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Ernst Cassirer - Filosofia delle forme simboliche, III, 1., Sintesi del corso di Filosofia Teoretica

Riassunto del celebre e difficile testo di Cassirer, tomo 3.1.

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015

Caricato il 15/09/2015

alexandaer
alexandaer 🇮🇹

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Scarica Ernst Cassirer - Filosofia delle forme simboliche, III, 1. e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia Teoretica solo su Docsity! Ernst Cassirer Filosofia delle Forme Simboliche III 1 Introduzione. I. Sembra che dietro alle forme simboliche – linguaggio, mito, arte – si nascondi e si manifesti la realtà, colta nella natura particolare di queste forme: sempre si risveglia l’impulso del sapere, di scoprire la statua di Sais e vedere dinanzi a sé la verità nuda e senza veli. La metafisica ha posto l’essere come unico e semplice in quanto la verità è una e semplice. L’en to sofon di Eraclito esorta a cercare dietro la molteplicità dei sensi l’unica luce non rifratta della conoscenza pura. Spinoza: ci dev’essere un punto in cui la verità e la realtà si rivelano. Ci dev’essere corrispondenza tra pensiero e realtà: il pensiero non si deve limitare a cogliere ed esprimere il reale sub specie tramite le categorie simboliche. La sensazione non è più significativa o simbolica, non è un semplice segno dell’essere, ma contiene l’essere stesso immediatamente (da qui l’equazione metafisica berkeleyana). Rimane l’esigenza di cogliere uno strato primitivo della realtà in cui questa si manifesta indipendentemente da ogni significato, da ogni parola, per arrivare là dove regna la semplice esistenza dell’impressione sensibile, al di là di ogni illusione di vero e di falso. Dove regna quest’illusione regna il simbolico, lo “stare per”, il rappresentare, regna il giudizio. Kant. La filosofia delle forme simboliche non volge il suo sguardo semplicemente alla concezione esatta e puramente scientifica del mondo, ma a tutte le direzioni della comprensione del mondo. Non una manifestazione del mondo, ma le manifestazioni del mondo. Comprendere implica una libera attività dello spirito, dalla sua attività formatrice, che ha delle leggi con diverse direzioni. II. La nascita della filosofia è segnata da una separazione della conoscenza scientifica della natura dal mito e dal linguaggio tramite una crisi del pensiero. Gli ionici sono dei fusiològoi, uniscono la fusis al logos, anche quando nei pitagorici il logos è indipendente in quanto ente numerico. D’altra parte il numero viene scoperto solo quando viene tratto fuori dal campo del numero mitico-magico. Stessa lotta deve essere fatta al linguaggio dalla conoscenza scientifica. D’altra parte il pensiero greco stesso intende la realtà sensibile come una realtà linguistica, un insieme di nomi. “Nome è tutto ciò che i mortali hanno stabilito, credendo che fosse verità” dice Parmenide. Il concetto scientifico della natura, il logos filosofico, emerge con una lotta al logos apparente del linguaggio, per cui Democrito, laddove Parmenide aveva indicato la natura nell’essere puramente logico e pensato, indica la natura non nel cerchio apparente delle denominazioni o delle sensazioni, ma negli atomi e nello spazio vuoto. Galileo va avanti e distingue tra qualità primarie e secondarie, dicendo che ciò che riferiamo a un corpo come sue proprietà sensibili altro non sono che nomi con cui indichiamo il rapporto dell’oggetto sull’organismo che percepisce. L’intero mondo della fisica d’altra parte, da Hertz in poi, si basa su una radicale teoria simbolica per cui le conseguenze logiche dei simboli corrispondono a ciò che è osservabile nell’esperienza: la fisica è un mondo di puri simboli. Si noti il contrasto con Galileo: Galileo dice che bisogna superare il simbolo, la qualità soggettiva, per arrivare a ciò che è oggettivo, non arbitrario. Ora il concetto di simbolo diventa il centro di tutta la gnoseologia della fisica. Il giudizio della fisica non è una semplice constatazione di una molteplicità di singoli fatti osservabili, ma esprime un rapporto tra concetti astratti e simbolici. Fatto sta che tali concetti non si colgono con una sensazione immediata, ma tramite un processo intellettuale di interpretazione complesso. Lo hiatus tra il fatto e il simbolo è ormai deciso: la “teoria del rispecchiamento” viene lasciata indietro. III. Il vero elemento semplice di ogni realtà non lo possiamo mai trovare nelle cose, ma deve potersi trovare nella nostra coscienza. La massima berkeleyana è una critica al linguaggio, all’astrazione che rinchiude nel campo di ciò che è semplicemente mediato. Essa non può diventare un organo della metafisica è perché la metafisica è dottrina dell’immediato. L’immediato può essere raggiunto solo quando si respinge la magia della forma concettuale. L’esperienza pura, che è l’unica fonte della conoscenza della realtà, non può essere cercata se non nelle percezioni primitive: la sensazione soltanto è reale, la materia è invece semplice nome. Sì, perché la materia non è data da una percezione singola ma da un’idea generale che non ha modello nelle cose e si risolve solo nella generalità di una parola. La base primitiva di ogni realtà è stata definitivamente abbandonata con la logica scolastica e con la scienza, che sono il trionfo del linguaggio, laddove esso deve venire meno per ogni forma di conoscenza vera. Mach dice che il suo vero intento è eliminare le linee di separazione tra esperienza interna ed esterna, tra psicologia e fisica. E fa ciò affermando che il mondo fisico e quello psichico sono costruiti con una sola e medesima materia fondamentale. Col rifarsi alla base originaria della sensazione si lascia dietro tutto ciò che è simbolico e mediato. Di fronte alla sensazione il suo appartenere alla realtà interna o esterna perde valore. Così facendo la spiegazione metafisica del mondo lascia il posto alla pura descrizione di esso. Ma Goethe già dice che riconoscere ogni fatto è già teoria. Ora ciò che Mach dice è che se non ci si rifà agli elementi semplici, ai dati primitivi delle esperienze sensibili nessun sapere della vita psichica può essere acquisito: il sapere non è possesso di un tutto ma costruzione di esso mediante dati di fatto semplici, tramite analisi, sintesi, separazione, riunificazione. Ci si aspetta quindi almeno che Mach tratti l’elemento semplice della sensazione alla stregua dell’elemento semplice che è l’atomo: invece Mach non si stanca di combattere il concetto di atomo tanato da sottovalutarne il valore per la fisica e ogni scienza oggettiva della natura. E tuttavia è chiaro che nel campo dell’accadere psichico non s’incontra mai la sensazione semplice come fatto reale. La totalità delle formazioni psichiche non si lascia scomporre in modo da far emergere un sostrato amorfo: se si mettesse a nudo tale sostrato lo stesso atto di mettere a nudo farebbe perdergli significato, in modo da far perdere la realtà psichica in toto. Per Mach non sussiste dubbio non solo per ciò che riguarda la sensazione pura, ma anche sulla separazione dei contenuti elementari della coscienza in campi sensibili distinti tra di loro, e ciò fa parte del concetto di mondo. Il mondo, sensazione immediata, ci spezza in una pluralità di impressioni sensibili. Eppure se si considera il fenomeno della percezione nella sua purezza non presenta alcuna divisione simile: esso si presenta come un tutto indiviso, un’esperienza complessiva. La separazione nasce quando la percezione non viene considerata nel suo contenuto ma dal punto di vista concettuale, il che vuol dire un elemento di riflessione, di analisi. A ogni organo della percezione viene fatto corrispondere un contenuto percettivo (occhio-colore, orecchio-suono). Ma già che c’è spiegazione, si esula già dalla descrizione tanto cara al positivismo. IV. Capitolo I. Analisi soggettiva e analisi oggettiva. Qual è il rapporto del simbolo con la coscienza teoretica? Le basi sono cassiriane: la coscienza invece di volgersi immediatamente alla realtà stabilisce un sistema di segni e impara a usare questi segni come sostituti degli oggetti. L’essere diventa allora un tutto ordinato. Il pensiero raggiunge un modello sempre più perfetto dell’essere e della sua struttura teoretica. Invece di abbandonarsi alle singole cose, coglie un complesso di connessioni, gli si rivela un mondo di leggi. La ritirata nel mondo dei segni rappresenta la preparazione dell’operazione di sfondamento, con cui il pensiero conquista il mondo dell’idea. Ma già ci sono delle problematiche terminologiche. Il concetto di coscienza sembra essere “il vero Proteo della filosofia”: compare ovunque, non ha mai la stessa forma. Ogni disciplina lo rivendica per sé. La in cui il mito ci irretisce, riconoscendo quel mondo immaginativo come illusorio. Tale è il linguaggio, che è così invasivo che persino la scienza non può non riconoscerlo come base. E’ il mito di Prosperpina, per cui un morso nella melagrana lega le anime al regno delle ombre: così l'affacciarsi della luce della conoscenza teoretica non consente più il ritorno al mondo oscuro delle immagini mitiche. La base è comunque l’espressione, non la cosa. Piuttosto che la percezione delle cose, come correlato del mito, c’è la percezione delle espressioni. E’ quella forma di sapere che centralizza non tanto la realtà come insieme di oggetti ma di altri “soggetti”, l’anima altrui. Ricondurre la percezione del tu alla forma generale della percezione della cosa sembra essere sempre stato il vero compito. Ma non è nient’altro che un inganno di base. La base infatti non è tanto la percezione della cosa, ma la percezione dell’espressione. Il linguaggio allora invece di descrivere il movimento come tale, nomina e fissa nel linguaggio la situazione di cui il movimento è espressione (veemenza, non rapidità, perché il movimento è prima vissuto come fenomeno psichico, non è immediatamente giudicato dall’intelletto in vista dell’oggettività). Il pensare di produrre certezza, non di mostrarla è ubris intellettuale. E come esiste una conoscenza dell’oggetto, esiste anche una conoscenza del soggetto, dell’io estraneo. Come l’oggetto della natura si costituisce propriamente solo nell’idea delle leggi della natura, così la conoscenza del soggetto si basa sul principio di causalità. Per Dilthey la chiave di tutto è un ragionamento per analogia: la fede nel mondo esterno, che noi non conosciamo la realtà di altri soggetti, lo affermiamo in modo indiretto per inferenza. Il ragionamento è debole però: se possiamo parlare di uguaglianza di cause ed effetti non si può parlare di uguaglianza di effetti e cause. E questo non costringe ad arrivare al solipsismo. Tuttavia la possibilità del tu e della sua realtà non è una realtà originaria, ma una realtà presa a prestito, per cui l’individuo psichico estraneo è “creato da me in base a me stesso” (Lipps), in base a un processo di rispecchiamento. Ma che cosa ci assicura che questo io estraneo ottenuto in base a una nostra proiezione non sia una “fata morgana” psicologica? Esso è un essere ibrido. Il punto di partenza è la percezione di un essere che cogliamo come fisico. Il rischio è per l’appunto ridurre tutto a un’apparenza o a un’intuizione estetica. Il punto sarebbe allora scoprire come l’essere fisico diventa essere psichico. L’analisi fenomenologica non deve però comportarsi così, non deve scoprire questo ma risalire fino al punto in cui in luogo della percezione delle cose vi è la pura percezione delle espressione, in cui l’esterno e l’interno sono la stessa cosa. Da quel punto, dall’espressione, bisogna vedere come a poco a poco i caratteri oggettivi divengono “note” oggettive. Questa non è interiorizzazione, ma esteriorizzazione: l’espressione diventa presentazione e poi significazione. Scheler lo dice chiaramente. Non si può sostituire il punto di vista fenomenologico con quello realistico: ciò che è possibile, che potrebbe essere, non può sostituire ciò che è fenomenologicamente reale. E tale realtà è formata da unità espressive, non da sensazioni. Tutto parte da un tutto indiviso, in cui realtà fisica e psichica non si distinguono, in cui non c’è intuizione né dell’una né dell’altra. Poi l’attività formatrice prende o la forma di una formazione delle impressioni come individuazione di un corpo esterno o di un soggetto, e fatto questo non si percepisce più un’unità, come l’unità del sorriso o del gesto minaccioso, che sono fenomeni espressivi. E Scheler, per indicare la differenza fenomenologica fra le due percezioni, parte da una diversità della loro “funzione simbolica”, come Cassirer, per cui la realtà non è determinata solo dalla materia, ma in ogni atto che la pone, in cui interviene una formazione simbolica. La forma espressiva scende di grado ma non viene eliminata ne passaggio dal mito all’estetica e alla conoscenza teoretico-scientifica. Paradosso è in Scheler perché l’esperienza del tu preceda quella dell’io. Nel mito stesso la scoperta dell’io avviene dal momento in cui l’io riceve il dato mitico, affermando così la totalità della coscienza senza che essa abbia nulla da opporre, senza che essa possa cambiare nulla. La scoperta dell’io non è il punto di partenza dal quale poi si arriva la realtà: è il punto di arrivo di un processo in cui tutte le energie fondamentali si manifestano e si compenetrano vicendevolmente. Capitolo III. La funzione espressiva e il problema dei rapporti fra anima e corpo. Il concetto di simbolo è per Cassirer un concetto ampio. In esso rientra il complesso dei fenomeni in cui si presenta una qualsiasi “realizzazione significativa” del sensibile, in cui l’elemento sensibile, il suo esser-così, si manifesta e incarna un significato. Si pone una differenziazione (la conoscenza si differenzia in se stessa, en diaferomenon eauto) dal momento in cui la coscienza dell’immediatezza della vita passa nella forma dello spirito, e ciò che prima era un’unità concreta comincia a dividersi, a dispiegarsi in una differenziazione analitica. L’essere ora generato non può, però, essere pensato come semplice: l’anima e il corpo sono due poli, ma sono legati. Come? Il problema sussiste e Cassirer giudica vane le imprese tanto della metafisica quanto della fisiologia e della psicologia. Fatto sta che se esiste un’unità ontica essa non è né intesa dalla fisiologia né dalla psicologia in quanto meta-fisica e meta-psichica, uno “strato profondo irrazionale dell’essenza psicofisica” (Hartmann). Esiste insomma un hiatus irrationalis che non può essere chiuso da alcuno sforzo del pensiero. Ma, dice Hartmann, il parallelismo dei fenomeni dell’anima e del corpo sarebbe il manifestarsi di una radice comune. Esiste insomma, una terza realtà di cui non si dà coscienza immediata. In questa terza realtà si comincia o finisce, non nella realtà psichica né in quella del corpo. Oltre l’occasionalismo, oltre l’identità spinoziana e l’armonia leibniziana, la questione è posta a cominciare dal fenomeno. La questione è in seno all’esperienza, perciò suscettibile del rapporto di casualità. Il rapporto in questione è trans-causale. La metafisica ha invece trattato il rapporto anima-corpo come un normale rapporto causa-effetto, andando incontro a difficoltà inestricabili. Come dice Klages se si applicasse un tale rapporto si vedrebbe solo che le due parti sono già separate, tutto qui. Né il corpo esercita azioni su l’anima né viceversa, per Klages. Il rapporto anima-corpo è il primo esempio e modella di relazione simbolica che il pensiero non riduce a rapporto causale o rapporto di cose. Non sono cose giustapposte nello spazio, successe nel tempo, derivate le une dall’altre. Anima e corpo non sembrano nemmeno distinguersi. Tutto il mondo è pervaso di una forza magica che può essere pensata tanto come spirituale che come materiale, presente ovunque, persino nell’immateriale. La dualità di elementi diventa dualità di campi, il mondo esteriore e interiore. Il corpo non è più espressione dell’anima, esso nasconde l’anima come un “solido involucro”. La natura della relazione prevede che si vada al di là di essa, se si considera la funzione espressiva non come momento isolato ma come elemento di una superiore totalità spirituale. Parte seconda. Il problema della rappresentazione e la struttura del mondo intuitivo. Capitolo I. Il concetto e il problema della rappresentazione (oltre la pura espressione). Riassumendo: il fenomeno singolo viene divinizzato nel mito nella sua immediatezza, facendo sì che qualsiasi cosa si incontri sia la divinità; solo il linguaggio conferisce permanenza e durata (il nome della divinità). L’immagine si innalza sopra se stessa è diventa rappresentazione, cogliendo il dio nella sua presenza immediata (non ne è mera riproduzione, ma è il dio medesimo) e tuttavia non esaurendo tutto il suo essere (è una manifestazione particolare del dio). Per ciò che riguarda l’immagine inizialmente il piano immaginativo non si distingue mai dal piano causale (la scimmia e il ritratto di Federico il Grande). Ma ovunque il contenuto sensibile è preso come contenuto simbolico si raggiunge un livello di conoscenza nuovo, una nuova epoca. Per Herder si ha il momento della “riflessione” non appena l’incerto sogno delle immagini che passano attraverso i sensi perviene a un momento di veglia, per cui un’immagine si ferma e può essere considerata tranquillamente (è l’intuizione del bambino degli oggetti che ora hanno contorno e qualità), ponendo delle note che permettano in quanto segni di riconoscere il contenuto quando esso si ripresenta. Solo quando si concentra simbolicamente tutto un fenomeno allora esso emerge dalla corrente del divenire. Si noti quanto sia denso il significato del “ritrovare”, che contiene in sé quell’identità di concetti e significati costanti di cose e proprietà che si ritrovano. E’ falso inoltre domandarsi se il mondo intuitivo sia anteriore o posteriore al linguaggio, perché non si nota un prima o un dopo ma l’intimo nesso che esiste fra le due direzioni dello spirito, come due rami che derivano “dalla stessa radice spirituale” (e ciò ribadisce quando detto sul nesso psicofisico). Tutto sta quindi (linguaggio) nel porre segni, nel determinare tratti singoli e proprietà permanenti, oltre il divenire, costanti, identici a se stessi, che possono essere considerate come sensibili ma che di fatto, in quanto poste, sono puri atti d’astrazione. Qui sta il germe di qualsiasi concettualizzazione. Quando l’hic et nunc viene detto questo vi è già l’elemento riflessivo di Herder. E non ci si ferma qua. Il linguaggio non si accontenta di unificare il diverso ma vuole riunire gli elementi posti in una totalità più vasta. Capitolo II. Cosa e proprietà. Il linguaggio si presenta all’uomo come un “primitivo miracolo” sotto il dominio di una “logica arcaica” per cui non si analizzano ancora le leggi indipendenti del pensiero puro ma si fa coincidere pensiero e linguaggio. E il linguaggio crea la ragione. Ancora non si nota che esistono forme di pensiero concettuale libere dal linguaggio che costituiscono un “regno indipendente di significato teoretico” e non si nota che il linguaggio non si esaurisce con la logica. Il linguaggio pervade già la concezione e l’elaborazione intuitiva del mondo (il passaggio di Cassirer alla “rappresentazione”, che non è mera “presentazione”, sussistenza). Esiste insomma un rapporto profondo dell’uomo con la parola che va ben oltre l’ambito logico- discorsivo. Non è un caso che riguardo alla “fame di nomi” del fanciullo, insaziabile, si parla di una vera e propria mania. Perché tale fame è in definitiva una fame di forme (il nome è il veicolo diretto che porta alla conoscenza della cosa, al ti esti del fanciullo; possedere il nome significa possedere l’oggetto). È vero tuttavia che nel bambino non esistono nomi che designino oggetti permanenti, ma che indichino impressioni vaghe, ancora fluide. Ma dove nasce l’atto teoretico? Se ogni oggetto teoreticamente conosciuto si offre soltanto come forma impressa, come si può dedurre teoreticamente l’atto dell’imprimere come tale? Cassirer sta passando dall’atto di cogliere il tu a quello di percepire l’esso, sta andando oltre l’espressione. Entrambi non li deduciamo, ma li possediamo direttamente. Da ciò diventa possibile la pura teoria, la comprensione di situazioni oggettive. Siamo sempre di fronte alla rappresentazione, non più un semplice materiale di sensazione che solo in un secondo momento venga reso presentazione di qualcosa di oggettivo e così interpretato. Un esempio di questo è il colore, per cui spesso si considera il colore come sensazione, visione contro cui Hering protesta dicendo che il colore non ci è dato come stato, come modificazione dell’io, ma come proprietà, per cui non si percepisce in esso né uno stato dell’io né una qualità della luce, ma esso è un mezzo per volgersi verso strutture oggettive. Fatto sta che ci sono due modi di vedere: uno è quello della mera ricezione, l’altro è quello che vede il mondo intuitivo (es: sensazioni luminose uguali hanno significati diversi). Il colore come percezione di luce sembra essere messo in secondo piano rispetto all’oggetto in sé. In conclusione esso non è un contenuto che si trovi in uno spazio oggettivo ma è il sostrato da cui viene raggiunta e costruita la rappresentazione della realtà oggettiva, delle cose nello spazio. All’oggetto costante viene attribuito un colore costante come proprietà permanente e tutti i fenomeni cromatici hanno soltanto il significato di rappresentarci questa proprietà. Capitolo III. Lo spazio.
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