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Eretici e libertini nel Cinquecento italiano - Riassunto, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto dettagliato di "Eretici e libertini nel Cinquecento italiano" di Luca Addante.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 20/10/2021

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Scarica Eretici e libertini nel Cinquecento italiano - Riassunto e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! ERETICI E LIBERTINI NEL CINQUECENTO ITALIANO Introduzione Alcune delle manifestazioni più radicali del dissenso religioso nell’Italia del Cinquecento, e in particolare il movimento sorto a Napoli, il valdesianesimo. Gli sconfinamenti nel radicalismo sono stati esiti conseguenti agli insegnamenti di Juan de Valdes. Juan fu attratto dal movimento degli alumbrados, e a partire anche dall’origine conversa della sua famiglia Valdes sviluppò il suo pensiero poi esposto nel Dialogo de doctrina cristiana (1529). Più che offrire insegnamenti dottrinali, egli stimolava in loro il desiderio di intraprendere percorsi segnati da illimitati spazi di libertà individuale, suggeriti dalle stesse cautele nicodemitiche e dal gradualismo pedagogico del suo magistero, che lasciava intravedere sempre nuove frontiere nella conoscenza dei “secretos de Dios”, lungo un percorso iniziatico via via più radicale, ma al contempo segnato dall’esteriore fedeltà alla Chiesa di Roma e dall’avversione per ogni frattura della cristianità. Valdes insegnava il significato religioso del cristianesimo e non i suoi contenuti teologici. Nell’ Alfabeto cristiano si delineava una pedagogia maieutica tesa a fornire gli strumenti per forgiare autonomamente la propria fede senza cessare mai di metterla in discussione. Un estremo soggettivismo in virtù del quale era possibile arrestarsi alle soglie dell’eterodossia, ma che facilmente portava ad approdi radicali. La possibilità di approcci diversificati alla fede, il rifuggire ogni logica di scontro, il segreto nicodemitico che copriva la diffusione delle opinioni contribuiscono a spiegare lo straordinario successo in Italia del valdesianesimo, capace di attrarre persone di tutti i ceti sociali. L’individualismo degli alumbrados rimediato da Valdès ne portava i più inquieti discepoli a porsi in modo spregiudicato di fronte a ogni dottrina e alla stessa Bibbia. Ci fu chi mise in discussione la divinità di Cristo, l’autenticità dei vangeli, l’immortalità dell’anima, la stessa religione. Il suo spiritualismo, la natura esoterica della sua lezione, il tentativo di restringere a pochi elementi essenziali i fondamenti della fede, l’invito ad attender sempre ulteriori illuminazioni dallo spirito di Dio e a fondarsi sulla propria esperienza individuale consentivano sviluppi verso un radicalismo. C’è la possibilità di identificare l'emersione di nuove concezioni e forme di libertà nelle più eversive eresie cinquecentesche? Si tratta di capire da quali contesti e discussioni potesse scaturire quella cosciente rivendicazione di libertà implicita nell’espressione “ognuno diceva quel che li pareva”, usata nel 1553 dal valdesiano Giovanni Laureto, per evocare davanti agli inquisitori la stagione in cui aveva sperimentato, con altri compagni, gli esiti più radicali del suo percorso tra le religioni. Nel ricostruire le trame italiane di gruppi e movimenti radicali, si è cercato di cogliere qualche traccia di una discontinuità storica, dalla quale emergessero inediti atteggiamenti ed idee, comportamenti e opinioni, discorsi e pratiche tese alla cosciente rivendicazione di concrete libertà individuali: alimento essenziale di quelli che saranno i linguaggi e le teorie e dei diritti sei-settecenteschi. Si mostrano quindi tendenze di lungo periodo che si snodano tra il Cinquecento e il Settecento. Proprio per questo è apparso utile il ricorso a una categoria come quella di libertinismo, o meglio di libertinage: termine che evoca non tanto compiuti sistemi filosofici quanto più fluide opinioni e comportamenti, che consentono connessioni tra fenomeni in ‘apparenza slegati come l'eresia, la rivoluzione scientifica e il dissenso politico. È attestata l’esistenza di istanze e movimenti libertini diffusi già dal Cinquecento, in ambiti geografici e tematici diversi. Diversi sono gli usi del termine attestati nel Cinquecento: proprio negli anni in cui il valdesiano Giulio Basalù fu condotto al di là del bene e del male da Villafranca, Calvino sferrò il suo attacco contro quelli da lui definiti Libertins. Jean Piere Cavaillè, considerando la natura cangiante dei fenomeni accomunati dall’uso del termine libertinage, ha proposto di utilizzarlo al plurale, mostrando al contempo come si possano identificare nelle rivendicazioni libertine dei tratti unificanti. La definizione di libertino come partigiano di un’estrema libertà soggettiva è autorizzata dalle fonti cinquecentesche, nelle quali il vocabolo era utilizzato in senso offensivo, per designare chi sulle libertà non accettava limiti. In questo contesto assunse un ruolo importante proprio l’ala radicale del movimento valdesiano. Già l’esule spagnolo richiamandosi alla libertà del cristiano l'aveva delineata con contorni simili a quelli del primo Lutero, ma nutrendola dello spiritualismo radicale del movimento alumbrado. Tale incoercibile libertà soggettiva si legava anche in Valdès a un’esplicita perorazione della tolleranza. Idee che si diffusero tra i valdesiani, che fondarono la loro socialità sul rispetto delle opinioni altrui e sulla possibilità di una discussione franca e pacifica, al riparo da orecchie indiscrete. I valdesiani più eversivi non esitarono a trarre ispirazione da altre religioni come l’ebraismo e l’islamismo, con un atteggiamento che svela una prospettiva irenica ma soprattutto un’ansia di ricerca libera e spregiudicata, maturata nella reazione alla repressione inquisitoriale ma anche nell’evolvere di autonome esperienze e riflessioni. Legati al movimento valdesiano: Bernardino Ochino, Lelio Sozzini, Valentino Gentile. Capitolo I “DI CONSEQUENTIA IN CONSEQUENTIA”: APPRODI RADICALI DEL VALDESIANESIMO 1. Ladiffusione dell’eresia nel regno di Napoli Il 1530, con l’incoronazione papale di Carlo V a Bologna, sancì a Napoli la fine dell’instabilità dinastica. Il segno più tangibile di questo mutamento fu la nomina a viceré di don Pedro Alvarez de Toledo. Il tramonto del pericolo francese non rasserenò l’orizzonte intemnazionale. Sul fronte del Mediterraneo incombeva la pressione ottomana e l’esser componente di un impero implicava per il vice regno il condividerne i destini. Quanto le propanaggini napoletane delle eresie che percorrevano l'Europa iniziassero ad angustiare la corte degli Asburgo emerge dalle istruzioni impartite al viceré il 22 marzo 1536 dall'imperatore, nelle more della sua partenza da Napoli, dove era stato accolto nel novembre dell’anno trascorso. In concomitanza col soggiorno dell’imperatore a Napoli le fonti concordano nel segnalare un autentico tornante. Antonio Castaldo, notaio, datò a quella fase i primi segnali della diffusione di idee ereticali. 1536; predicazione di Ochino, lezioni di Vermigli e propaganda di Flaminio, ma soprattutto il magistero di Valdès. Secondo questa ricostruzione, a Valdès andava ricondotto in primo luogo l’occulto veleno che con la sua conversazione e la divulgazione dei suoi allievi aveva finito col disseminarsi anche nella plebe. La diffusione delle idee valdesiane aveva innescato meccanismi inusitati di aperta discussione, di libero scambio di opinioni su argomenti fino ad allora riservati ai teologi grandi. Inedita circolazione di nuove idee (anche tra donne, conciatori di pelle, straccivendoli). Se nel corso del suo esilio pare che Valdès fosse riuscito a mascherare il suo proselitismo, negli anni seguiti alla sua morte (1541) esso venne emergendo. Grazie a varie testimonianze raccolte dal Sant'Ufficio, negli anni Cinquanta si comprese appieno quanto pericoloso fosse stato il messaggio religioso dell’esule spagnolo. Pietro Manelfi, ministro anabattista pentitosi nel 1551, si presentò agli inquisitori di Bologna per fornire un quadro dettagliato, anche se talora impreciso, del radicalismo religioso diffuso per l’Italia. Sebbene le notizie più specifiche riguardassero il Centro-Nord, non mancavano riferimenti al Mezzogiorno. Secondo la sua testimonianza, intorno al 1551 non pochi meridionali sarebbero giunti a negare la divinità di Cristo, la sua resurrezione e il suo ruolo di messia, nonché a rigettare il Nuovo testamento come testo apocrifo. Manelfi aveva inoltre rivelato l’esistenza di una nuova setta di eretici, che in realtà non era affatto vecchia come pensava lui. 2. Giovanni Laureto Nel 1553 si presentò agli Inquisitori un giovane, Giovanni Laureto. Il suo nome compariva tra quelli rivelati dal delatore marchigiano e altre testimonianze lo avevano inchiodato: pendeva un mandato di cattura. Nonostante ciò, Laureto affermò di presentarsi spontaneamente, senza dubbio indotto dalla speranza di accede ai benefici offerti da due brevi editti emanati da papa Giulio II per il giubileo del 1550. Il doppio editto di grazia assicurava agli eretici e ai possessori di libri proibiti che confessassero spontaneamente la possibilità di sottrarsi a un processo formale con una confessione segreta e un’abiura privata. Laureto aveva vestito l’abito benedettino dei monaci napoletani di Monte Oliveto. Tomato a Napoli, insoddisfatto dai suoi vagabondaggi, Giovanni aveva indossato di nuovo vesti clericali, ma presentandosi ora con “habuto da prete seculare”. Laureto strinse amicizia con Francesco Proda, il quale non tardò ad agitargli inquietanti dubbi, insinuandosi fra le sue incertezze dottrinali. Dopo averlo convertito alla dottrina luterana, Proda gli suggerì di fuggire in Germania, ma Laureto a causa di una malattia non poté proseguire. Insomma, Tizzano era approdato ad esiti nei quali parevano confluire un giudaismo non alieno da echi islamici, un predestinazionismo radicale irrorato da materialismo, un umanesimo filologico complicato da una sorta di ansia distruttiva di ogni ortodossia. Anche nel suo caso si profilava un percorso di liberazione da ogni dogmatica profondamente segnato dalle premesse spiritualistiche del valdesianesimo. Grazie alle sue rivelazioni, pertanto, era chiaro che vicende quale quella di Laureto non erano frutto di chissà quali stravaganze, ma i coerenti snodi delle trame di un pericoloso movimento, nel quale gli inquisitori potevano vedere riflesse le fattezze inquietanti della nuova setta rivelata da Manelfi. Mettendo a confronto la testimonianza di Manelfi e di Tizzano, era chiaro che si trattassero delle stesse dottrine. Eppure, se sul piano delle idee gli inquisitori trovavano conferme, emergevano al contempo alcune incongruenze. Secondo Manelfi, la cosiddetta nuova setta avrebbe assunto la sua specifica configurazione dopo il concilio del 1550, in cui gli anabattisti del Nord-Est erano approdati a posizioni antitrinitarie, una svolta indotta da Busale e da suoi compagni come Laureto e lo stesso Tizzano. Apparentemente, in un primo momento, i napoletani guidati da Busale non s’erano spinti oltre a quelle posizioni antitrinitarie che nei costituiti di Tizzano erano definite impropriamente anabattistiche, posizioni originate da Busale stesso oltre che da Villafranca che potevano sovrapporsi ai principali esiti dottrinali del concilio veneziano. Nella ricostruzione di Manelfi, quindi, la stessa posizione di Busale appariva come superata da più avanzate rivendicazioni promosse successivamente dai compagni della sua stretta cerchia. In realtà, Tizzano chiarì come fosse stato proprio Busale (con un certo Francesco Renato) a indurlo verso le diaboliche opinioni e che a quelle i napoletani erano giunti già da un lustro prima della celebrazione del sinodo veneziano. Ne conseguiva che in un primo momento Busale e i suoi non avevano ritenuto opportuno divulgare nei domini veneti le punte più estreme del loro itinerario di distacco dal cristianesimo, preferendo un approccio gradualistico. Dopo le delucidazioni di Lorenzo, dunque, gli inquisitori furono in grado di dare un ordine più coerente a prove e indizi raccolti in precedenza, potendo del pari contare su un nutrito elenco di nomi con precise conferme e nuovi riferimenti. Inoltre, gli inquirenti ebbero la possibilità di porre alcuni punti fermi rispetto alla notizia della cosiddetta nuova setta napoletana: - Movimentoe non una setta - Capace di collegarsi ad altre realtà e di plasmarle con raffinate modalità di propaganda e di proselitismo - Uso spregiudicato di simulazione e dissimulazione e su un messaggio esoterico e graduale - Libertà individuale che si rivela esente da ogni limite dogmatico o istituzionale 4. Giulio Basalù Uno degli ultimi processi contro i radicali, del 1555, consentì di chiarire le idee sulle evoluzioni del radicalismo valdesiano. Gli inquisitori si trovarono di fronte a una supposta comparazione spontanea, che cercava d’appoggiarsi agli editti di grazia di Giulio II. Cugino di Girolamo Busale, Giulio Basalù si presentò agli inquisitori a Venezia nel 1555. In realtà, dalle testimonianze allegate al suo fascicolo, appare chiaro come si trattasse dell’ennesima spontaneità fittizia. Venne nominato da Antonio dell’Olio (salsicciotti) e dall’abate Villamarina (vittima della beffa del salsiccione) aveva rivelato come Basalù si fosse spinto ben oltre le dottrine luterane, poiché negava la divinità di Cristo e l’autenticità di quelle parti dei vangeli che sembrano asserirla. Era già ricercato da un anno e mezzo. Giovane studente di legge a Padova, era un laico, bravo cristiano, ma aveva avuto la sfortuna di essere parente di Busale. Busale gli introdusse il dubbio della giustificazione per fede. Gettò Giulio in una crisi profondissima, poiché considerare la salvezza come frutto esclusivo della morte di Cristo, senza bisogno delle opere umane, significava sposare il nerbo del luteranesimo: la giustificazione per fede. Giunto a Napoli il giovane non trovava quiete: ovunque andasse si imbatteva in qualcuno che cercava di instillargli dubbi. Basalù ammetteva di essere stato accettato da un mondo velato dal segreto, ma rivela anche di essere stato avanzato, dando l’immagine di un percorso graduale che l’avrebbe portato a conclusioni ben più radicali, ricalcato sul metodo adoperato da Valdès, che di quell’esoterica pedagogia maieutica ispirata agli alumbrados era stato ispirato. Basalù aveva iniziato ad addentrarsi nel divino palazzo, dei secretos de Dios, per accogliere il principio della giustificazione per fede e compiere il primo passo fatto da tutti gli iniziati alle dottrine dell’esule spagnolo. Ci si muoveva di Consequentia in consequentia, fino a dissolvere l’uno dopo l’altro i capisaldi del cristianesimo. Basalù, nonostante la dipartita di Valdès, fu condotto dai suoi intimi discepoli lungo tutta la scala esoterica. Come Tizzano anche Basalù entrò così nel gruppo più radicale del movimento valdesiano, un gruppo nel quale aveva guadagnato posizione preminente Villafranca. Seguendo il metodo graduale appreso da Valdès. e Inuna prima fase egli insistette solo sulla giustificazione per fede. ® Dopo, di consequentia in consequentia, lo persuase di opinioni luterane e In seguito, dal Lutero rivisitato da Valdès si passava a Zwingli, per procedere poi oltre, fino al livello antitrinitario definivo da Tizzano (impropriamente) anabattistico. e Si arrivava quindi a deduzioni come: Cristo puro uomo; predestinazionismo da cui affioravano echi materialistici, con le anime della maggior parte degli uomini (i reprobi) destinate a morire con il corpo; l’inferno ridotto conseguentemente a niente più che un’invenzione a fini di lucro e di dominio. Basalù era tanto sconvolto da non ricordare poi su quali basi Villafranca lo avesse condotto fino a quell’approdo. Ogni certezza vacillava. Non solo a quel punto egli aveva fatto proprie tutte le consequentie suggeritegli dagli eretici maestri, ma la sua mente fervida si era spinta ancora più lontano, fino a teorizzare la mortalità di tutte le anime. Era giunto a questi approdi seguendo il percorso esoterico, senza alcun limite imposto da autorità o da Scritture. Un approccio che lo condusse inesorabilmente alla negazione di ogni religione. È difficile sfuggire all’impressione di anacronismo indotta da queste considerazioni. Alcune idee sembrano prese dal Campanella più radicale della congiura antispagnola del 1599 e dell’Ateismo trionfato. Fortissima è la sensazione di scorrere un catalogo di idee libertine. Non sarebbe sorprendente leggere affermazioni di tale portata in Vannini o nel Teophrastus redivivus. Eppure, quelle idee di Basalù risalgono ai primi anni Quaranta del Cinquecento, nel che sembra possa trovarsi una conferma all’ipotesi di legare eresia radicale e libertinage. Giulio sosterrà che da un certo momento in poi avesse continuato a frequentare le riunioni dei valdesiani, ma sempre più alla lontana, come se quei ragionamenti gli apparissero vino annacquato. Va sottolineato ancora l’atteggiamento libertino che Giulio aveva finito per assumere nei confronti della religione: simulazione e dissimulazione, mortalità dell’anima e dunque inesistenza di inferno, purgatorio e paradiso come d’ogni vita ultraterrena, svalutazione dei miracoli, le religioni come invenzione umana per tenere a basa i popoli, eternità del mondo, concubinaggio lecito, Cristo uomo da bene che aveva insegnato a vivere rettamente. In tali idee eversive, che Basalù condiva con ironia, pare ascoltare echi di Lucrezio, del Machiavelli più sulfureo, dell’Erasmo radicale, dei libertini spirituali, il tutto rivisitato valdesianamente in una chiave di assoluta libertà individuale, perfettamente coerente con quello che sarà il libertinismo del Seicento. Attenzione: non credeva in nessuna religione, ma non è un puro e semplice ateo. In una lettera agli inquisitori, nello stesso giorno dell’abiura, si lamentò del fatto che nelle piazze si dicesse che lui non credeva in Dio. merita attenzione che a metà del Cinquecento nelle piazze di Venezia si parlasse di un uomo che aveva negato l’esistenza di Dio. Basalù, comunque, specificava che lui credeva in Dio: ciò impedisce di parlare a stretto rigore di ateismo. Propugnatore di una sorta di proto- deismo filosofico intinto di materialismo, individualista tanto radicale da spingere la libertà di pensiero sino all’affermazione della mortalità dell’anima, alla negazione delle religioni e della stessa creazione del mondo, un uomo come Basalù assumeva il profilo di un vero e proprio libertino. Per quanto riguarda Valdès e il valdesianesimo, Basalù rivelava l’importanza dell’influenza da Busale e Villafranca; inoltre, nonostante fosse digiuno di teologia, ammetteva di aver letto vari libri, libri che erano i capisaldi della Riforma: da Lutero a Calvino, aveva condiviso la lettura radicale di Erasmo e di Valla, aveva letto il Pasquino in estasi, aveva studiato alcuni passi del Corano. Nulla in questo elenco rimandava alla cultura classica greca o latina. Sebbene Basalù si fosse spinto a una posizione di tipo materialistico, nessun riferimento emerge ai fautori antichi del materialismo (Epicuro © Lucrezio) né ad autori moderni che la cultura classica avevano ripreso come Machiavelli. Assenza anche dell’aristotelismo padovano e di Pomponazzi, anche se non si può negare l’ignoranza. È certo che egli apprese da Villafranca la teoria cripto-materialistica della morte delle anime dei reprobi e della salvezza di quelle degli eletti. Importante come Villafranca aveva preso ispirazione da Valdès: egli riteneva che esistessero gli eletti di Dio, facendo riferimento a una resurrezione dei giusti. A leggere il Catechismo valdesiano, tuttavia, emerge come non necessariamente la visione predestinazionista conducesse ai rivolti materialistici sottesi in Villafranca. A ulteriore riprova di come la dottrina del sonno delle anime dei giusti e la morte di quelle dei reprobi trovasse radici nel pensiero valdesiano, vale la pena di ricordare che dall’editto contro gli alumbrados di Toledo emergesse come essi ritenessero che Dio non punisce le colpe, e dunque non c’è l’inferno. Del resto, la concezione della morte eterna dei reprobi si trova nel commento al vangelo di Matteo di Valdès. Insomma, l’originario valdesianesimo di Basalù appare non solo potenzialmente compatibile con il suo approdo materialistico, ma addirittura come una sua fondamentale premessa (gradualismo, consequentia, libertà, metodo del dubbio). Non avendo capito la predestinazione, Giulio era giunto a considerare la morte di tutte le anime. Gli approdi a cui era giunto trovavano radici nel valdesianesimo. Giulio fece nomi di molte persone, come di Gonzaga ma anche di Bresena, Bruno Busale, Galeota, Tizzano, ecc. Fece oltre sessanta nomi, che elencò seguendo un metodo che è ignoto se fosse indotto dagli inquisitori o frutto della sua mente di legista. Giulio, infatti, enumerò i propri complici attribuendogli di volta in volta specifiche eresie, che costituiva una sinossi allegata al suo fascicolo scoperta e pubblicata nell'Ottocento da Amabile. Giulio, a differenza di Tizzano, differenziava al primo livello coloro che accettavano solo la giustificazione per fede da quelli che ne deducevano tutte le conseguenze, distinguendo dunque in sottolivelli gli aderenti alle lutherane opinioni e rivelando una volta di più il gradualismo del maestro e i limiti che ciascun discepolo aveva raggiunto o si era rifiutato di oltrepassare. Lo stesso si può dire per il livello delle opinioni anabattistiche, tra i cui adepti, dopo aver accettato di considerare anche la messa come un’idolatria, c’era chi negava legittimità al sacramento dell’eucaristia (i cosiddetti sacramentari), chi negava anche la divinità di Cristo (antitrinitari) e chi aggiungeva a tutto ciò la falsificazione parziale dei vangeli, la credenza alla mortalità delle anime dei reprobi e la liceità del concubinaggio. Differenza rispetto a Tizzano: Tizzano poneva la credenza della mortalità delle anime dei reprobi tra le diaboliche opinioni e non fra quelle anabattistiche, ma ciò si potrebbe discendere dalla confusione di Tizzano stesso. Che la credenza nella mortalità delle anime dei reprobi appartenesse a questo livello è confermato da altre testimonianze, nonché dal fatto che essa figurava tra i punti approvati al concilio di Venezia del 1550. È importante sottolineare che da un certo momento in poi (stadio antitrinitario e criptomaterialistico) finisse la fase dell’apprendistato e ognuno traesse da sé le consequentie che gli parevano opportune. Nonostante gli approdi differenziati dei vari adepti, pure Basalù fomiì l’immagine di un movimento animato da una consapevole tolleranza interna, dando nel corso del processo anche le coordinate spaziali di quelle conversazioni tanto libere e ardite. Insomma, scompaginate le fila del radicalismo tra processi, fighe e pentimenti, nell’estate del 1555 gli inquisitori disponevano degli elementi per comprendere le articolazioni delle eversive trame eterodosse sviluppatesi nella penisola italiana. Il livello delle informazioni permetteva di affinare le conoscenze sulle strutture, sui diversi gradi, su chi aveva pensato cosa, quando e dove. Il cumulo di notizie fornite da Basalù fu ragguardevole, e non si esagera affermando che il suo processo rappresentò, per la conoscenza del radicalismo d'ispirazione valdesiana, ciò che i costituti di Manelfi furono per la scoperta del radicalismo d’orientamento anabattista. La differenza essenziale stava nella circostanza che l’ex sacerdote marchigiano aveva aperto ciò cui Basalù avrebbe posto fine di fatto. Il primo rivelò qualcosa di completamente sconosciuto, mentre il secondo mise gli inquirenti nelle condizioni di chiudere il cerchio, benchè permanessero ancora delle zone oscure. Non erano risolte le incongruenze sui livelli più radicali, ma soprattutto le diaboliche opinioni apparivano l’esito comune di un vero e proprio gruppo, la cui esistenza sembrava confermare la notizia della nuova setta rivelata da Pietro Manelfi. Emergevano le tracce di un gruppo che spingeva a coagulare le libere istanze di chi oltrepassava il secondo livello in una specifica proposta. Erano molteplici gli indizi che convergevano nel confermare l’esistenza di un gruppo giudaizzante ma al contempo orientato verso idee di tipo diverso. contraddittorio determinismo. Questo rigido predestinazionismo, dunque, svelava un approccio simile a quello dei libertini spirituali, secondo i quali le azioni degli eletti non comportavano nessun peccato. La libertà negata ritornava così in realtà assoluta, giacché ogni pensiero, ogni azione, non poteva configurarsi come vincolati ad alcuna etica né dottrina religiosa. Per il resto, D’Antonio ricalcava le lutherane opinioni. Rimodulazioni in chiave soggettiva delle idee che i suoi maestri gli avevano trasmesso, secondo l’individualismo caratteristico del movimento valdesiano del quale erano tipici anche gli approdi radicali, anche se D’Alessio non aveva accettato tutte le consequentie. D'Alessio affermava inoltre che gli eretici non dovevano essere bruciati: una perorazione della tolleranza netta, che spiega l’atteggiamento di mutuo rispetto delle opinioni degli altri. Ne risulta una prova di come il nesso antitrinitarismo- tolleranza non vada cercato solo nel socinianesimo e comunque nell’antitrinitarismo successivo al rogo di Servet, come abitualmente si ritiene, ma già nel radicalismo valdesiano. La libertà di discussione, infatti, svela una cosciente rivendicazione della libertà religiosa. E ciò derivava dalle affermazioni di Valdès, nelle sue Cento e dieci divine considerazioni. Ultimo punto del radicalismo: la parziale falsificazione dei vangeli. Si trattava di un discorso legato alla posizione antitrinitaria: l’obiezione più semplice da rivolgere alla negazione della divinità di Cristo era quella di rinviare a passi dei vangeli che apparentemente l’affermavano. Esigenze filologiche, dunque, imponevano di fornire una risposta convincente a tali possibili obiezioni, che Villafranca parava evocando sapientemente Erasmo e lasciando approdare l’adepto all’ultimo grado. Girolamo Capece dimostra ulteriormente come non fosse il solo Villafranca ad agitare dubbi ma gli stessi adepti: giunti ai gradi superiori della scala esoterica, si impegnavano essi stessi nell'azione di propaganda e di proselitismo. Affiancando le rivelazioni di Matteo Busale e Girolamo Capece a quelle di Tizzano e Basalù possono cogliersi altri indizi che conducono alla nuova setta di cui aveva parlato Manelfi. L'ipotesi secondo cui alcuni valdesiani spintisi al di là del livello radicale si erano congiunti attorno a un progetto comune trovava conferma ulteriore. Importante la confessione di fra’ Matteo d’Aversa, che affermò che per convincerlo Tizzano gli aveva parlato di un “certo concilio dove si discuteva della divinità di Cristo”, concilio nel quale s’erano profilate varie posizioni e nel quale le ragioni degli antitrinitari risultavano più gagliarde. Sembra evocare il concilio dei radicali tenuto a Venezia nel 1550, e sembra che fosse stato scritto una specie di verbale. Aversa era stato quindi convertito da Tizzano: una volta accettata l’umanità di Cristo, Tizzano lo condusse nel sentiero ereticale, arrivando alle diaboliche opinioni. Emerge qui un’ulteriore prova del fatto che tra quanti s’erano spinti oltre il livello radicale ci fosse un vero e proprio gruppo, rivolto peraltro al proselitismo. GRUPPO: Lorenzo Tizzano, Matteo e Girolamo Busale, Matteo d’Aversa, Girolamo Capece e Francesco Renato. Non poteva essere un caso, poiché è evidente che una parte del movimento si era posta l’obiettivo di raggiungere una posizione comune che rivisitava il radicalismo di Villafranca, con una spinta verso il giudaismo in cui s’intrecciavano echi islamici e materialistici. Nonostante Villafranca non avesse detto alcunché riguardo alla necessità del ribattesimo, non mancano tracce che di ciò si dibattesse tra i valdesiani radicali. Non può sfuggire come ben prima delle decisive riflessioni di Lelio Sozzini quegli eterodossi si ponessero il problema del significato da dare al primo capitolo del vangelo di Giovanni, così come risulta anche dalla confessione di Villamarina, secondo cui Villafranca “negava parte del vangelo di Giovanni e degli altri dove attestavano la divinità di Cristo”. È noto che Girolamo Busale si fosse messo a insegnare questa dottrina dopo il suo ritorno dai territori veneti, e che a qualcuno l’abate aveva rivelato la novella anabattistica è confermato. Dedotte tutte le illationi da quell’itinerario, i valdesiani seguivano poi percorsi autonomi, sebbene a quanto pare si fossero delineate due tendenze di fondo tra i più radicali con (1) un’ala più incline a un cripto-giudaismo arricchito da innesti islamici e successive aperture anabattistiche e (2) un’altra ala più radicale ancora, nel cui ambito erano giunti alla negazione non solo del cristianesimo ma di ogni religione istituita, in nome di un materialismo. Di questa vanno annoverati Basalù, Tobia Citarella e inoltre Scipione Capece. 2. Eresia radicale ed epicureismo: Scipione Capece da Dio alla natura Basalù testimoniò come Capace fosse giunto a negare la divinità di Cristo; Tizzano lo poneva a un livello iniziatico più alto rispetto a Basalù, affermando di aver discusso con Capece di opinioni luterane, anabattistiche ed infine le diaboliche. Secondo la testimonianza di Tizzano, dunque, Capece apparteneva alla cosiddetta “nuova setta”, quella cripto-giudaico di Tizzano. Di conseguenza, a parte non credere all’inferno, l’aristocratico napoletano non solo avrebbe negato la divinità di Gesù ma ne avrebbe escluso la natura di messia: profeta maggiore di altri profeti, come diceva il Corano, ma niente di più. Né si sarebbe limitato a criticare la veridicità di singoli passi dei vangeli, spingendosi a rigettare in toto l’autenticità del Nuovo Testamento. In realtà, il suo profilo di fine umanista e di grande giurista lo pone su un piano diverso rispetto agli altri valdesiani radicali, e dalla sua produzione emerge un radicalismo ancor più spinto di quello dei diabolici, meglio assimilabile agli approdi estremi e personali di Basalù e Citarella. Scipione Capece era la personalità di maggior prestigio dell’intero gruppo radicale, l’unico che si potesse rapportare ai grandi aristocratici valdesiani d’ispirazione moderata. Non a caso, su Capece si dispone di fonti più cospicue, e le sue opere sono state stampate. Figlio di Antonio Capece, giurista e docente universitario. Grazie ai suoi genitori poteva avere legami con i maggiori giuristi del suo tempo. Sin da Giovane aveva frequentato gli ambienti della Accademia Pontaniana. Nel 1546 stampò De princi) rerum. L’amicizia di Telesio (zio di Bernardino) e la presenza a Cosenza offrono conferma all’ipotesi che ci fosse un stretto legame tra Accademia Pontiniana e Cosentina. Lì forse venne in contatto con Bernardino Telesio. All’attività filologica e alla produzione poetica ben presto Capece affiancò quella giuridica: riprese l’insegnamento universitario, ereditando la cattedra del padre. Ebbe l’incarico di pronunciare dinnanzi Carlo V un’orazione. La nomina nel massimo organo giurisdizionale dello Stato segnò l’apice della sua carriera pubblica. La personalità di Scipione si affermò nel panorama culturale della capitale, e fu proprio a casa sua che si perpetuò l’uso delle riunioni invalso tra vecchi pontiniani (con Mario Galeota o Marcantonio Flaminio). Accademia Martirano. La questione dell'accademia riunita intorno a Capece è importante ai fini dell’indagine sui gruppi del dissenso religioso che percorsero la Napoli del Cinquecento. A parte Scipione, furono numerosi i punti di contatto tra pontaniani e valdesiani. In questo contesto un ruolo di trait d’union ebbe Anisio, dalle cui opere affiorano i segni dei molteplici rapporti che legarono il mondo degli umanisti a quello degli ortodossi. Si trattava di due movimenti strettamente connessi tra loro. Valdès stesso aveva offerto col suo Dialogo de la lengua la prima matura teorizzazione del castigliano moderno. Tracce di cultura umanistica sono emerse dalle deposizioni di diversi radicali, con i riferimenti a Valla e a Erasmo. Va sottolineato quindi come i due gruppi si alimentassero a vicenda, occupandosi in alcuni casi di questioni analoghe, sulle quali è probabile che ci fosse uno scambio di opinione, come il tema della mortalità dell’anima. È probabile che letesi di Pomponazzi avessero contribuito ad alimentare tali discussioni, mentre è sicuro che lo stimolo fosse venuto anche dalla lettura del De rerum natura di Lucrezio. Se il riferimento ai filosofi porta al Rinascimento eterodosso, al radicalismo valdesiano riconduce un ulteriore indizio offerto da Flaminio che, dopo aver tranquillizzato Anisio spiegandogli che i valdesiani come lui non dubitavano dell’immortalità dell’anima, era emersa seppur duramente un'attitudine alla tolleranza tipica del movimento valdesiano. Non erano certo torture, scomuniche, abitelli, abiure o roghi che Flaminio invocava. Nel riferirsi a coloro che non credono nel Cristo benedetto, pareva evocare proprio i valdesiani antitrinitari e materialisti guidati da Villafranca, di cui anche Capece condivideva le idee. Viene mostrato dunque quanto pontiniani e valdesiani intrecciassero discussioni su temi scottanti e suggerisce come un argomento cruciale sia del radicalismo valdesiano sia di quello rinascimentale potesse alimentarsi di succhi scaturiti dall’incontro di tradizioni differenti, in un confronto aperto ed eclettico di idee, che è tipico del valdesianesimo di ogni gradazione e caratterizza alla del pari l’Umanesimo meridionale. Vale la pena di ricordare Simone Porzio, fautore di una visione radicalmente naturalistica dell’aristotelismo ispirata ad Alessandro d’Afrodisia e da Pomponazzi: negando l’immortalità sulla base della dimostrazione e accettandola (almeno in apparenza) come dato indiscutibile di fede. A parte il valdesianesimo e l’aristotelismo padovano, la fonte si trova soprattutto nell’epicureismo lucreziano, dato che nel De rerum natura si affrontava il problema della mortalità dell’anima. Per cogliere la diffusione di idee lucreziane è esemplare proprio il De principiis rerum di Capece, massima espressione della filosofia naturale d’ispirazione materialistica della Napoli della prima metà del Cinquecento. Scipione formalmente prendeva distanze da Lucrezio su alcuni punti che criticava. Importante, dimostrano quanto il materialismo di Capece traesse fonte non solo dall’epicureismo (e dal radicalismo valdesiano) ma anche dal naturalismo presocratico nonché dallo stoicismo. Nonostante ciò, la struttura stessa dell’opera era lucreziana, nel tentativo di elaborare una teoria della natura in forma poetica e in lingua latina. Capece stesso riservava parole di entusiasmo al grande poeta, unico autore ad essere citato. Se alla critica dell’atomismo e del vuoto lucreziani egli dedicava un certo spazio, del tutto incidentali erano invece le contestazioni ai temi dell’intervento divino e della mortalità dell’anima, evocate per parare possibili accuse e non affrontate analiticamente, giacché di nessun interesse per Capece. Si svela quindi una strategia di dissimulazione. È noto infatti dalle confessioni di Tizzano che Scipione aderì almeno alla teoria dell’annichilimento dei reprobi: la critica rivolta a Lucrezio sulla mortalità dell’anima dunque è fittizia e avanzata per fugare sospetti che tale dottrina fosse accolta anche da lui. Teoria sull’anima di Capece: a origine di tutte le cose vi è l’aer, principio corporeo e materiale che avrebbe irrorato di sé tutto l’universo. A volte gli viene assegnato il nome anima, come sinonimo (come il pneuma). Non è azzardato associare l’aer capeciano a una raffinata forma di panteismo: quest’anima l’autore vedeva esalare dagli incendi e dalle armi da fuoco, e quando si dedicava alla critica dell’atomismo sosteneva che nessun corpo può generarsi da sé, mentre bisogna prima che sia deceduto un altro corpo, facendo propri orientamenti che si richiamavano alla metempsicosi pitagorica, rivisitata in chiave materialistica, nella quale l’anima si risolveva nell’aer ed era identificabile in una mente eterea che di etereo non aveva nulla: un’anima corporea che periva e poi rinasceva. A Lucrezio si può ricondurre anche la teoria della corruttibilità del mondo, apparentemente ortodossa rispetto a cui, come Basalù, riteneva il mondo eterno, rifiutando così la creazione divina. Ma Capece estendeva la corruttibilità anche al cielo. Capece riteneva sia il mondo sia il cielo di un’unica natura. A simulazione va ricondotta la dedica del poema al papa Paolo III, definito addirittura artefice primo della natura. Il Dio del De principiis rerum appare un artefice distante di non si sa bene cosa, confinato su uno sfondo incolore nel quale non si distingue il suo operato. L’opera mostra quanto anche la conoscenza del pensiero classico giocasse un ruolo decisivo nella radicalizzazione delle idee del movimento valdesiano. La dottrina valdesiana sulla mortalità dell’anima poté nutrirsi ulteriormente della conoscenza della teoria lucreziana e della declinazione panteistica che ne aveva dato l’umanista napoletano. Scipione fu destituito dalla carica di consigliere del Sacro regio consiglio nel 1543. Ma non sembra per problemi religiosi, dato che la politica repressiva attuata dai Toledo prese piede solo nel 1544. Il legame tra valdesianesimo e repressione era stato colto dagli storici coevi. Ancor prima della morte di Valdès, nonostante la straordinaria prudenza dei valdesiani, le autorità civili e religiose avevano iniziato a subodorare la circolazione di discorsi eterodossi, varando provvedimenti come la proibizione delle lezioni di Vermigli. La predicazione ochiniana aveva innescato una larga diffusione di dottrine ereticali in tutti gli strati della società, persino tra i conciatori di pelle, che ne discutevano pubblicamente alla piazza del mercato. Le fughe di Ochino e Vermigli nel 1542 confermarono i sospetti. È molto probabile che tutto ciò contribuisse a far emergere i primi sospetti anche su Capece, che da pontaniano e amico di Anisio aveva potuto frequentare sia Vermiglia sia Valdès che Ochino. Nel 1543 da Roma fu promulgato un Editto con il quale Don Pedro de Toledo proibì stampa, vendita e possesso dei libri d’argomento religioso, stampati nei precedenti venticinque anni, in mancanza dell’autorizzazione del cappellano maggiore. Nei primi anni Quaranta, insomma, le maglie della rete repressiva cominciavano a restringersi, e tra i primi a restarvi impigliati fu proprio Scipione, che tra i valdesiani rivestiva uno dei ruoli di maggior rilievo negli apparati del governo. Si trasferì nel Principato di Salerno, dove probabilmente avviò un’opera di propaganda eterodossa, dato che risulta la presenza nel 46 di Bagnoli chiamato a combattere eresie, per costruire un alibi alla principessa. Il principe Ferrante aveva cercato di ottenere che Ochino tenesse una predica a Salerno. Qui emerge la continuità dei rapporti intessuti tra Capece e gli ambienti umanistici e valdesiani negli anni della residenza salernitana. Nel 1549 Capece fece ritomo a Napoli. A questo periodo risalirebbe l’incontro con Basalù. Morì nel 1551, in tempo per non essere sottoposto ai processi inquisitoriali. Capitolo III ANABATTISMO E ANTITRINITARISMO 1. Tradizione e storia È ignoto il momento esatto in cui, nei primi mesi del 1550, i napoletani guidati da Busale entrarono in contatto con gli anabattisti del Nord-Est, dando avvio a un tentativo di compenetrazione tra forme diverse di radicalismo. Grosso modo questa fase, secondo un’antica tradizione, si sarebbero tenuti i cosiddetti collegia vicentina, riunioni di antitrinitari a cui avrebbe preso parte, oltre a Busale stesso, alcuni dei protagonisti del radicalismo religioso italiano del Cinquecento, da Lelio Sozzini a Bernardino Ochino, da Valentino Gentile Niccolò Paruta. Ancora oggi, tuttavia, non v’è certezza sullo svolgimento di tali incontri, nei quali si è indicata la nascita di un fenomeno europeo come l’antitrinitarismo sociniano. Le riunioni vicentine sono datate dagli storici a un periodo antecedente al 1550: il loro svolgimento è abitualmente collocato nel 1546. Di tali assemblee si venne a conoscenza grazie a tre esponenti della storiografia secentesca d’ispirazione sociniana: e Andrzej Wiszowaty e Christopher Sand ® Stanislaw Lubieniecki Tutti e tre fanno riferimento ai manoscritti di Stanislaw Budzynski, che si voleva avesse conosciuto Lelio Sozzini di persona. In merito a quanto i sociniani avevano narrato non mancarono polemiche e incertezze, animate per lo più da premesse apologetiche, fondate su basi ancora più malcerte di quelle da cui avevano tratto il loro racconto i sociniani stessi. Solo a partire dall’Ottocento alla vicenda dei collegia si dedicò attenzione con l’ausilio di fonti d’archivio. Esemplari furono gli studi di Trechsel e Morsolin. Il primo dedicò ampio spazio alla questione dei collegia nella sua opera sul socinianesimo. Più approfondito fu lo studio di Morsolin, fondato su fonti inquisitoriali. Morsolin avanzò drastici dubbi sulla tradizione dei collegia. Un primo spoglio della documentazione veneta gli rivelò che nel 1546/47, non esisteva traccia a Vicenza della diffusione di eresie paragonabili a quella sociniana, mentre non mancavano notizie sulla circolazione di idee di ispirazione riformata, il che lo indusse a ritenere che il racconto degli storici degli antitrinitari si debba ripor tra le favole. In realtà, era arrivato a un passo dalla soluzione dell’enigma. Dalla ricerca di Morsolin emergono intrecci con gli antitrinitari napoletani. Aldo Stella riprese in mano i fascicoli inquisitoriali, nel primo dei suoi fondamentali studi sull’anabattismo veneto, ma affermando che la tradizione dei collegia vicentina non appare suffragata dalle fonti storiche coeve. IL QUANDO Occorre allora ripartire dai testi che della celebrazione dei collegia tramandarono notizia, risalendo alla tradizione sociniana, la cui testimonianza più antica è quella di Wiszowaty. La ricostruzione ripercorreva la genealogia delle fonti antiche dell’antitrinitarismo, per giungere poi alla protesta di Lutero, Zwingli, Calvino e passando alle autentiche scaturigini dell’antitrinitarisno modemo. Wiszowaty aggiunse che due tra i partecipanti a collegia erano caduti nelle maglie dell’inquisizione e condannati a morte, mentre altri erano stati costretti a darsi alla fuga. Subito dopo si soffermò su quello che definì il praecipuus dei convenuti a quei supposti collegia: il proprio avo Lelio Sozzini. Da Lelio prese le mosse anche l’opera di Sand. Secondo questa ricostruzione, intorno al 1546 non solo Lelio, ma anche altri protagonisti dell’eresia italiana e europea, in numero di circa 40, sarebbero convenuti in territorio veneto dando vita a colloqui di religione, nei quali avrebbe messo in dubbio il dogma trinitario e si sarebbero interrogati sul valore della passione di Gesù. Aggiungeva ulteriori partecipanti, come Ochino, Gentile, Alciati, Niccolò Paruta ecc. Sand faceva riferimento ai dintorni di Vicenza, ma non a Vicenza precisamente. L’ultimo a tramandare la tradizione fu Lubieniecki, che si distese più a lungo dei suoi predecessori sull’argomento dei collegia, ma ancora una volta al fine di esaltare il contributo di Lelio Sozzini. Riportate le menzioni più antiche rintracciabili sui collegia vicentina, è opportuno soffermarsi su di esse, muovendo dal problema della data della loro presunta celebrazione, tradizionalmente nel 1546/47, quando Lelio Sozzini partì per il suo primo viaggio in Europa. Ma attenzione: tutti e tre gli storici fecero precedere l’indicazione di quella data per loro essenziale da un prudente e vago “circa”. Ma allora perché essere così cauti se in altri casi erano stati molto più precisi? Evidentemente i sociniani non si sentirono in grado di definire con precisione la data di quegli incontri, deducendola probabilmente da quel 1547 che costituiva (a causa di Lelio) il termine ad quem. Non v’è dubbio che il terminus a quo sia posteriore al 1546 stesso, in considerazione della sicura presenza ai collegia di Busale, ancora a Napoli negli anni precedenti; mentre il terminus ad quem non sembra porsi dopo il concilio di Venezia del 1550. IL DOVE Incongruenza tra le tre versioni: sia Wiszowaty sia Sand parlavano di territorio veneto e specificavano che gli incontri erano avvenuti nei pressi di Vicenza, mentre Lubieniecki parlava pure di Vicenza, ma aggiungeva che si erano svolti anche in altre città. Sembra pertanto assodato che Vicenza fosse stata teatro di un episodio importante nelle vicende del radicalismo religioso, ma dalla ricostruzione elaborata dai sociniani pare anche sia lecito ipotizzare che ulteriori località fossero state sedi di simili confronti dottrinali. TERMINE COLLEGIA Si trattava proprio di collegia? La definizione di collegia scaturiva dagli stessi sociniani. Il termine si riferisce a qualcosa di più strutturato rispetto ai colloquia. Vale la pena evidenziare come i sociniani utilizzassero in tutti i casi due termini in particolare, colloquia e collegia, ponendoli l’uno accanto all’altro, separati da una congiunzione o da una virgola, quasi ad indicare due cose distinte. Di qualche interesse può essere infine il fatto che i termini fossero declinati al plurale, il che pare suggerire che i tre storici non intendessero indicare un unico evento ma incontri diversi, più o meno formalizzati e più o meno coevi. Rilevato che le fonti attestano una localizzazione, una cronologia e una descrizione dei fenomeni ben più vaghe di quanto gli storici abbiano fin qui riconosciuto, resta da porsi un altro quesito, riguardo la celebrazione a Venezia, nel settembre 1550, del concilio che segnò il passaggio di molti radicali dall’anabattismo a posizioni antitrinitarie. Tale evento solleva la questione del perché la tradizione sociniana trasmettesse la memoria di riunioni più ristrette e non del concilio veneziano. Se il problema dei sociniani era quello di porre una data di inizio al loro movimento, perché non riferirsi alla più vasta e rappresentativa assemblea che i radicali italiani tennero in quagli anni e che segnò il primo trionfo delle tesi antitrinitarie? Ciò sarebbe potuto derivare dalla tendenza di sopravvalutare l’importanza di Lelio Sozzini, che nessuna fonte indica come presente al concilio. Per risolvere la questione, occorre ritornare a Pietro Manelfi. Fu lui a rivelare la celebrazione a Venezia nel 1550 di un concilio generale di radicali italiani, alcuni dei quali già in esilio. Descriveva dieci articoli elaborati dal concilio, che offrono un quadro delle acquisizioni dottrinali del concilio e su cui gli studiosi si sono concentrati. La riscoperta della testimonianza di Manelfi a fine Ottocento causò sconcerto tra gli storici, inducendoli a privilegiare il passo che rivelò la celebrazione del concilio, e quello immediatamente successivo, che ne elencava gli approdi dottrinali. Poca importanza si diede al passo che precede di qualche riga la notizia del concilio stesso, nel quale si parla del motivo per cui l’assemblea fu convocata. Una vera e propria pista rivelatrice, poiché in esso sembra alludere con chiarezza ai collegia vicentina. Secondo la ricostruzione di Manelfi, poco prima della celebrazione del concilio c’era stata una congregazione a Vicenza, durante la quale si era manifestato un dissidio aperto che aveva spaccato la setta anabattista, al punto da richiedere a convocazione di un vero e proprio concilio. Oggetto del contendere era stata la questione della divinità di Cristo, e il passo biblico sul quale si scatenò il conflitto campeggiava nel De trinitatis erroribus di Miguel Servet. AI di là di questo non secondario aspetto, ciò che qui importa sottolineare è che, secondo Manelfi, a Vicenza si tenne una congregazione nella quale si discusse della divinità di Cristo negata da alcuni dei partecipanti. Indubbiamente, luogo (Vicenza) e tema (natura di Cristo) erano sovrapponibili alla tradizione sociniana. Pertanto, se si dà il dovuto peso a questa circostanza affiancandola alla rivisitazione del mito dei collegia vicentina, la ricchissima documentazione veneziana consente di ricostruire quegli eventi sospesi in un limbo di incertezza. 2. Nuova luce sui collegia vicentina e patavina Torniamo a Girolamo Busale. Tra la fine del 1549 e l’inizio dell’anno seguente egli era tornato a Padova raggiunto poco dopo da Laureto. I due erano entrati in contatto con Benedetto dal Borgo e Nicola d’Alessandria, che si erano rivelati a loro come anabattisti, convincendoli a farsi ribattezzare. AI gruppo, si erano aggiunti altri compagni con i quali avevano preso una casa a Santa Caterina. Inoltre, dal Borgo e d’Alessandria erano i due principali esponenti dell’anabattismo del Nord-Est. Secondo la testimonianza di Manelfi, d’ Alessandria, Marc’ Antonio d’Asola e Tiziano erano i tre nomi indicati agli inquisitori come al vertice dell’organizzazione anabattistica. Il delatore non sbagliava poi nel sottolineare l’importanza di quel ricco mercante trevigiano, che anche in virtù che nelle sostanze si trovava in una posiziome di preminenza; la sua generosità fu essenziale nella strutturazione delle sette radicali del Nord-Est: occorrevano denari per finanziare i viaggi di chi era dedito al proselitismo ecc. Nicola d'Alessandria quindi soccorreva i suoi compagni anche tramite denaro. Nicola fu tra i primi a essere guadagnato alla causa da chi pare avesse introdotto l’anabattismo nei territori del Nord-Est: quel Tiziano evocato da Manelfi fra i tre capi della setta. E tra i primi convertiti vi era Benedetto dal Borgo. Nel marzo del 1547 dal Borgo era stato inquisito insieme con altri asolani e dal processo era emersa la sua opera di proselitismo. Benedetto e i suoi seguaci negavano il valore sacramentale dell’eucaristia, che gli uomini avessero libero arbitrio, che esistesse il purgatorio e che ci si dovesse confessare al sacerdote. Nessun valore riconoscevano ai digiuni, alle messe né alle preghiere ai santi. Rifiutavano la potestà pontificia, escludevano il culto delle immagini e ritenevano che i sacerdoti e vescovi potessero prendere moglie. Inizialmente dal Borgo e i suoi seguaci non si erano spinti fino all’anabattismo: gli unici indizi in tal senso potrebbero trovarsi nella svalutazione del valore dell’acqua benedetta, poiché alcuni ritenevano che si potesse battezzare con l’acqua dei fossati. Pare comunque che il gruppo sacramentario asolano fosse composto da circa 180-190 persone, ed è certo che la diffusione delle idee sacramentarie in paese era capillare. Scomunicato e condannato al bando, il notaio dal Borgo non aveva tardato a riaffacciarsi al suo villaggio, e a partire dall’autunno del 1549 iniziò a dare un altro colore alla sua ansia di proselitismo, spingendola in chiave radicale. La sua conversione avvenne con la giunta di tale Tiziano, che si profilava quale cifra decisiva della svolta anabattistica del Veneto. AI pari di Villafranca e altri leader dell’eterodossia più radicale, anche Tiziano è un personaggio misterioso, seppure il suo fantasma aleggi costantemente sull’evoluzione dell’anabattismo del Nord-Est e molte fonti concordino nel descriverlo come uno dei più autorevoli tra gli esponenti della setta anabattistica. Dalle testimonianze, pare venisse dall’ Alemagna, che si deve intendere come qualche territorio svizzero, secondo un uso allora diffuso. Numerose fonti dimostrano come d’Alessandria e dal Borgo fossero stati tra i primi a essere avvicinati dalla sua eversiva propaganda: in capo a poco Tiziano e i suoi discepoli iniziali avevano convertito e ribattezzato un numero di individui ragguardevole, contribuendo alla proliferazione di comunità d’orientamento anabattistico in varie regioni del Centro e del Nord-Est della penisola. Tra il 1549 e il 1551 i territori di Nord-Est videro sorgere Chiese che si riconoscevano nel radicalismo anabattistico diffuso da Tiziano e da discepoli sempre più numerosi Le idee propugnate da Tiziano erano effettivamente orientate verso una forma di anabattismo. Pur partendo da una visione antisacramentale che tanto doveva alla riforma zurighese, Tiziano era proceduto ancora innanzi, dichiarando falso il battesimo agli infanti e necessario il ribattesimo di adulti consapevoli nelle scelte della fede. A parte questo aspetto, poi, altre sue opinioni erano tali da giustificare l’uso della categoria di anabattismo. Tra le dottrine diffuse dall’inafferrabile Tiziano emergeva il caratteristico distacco dalla vita pubblica, che provocò sconcerto ulteriore negli inquisitori e nel potere politico per il timore che gli anabattisti fossero anche dei rivoluzionari. In effetti, ciò sottendeva l’atteggiamento mistico di chi voleva costituire una settaria comunità di santi; non a casa il divieto di portare armi o di esercitare magistrature era rivolto solo agli iniziati alla setta, nulla dicendo Tiziano rispetto alla sovversione dell’ordine costituito, benchè fosse previsto che il vero cristiano non dovesse prestare giuramento. Rivoluzionaria distinzione di ambiti tra Chiesta e Stato. Si trattava, insomma, di orientamenti comuni all’anabattismo europeo dopo la sanguinosa repressione della guerra dei contadini e della comunità di Munster, la nuova Sion finita anch'essa in un massacro. Drammi che avevano imposto una profonda ridiscussione dei principi dell’anabattismo, con l’affermazione di uno spirito comunitario e non violento nutrito da un deciso richiamo alla carità che poteva trovar facile ascolto in epigoni di un movimento come quello valdesiano. Insomma, allorquando dal Borgo e d'Alessandria entrarono in contatto con Girolamo Busale, erano essi stessi eresiarchi e leader riconosciuti di una setta dotata di una sia pur esile organizzazione e di una dottrina ormai delineata. Il teatro dei loro primi incontri, del resto, era Padova, uno dei centri principali dell’anabattismo italiano, come avrebbe testimoniato con dovizia di dettagli don Manelfi. Nella città universitaria erano stati guadagnati alla causa anabattistica un certo “cavadenti” di cui non si conosce il nome. Maestro Lovise de’ Colti quantificò, probabilemente esagerando, la comunità padovana nel moment del suo maggior fulgore in oltre un centinaio di adepti, e merita evidenziare come si trattasse in larga parte, con eccezione dello stesso [...] 5)Solo gli eletti resuscitano 6. Non esiste l’inferno 7. Morte anime dei reprobi Busale riuscì a imporre le tesi corrispondenti all’ultimo grado iniziatico guidato da Villafranca. I primi due punti ribadivano l’antitrinitarismo già emerso nei colloqui di Padova e al punto 4 la condanna alla prudentia humana. Per il resto, i punti 5 e 7 riaffermavano la negazione dell’inferno ed affermavano la mortalità delle anime dei reprobi. Gli ultimi due punti, seppur non spingendosi fino alle diaboliche opinioni, le preparavano in modo sottile, giacché era evidente come la posizione di Gesù fosse stata ulteriormente sminuita con la negazione del beneficio di Cristo, il significato della cui morte si riduceva alla dimostrazione della giustizia di Dio. Così, è ancora più evidente come la “nuova setta” non fosse altro che l’esito ultimo della propaganda dei napoletani, e on qualcosa di diverso rispetto all'evoluzione che aveva portato da Padova a Venezia. Il successo di Busale fu quasi totale, poiché tutte le comunità anabattistiche accettarono almeno l’antitrinitarismo, salvo quella di Cittadella, e lo stesso Tiziano si allineò alle nuove opinioni. I punti principali (divinità Gesù, Maria e Vangeli) registrarono l’adesione della stragrande maggioranza. La svolta antitrinitaria risulta evidente sin dalla ritualità della sett fino a quel momento Tiziano aveva battezzato in nome del padre, figlio e spirito santo; dopo Venezia solo in nome di Gesù Cristo. Il trionfo dei meridionali era completo. Nel 1550, Busale fu nominato Vescovo della comunità di Padova. A quel punto, i meridionali avrebbero spinto ulteriormente sulla radicalizzazione dottrinale. Essa però morì sul nascere, giacché entrò in scena l’Inquisizione. INQUISIZIONE Nel febbraio del 1551 dal Borgo fu tratto in arresto a Rovigo, e venne giustiziato sul rogo. Il clima divenne insostenibile. Busale e Laureto fuggirono diretti a Napoli, dove si recò anche Silvio Rasonier. Agli inquisitori era chiaro che si erano diffuse, nel Nord-Est, idee di una radicalità inaudita. Fu arrestato Francesco Sartori, che diede alcune notizie agli inquisitori, e poi Manelfi si presentò agli inquisitori a Bologna. Nella notte tra il 18 e il 19 dicembre del 1551, infine, il Consiglio dei Dieci della Serenissima organizzò una operazione della polizia. Una ventina di quei ribaldi caddero subito nelle mani degli inquisitori, ed altri vennero costituendosi man mano. Molti tra i più influenti personaggi di quella fase del radicalismo italiano si rifugiarono all’estero. TRADIZIONE SOCINIANA Restano a questo punto da confrontare le risultanze storiche sin qui recuperate con la tradizione sociniana, iniziando dai luoghi in cui si sarebbero svolte le adunanze. In base al dettato dei tre storici sarebbe assurdo limitare la localizzazione dei collegia alla sola Vicenza, mentre si deve parlare di più luoghi dell’area veneta. Se questo è vero, indubbiamente i colloqui padovani, vicentini e ferraresi, seguiti dal concilio di Venezia, danno un solido ancoraggio reale alla tradizione, poiché l’unica differenza consiste nella presenza di Ferrara dove però si svolse un incontro d’importanza secondaria, salvo eventuali intrecci con il gruppo di Giorgio Siculo. Chiarito il dove e passando al cosa, dall’analisi dei testi è emersa la circostanza che in base alla tradizione sociniana si possono identificare due gruppi di fenomeni che si svolsero in varie occasiono, colloquia e collegia. e Colloquia: si intendono eventi non strutturati; Padova, Vicenza e Ferrara. e Collegia: riunioni più formalizzate; Venezia. Se ne dovrebbe dedurre che i collegia come termine non erano quelli che la storiografia aveva identificato con Vicenza, ma solo il concilio di Venezia; allo stesso modo, i collegia veri e propri della storiografia di tradizione sociniana erano in realtà i colloquia di Padova, Vicenza e Ferrara. Si può passare al quando. Se si considerano ammissibili le ipotesi avanzate, non si vede perché non dovrebbe essere lecito datare al 1550 eventi che i sociniani datavano intorno al 1546. Problema: presenza di Lelio Sozzini, impossibile. Chi partecipò ai collegia?? Il ragionamento fatto su Sozzini va evidentemente esteso ad Ochino e al medico piemontese Giorgio Biandrata, che però non fu esplicitamente ricordato da nessun sociniano. Allo stesso modo non fu evocato neanche Matteo Gribaldi Mofa, che invece fu tra i pochi radicali che avrebbe potuto esser presente: Gribaldi insegnava all’Università di Padova. Che fosse in contatto con i gruppi eterodossi si spiega dal legame con Francesco Spiera. La sua eterodossia negli anni padovani era di dominio pubblico. Anche se indagato dall’Inquisizione, continuò indisturbato a insegnare, e si trovò a Ginevra durante il processo contro Servet, schierandosi apertamente contro l’intransigenza di Calvino. È dunque molto probabile che un legame tra Gribaldi e il mondo del radicalismo veneto ci fosse, ed è difficile immaginare che il gruppo di Busale non si ponesse l’obiettivo di coinvolgere quel professore pubblicamente eterodosso che, almeno dal 1552, fu guadagnato alla causa antitrinitaria. Si può ipotizzare che il giurista non partecipasse agli incontri veneti ma che ne fosse quantomeno al corrente. Di Niccolò Paruta è incerta la presenza. Secondo Firpo: “il richiamo ai collegia vicentina non può non apparire come una posteriore ricostruzione di un passato prestigioso in relazione a un personaggio di primo piano per la storia dell’antitrinitarismo”, giudizio che può estendersi a Bernardino Ochino e Lelio Sozzini. Confermata è invece la presenza di altri due ricordati dai sociniani, ovvero Giulio Gherlandi e Francesco della Sega, e Giacometto da Treviso. Confermata è la presenza di Girolamo Busale. Interessante è l’errore di Sand di chiamarlo Leonardo, e lo stesso errore fu compiuto da Biandrata. Questo rivela come sin dagli anni Sessanta su di una base veritiera si fosse sovrapposta una mitografia che aveva sempre più confuso la memoria relativa alle evoluzioni del radicalismo religioso italiano. Sebbene non vada sottovalutata la circostanza che in effetti Busale fosse spesso conosciuto come “l’abate”, tutto ciò sembra mostrare come i fili tra la prima e la seconda generazione di antitrinitari fossero ormai esili, individuabili in poche persone. Quindi, non è la partecipazione o meno a quegli incontri che fa la differenza rispetto alle evoluzioni del radicalismo religioso maturato in terra italiana. Non bisogna nemmeno eccedere nel sopravvalutare certe figure, come Lelio Sozzini, che non fu l’unico protagonista di un’evoluzione che fu invece plurale e collettiva, sintomo dell’esistenza di un vero e proprio movimento. 3. La setta e il movimento: due tendenze del radicalismo europeo Bisogna analizzare ora il perché del fallimento di questi radicalismi in Italia, non accontentandoci dell’azione dell’Inquisizione, seppur decisiva. I concili videro emergere spaccature profonde tra due concezioni diverse della fede. ®e Dubbio critico spinto fino a ritenere false le Scritture, l’antitrinitarismo, una vera e propria tendenza all’incredulità; VS ® Antique opinioni degli anabattisti La maggioranza degli aderenti alle antique opinioni erano persone incolte, sulle quali Busale potè avere gioco facile. Questo non spiega del Bon, dal Borgo o d’Alessandria, che invece erano colti: quindi, fu soprattutto decisiva l’abilità politica dimostrata da Busale che, dispiegando la sua strategia entrista, non diede peso alle differenze tra le concezioni sue e degli anabattisti, mostrando invece di accettarle e di portare una lettura più avanzata. Da ricordare è che Bruno Busale fu ribattezzato dallo stesso Tiziano. Busale alternò propaganda esplicita a simulazione e dissimulazione, come mostra il gradualismo a esporre tutte le idee radicali ai colloquia. Per comprendere la profonda divergenza tra valdesiani e anabattismo, occorre tornare a ripercorrere i momenti del processo di radicalizzazione di Villafranca, che si asteneva dall’evocare battesimo e ribattesimo. Villafranca demoliva sei sacramenti su sette, mentre subito orientava il discorso su altro piano. Silenzio non casuale: considerata la scarsa importanza riconosciuta dai valdesiani agli aspetti liturgici (al punto che si poteva assistere nicodemiticamente alla messa) è facile ricondurre tale disinteresse alla natura rituale del battesimo, e del ribattesimo. Alla messa era ammesso assistere, ma simulando e nel percorso di radicalizzazione si passava dal livello moderato (giustificazione per fede) a quello radicale proprio negando la messa. La stessa eucaristia era un rito, e anche in questo caso il percorso iniziatico orientava l’adepto alla sua critica. Valdès aveva evitato di soffermarsi sulla questione del battesimo (pare si faccia così), ma non si capisce perché il disinteresse non fosse tradotto da Villafranca in critica. Cruciale è quindi la testimonianza di Basalù, che aveva letto “contra anabattistas qualche carta”. È il modo in cui Giulio ne riportava il titolo a essere rivelatore, giacchè svela che in realtà nel processo di conversione al radicalismo valdesiano il silenzio sul battesimo era affiancato alla critica espressa contra anabattistas. DIFFERENZE CON ANABATTISTI Basta guardare la realtà storica: le ribellioni che insanguinarono l'Europa (guerra dei contadini e Munster) gettavano un’ombra di discredito totale su quel radicalismo estremo, il che condizionò anche i valdesiani, la cui raffinata e nicodemica religiosità era certo poco incline all’esaltazione profetica e alle tensioni rivoluzionarie. Gli esiti del confronto-scontro tra radicalismo antitrinitario e anabattistico che percorse l'Europa del Cinquecento suggeriscono quanto a indurre al disinteresse e alla critica di Villafranca non fosse solo il discredito che circondava gli anabattisti stessi. Erano molti dei principi stessi dell’anabattismo che si ponevano a notevole distanza da quelli perorati dal valdesianesimo. Sebbene di anabattismo al singolare non si possa a rigor di termini parlare, in effetti se ne possono identificare alcuni tratti comuni, come dimostrano testi come i sette articoli della Confessione di Schleitheim del 1527, contro i quali Calvino fondò il suo attacco contro la setta degli anabattisti. Sin dalle scaturigini dell’anabattismo era affiorata una frattura tra il rigorismo settario di questa tendenza e il ben diverso atteggiamento di quanti propendevano verso più fluide tendenze libertine, che ponevano l’accento su una libertà individuale irriducibile a qualsiasi Chiesa o setta, rispettando chi avesse idee diverse. Non è dunque un caso che gli incontri tra movimenti spiritualistici e sette anabattistiche che i dipanarono nell'Europa del Cinquecento offrirono ragioni di conflitto più che di compenetrazione. Col rito del battesimo agli adulti si segnava l’ingresso nella “vera Chiesa”, inculcando negli adepti inclinazioni settarie lontane dallo spiritualismo valdesiano, caratterizzato al contrario dal suo rifuggire ogni istituzionalizzazione ecclesiale, destinata di per sé a limitare gli ambiti di libertà interiore che insegnava a percorrere il valdesianesimo. Alla chiusura settaria degli anabattisti corrispondeva un esasperato biblicismo, il che approfondiva ulteriormente la distanza con la libertà critica e alumbrada dei valdesiani, per non parlare dello spregiudicato atteggiamento dei più radicali, che sostenevano la parziale falsificazione dei Vangeli. Questa divisone si nota nella posizione di Tiziano. L’individualismo dei valdesiani, inoltre, induceva a una stretta socialità coi compagni di fede, caratterizzata da un forte senso dell’aiuto reciproco derivante dall’accentuazione degli aspetti morali del cristianesimo, e in specie dell’amore e della carità. Proprio in quanto costituita da individui consapevoli di poterla pensare in modo diverso, tale socialità non si strutturava mai in Chiesa né in chiusura settaria. Sebbene non caratterizzati da condanna a morte, era presente la prassi del bando e della scomunica negli anabattisti: cosa non presente nei valdesiani. Anchetra gli stessi antitrinitari in fondo, nel momento in cui raggiunsero in Transilvania lo status di confessione ammessa, affiorò quella stessa intolleranza per sottrarsi alla quale avevano percorso le plaghe europee. La disputa non adorantistica spaccò il mondo della dissidenza antitrinitaria, con Giorgio Biandrata e Fausto Sozzini concordi nel condannare l’estremismo di Femec David, convinto che una volta negata la divinità di Cristo non gli si dovessero più rivolgere neppure le preghiere. Una convinzione che costò la condanna al carcere dell’eretico ungherese e ne causò la morte. Una tale intolleranza, connessa al processo di istituzionalizzazione tipico (pur in gradazioni diverse) sia di Chiese sia di sette, era incompatibile con qualsiasi forma di valdesianesimo, contraddistinto al contrario da un cosciente riconoscimento della libertà religiosa e ostile a ogni logica ecclesiale. Inoltre, la vita comunitaria rigorista e disciplinata che cercava di fare degli anabattisti una “comunità di santi” era troppo vicina al monachesimo per i valdesiani. Altra differenza: il rifiuto degli anabattisti di partecipare alla vita pubblica, basta ricordare il ruolo di Valdès come agente segreto, o di Capece a Napoli. Certo, gli incontri veneti mostrano un tentativo di intreccio, e indubbiamente erano presenti le basi per una discussione comune, come la concordia sui principi luterani ma anche la dottrina del sonno delle anime. Peraltro, la versione valdesiana del sonno delle anime era carica d’un predistinazionismo che sottendeva una vena materialistica, espressa nella mortalità delle anime dei non eletti: una variante che non risulta presente nelle concezioni anabattistiche di alcun tipo, e tanto meno in quella del Nord-Est. I punti di incontro erano insomma inferiori a quelli di scontro, e ciò lasciava presagire il fallimento del tentativo fatto da Busale e i suoi compagni. Alcuni hanno proposto di vedere l’Excuse aux nicodemites come rivolta solo al pubblico francese. Tuttavia, è arduo sostenere che il riformatore di Ginevra non sapesse nulla delle vicende dei dissidenti italiani e delle loro simulazioni e dissimulazioni. In nessun luogo il riformatore si riferiva esplicitamente alla Francia, mentre si indirizzava ai “paesi papisti”. Per quanto riguarda i valdesiani, importante è la circostanza che nel 1542 Ochino fosse giunto a Ginevra, dove si trovava negli anni di stampa dell’Excuse. Ochino nel proemio delle sue Prediche aveva inoltre fatto riferimento alla simulazione e dissimulazione. Calvino quindi, già dal 1542 disponeva di fonti dirette che testimoniavano quanto in Italia valdesiani come Ochino e Vermigli avessero simulato e dissimulato le loro opinioni. Si rafforza l’ipotesi che Calvino si riferisse anche ai valdesiani. Inoltre, in un passaggio aveva evocato i prothonotaires delicatz, in cui vari studiosi (anche Cantimori) avevano creduto di individuare il protonotario Carnesecchi. Ancora qualche dubbio su a chi davvero si riferisse. Nondimeno, proprio perché il suo intento era di dare ai destinatari qualche indizio che potesse esser compreso dai bersagli delle sue rampogne doveva pur fornirlo, e ciò sembra confermato dalla distinzione posta da Calvino tra la dissimulazione, che velando rivela (lecita per lui) e simulazione. Inoltre, Calvino sosteneva d’aver coniato il termine nicodemiti perché erano essi stessi che rivendicavano l'esempio di Nicodemo del vangelo di Giovanni. Ora, tra i rari autori che ne facevano riferimento, c’era Valdès. Non mancano, inoltre, altri richiami che tra le righe sembrano lasciar emergere il profilo di Valdès: al gradualismo, ad esempio. E come non pensare ai valdesiani, quando uno dei problemi avanzati da Calvino era quello di assistere simulando al rito della messa? In realtà, non c’è motivo per escludere dai nicodemiti calviniani i valdesiani, cosicché il nesso tra valdesianesimo e libertinage può fondarsi su un altro tassello. Si trattava dunque di correnti analoghe della dissidenza europea percorse da una comune attitudine individualistica al dubbio critico e alle libertà: di coscienza e di ricerca innanzi tutto, ma anche di espressione, di comportamento, di riunione, sebbene queste spesso si coprissero col manto della dissimulazione. Il tentativo di apparentare valdesiani radicali a quelli che Calvino definiva libertini risulta pertanto giustificato, e ciò permette di dare il giusto peso alle diverse analogie di idee che possono evidenziarsi tra le due tendenze. Un modo radicale di porsi del tutto simile a quello degli allievi di Villafranca. Così come omologhi a quelli dei valdesiani radicali sono comportamenti, attitudini, modi di pensare dei cosiddetti libertins spirituels, in relazione ai quali torna il tema di simulazione e dissimulazione. Secondo Calvino, poi, alcuni libertini avevano un atteggiamento di spregiudicata e libera ricerca, che corrisponde sia all’habitus mentale rivelato da Basalù sia al movimento valdesiano generale. Un libertinage de moeurs al quale si può affiancare la giustificazione del concubinato proposta dai radicali napoletani, e forse la stessa poligamia evocata da Ochino. Infine, Calvino spiegava che tra i libertini vi erano diversi gradi, secondo un gradualismo che riporta al valdesianesimo in tutte le sue sfumature. DIFFERENZE Se la posizione dei valdesiani radicali tendeva verso una forma estrema di antitrinitarismo, con tratti in comune con il deismo successivo, i libertini di Calvino tendevano al panteismo. Ma tale aspetto non va sopravvalutato perché è errato applicare al Cinquecento le distinzioni raffinate tra panteismo, deismo e antitrinitarismo tipiche di epoche seguenti. Comunque a una forma di panteismo tendeva Capece. Calvino inoltre lasciava affiorare un tema che caratterizzerà tutto l’antitrinitarismo: la possibilità di divinizzazione dell’uomo al pari di ciò che si riteneva fosse accaduto a Cristo. Occorre sottolineare come non si possano sovrapporre semplicemente libertini spirituali e valdesiani radicali come se fossero la stessa identica cosa. Tra le differenze, basta evocare che, al pari degli anabattisti, sembra che i libertini descritti da Calvino tendessero all’abolizione della proprietà e una forma comumistica di convivenza. Pur con questa avvertenza, le convergenza restano maggiori, ed è in questi valdesiani radicali spinti verso inquietudini libertine che possono trovarsi alcune radici di nuovi modi di concepire e praticare le libertà, che facendo perno sulla coscienza individuale scardinavano ogni autorità/organizzazione organicistica e comunitaria, contribuendo a dissodare il terreno per ilribaltamento che, tra 600 e 700, segnerà l'eclissi delle libertà come privilegi e alba delle libertà come diritti universali. Il caso di Capece mostra quanto potessero alimentarsi a vicenda radicalismo religioso e indagine spregiudicata della natura; quanto nell’intreccio libertino tra Riforma radicale e Rinascimento materialistico potessero affiorare nuove concezioni che ribaltavano non solo gli assunti della fede, ma anche punti essenziali della visione del mondo e del cosmo tramandata dal Medioevo di matrice aristotelico-scolastica. Il De princiipis rerum mostra come anche la conoscenza del pensiero classico potesse giocare un ruolo negli esiti più radicali del valdesianesimo. Ma suggerisce pure di leggere il rapporto tra umanisti ed eretici come momento del più generale passaggio dall’indagine religiosa a quella filosofica e scientifica, che fu uno dei fattori decisivi del processo di disincantamento del mondo vissuto dalla cultura occidentale. L’identificazione in una stessa figura quale Capece della ricerca su piani che oggi appaiono tanto differenziati rimanda ad altri protagonisti della cultura meridionale, come Giordano Bruno e Tommaso Campanella. In effetti uomini come Servet, Bruno e Campanella, grandi innovatori sul piano della cultura filosofica e scientifica e al contempo radicali nelle scelte religiose, sembrano svelare un nesso; ma basta osservare il caso di Capece per vedere degli intrecci. Basta pensare al rilievo riconosciuto all'esperienza, fondamento del valdesianesimo e al centro della filosofia di Capece come di tutta la più avanzata cultura napoletana in età modema: per quanto sia persino ovvio che l’esperienza cui si riferiva Valdès, relativa alla fede e legata al principio dell’illuminazione spirituale, non possa sovrapporsi al criterio dell’esperienza con la quale indagare la natura, non deve neanche caricarsi la gnoseologia e l’epistemologia di uomini del cinquecento delle distinzioni di chi vive secoli dopo la rivoluzione scientifica. Sembra difficile che a quel tempo nella mente di uno stesso uomo che scriveva sia di fede che di scienza potesse crearsi una dissociazione netta tra l'indagine religiosa e quella filosofico-scientifica. È probabile che nell’habitus mentale di Capece i due tipi di ricerca si alimentassero l’un l’altro, in un processo di sempre più spinta radicalizzazione. Sul piano religioso egli aderì allo spregiudicato sperimentalismo del radicalismo valdesiano, e sul piano scientifico fondò la sua indagine sull’uso non meno ardito di una ragione ritenuta imprescindibile dai casi esperienziali. Proprio questo aspetto invita a considerare in modo più sfumato le differenze tra indagine religiosa e indagine scientifica e mostra come in uno stesso individuo ispirazioni diverse potessero favorire l'emergere di più avanzate sintesi. Il metodo adottato nel De princiipis rerum esprimeva la consapevolezza dell’importanza dell’investigazione empirica, congiunta all'elaborazione razionale nei processi di conoscenza dei fatti naturali. Tutte le critiche erano condotte da Capece alternando digressioni teoriche a casistiche empiristiche. Quando parlava di un evento inconsueto, Scipione non solo non esitava a darne una spiegazione razionale e naturale, ma criticava il terrore popolare che ne elaborava letture irrazionali, in un’argomentazione che ha del pari un sapore libertino e illuministico. La cultura umanistica napoletana del resto si era aperta precocemente ai temi di carattere naturalistico. Il De princiipis rerum e più in generale il caso di Capece, insomma, svela ulteriori aspetti di quel retroterra culturale di natura critica e umanistica che, a contatto con l’individualismo sperimentale del valdesianesimo, contribuì alla sua radicalizzazione, preparando il clima dal quale fiorirà la stagione del più matura naturalismo meridionale (Telesio, Bruno, Campanella). Con personalità come Capece, pertanto, già dalla prima metà del secolo iniziò anche a Napoli quell’eversivo slittamento culturale, caratteristico della cultura europea, che portò personalità irregolari come Servet a legare le indagini sulla religione a quella sula natura iuxta propria principia. Del resto, una volta accolta la critica alla divinità di Cristo e lasciata sullo sfondo la religione come discorso etico, nel passaggio dalla fede e dalla grazia dei valdesiani moderati al Cristo Homo da bene di quelli radicali diveniva agevole il passaggio da Cristo alla natura. In conclusione, occorre quindi sottolineare come nel mondo della dissidenza radicale d’ispirazione valdesiana si coagulassero elementi di diversa provenienza, che favorirono l'emersione di nuovi modi di intendere e praticare le libertà, non solo nel campo religioso ma anche in ambiti come quello delle ricerche sulla natura: elementi prodromici a quel successivo e accidentato percorso che porterà, tra il Seicento e Settecento, all’emergere delle teorie e dei linguaggi dei diritti.
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