio reale nell’epilogo è descritto come Oldcastle ma per onore degli eredi fu commutato). Le avventure da bassa taverna del Principe di Galles in compagnia di Falstaff e degli altri personaggi quali Pistol, Peto, Bardolph e su tutti Mistress Quickly vanno esattamente in questa direzione. Un Principe destinato al fallimento come uomo e come erede di una missione storica si confonde negli spassosissimi intrecci dei bassi fondi e ignora per quasi tutta la prima parte del dramma il futuro che gli sta passando accanto. La spaccatura amplifica i tormenti e le debolezze dell’Enrico, “quarto di questo nome”, e accelera il ribaltamento in fieri della storia narrata. La seconda parte dell’“Enrico IV” è storicamente il seguito della prima; ma la sua fattura non segue immediatamente la prima nel tempo; tra le due Shakespeare, per compiacere a un desiderio della regina Elisabetta, cui era tanto piaciuta la comicità del personaggio di Sir John Falstaff sì da ordinare all’Autore di rimetterlo in scena in veste di galante innamorato, mette mano a comporre “Le Allegre comari di Windsor”, la commedia, appunto, del Falstaff galante e scornacchiato. Pare la terminasse in soli 14 giorni. Anche nella seconda parte Shakespeare s’ispira, nella narrazione dei fatti, alle “Cronache” dell’Holinshead, ai “Quattro libri delle guerre civili” di Samuel Daniel ed altre fonti, ma vi aggiunge di suo una cospicua parte di materiale non-storico; com’è già in apertura del dramma il falso annuncio della vittoria dei ribelli contro il re a Shrewsbury; dove invece hanno prevalso le forze regie e dove il principe Enrico s’è tanto distinto per valore (ha ucciso, tra l’altro, in duello, Harry Percy “Sperone ardente” (o “Caldosprone” come a noi piace meglio rendere “Hotspur”) da far dire al re, suo padre, che ha riscattato così tutti i suoi colpevoli trascorsi. Il giovane principe, tuttavia, in apertura del dramma, sembra tornato alla sua vita scapigliata e alla solita mala compagnia di gente trista; e sarà questo nuovo motivo di amarezza per suo padre, già premuto e angustiato da una nuova rivolta di nobili, capeggiata dal padre del caduto “Sperone ardente”, il vecchio conte di Northumberland, l’Arcivescovo di York, e i Lords Hastings e Mowbray. Il rapporto padre-figlio, su cui ruota la vicenda “personale” del dramma, ha la sua scena- madre nel momento in cui il giovane Enrico al capezzale del re, uomo ormai malato, esacerbato dal rimorso, lo crede morto, gli sottrae la corona e se la porta via per provarsela sul capo; ma il re si sveglia e dopo aver a lungo rimproverato il figlio, ne accetta le sincere dichiarazioni di amore e di lealtà filiale, e, come parlando al suo successore, gli dà una serie di consigli; gli ricorda le vie traverse per le quali egli stesso ha ottenuto la corona e gli suggerisce la politica da seguire per regnare: e cioè portare la guerra all’esterno, per proteggersi dall’insorgere di guerre civili all’interno. È l’annuncio delle vittoriose campagne di Francia del futuro Enrico V. AMLETO – TRAMA E RIASSUNTO La leggenda e le fonti La leggenda di Amlodhi (che in antico norvegese significa «deficiente») risale almeno al secolo IX, e alla fine del secolo XII il danese Saxo Grammaticus la espose nei libri III e IV della sua Historia Danica, stampata nel 1514. Saxo, che forse ha presente la storia liviana di Lucio Giunio Bruto (anche brutus vale «deficiente») che cacciò da Roma i Tarquini, racconta una sinistra saga vichinga: Amleth(us), principe dello Jutland, per vendicare il padre Horwendil, vassallo del re danese, ucciso dallo zio Fengo, il quale ha forzato la cognata Gerutha a sposarlo, ricorre alla finta pazzia come espediente inevitabile per sopravvivere (in Shakespeare non è più così) e con l’aiuto di un amico, di una «sorella di latte» che Fengo aveva utilizzato per smascherarlo, e dalla stessa madre Gerutha, riesce nel suo intento. Spedito in Inghilterra con una lettera che ne ordina l’uccisione – è una situazione che si trova nel mito greco di Bellerofonte – Amleth sfugge al tranello, sposa la figlia del re inglese, è mandato in Scozia e vi sposa la regina, e tornato in patria con le due mogli si vendica di Fengo e vi regna finché non è ucciso in battaglia da un altro zio e nuovo re danese. Saxo racconta la storia con l’innocenza elementare e anonima delle saghe, senza porsi dubbi, domande o problemi di colpa, senza moralizzare i fatti e sentirne la tragicità. Questa vicenda, che in sé aveva l’universalità dei miti (A. Barton), è ripresa nel Cinquecento dall’amico di Margherita di Navarra, François de Belleforest, nel V volume delle sue Histoires Tragiques (1570). In ossequio alla sua temperie lo scrittore francese esercita sulla storia un continuo commento morale, con paralleli classici e biblici e in una prospettiva universale ed edificante, rendendola irta di problemi e aggiungendo alla figura del principe «dubbi, ritardi e rimproveri» (Jenkins). Da guerriero primitivo Amleto diventa un eroe «malinconico» e positivo, acquista un’aura cavalleresca nel perseguire l’onore e la gloria, e una giustificazione per la sua vendetta che diventa «un tirannicidio», oltre che una punizione dell’assassino del padre approvata dall’etica nobiliare e giustificata dal Belleforest. Il quale scarica tutte le colpe sulla libidine femminile – la regina è adultera, la sorella di latte sensuale e vogliosa, la moglie scozzese infedele – e trova spiegazioni etico- culturali a quella remota orribile vicenda nella perversità delle femmine e nella barbarie dei tempi precristiani. La sua storia misogina è tragica nel senso medievale, quale esempio della caduta dei grandi, esposto in forma narrativa. Ora, e qui si entra nelle congetture, la storia che potremmo definire pre-tragica di Belleforest (tradotta in inglese solo nel 1608 come The Historie of Hamblet) dev’essere stata la fonte di un dramma popolare perduto ma di cui restano indizi sicuri, e che i critici hanno chiamato lo Ur-Hamlet e attribuito a Thomas Kyd, autore della popolare tragedia di vendetta The Spanish Tragedy (1587). L’esistenza dello Ur-Hamlet è provata da un’allusione di Nashe nel Menaphon (1589), e il dramma venne rappresentato forse nell’ultimo decennio del secolo. In esso appariva per la prima volta il fantasma del re morto a esortare il figlio alla vendetta – ce lo dice il Lodge nel 1596 – ed esso è considerato la fonte diretta dell’Amleto di Shakespeare, che potrebbe però aver usato anche il Belleforest (Jenkins). Ciò che più importa notare in questa vicenda è che, analogamente a quanto era avvenuto nel passaggio dalle fonti mitiche ai tragici greci (Untersteiner, Dodds, Snell, Vernant), la saga viene calata nel Cinquecento in un contesto morale, in una «civiltà di colpa», ma è ancora tutta spiegabile in termini di un’ideologia aristocratico-religiosa. Alla sua apparizione in Shakespeare la storia diventa ambigua, alla certezza epico-mitica si sostituisce l’interrogativo tragico, l’eroe non è più positivo ma problematico e sostanzialmente inesplicabile. Il poeta tragico rivive il mito e s’interroga su di esso, sente l’eroe affrancato dall’idealità (Frye) nella sua situazione-limite come simbolo della condizione umana, viene alle prese con la realtà della fabula come una parte vasta e misteriosa della sua stessa realtà, si sente nei suoi riguardi insieme partecipe e distaccato come ciascuno col proprio passato, e cerca in essa il senso e il segreto dell’agire umano ma consapevole che non potrà mai raggiungerlo. Sui problemi delle fonti e della trasmissione del testo l’ultimo intervento è del Jenkins nell’ampia introduzione all’edizione New Arden (1982). Hamlet, datato al 1600-1601 e pervenuto in un bad quarto del 1603 (che sembra ricostruito a memoria), in un good quarto del 1604 su cui si fondano le edizioni critiche a cominciare da quella del J. Dover Wilson (1934), e in una versione più corta nel primo in- folio del 1623, è il più lungo e il più controverso dei plays di Shakespeare, e l’unico a presentarsi in tre diverse versioni, di cui due autorevoli. Il testo che leggiamo è quello (modernizzato) del 1604 con aggiunte dall’in-folio e contributi dal primo in-quarto. Le interpretazioni La storia critica dell’Amleto passa per tre fasi. Fino all’Ottocento è un’opera grande ma barbara che necessita di tagli e modifiche, e la sua fabula appare a Voltaire assurda e ridicola. Ma critici e uomini di teatro che la rappresentavano con successo non trovavano in essa nulla di ambiguo o poco comprensibile: Amleto è un principe rinascimentale energico, attivo, anche violento e con una tipica vena di malinconia, che finge la pazzia e calcola con prudenza la vendetta, e sebbene la fortuna lo tradisca, alla fine egli muore avendo assolto il suo compito. Un dramma di vendetta, insomma, con un eroe positivo dalla psiche non problematica. Il problema esegetico nasce con i romantici e vede l’intervento di grandi scrittori, Goethe e Coleridge, Tieck e Nietzsche, Jaspers e Pasternak, Freud e Brecht. Oggi il compito di proporre nuove interpretazioni dovrebbe essere escluso a mio avviso non solo dalle funzioni del critico ma anche da quelle dei regista, che nella crisi evidente del teatro interpretativo convenzionale dovrebbe tenersi al di sopra dell’interpretazione e comunicare in qualche modo il mistero inesauribile del personaggio e dell’opera. Ciò che si dice di Amleto o del Misantropo di Molière è vero in realtà di tutti i personaggi teatrali: chi tenta di «strappare il cuore del loro mistero» li immiserisce. «II faut jouer avec Shakespeare et non pas jouer Shakespeare», per adattare un detto di Kantor, il testo non va razionalizzato, spiegato, reso comprensibile, «explained away». Il richiamo ai greci può aiutare molto a sgomberare il campo da quel fantasma critico che è «il caso di Amleto». Nella sua forma più elementare l’ambigua giustizia greca, la Dike dalle molte facce, divina o umana che sia, opera come lex talionis o vendetta (Frye). La tragedia di vendetta è lo schema tragico più semplice e potente. Sia l’Orestea che l’Amleto parlano Amleto appare specialmente sottolineata una sindrome che tornerà ad nauseam nella cultura europea: insicurezza, paralisi, sterile relativismo, crisi esistenziale, vana ricerca dell’assoluto, nausea dell’io abominevole, senso di essere di troppo, depressione e malinconia, senso pascaliano di essere pazzo tra i pazzi, di essere incomprensibile a se stesso e agli altri come gli altri lo sono per lui. Allora si affonda nella palude. Il mondo di Amleto è per metà quello di un folle attaccamento ai valori, la passione per il prestigio allo stato puro (Hegel), per metà quello di Montaigne, anzi quello del fool che facendo il pazzo colpisce per la sua pertinenza e smaschera gli altri e se stesso. Difatti Amleto è il «pazzo» del suo play, un buffone angoscioso perché facendo ridere toglie la felicità. Del resto per il Rinascimento la felicità non è più un valore (Heller), per Machiavelli è amorale, per Guicciardini immorale e da identificarsi col vizio, non con la virtù. Amleto è infelice perché la felicità nel mondo è falsa, è vera solo nella morte. E come poteva un personaggio che è tanto figlio del suo tempo – così vicino al suo autore, ci sia concesso di sospettare, che con lui il frame-breaking, il passaggio dal mondo drammatico a quello esterno gli riesce così semplice –, come poteva non essere coinvolto come Don Chisciotte nel gran motivo rinascimentale della follia? Shakespeare fa della follia presunta, che sarebbe innecessaria alla sua azione, uno degli aspetti essenziali e inspiegabili del suo eroe. Ci sono in Amleto la follia lucida e liberatoria, la follia malinconica, la follia violenta, la follia sacrale che connette l’individuo al lato o cuore irrazionale del cosmo. Ci sono tutti gli aspetti della follia rinascimentale tranne uno, la gioiosa follia erasmiana. L’Amleto ha sensi diversi in ogni epoca e ogni cultura, ma anche per ogni lettore e per ogni lettura. Una volta mi pareva un’opera tetra perché un mondo tetro vi distruggeva un uomo dolorante. Mi colpivano l’immagine inventata da Shakespeare per mostrare l’oscena abitudine umana dell’incostanza e dell’abbandono («le carni cotte per il funerale…») che per Amleto è tanto più grave perché è lo sfacelo della lealtà e della fedeltà, somme virtù aristocratiche: o l’altra del mondo abominevole cui pone fine, desiderata con devozione (e illusione?), la felice morte. Ma ora mi pare sinistro e tetro anche Amleto, col suo onore ossessivo cui sacrifica tutto, col suo prestigio che infine lo fa cascare nel tranello del re, vera «trappola per topi» della storia, col suo razzismo e il suo maschilismo, la sua purezza filistea e lo stesso suo chagrin che è forma d’egoismo (Proust). Sotto i valori dell’onore e della passione, nota Haydn, «il controrinascimento di Montaigne e di Shakespeare smaschera l’ira e la lussuria, la libidine egocentrica e la libidine del sangue». In Amleto e in Faustus il sottile Frye nota l’affinità al tipo del «filosofo fissato», e nell’eroe tragico in genere l’affinità al tipo dell’impostore, se non altro perché inganna se stesso. Ma in Amleto c’è altro: qualcosa dell’uomo necans che vi vedeva Wilson Knight, il culto ossessivo del padre, il manicheismo intollerante, la fissazione distruttiva, le uccisioni facili che i vecchi professori universitari incapaci di uccidere una mosca erano pronti a giustificare in assoluto o in nome dei valori storici. Oggi, considerare Amleto un eroe positivo in una tragedia politica o progressista è solo una cantonata. Il principe appare un uomo sconvolto secondo ogni metodo di analisi psicologica della sua epoca, quello razionalistico della malinconia e degli umori o quello etico dell’anima razionale (coscienza, pensiero) che in lui comunica la propria paralisi alla volontà, mentre l’ira domina la parte vegetativa e deprime e sconvolge l’intero stato dell’uomo. Ma per noi che guardiamo da semplici spettatori o comparse il suo sfacelo, non c’è colpa di Amleto che possa giustificare le sue sofferenze. Più i personaggi sono vicini all’occhio del conflitto più hanno molte facce come Claudio. Lui e Amleto, i due «potenti avversari» (V, ii, 62), sono eroi tragici, ciascuno con la sua dike, e una iperdeterminazione di motivi che li rendono inesauribili. Vedere Claudio come eroe positivo (Wilson Knight) è peccare dell’eccesso opposto a quello tradizionale, decurtare la tragedia come quando si rende positivo Creonte dell’Antigone. Ma vederlo come il villain dell’opera è ridurre Shakespeare alla monovalenza e piattezza delle fonti e delle convenzioni dell’epoca. Claudio è un principe machiavellico persino troppo tollerante e generoso, ma anche un machiavellico può avere una dignità, un onore, una giustizia, un desiderio di pace e di conciliazione, un rimorso e un’intenzione di migliorare, una capacità di amare e di patire. Credere alle parole di Amleto, o attribuirne il giudizio feroce a Shakespeare, è portare l’opera verso una tesi; se Claudio è un mostro l’Amleto è un melodramma. Ma Claudio, come Macbeth o Enrico VIII, ha un carisma per cui non c’è spiegazione possibile. All’inizio del V atto e poi nella scena seconda, a pochi minuti dalla fine, la tensione drammatica sembra allentarsi, spira quasi un’aria di stanchezza e di compromesso, ma è solo l’ironia del fato. Di colpo, lo sfacelo. Tutti i progetti, le trame, le aspettative si rovesciano. In pochi minuti tutti. tranne Orazio, sono morti, sgozzati come capretti per il festino della morte. Peccato che Shakespeare non sia qui riuscito, come nel Re Lear, a mostrare una strage senza sbavature melodrammatiche. Ma quando dopo la catastrofe inspiegabile arriva il Rasserenatore, l’opera riacquista, per gli ultimi minuti, tutta la sua ironia cosmica. Il Rasserenatore incarna una necessità biologica. La verità, dice Jaspers, fermerebbe la vita che ha bisogno di illusioni, di cecità, di valori e di errori. Il Rasserenatore riasserisce la vita contro il suo opposto ma egli non comunica alcun messaggio positivo o ottimistico, non dà alcuna risposta agli interrogativi dell’opera né alcun colpo di spugna al tragico. Nelle frequenze più basse del testo G.B. Shaw coglieva l’ironia che Shakespeare insinua fin nell’omaggio dovuto all’eroe. Amleto riceve onoranze militaresche, «alla danese», per ciò che non è riuscito a essere e che forse non aveva alcuna vocazione per essere. La tragedia si conclude tra la falsa commozione e la commovente falsità delle cerimonie ufficiali. E soprattutto senza lasciare in noi non dico alcun effetto catartico, ma nessuna convinzione di averla capita. Come sempre avviene per le grandi tragedie, a ogni lettura dell’Amleto, a essere onesti, ci sembra di capirne meno di prima, come succede, a ogni profonda esperienza, con la vita. ATTO PRIMO, scena 1 Al castello di Elsinore in Danimarca, le sentinelle Bernardo e Marcello hanno invitato Orazio a raggiungerli per parlargli dello spettro che è loro apparso le notti precedenti. Per le due sentinelle si tratta di un cattivo presagio che indica forse l’invasione imminente delle truppe di Fortebraccio, principe di Norvegia. Orazio rifiuta di credere loro fino a quando vede apparire lo spettro che egli identifica come il re Amleto, recentemente deceduto. Lo spettro non dice nulla e scompare quasi immediatamente. Riappare poco dopo e sembra sul punto di parlare quando il canto del gallo, che annuncia l’alba, lo costringe a scomparire. Orazio decide allora di informare Amleto dell’accaduto. ATTO PRIMO, scena 2 In una delle sale del castello, Claudio re di Danimarca fratello del re defunto e dunque zio di Amleto, parla della sua ascesa al trono, in seguito alla morte del padre di Amleto, del suo matrimonio con Gertrude, la regina vedova, ed annuncia di avere scritto al vecchio re di Norvegia per chiedergli di porre fine alle ambizioni di suo nipote Fortebraccio che vuole riconquistare le terre perse da suo padre. Si rivolge in seguito a Laerte, figlio del suo consigliere Polonio, e gli dà il permesso di tornare a Parigi. Si gira allora verso Amleto e lo interroga sulle ragioni della sua malinconia. Gli consiglia di porre fine alla sua tristezza, che giudica irragionevole, e gli chiede di non riprendere gli studi all’università di Wittenberg. La regina unisce le sue preghiere a quelle del re ed Amleto promette di fare tutto il possibile per obbedirle. Dopo la partenza del re e della sua corte, Amleto, lasciato solo, esterna tutta la sua tristezza e la sua indignazione per il nuovo matrimonio della madre, che ha avuto luogo appena un mese dopo la morte di suo padre. Arrivano Orazio, Marcello e Bernardo. Orazio rivela a Amleto la comparsa dello spettro ed il principe decide di montare la guardia con loro la sera stessa e parlare allo spettro. Per la prima volta Amleto si interroga sulle circostanze reali della morte del padre e sospetta il tradimento e l’inganno. ATTO PRIMO, scena 3 Laerte si prepara a partire per la Francia. Mette in guardia sua sorella Ofelia contro le dichiarazioni d’amore di Amleto. Anche se i sentimenti di Amleto possono essere autentici, quest’ultimo resta un principe e dunque non libero di sposare chi vuole. Arriva Polonio, che si prodiga in consigli a Laerte, quindi chiede a Ofelia di evitare Amleto. Ofelia promette di obbedirgli. ATTO PRIMO, scena 4 Amleto, Orazio e Marcello attendono, sugli spalti del castello, la comparsa dello spettro. Sentendo gli echi dei festeggiamenti dati dal nuovo re al castello di Elsinore, Amleto commenta la reputazione di ubriaconi acquisita dai Danesi: un’inclinazione naturale in un popolo o in un individuo può spesso «guastare la sostanza più nobile». Lo spettro appare ed Amleto lo scongiura di parlare. Lo spettro gli fa segno di seguirlo ed Amleto accetta, disattendendo i consigli dei suoi compagni. ATTO QUARTO, scena 1 Gertrude ha ormai la certezza che suo figlio è in preda alla pazzia. Mette il re a corrente della morte di Polonio. Claudio si rende conto che era lui stesso il vero obiettivo di Amleto e incarica Rosencrantz e Guildenstern di partire immediatamente per l’Inghilterra. ATTO QUARTO, scena 2 Rosencrantz e Guildenstern tentano di scoprire il luogo in cui Amleto ha nascosto il cadavere di Polonio. Amleto li canzona e rifiuta di rispondere loro. Accetta tuttavia di incontrare il re. ATTO QUARTO, scena 3 Amleto rifiuta di rispondere alle domande del re ma sembra contento di partire in esilio. Lasciato solo, Claudio rivela che ha ordinato che Amleto sia assassinato subito dopo il suo arrivo in Inghilterra. ATTO QUARTO, scena 4 Prima di partire per l’Inghilterra, Amleto incontra Fortebraccio che attraversa la Danimarca per andare a conquistare alcune sterili terre in Polonia. Pensando alla semplicità della posta in gioco – vendicare la morte di suo padre e l’onore di sua madre -, Amleto si rimprovera della propria inerzia. ATTO QUARTO, scena 5 Ofelia appare, resa folle dal dolore per la morte del padre e il rifiuto di Amleto. La regina tenta di condurla alla ragione ma Ofelia non risponde e si limita a cantare delle tristi canzoni d’amore. Arriva Laerte, di ritorno dalla Francia, ed esige che gli dicano la verità sulla morte del padre come anche le ragioni per le quali non gli abbiano tributato i funerali di stato. Al momento in cui il re si prepara ad offrirgli spiegazioni, Ofelia entra in scena. Rendendosi conto di ciò che è successo alla sorella, Laerte si promette di punire i responsabili della morte di suo padre. ATTO QUARTO, scena 6 Orazio riceve una lettera di Amleto. Amleto vi scrive che la sua nave è stata attaccata dai pirati e che questi lo hanno risparmiato dopo avere ottenuto l’impegno di farli ricevere dal re della Danimarca. Amleto informa Orazio che Rosencrantz e Guildenstern sono sempre in viaggio per l’Inghilterra. ATTO QUARTO, scena 7 Claudio imputa ad Amleto la responsabilità della morte di Polonio e della pazzia di Ofelia. Confida a Laerte le ragioni che lo hanno spinto a risparmiare il nipote: oltre all’affetto che gli porta sua madre Amleto ha infatti il sostegno di tutto il popolo. Un messaggero entra ed annuncia loro il ritorno di Amleto. Il re pensa ad un inganno e suggerisce a Laerte di indurre il nipote in duello. Laerte accetta la proposta del re e gli comunica il proposito di cospargere la punta della propria spada di un veleno mortale. Anche il re pensa di offrire una coppa avvelenata ad Amleto durante il duello. Entra la regina ed annuncia la morte di Ofelia, che si è suicidata annegandosi. ATTO QUINTO, scena 1 Amleto ed Orazio incontrano due becchini in procinto di scavare la tomba di Ofelia. Amleto parla loro e si interroga sul senso della vita e della morte. Esaminando i crani dissotterrati dai becchini, si commuove di trovare quello di Yorick, il buffone che lo ha tanto divertito da piccolo. Arriva il corteo funebre. Laerte maledice colui che considera l’assassino della sorella e salta nella fossa. Amleto lo raggiunge e iniziano a battersi. Li separano. Prima di partire, Amleto grida il suo amore per Ofelia. ATTO QUINTO, scena 2 Amleto racconta ad Orazio come ha fatto a sostituire la lettera del re che chiedeva alle autorità inglesi la sua esecuzione con quella in cui si chiedeva invece di giustiziare Rosencrantz e Guildenstern, i latori del messaggio. In seguito, tenta di riconciliarsi con Laerte e gli porge le sue scuse per il dolore arrecatogli. Arriva Osric, un cortigiano, per assicurarsi della partecipazione di Amleto al duello. Amleto accetta la sfida. Laerte sembrerebbe accettare l’amicizia di Amleto tuttavia insiste per battersi in duello. Il duello comincia. Dopo i primi scambi, il re offre la coppa avvelenata ad Amleto, che la mette da parte. Amleto vince il primo assalto e la regina beve alla sua salute, bevendo dalla coppa avvelenata. Nella confusione che se ne segue, Amleto e Laerte si scambiano le armi e fatalmente ne restano entrambi avvelenati. La regina muore e Laerte rivela il suo stratagemma e quello del re. Amleto si getta allora sul re e lo trafigge con la punta della spada avvelenata quindi lo costringe a bere dalla coppa avvelenata. Laerte muore dopo essersi riconciliato con Amleto. Orazio vorrebbe anch’egli bere dalla coppa avvelenata ma Amleto lo dissuade e lo incarica di tramandare la sua tragedia. In quel mentre entra Fortebraccio di ritorno dalla Polonia ed Amleto esprime pubblicamente il desiderio che il principe della Norvegia regni sulla Danimarca. Amleto muore a sua volta. Gli ambasciatori entrano ed annunciano l’esecuzione di Rosencrantz e Guildenstern. Fortebraccio ordina che le onoranze funebri siano rese ad Amleto.
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