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Erwin Panofsky (1892-1968) Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Dispense di Storia Dell'arte

Sintesi della formazione e del pensiero di Erwin Panofsky e del suo maestro Aby Warburg e riassunto molto dettagliato del suo saggio "Idea. Contributo alla storia dell'estetica"

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 12/07/2019

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Scarica Erwin Panofsky (1892-1968) Idea. Contributo alla storia dell’estetica e più Dispense in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! Erwin Panofsky (1892-1968) Idea. Contributo alla storia dell’estetica Con i barbari alle porte Erwin Panofsky tra Amburgo e Princeton, di Maurizio Ghelardi: E. Panofsky è nato ad Hannover il 30 marzo 1892 da una famiglia agiata di tradizione ebraica e dal 1900 al 1910 ha compiuto i suoi primi studia Berlino, frequentando il prestigioso Joachimsthalsches Gymnasium. La solida formazione di stampo classico segnerà in modo indelebile la sua biografia intellettuale tanto da costituire quel cosmo di valori etici destinati a durare in eterno (di fronte ai barbari ad portas). [Collaboratore dell’Istituto Warbug ad Ambutrgo e docente dell’Università dal 1921 al 1933. I suoi primi saggi sono: Das Problems des Stils in der bildenden Kunst (1915, Il problema dello stile nelle arti figurative) e Der Bergriff des Kunstwollen (1920, Il concetto di Kunstwollen) entrambi pubblicati sulla rivista di estetica “Zeitschrift für Aesthetik und allgemeine Kunstwissenschaft”. Ne Il problema dello stile Panofsky discute le tesi sostenute da H. Wölfflin. All’asserzione di Wölfflin che le caratteristiche formali dell’opera dipendono essenzialmente dalle possibilità del vedere del periodo a cui l’artista appartiene, Panofsky controbatte che la visione è un processo fisiologico immutabile nel corso della storia. Ciò che varia, al contrario, è l’interpretazione di ciò che si vede. Lo stile, dunque, si forma sull’interpretazione delle impressioni visive fisiologiche. Per Wölfflin sono due le radici dello stile artistico: una formale e l’altra psicologica. Dalla prima scaturisce il formalismo riferito al modo di vedere e di raffigurare diana determinata epoca, sicché, per esempio, il passaggio dal XVI al XVII può essere compreso come una evoluzione dal lineare al pittorico, dalla macchia alla profondità. Dalla seconda emerge il contenuto espressivo, che si manifesta nei prodotti di un’epoca, di un popolo o di una singola personalità. Secondo Panofsky è impossibile però concepire una “modalità della visione” che sia libera da ogni significato psicologico, vale a dire che l’occhio umano possa interpretare i dati amorfi della percezione secondo uno schema formale. Ne consegue che il processo di costituzione di una forma è invece riconducibile sempre a un atteggiamento culturale, e non, come pensa Wölfflin, a un duplice procedimento. Panofsky passa poi a studiare il concetto riegliano di Kunstwollen (intenzione artistica) di cui dà un’interpretazione fenomenologica: il Kunstwollen non va spiegato in senso psicologistico (la volontà dell’artista) né in senso sociologico (la volontà di un’intera collettività) ma nel senso che l’opera porta in se stessa; senso che si identifica con il fenomeno opera d’arte; è il suo significato. Il pensiero giovanile di Panofsky è rigorosamente neokantiano. Alla definizione dell’arte in termini esclusivamente formalisti sostenuta da Wölfflin e Riegl, Panofsky contrappone una visione originale, in cui l’arte visiva è concepita come linguaggio le cui forme espressive sono cariche di significato. La necessità di non dissociare la forma dal contenuto nello studio delle arti figurative è hegeliana. Panofsky mutuò da Hegel non l’atteggiamento di quest’ultimo verso l’opera d’arte (atteggiamento formalista), ma il suo impegno per una comprensione storica che trae origine dallo studio di contesti significativi. Max Dessoir (1867-1947) è animatore, in questo periodo, di un movimento rivolto a studiare l’estetica: l’Allgemeine Kunstwissenschaft (Scienza generale dell’arte). Fonda anche nel 1906 la rivista citata sulla quale Panofsky pubblica i suoi primi saggi. Questo movimento vuole dare un fondamento scientifico all’arte, fondamento storico-spirituale (che dà cioè valore all’individuo e ai sistemi di relazione intersoggettivi). Sostiene, inoltre, che la scienza dell’arte non si identifica con l’aspetto estetico, ma va ricercata nelle questioni genetiche e storiche delle forme e dei suoi sistemi transoggettivi e interrogativi. La nuova scienza dell’arte si occupa quindi degli aspetti sociali, etici, psicologici e culturali dell’arte e degli artisti. L’attività del periodo panofskiano di Amburgo ha inizio con un saggio sulla teoria delle proporzioni del corpo umano: Die Entwicklung der Proportionslehere als Abbild der Stilenwicklung, La storia della teoria delle proporzioni come riflesso della storia degli stili, nel 1921. Prosegue con la 1 pubblicazione di altri due saggi fondamentali: Idea nel 1924 e Die Perspektive als “symbolische Form” nel 1927. Panofsky analizza storicamente, attraverso le testimonianze letterarie, l’uso di questo sistema dal mondo egizio a quello classico, da quello medievale a quello rinascimentale e dimostra che tale teoria proporzionale (tecnica adottata dagli artisti per rappresentare la realtà, in particolare la figura umana e le sue relazioni con lo spazio circostante) che utilizza un canone un’unità base di misura, muta nel corso dei secoli a seconda della diversa cultura degli artisti e del loro modo di porsi di fronte la realtà. E’ un riflesso del Kunstwollen e della sua evoluzione. Ne La prospettiva come forma simbolica Panofsky dimostra che gli artisti rappresentano la spazialità secondo la concezione e l’idea che possiedono di questa e del mondo. In altri termini sostiene che non sia corretto pensare che esista un’evoluzione, in termini scientifici, del sistema di rappresentazione prospettico-spaziale ma, al contrario, sostiene che questa sia un a priori della conoscenza, una forma simbolica di una concezione elaborata dalla cultura del periodo in cui essa emerge. E partendo da questo Panofsky dimostra che non esiste una vera contrapposizione tra spazialità antica e spazialità rinascimentale. Idea. Ein Beitrag zur Begriffgeschichte der älteren Kunsttheorie è un profilo della storia e del significato del concetto dell’idea del bello dall’antichità classica sino al Seicento. Il saggio prende le mosse sauna conferenza di Cassirer sull’idea del bello nei dialoghi platonici e ne sviluppa le interpretazioni successive, dal Medioevo fino al Manierismo. Nei saggi panofskiani del periodo di Amburgo si sommano le influenze della tradizione storiografica viennese a quelle più specifiche di Ernst Cassirer (1874-1945). Per mettere a fuoco il rapporto tra immagine (stile) e cultura del tempo, Panofsky dà largo spazio ai testi di letteratura artistica o filosofica contemporanea, che permettono di cogliere gli orientamenti dell’arte e dell’estetica; ed in questa operazione lo soccorre il pensiero di Cassirer: le sue prime opere lo vedono attento interprete neokantiano, rivolto allo studio della teoria di Einstein e della poesia. Trasferitosi ad Amburgo qui pubblicò alcuni dei suoi saggi fondamentali: Die Philosophie der Symbolischen Formen (La filosofia delle forme simboliche); Individuum und Cosmos in der Philosophie der Renaissance (Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento). Al centro del pensiero di Cassirer è il simbolo: la realtà si estrinseca attraverso forme simboliche. Il simbolo non serve solo allo scopo di comunicare un contenuto spirituale già bello e pronto, ma è lo strumento in virtù del quale questo contenuto si costituisce e acquista la sua compiuta determinatezza. Cassirer e Panofsky furono colleghi all’università di Amburgo e al Warburg Institute degli inizi degli anni Venti. La teoria di Panofsky sulla storia dell’arte rispecchiò subito ciò che egli aveva imparato da Cassirer. Ma mentre Cassirer pensava di collocare ogni attività simbolica all’interno di un più ampio contesto culturale, Panofsky prevedeva di riferire gli sviluppi dell’arte all’interno della Weltanschauung (visione del mondo) culturale di un periodo storico preciso. Del 1939 sono i celebri Studies in Iconology, pubblicati negli Stati Uniti (Princeton, negli Stati Uniti dal 1933): metodo iconologico. 1) Livello preiconografico: identificazione delle forme pure di un’immagine e nella capacità di coglierne le qualità espressive (accompagnato da una corretta conoscenza della storia dello stile delle forme), 2) Analisi iconografica: identificazione dei temi raffigurati nell’immagine (accompagnata da un’adeguata conoscenza delle fonti letterarie e della cosiddetta “storia dei tipi”, cioè dei modi in cui i temi e i concetti sono stati espressi in diverse condizioni storiche 3) Interpretazione iconologica: cogliere il significato intrinseco dell’opera (che si raggiunge attraverso uno studio attento delle condizioni storico culturali che conducono alla scelta del tema presente nell’opera dandole un preciso significato). In tutte le sue indagini esemplari Panofsky porta l’immenso patrimonio delle sue conoscenze e della sua vasta sconfinata erudizione unitamente al convincimento che l’opera d’arte ha nei secoli una funzione pratica come veicolo primario di comunicazione.] Nel 1953, in occasione della terza conferenza dell’Associazione laureati dell’Università di Princeton, dove fu incaricato di tenere il discorso di apertura, Panofsky intitolò quest’ultimo In 2 A partire dal 1939 Panofsky sembra preoccupato di codificare l’iconologia come disciplina autonoma, piuttosto che di delineare (come aveva fatto nel 1932) il contesto e i modi attraverso quieta giunto a elaborare la sua concezione del rapporto fra opera d’arte e interpretazione. 1924, nella collana «Studien der Bibliothek Warburg», pubblicò Idea. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie. [Studi universitari a partire dal 1911 alla Facoltà di Diritto di Friburgo in Brisgovia. Si accosta agli studi storico-artistici su consiglio di Kurt Badt che lo condusse a sentire le lezioni di Wilhelm Vöge. Con quest’ultimo conseguì il dottorato nel 1914 con una tesi sul valore della teoria dell’arte di A. Dürer, conseguendo il premio Hermann Grimm. Nel 1915 l’editore G. Reimer di Berlino pubblica la sua Promotion col titolo: Dürers Kunsttheorie vornehmlich in ihrem Verhältnis zur Kunsttheorie der Italiener (La teoria artistica di Dürer principalmente nel suo rapporto con la teoria artistica degli italiani). Si specializza in seguito con Adolph Goldschmidt a Berlino. Dopo aver evitato il servizio militare e la partecipazione alla prima guerra mondiale per una caduta da cavallo, nel 1915 va ad Amburgo per seguire un seminario di Storia dell’arte di Aby Warburg. Tema del seminario: L’idealismo anticheggiante nella pittura del primo Rinascimento italiano. Qui sarà docente di Storia dell’Arte dal 1926 al 1933, in stretto contatto con la Biblioteca Warburg. Si trasferisce poi nel 1933 negli Stati Uniti, prima a Princeton e poi a New York. Da quell’anno inizia a pubblicare in lingua inglese e nel 1935 ottenne il dottorato honoris causa all’Università di Utrecht. A Princeton lavora all?Institute for Advanced Studies sino al 1962. Da quell’anno fino alla morte insegna alla New York University. Ritorna in Germania nel 1967.] E. Cassirer diventa frequentatore abituale della Biblioteca di Warburg e uno dei suoi principali consiglieri scientifici grazie al sodalizio intellettuale che ha stretto con Warburg. [Alla cerchia dei rapporti tra F. Saxl, Warburg e Cassirer va ricondotta la genesi del saggio di Panofsky sulla prospettiva come forma simbolica, nonché gli interessi verso l’iconologia, di cui Warburg aveva parlato nel 1912 nella sua celebre relazione sul significato degli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara. Panofsky si rivolge in questi anni a un vero e proprio corpo a corpo con le questioni che Wölfflin, Riegl e Cassirer avevano sollevato, questioni che costituivano il termine di paragone obbligatorio per quanti cercavano allora di affrontare il rapporto tra logica della cultura, rappresentazione e interpretazione]. Già nel 1920, ancor prima di essersi confrontato a fondo con le idee di Cassirer, Panofsky sostiene dunque che esiste una relazione interna nell’opera figurativa, e che essa esprime una unità di senso attraverso tre funzioni fondamentali: fenomenica, di senso o significato e documentaria. Il valore di una creazione artistica, il suo carattere più o meno emblematico dipende insomma «dalla quantità di energia della concezione del mondo che è stata introdotta nella materia plasmata e da quello che di essa si irradia sulla spettatore». Esempio di Melencolia I di Dürer: l’artista aveva qui raffigurato una melencolia fisica, geometrica e storica in quanto forza costitutiva e allo stesso tempo conseguenza di quell’impulso volto a svelare i principi e le leggi della scienza moderna. Esprimendo così la sua condizione di artista, Dürer era giunto così per Panofsky a raffigurare la condizione moderna dell’individuo. Il senso, la funzione simbolica di questa opera si rivelava dunque non come riflesso generico dolore cosmico, ma grazie alla sua pregnanza simbolica. Panofsky delinea in tal modo i tre livelli di senso su cui si deve disporre l’indagine artistica. Parallelamente a questo Panofsky cerca di sciogliere quella che ritiene essere l’esigenza unitaria ineludibile del Kunstwollen (dal quale sembra emergere un residuo di platonismo, giacché è necessario presupporre la circolarità del volere artistico e rivelarne i momenti «in quanto documenti del senso unitario della concezione del mondo contenuta in un’opera». Muovendo da Riegl, Panofsky di dispone ad accogliere il presupposto di quella che da lì a poco sarà appunto l’interpretazione della filosofia platonica di Cassirer, ove l’idea (eidos), cioè la forma, rappresenta l’espressione del contenuto semantico del logos. Se nel confronto con Riegl, Panofsky tematica dunque l’esistenza di una coerenza interna, di 5 una unità di senso nell’opera d’arte in quando riflesso del carattere eidetico del Kunstwollen (ovvero che concerne l'attività conoscitiva sul piano logico intellettuale; termine caratteristico della fenomenologia di Husserl in cui si contrappone a empirico, relativo a dati di fatto; che concerne la facoltà mnemonica fondata sulla percezione visiva), è l’opera di Cassirer a confermargli che in un’opera d’arte l’elemento espressivo risulta oggettivato grazie a un rafforzamento della sua complessità simbolica. E’ proprio a questo complesso argomentativo è riconducibile il saggio del 1924: Idea. Ein Beitrag pur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie: Idea. Un contributo alla storia concettuale della teoria dell'arte più antica (Contributo alla storia dell’estetica): Idea è un piccolo libro diviso quasi equamente tra testo da una parte e note e appendici dall’altra e ha per oggetto la TEORIA ARTISTICA DA PLATONE AL XVII SECOLO. Muovendo da un’indagine sistematica sui canoni e principi d’autorità classico-rinascimentali - la prospettiva, le proporzioni, l’idea - Panofsky ripercorre qui la vicenda delle diverse risposte date all’eterna questione del tra soggetto e oggetto dell’opera d’arte. Sulla scorta di un imponente apparato documentario. egli mostra come l’iconoclastia platonica lasci imposto alla valorizzazione medievale dell’immagine quale specchio della Bellezza divina, e come il Rinascimento colmi la frattura tra realtà e invenzione con regole di composizione e prospettiva. Tra Manierismo e Classicismo, poi, torna a imporsi l’individualità dell’artista, che infonde nelle propria creazione quell’IDEA destinata a dare ordine e senso a un mondo oggettivo di per sé, privo di armonia: il suo intervento “purifica” la natura distillandola in opera. Secondo la formula di Panofsky, «l’arte ha sempre avuto il valore di una sorta di ponte gettato sull’abisso che separa la realtà dall’idea». 
 Panofsky sviluppa qui dal punto di vista della storia delle idee la conferenza che Cassirer aveva pubblicato nel secondo volume dei «Vorträge der Bibliothek Warburg» con il titolo Eidos und Eidolon. Das Problem des Schönen und der Kunst in Platons Dialogen (Il problema della bellezza e dell'arte nei Dialoghi di Platone). Cassirer aveva richiamato la svalutazione platonica dell’arte sottolineando che la separazione tra mondo ideale e mondo sensibile non va a escludere di per sé un punto in cui i due aspetti si presuppongo, visto che per esprimere il carattere puro delle forme ideali Platone ricorreva all’immagine e al linguaggio, al condizionamento per comunicare l’incondizionato. L’Idea è dunque espressione del contenuto semantico che il logos del linguaggio e l’attività figurativa «conferiscono progressivamente a quel mondo della percezione che sii libra in una oscillate apparenza». Cassirer conclude che Platone aveva condannato non le arti ma gli artisti, dato che nei dialoghi della tarda maturità aveva riconosciuto che la mediazione dell’immagine sensibile non poteva essere ripudiata in quanto strumento espressivo dell’uomo. Proprio tale tensione tra Eidos e Eidolon chiarisce perché, a partire da Plotino, si fosse affermata una rivalutazione dell’arte come attività spirituale formativa. [Eidos (εἶδος) è una parola greca che significa "forma", "aspetto" dalla quale deriva anche il greco "εἴδωλον" (éidõlon) poi, in italiano, "idolo" col valore anche di "simulacro", "figura". Il termine divenne significativo nella filosofia greca quando Platone la usò per fare riferimento alle sue idee o forme ideali nella sua teoria delle idee. L'Eidos è la natura interna della cosa: è il relativo nucleo interno ed invisibile; l'Eidos è ciò che causa ad una cosa quel che è, cosa è, e senza la quale perde significato. Platone pensava che le essenze fossero dei modelli o idee. Queste idee esistono separatamente dal mondo terreno ed hanno caratteristiche molto differenti; sono eterne, perfette e immutabili. Il concetto di Eidos in 6 Platone viene introdotto per spiegare come mai l'uomo sia in grado di chiamare con lo stesso nome (nome comune) gli oggetti nonostante essi siano tutti differenti tra loro. Non esistono ad esempio due cavalli perfettamente identici eppure noi riconosciamo in essi una somiglianza con qualcosa di indefinito, di generico che però non esiste in natura. Platone ipotizza che tali oggetti ideali siano stati da noi conosciuti in passato, prima di venire al mondo, e la reminiscenza di questi si è parzialmente conservata nel mondo terreno permettendoci di riconoscere gli oggetti empirici come copie imperfette di quelli ideali. La dottrina della reminiscenza sarà poi un argomento che Platone userà per sostenere l'immortalità dell’anima. Edmund Husserl riteneva che l'Eidos fosse una struttura invariante degli oggetti dell'esperienza. Cioè quell'insieme di caratteristiche che rendono l'oggetto quello che è e senza le quali non è più possibile pensarlo o chiamarlo con lo stesso nome. Tale essenza degli oggetti non è da intendersi in senso platonico ma precisamente fenomenologico: l'essenza si dà interamente nell'esperienza e anzi la capacità di individuare queste strutture invarianti (o eidetiche) costituisce la condizione di possibilità della denominazione di oggetti e concetti, e quindi del linguaggio stesso. È possibile ad esempio pensare ad un corpo privo di colore o di peso, ma non è possibile pensarlo privo di estensione. L'estensione sarà quindi una componente della struttura eidetica del concetto di corpo. Husserl applica il metodo della variazione eidetica − cioè della ricerca delle strutture invarianti − a tutta la sua indagine fenomenologica dell’esperienza.] Idea muove dunque dalle conclusioni cui era giunto Cassirer ripercorrendo nella prima parte le vicende della dottrina platonica dal mondo antico fino a Plotino. Significativa è la conclusione iniziale: «Se dunque la polemica platonica attribuisce alle arti la colpa di imprigionare l’intimo sguardo dell’uomo nell’ambito delle immagini sensibili, cioè di precluderli addirittura la visione del mondo delle idee, la difesa di Plotino le condanna al tragico destino di spingere questo sguardo interiore sempre più lontano […] aprendogli uno spiraglio verso il mondo delle Idee, ma anche velandoglielo al tempo stesso» Un iniziale progresso nella risoluzione di questo problema che sembra non avere via di uscita prende corpo nel Medioevo, cui Panofsky dedica la seconda parte del saggio. Qui le filosofie di Agostino e Tommaso indicano emblematicamente lungo quali direttrici si evolve la teorie delle IDEE: «Per la concezione medievale l’opera d’arte non nasce mediante un adattamento, un accordo, tra l’uomo e la natura […] bensì mediante la proiezione d’una immagine interiore nella materia - immagine interiore che, se non può essere addirittura contraddistinta dal concetto di “Idea” divenuto ormai espressione teologica - può ben essere eguagliata al contenuto di esso». Un passo ulteriore è rappresentato dal Rinascimento, ove, parallelamente al concetto di imitazione, si fa largo quello di superamento della natura. Accanto alle esaltazioni di fedeltà alla natura troviamo infatti una esortazione parimenti energica a eleggere tra le molteplicità degli oggetti naturali quanto vi è di più bello e a evitare la difformità specie riguardo alle proporzioni e, in particolare con Alberti, a cercare al di là della verità naturale la rappresentazione del Bello. La concezione artistica del Rinascimento si contrappone dunque a quella medievale, giacché sottrae l’oggetto al mondo interiore del soggetto assegnandogli un “mondo esteriore” solidamente definito e al tempo stesso strabilendo una “ distanza che rende obiettivo l’oggetto e impersona il soggetto”. Ma con ciò non si rende immediatamente acuta e manifesta la relazione tra Io e Mondo, tra materia e capacita formativa, tra soggetto e oggetto. Anzi, accade l’opposto poiché la teoria estetica sorta nel XV secolo consegue scopi eminentemente pratici e non speculativi, mira cioè a legittimare l’arte nel tempo come ere autentica dell’Antichità greco-romana ponendola fra le artes liberales. Ma 7 partenza è il celebre libro di Wölfflin Kunstgeschichtliche Grundbegriffe (1915). Muovendo dal Kunstwollen Panofsky indica quali sono le condizioni della percezione visiva connesse alle arti figurative e all’architettura, ma soprattutto cerca di fornire un’ultima e definita risposta alla questione dell’origine e del senso nella rappresentazione artistica. Secondo Panofsky le interpetazioni si pongono infatti sempre al di là della semplice descrizione formale. Prima della luce, del colore, del buio e delle ombre, noi scorgiamo in un dipinto popoli, cose, luoghi che sono illuminati, colorati e ombreggiati, sicché gli elementi formali dell’arte non rappresentano mai i costituenti espressivi primi dell’immagine, ma il veicolo grazie al quale le immagini si presentano in un certo modo. Una immagine si presenta cioè come una percezione mediata, e noi non possiamo semplicemente intercettare un’opera d’arte descrivendo il suo soggetto apparente poiché la rappresentazione è sempre trasmessa grazie a uno stile specifico di pensieroso che a sua volta deve essere analizzato. Il compito dell’interprete non consiste dunque nel collocare l’opera d’arte all’interno di uno stile determinato, ma nell’analizzare che cosa in un dipinto tradisce la disposizione della luce e della oscurità, il modella mento delle superfici, perfino il modo in cui la mano dell’artista ha guidato gli strumenti. Con accenti kantiani Panofsky afferma che le categorie profonde dello stile non sono semplicemente formali, ma spaziali, o meglio spazio-temporali, analogamente alla sintesi primaria che costituisce il nostro mondo. L’interpretazione propone dunque qualcosa di non detto, poiché ogni interpretazione violala superficie formale, statica, apparentemente immediata, irrompendo nella complessa rete di significati che costituiscono il tessuto vitale di un dipinto. L’esperienza vissuta dell’Io (Erlebnis: Termine di grande diffusione nella psicologia, nella filosofia e in genere nelle scienze umane in Germania dagli inizi del Novecento, adottato per affermare una concezione attiva, dinamica della vita della coscienza, contro le sue riduzioni positivistiche a semplice processo fisiologico, meccanico, associativo. Reso in italiano con l’espressione «esperienza vissuta» o «vivente», indica l’aspetto personale, unitario per cui i contenuti della coscienza non sono recepiti in modo passivo, ma colti in modo vivo nel fluire della coscienza) e la sua espressione in forme lineari e/o coloristiche non possono essere riconducibili solo al modo in cui le immagini sono state trasmesse. [Visto però che l’interpretazione usa violenza alla pure espressione e al significato apparente, dato che fora entrambi a rivelare ciò che essi non dicono, la violenza interpretativa deve risultare sempre mediata dall’untà di senso insita nell’opera. In sostanza: si tratta di un idealismo critico che mira a individuare una sorta di grammatica e di sintassi dello spirito umano, così come esso si esprime attraverso le immagini. Nel 1932 Panofsky chiamerà questo procedimento interpretazione iconologia. Essa cerca di dar conto «del senso unitario della concezione del mondo contenuta in un’opera», volgendosi nella direzione di una storia generale dello spirito, giacché mostra come, nel corso dello sviluppo storio, l’espressione individuale sia stata oggettivata attraverso un rafforzamento delle complessità simbolica, che a sua volta, si è riempita di contenuti di determinate convenzioni del mondo. Con ciò la questione del significato, dell’unità di senso nelle arti visive - non il problema del significato delle arti visive - sembra ormai definitivamente incanalata e metabolizzata già prima che Panofsky sia costretto a tradurla in un’altra lingua e, (a detta di Ghelardi, forse anche a impoverirla fino a renderla quasi una scolastica). 10 Nella prefazione alla seconda edizione, quando Erwin Panofsky vive nel New Jersey da quasi tre decenni, l’autore si rivolge al lettore chiedendo di maneggiare con cautela “questo saggio antico“, apparso per la prima volta in Germania nel 1924 col titolo Idea. Ein Beitrag zur Begriffsgeschichte der älteren Kunsttheorie. Il tono apologetico cela l’amarezza per non aver aggiornato il testo alla luce dei contributi più recenti del dibattito fra oggetto e soggetto nella storia della teoria artistica. Poco più che trentenne, Panofsky era alla ricerca di una weltanschauung che fosse anche visione delle cose. E in cui il concetto di Kunstwollen -elaborato da Alois Riegl e applicabile alla produzione artistica- lo portasse a cogliere nelle immagini una unità di senso intrinseca atta ad accogliere e allo stesso tempo rivelare una concezione del mondo. Le immagini sensibili, condannate da una lettura monolitica e superficiale delle teorie platoniche, possono essere conciliate con l’Eidos, come aveva dimostrato Ernst Cassirer nella conferenza Eidos und Eidolon del 1922-23. Dunque, idea e immagini come oggetto d’indagine, dove l’anello di congiunzione fra mondo sensibile e mondo spirituale nelle teorie artistiche rivela l’eterna dialettica fra soggetto e oggetto dell’arte. Ecco che gli aneddotti, tramandati ben oltre l’epoca rinascimentale. Come quello del greco Zeusi, il quale avrebbe copiato le parti piu belle di cinque vergini di Crotone per raffigurare Elena di Troia, che conduce Panofsky a individuare la contraddizione di fondo sulla questione dell’arte e della bellezza: da un lato, l’inferiorità dell’arte nei confronti della natura come corrispettivo nel mondo sensibile de l logos, e in seguito -per i teologi medievali- come espressione terrena del Dio cristiano; dall’altro, la superiorità dell’arte nei confronti della natura, investita da una forma ideale o dalla sensibilità individuale, che corregge i difetti della materia. Quella ferinitas contrapposta qualche anno dopo al concetto di humanitas nella magnifica introduzione a Il significato delle arti visive. Una contraddizione fra realtà e invenzione, talento e regola, parzialmente risolta soltanto nel Rinascimento di Leon Battista Alberti e Raffaello, in cui i princìpi di electio e imitatio convivono per leggittimare la pratica artistica coeva. Ma sarà soltanto dopo il Manierismo, con le teorie soggettivistiche di uno Zuccari che propugna “l’ingegno sciolto“ degli artisti o di un Lomazzo che si concede anche all’astrologia, che l’eterna tensione fra soggetto e oggetto dell’arte trova una sistemazione teorica coerente nell’estetica classicistica ante litteram di Giovan Pietro Bellori, quasi un secolo prima della grande stagione di Winckelmann. L’ultimo capitolo del testo, corredato dalla splendida introduzione di Maurizio Ghelardi, peraltro privo di illustrazioni come nell’edizione originale, è dedicato alle inevitabili figure di Michelangelo e Albrecht Dürer. PREFAZIONE ALL’EDIZIONE ORIGINALE, Amburgo, marzo 1924: Il presente saggio sta in stretta relazione con un discorso tenuto dal Professor Cassirer alla Biblioteca Warburg: Die Idee des Schönen in Platos Dialogen (L’Idea del bello nei Dialoghi di Platone) che apparirà nel secondo volume dei Vorträge der Bibliothek Warburg (Conferenze della Biblioteca Warburg). Nella nostra indagine verrà illustrato lo sviluppo storico di quella concezione il cui valore sistematico fu chiarito nella conferenza del Professor Cassirer. Era nel proposito mio (Panofsky) e di Cassirer che questa connessione si manifestasse anche esteriormente, ma il presente studio, specie per l’aggiunta di note che presero lo sviluppo di piccole digressioni e per gli estratti di fonti indispensabili al nostro assunto, è divento troppo esteso per trovar luogo tra le Conferenze della Biblioteca Warburg. [La Repubblica (dialogo) (in greco antico: Πολιτεία, Politéia) è un'opera filosofica in forma di dialogo, scritta approssimativamente tra il 390 e il 360 a.C. dal filosofo greco Platone, la quale ha avuto enorme influenza nel pensiero occidentale. Tutto ruota intorno al tema della giustizia, sebbene 11 il testo contenga anche una moltitudine di altre teorie platoniche, come il mito allegorico della caverna, la dottrina delle idee, la concezione della filosofia come dialettica, una versione della teoria dell'anima differente rispetto a quella già trattata nel Fedone e il progetto di una città ideale, governata in base a principi filosofici. Quest'ultima è l'esempio più celebre di quelle teorie politiche che col passare dei secoli prenderanno il nome di utopie. Scritta in forma dialogica, La Repubblica riguarda ciò che viene detto φιλοσοφία περὶ τὰ ἀνθρώπινα ("filosofia delle cose umane"), e coinvolge argomenti e discipline come l'ontologia, la gnoseologia, la filosofia politica, il collettivismo, il sessismo, l'economia, l'etica medica e l'etica in generale. La Repubblica si presenta come un'opera organica, enciclopedica e circolare, concernente, più in generale, il rapporto tra universale e particolare. L'opera è strutturata in dieci libri e ha per protagonista Socrate, ma un Socrate che, come molti studiosi hanno ben visto, è decisamente diverso da quello degli altri dialoghi, e che in più punti va modificandosi, a poco a poco, in un processo di katábasis, indicato nella frase iniziale del dialogo: «Ieri scesi al Pireo...». Questo processo di purificazione porta Socrate ad abbracciare a poco a poco delle tesi che non sono sue, bensì appaiono di natura piuttosto platonica, e legate soprattutto al momento storico che Platone viveva dopo la guerra del Peloponneso: la presa della città ad opera di Crizia, il quale instaurò il governo dei Trenta Tiranni, e la condanna a morte del maestro Socrate. Vediamo quindi il vecchio filosofo esporre teorie che vanno dalla parità dei sessi, alla condivisione delle proprietà private, alla scomparsa della famiglia, e all'obbligo, per coloro che fossero destinati a essere i phylakes ("guardiani") a non avere nessun guadagno dal loro lavoro ed essere mantenuti a spese dei cittadini. Il titolo originale dell'opera è la parola greca πολιτεία. La Repubblica, che è la traduzione tradizionale del titolo, è un po' fuorviante, derivata dal latino, e in particolare da Cicerone. Una traduzione più precisa potrebbe essere La Costituzione. La Repubblica risale al periodo cosiddetto della maturità di Platone, e l'interpretazione tradizionale la considera come un nuovo tentativo di dare una risposta soddisfacente alle obiezioni avanzate in precedenza da Callicle nel Gorgia, secondo cui la virtù e le leggi della polis sono un trucco escogitato da una massa di deboli per irretire la brama di potere degli individui migliori, pochi di numero ma portati per natura a governare. A questo proposito, si noti la vicinanza tra le tesi di Callicle e quelle di Trasimaco nel Libro I. Il dialogo si svolge tra Socrate e vari suoi amici, tra cui alcuni familiari di Platone (anche se l'autore non figurerà mai nel dialogo, compariranno Glaucone e Adimanto, suoi fratelli maggiori). Il dialogo si apre con il racconto di Socrate il quale, mentre torna in compagnia di Glaucone dalle celebrazioni per la dea Bendis, si imbatte lungo la strada in Polemarco, Adimanto e nei loro amici, i quali invitano i due a recarsi a casa di Cefalo e Polemarco per partecipare ai festeggiamenti previsti per la serata.[6] È quindi in casa di Cefalo e Polemarco che ha luogo la lunga discussione narrata nella Repubblica, in cui Socrate dialoga dapprima con Cefalo e Polemarco (i padroni di casa), poi deve vedersela con Trasimaco, e infine, dal Libro II al X, discute con Glaucone e Adimanto. Dal punto di vista del contenuto, nel dialogo si possono individuare due blocchi connessi tra di loro: i Libri I-V e i Libri VIII-IX sono di carattere etico- politico e trattano il tema della giustizia, mentre il blocco che va dalla seconda metà del Libro V ai Libri VI-VII tratta di argomenti più squisitamente filosofici. Il Libro X, infine, che riprende i temi dell'educazione e dell'arte, e narra il celebre mito di Er, sembrerebbe avere una funzione di appendice. Infine, Platone fa chiarire al suo maestro il ruolo dell'arte: Socrate ne esprime un giudizio negativo in quanto, dal punto di vista metafisico, è l'imitazione del mondo sensibile, che già di per sé è l'imitazione del mondo delle idee e, sul piano gnoseologico, rispecchia il mondo dell'opinione; dunque il filosofo non può far altro che denigrarla. Platone non condanna solamente le forme artistiche figurative, ma si dichiara apertamente contrario anche alle rappresentazioni teatrali; in particolar modo al genere della tragedia. Il filosofo ellenico 12 immagini. Per quanto riguarda, invece, il piano gnoseologico bisogna considerare i tre tipi di «soggetti» (artefici) capaci di conoscere i tre tipi di entità. Sia il Demiurgo sia gli artigiani possiedono un certo tipo di sapere: quello del Demiurgo è un sapere perfetto, in quanto egli è la causa stessa e origine delle idee; il sapere dell’artigiano, pur essendo un sapere imperfetto, è comunque classificabile come sapere; chi produce immagini, ossia copia gli oggetti fisici, non possiede una conoscenza degna di questo nome. Da questa premessa si sviluppano, poi, due tesi: innanzitutto le immagini non sono oggetti genuini; in secondo luogo, sia i soggetti che producono sia gli oggetti che vengono prodotti ingannano necessariamente e, questo, non poiché i «produttori di immagini» sono animati da cattiva volontà, ma è in virtù dell’«ontologia» degli oggetti da essi realizzati che ciò avviene. Il motivo di ciò va ricercato all’interno della teoria della conoscenza e della psicologia esposte sia nella Repubblica sia in altri Dialoghi; il punto centrale risiede nel fatto che l’attività dell’imitare si basa unicamente sulla capacità di accedere mediante i sensi alle immagini presenti in natura. Nella Repubblica l’«argomento gnoseologico» su cui viene sviluppata la condanna alle arti imitative è esposto alla fine del VI libro, dove Platone inferisce la cosiddetta «teoria della linea», che a sua volta introduce il «mito della caverna», ossia la condizione dell’uomo raccontata attraverso il mùthos. Socrate chiede al suo interlocutore di paragonare la natura umana a ciò che avviene «dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna»; gli chiede inoltre di «vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover stare fermi e da poter vedere soltanto avanti, incapaci, a causa della catena di volgere attorno il capo». Dietro questi uomini, che hanno lo sguardo rivolto alla parete della caverna, arde un fuoco, e tra essi e il fuoco scorre un muro, dietro il quale passano altri uomini che «portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figura di pietra e legno in qualunque modo lavorate». Essendo legati e costretti a guardare verso la parete, l’unica forma di conoscenza a loro possibile è quella che ha per oggetto immagini sbiadite, ossia «le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna». Se però fosse loro consentito liberarsi, alzarsi e uscire dalla caverna potrebbero vedere dapprima gli oggetti che proiettano le ombre al di là del «muricciolo» e poi, via via, la luce del sole, gli oggetti da esso resi visibili ed infine il sole stesso. Il mito platonico qui riportato può essere definito come una vera e propria metafora della vita umana e, in particolare, come l’immagine dell’ascesa dell’anima al mondo intelligibile. Infatti Platone imposta la sua teoria soffermandosi sull’esistenza di una piena corrispondenza tra grado e perfezione di essere degli oggetti conoscibili e grado o perfezione della conoscenza che li riguarda: è, in altri termini, la corrispondenza tra ontologia e gnoseologia. Platone innanzitutto distingue due grandi classi: gli oggetti sensibili e gli oggetti afferrabili soltanto con l’intelletto. Il primo dominio è suddivisibile in altre due sezioni: quella delle ombre o delle immagini generate dalla proiezioni su superfici riflettenti di oggetti sensibili (acqua, specchi…); e quella degli oggetti sensibili veri e propri (pietre, piante, animali…). Seguendo la corrispondenza gnoseologica, a questi due ambiti corrispondono due gradi inferiori di conoscenza, ossia rispettivamente, l’eikasia (percezione delle immagini) e la pistis (la credenza, che coglie gli oggetti che a tali immagini danno luogo). Sempre sul piano gnoseologico, questi due tipi di conoscenza costituiscono il dominio dell’opinione (doxa), la quale è instabile e fluttuante come i suoi oggetti. La seconda classe, ossia quella degli oggetti che si possono cogliere solo attraverso l’uso dell’intelletto, è anch’essa suddivisibile in due sezioni: le entità matematiche e le idee. Di nuovo, sul piano gnoseologico, le prime vengono colte dalla dianoia (conoscenza che procede mediante ragionamenti), le seconde dalle noesis (conoscenza intellettuale vera e propria delle idee). In questo caso, diversamente dalle cose sensibili, i due gradi della conoscenza degli oggetti intelligibili costituiscono l’episteme, ossia la conoscenza, il cui accesso è reso possibile dalla filosofia. Il punto essenziale di questa argomentazione è che se delle entità ideali e degli oggetti fisici possiamo avere 15 un certo tipo di conoscenza, per quanto concerne le immagini si può asserire che non possiamo averne alcuna. La ragione di ciò va ricercata nelle concezione platonica dell’aistesis (sensazione) che Platone distingue dalla doxa (opinione); Platone dimostra la veridicità della sua tesi confutando quella secondo cui la conoscenza consiste nel percepire le cose come sono con le loro caratteristiche. Egli, infatti, sostiene che se avere conoscenza significasse avere semplice «percezione» (aistesis), allora una medesima cosa apparirebbe diversa a seconda dal soggetto conoscente o a seconda delle possibili alterazioni degli organi di senso. Avere sensazione non significa né conoscere in modo perfetto né conoscere male; essa non è né giusta né sbagliata e, per tutti questi motivi, non può essere considerata conoscenza. Cosa ben diversa è, per Platone, la formulazione di giudizi. Innanzitutto, per il filosofo greco, ci sono delle caratteristiche del mondo che sono proprie degli oggetti fisici, e tra queste caratteristiche rientra la somiglianza. Essere simile è qualcosa che noi non percepiamo mai, poiché la somiglianza di per sé stessa non cade sotto i nostri sensi. Sicché noi diciamo che due cose sono simili anche quando esse sono visibilmente diverse; ciò è possibile attraverso l’utilizzo di un’ulteriore «facoltà», il giudizio. Il giudicare, secondo Platone, è un criterio minimo di conoscenza e dove vi è traccia di giudizio non è possibile parlare di conoscenza bensì di opinione. Nel Teeteto, Platone prosegue elencando due ulteriori caratteristiche dell’opinione: in primo luogo, le opinioni esprimono qualcosa che può essere suscettibile di verità e falsità ma, per poter essere considerate conoscenza, devono poter esprimere unicamente qualcosa di vero; in secondo luogo, un’opinione deve essere anche giustificata. Tale concezione è inoltre rintracciabile nello Ione, in cui la condanna delle arti imitative trova il suo fondamento proprio; in questo dialogo, Platone, nel confrontarsi con la poesia, si misura con il prestigio che la tradizione poetica aveva acquisito nella società a lui contemporanea e con il primato ad essa attribuito dalla sofistica. Protagora di Abdera, Gorgia da Lentini, Prodico di Ceo o Ippia di Elide, attivi già prima della nascita di Platone, si presentavano in veste di educatori e di maestri di sapienza, quest’ultima attinta dalla tradizione culturale di Omero. Al mondo della poesia e della tradizione, alla cultura orale formatasi grazie all’insegnamento e alla recitazione dei rapsodi, Platone oppone invece una nuova forma di sapere, la dialettica, che è la vera e propria essenza della ricerca filosofica. La dialettica impone l’obiettivo di condurre chi vi partecipa al di là del mondo sensibile in direzione del mondo delle idee, attraverso due momenti: innanzitutto attraverso la riconduzione del molteplice sensibile all’unità dell’idea (synagoghe); poi, attraverso la divisione dell’idea stessa nelle sue articolazioni interne (diairesis). Secondo Platone, la forma letteraria che più si addice alla filosofia è quella dialogica, in quanto essa rispecchia nel miglior modo possibile tale procedimento. Come è stato detto precedentemente, la concezione dell’opinione trova all’interno dello Ione una ulteriore legittimazione. Socrate, infatti, interroga il rapsodo (Ione) circa il fondamento delle sue conoscenze, ed egli si appella all’ispirazione divina, all’estasi, all’invasamento. Da questa risposta, Socrate elabora la sua condanna, sostenendo quanto segue: «tutti i bravi poeti epici non per capacità artistica ma in quanto ispirati e posseduti compongono tutti questi bei poemi, e la cosa vale anche per i bravi poeti melici; come i coribanti danzano solo quando sono fuori di senno, così anche i poeti melici compongono queste belle poesie solo quando sono fuori di senno. Ma una volta che siano entrati nella sfera dell'armonia e del ritmo, cadono in preda a furore bacchico e a invasamento, così come le baccanti che attingono miele e latte dai fiumi quando sono possedute, ma quando sono in sé non lo fanno; e l’anima dei poeti melici si comporta allo stesso modo,come appunto essi dicono. Infatti i poeti certo ci raccontano che, attingendo i loro versi da fontane di miele, da giardini e dalle valli boscose delle Muse, li portano a noi come le api, volando anche loro come esse, e dicono la verità, poiché il poeta è un essere etereo, alato e sacro e 16 non è capace di comporre prima di essere ispirato e fuori di sé e prima che non vi sia più in lui il senno». Il concetto di «ispirazione» poetica proveniente da dio ritorna nel Fedro, in cui Platone tenta di delineare un quadro sistematico delle forme di divina ispirazione, fra cui rientra anche la poesia. Si possono dunque trovare, all’interno di questo dialogo, quattro forme di «mania che proviene dagli dèi», ossia quella profetica, quella rituale-telestica, quella erotica e quella poetica. La poetica, in particolare, viene descritta come un tipo di «invasamento e di mania proveniente dalle Muse. Questa mania, dopo essersi impossessata di un' anima sensibile e pura, la risveglia suscitando in essa ispirazione bacchica per i canti e per gli altri generi di poesia e, attraverso la celebrazione di innumerevoli imprese degli antichi, educa i posteri. Invece, chiunque si presenti alle porte della poesia senza essere ispirato dalla mania delle Muse, convinto che gli basterà la tecnica per essere un bravo poeta, sarà un poeta mancato, perché la poesia di chi é in sé viene oscurata da quella di coloro che sono in preda a mania». Finora, ancorandoci a diverse fonti, abbiamo fatto prevalere la figura di un Platone che condanna e rifiuta nettamente e senza riserve l’opera degli imitatori, non cogliendo le proposte alternative alle forme di mimesis. All’interno del Sofista, Platone presenta la distinzione tra una mimesis icastica, che produce un’immagine fedele al proprio modello, e una mimesis dell’apparenza, che invece produce un tipo di immagine che si allontana al modello di riferimento. In questo caso, Platone ammette l’imitazione, ma solo nel momento in cui essa rimanga fedele al primato dell’Idea. In un altro dialogo dell’ultima fase, il Timeo, Platone ammette un tipo di imitazione che rispetta il primato del modello intelligibile. In quest’opera, Platone si occupa della creazione dell’uomo da parte di un Demiurgo, il quale dà vita al mondo sensibile tenendo lo sguardo rivolto al mondo delle idee in modo tale da creare il cosmo a immagine fedele dell’archetipo ideale. In questo caso, l’imitazione può assumere un duplice ruolo a seconda che rispetti o meno il primato dell’idea: da un lato, l’imitazione dà vita a un’immagine fedele ed è testimonianza del rapporto di partecipazione che lega il mondo delle idee a quello sensibile; dall’altro lato, l’imitazione produce un’immagine ingannevole che tralascia il riferimento all’idea, finendo per essere copia di una copia. Nonostante la presenza di alcuni passi in cui la condanna appare meno «aggressiva», in generale l’arte risulta essere la vittima, o meglio, il nemico contro cui Platone combatte al fine di estirpare dalla società tutti i possibili mali, proprio come, per riprendere la metafora della medicina più volta presente all’interno della Repubblica, un medico cerca di eliminare il morbo dal corpo malsano; l’obiettivo di Platone è quindi quello di realizzare uno Stato ideale in cui ogni singola parte segua l’ordine della filosofia e in cui gli individui vengano spogliati dal velo oscuro dell’illusione creato dalle arti imitative] 17 poiché si collocano (in rapporto con la verità) al terzo livello, il più basso della realtà (cioè quello delle cose imperfette che imitano le idee perfette). Un esempio di questo tipo di art deteriore (a detta di Platone) è l’Atena di Fidia il quale, ritenendo ottico e geometrico (quindi in accordo con i principi matematici platonici) il fatto che gli oggetti si rimpicciolissero ad una determinata altezza, ha dato alla sua statua proporzioni oggettivamente errate. In questo caso, la bellezza dell’opera in relazione al mutamento di prospettiva non è da considerarsi proprietà geometrica; inoltre, Platone predilige l’arte egiziana non solo perché si avvale di formule immutabili ma anche perché rifiutava la prospettiva. Il fine ultimo non è dunque l’artista ma il dialettico che comunica agli il mondo delle idee: l’arte ha il limite della rappresentazione mentre la filosofia, servendosi delle parole, riesce ad elevarsi e raggiungere la conoscenza → arte crea idoli vs filosofia crea conoscenza. La dottrina platonica delle idee viene ripresa nel XVI secolo da Melantone ma si allontana dal platonismo originario perché: 1. Non concepisce più le idee come entità metafisiche appartenenti all’Iperuranio ma le colloca anche al di fuori dell’intelletto: per lui sono rappresentazioni/apparizioni che hanno sede nello spirito umano; 2. Per i filosofi del tempo appare naturale che le idee si manifestino in maniera preferenziale nell’attività artistica → Inversione di tendenza: ora è il pittore (e non più il dialettico/ filosofo) a comunicare il mondo delle idee. Da ciò deriva che ora la teoria specifica dell’arte si interessa sempre più della dottrina delle idee e si pone quindi la domanda di come sia possibile che proprio quelle idee che per Platone sono causa del carattere deteriore dell’arte (perché l’arte non riesce a rappresentarle ma può solo copiarle), ora invece sono diventate un concetto specificatamente estetico. I, L’ANTICHITA’: Cicerone nell’Orator paragona l’oratore ad un IDEA metempirica (cioè a qualcosa che non può essere appreso o conosciuto empiricamente ovverosia attraverso l’esperienza sensibile) la quale può presentarsi soltanto al nostro spirito. In modo analogo paragona sempre un oratore all’oggetto della rappresentazione artistica, in quanto questo non può essere ravvisato con gli occhi in tutta la sua perfezione, ma vive solo come puro fantasma nell’anima dell’artista. Dall’Orator di Cicerone (46 a.C.): «Secondo me nulla vi è di, in nessun genere, di tanto bello quanto il suo originale. […] ma questo originale noi non possiamo percepire né con l’occhio né con l’orecchio né con alcun altro senso, ma solo mediante lo spirito e il pensiero. Perciò possiamo immaginare tal cosa…giacché quando l’artista creava lo Zeus o l’Atena non contemplava alcun uomo (reale) che potesse ritrarre, ma abitava il suo spirito una eccelsa forma di bellezza: questa egli contemplava dirigendo la mano e l’arte. Come dunque nelle arti figurative v’è qualcosa di compiuto e di eccellente alla cui forma ideale si riferiscono, nell’imitazione artistica, quelle cose che non cadono sotto il controllo dei sensi (ossia gli enti divini da ritrarre), allo stesso modo vediamo le forme della perfetta eloquenza solo con lo spirito, e con le orecchie ne abbiamo saltato una copia. Tali forme delle cose Platone (428-348 a.C.) le chiamava “Idee”: egli nega la loro temporalità e ne afferma il carattere eterno, poiché le ritiene fondate nella ragione e nel pensiero. Tutto il rimanente nasce e muore, si trasforma e passa, non rimanendo mai in un solo e medesimo stato». In questa rappresentazione della creazione artistica la dottrina platonica delle Idee viene di fatto a invalidare la concezione estetica di Platone: quindi l’artista non è né un imitatore dell’ingannevole mondo delle apparenze né condannato ad una vana fatica. Egli 20 reca invece nel suo spirito un sublime prototipo di Bellezza, su cui da vero creatore può fissare lo sguardo interiore. E seppure non possa trasferire nell’opera d’arte tutta la perfezione di quell’immagine interiore, contiene essa tuttavia una bellezza che è molto superiore alla mera copia di una “realtà” presentata solo attraverso gli ingannevoli sensi, come d’altronde è ben diversa dal puro riflesso di una “verità” che solo l’intelletto può riconoscere. Questa interpretazione del pensiero platonico si realizzò per la prima volta in Cicerone e fu stata possibile solo in base a due presupposti: che tanto il concetto dell’essenza dell’arte quanto quello dell’Idea fosse volto in senso addirittura contrario a quello originario di Platone. Pittori e scultori cominciarono a divenire sempre più persone privilegiate: la pittura viene collocata, secondo Plinio, nel novero delle arti libere, ossia degne di essere esercitate da cittadini liberi. Ma si raffina anche la sensibilità degli intenditori, comincia a fiorire la letteratura artistica, sorge la passione dei collezionisti…così il prestigio dell’opera d’arte aumentò. Secondo Platone le “arti mimetiche” dovevano, per amore della verità, essere bandite dal suo Stato; nell’introduzione invece di Filostrato si trovano parole che presenta una certa affinità con il noto detto di Leonardo da Vinci, ossia “Chi non am la pittura fa torto alla verità ed alla saggezza”. Questo dimostra che alla accresciuta valutazione esteriore dell’opera d’arte era collegata un’accresciuta valutazione interiore per cui questa - negata da Platone o ammessa soltanto a patto che essa sacrificasse ogni libertà e originalità - otteneva poi un sempre più universale riconoscimento della propria autonomia in rapporto alla realtà apparente ed imperfetta. Pensiero dell’antichità nei riguardi dell’arte (contraddittorio) : 1) inferiorità dell’arte rispetto la natura, imitata, nel migliore dei casi, sino alla perfetta illusione 2) superiorità dell’arte rispetto alla natura stessa, in quanto correggendo la deficienza dei singoli prodotti naturali liberamente le contrappone nuovi aspetti della Bellezza Riconoscimento che le opere di Policleto avevano dato alla figura umana “grazie superiore al vero”. Già Socrate (470-399 a. C.) ammette che la Pittura, quantunque di sua natura “rappresentazione delle cose visibili”, sia tuttavia autorizzata e anche costretta a riunire in una figura, perché questa possa apparire compiutamene bella, i più belli elementi scelti fra i diversi corpi (giacchè non è facile incontrare un individuo del tutto esente da imperfezioni). Esempio di Zeusi (ripetuto a sazietà all’epoca del Rinascimento): Aporia dell’Antichità Classica. Imitazione (mimesis) selettiva della natura. Viene dalla natura ma non ha un corrispettivo in essa. Mimesis + Bella natura (idealizzazione). Zeusi per rappresentare Elena aveva fatto chiamare le cinque vergini più belle della città di Crotone affinché copiasse da ciascuna ciò che aveva di più bello. [N. B. Coesistono concezioni di Bellezza in Winckelmann: quella che ha adoperato Zeusi (Bello di natura) e quella che proviene da un’immagine mentale dell’artista, come fosse un’idea di archetipo elaborata però dall’esperienza della natura (si cela Idea di Platone) a cui l’artista attinge. Diderot diceva che bisognava ritornare alle barbarie due Greci, i quali avevano raggiunto un Bello Ideale senza modelli, e ricominciare così il processo mentale da capo.] Lo stesso Platone (il nemico dell’arte!) aveva paragonato il prototipo dello Stato perfetto dai lui vagheggiato all’opera di un pittore che abbia inteso dare il paradigma d’un tipo umano di bellezza assoluta, e sia quindi da stimarsi artista sovrano. E ciò è avvalorato dal fatto che una così perfetta creatura non potrebbe mai esistere empiricamente. Così nel determinare il concetto di Mimesis non fu affatto estranea al pensiero dei greci più antichi l’opinione che l’artista stia di fronte alla natura non solamente come imitatore, ma anche 21 come un suo emulo indipendente che ne corregge le imperfezioni con la propria autonoma facoltà creatrice (non si limitano ad imitare la natura ma la correggono per raggiungere il Bello). Si determina così una tendenza ad elevarsi dal visibile all’intelligibile (di quanto cioè può essere compreso solo con l’intelletto) e si avanza perfino la convinzione che l’arte, nella sua forma più elevata, possa fare interamente a meno di modelli sensibili ed emanciparsi della percezioni del reale. Si è quindi giunti a quel punto in cui comincia a divenire comprensibile l’identificazione, compiuta da Cicerone, dell’Idea platonica con una di quelle “concezioni artistiche” insite nello spirito del pittore e dello scultore. Da un lato la critica estetica era riuscita ad elevare l’oggetto della rappresentazione dall’esteriore realtà sensibile alla sfera dell’interiore rappresentazione spirituale, dall’altro la filosofia mirava sempre più a trasportare il principio della conoscenza, l’Idea, dal rango di una sostanza a quello di puro concetto/pensiero. Aristotele: antitetico dualismo fra mondo ideale e mondo fenomenico (nel campo della filosofia della natura e dell’arte è il reciproco rapporto sintetico fra forma e materia). Ciò vale a dire che ciò che nasce dalla natura o dalla mano dell’uomo non si produce più come imitazione di una data Idea attraverso una determinata manifestazione, bensì nasce dall’immettersi d’una determinata forma in una determinata materia. Le opere d’arte si distinguono dai prodotti di natura perché la loro forma, prima di penetrare la materia, esiste nell’animo dell’uomo. Sotto l’influsso di questa definizione aristotelica si potè compiere senza sforzo l’identificazione della rappresentazione artistica con l’IDEA, tano più che Aristotele aveva lasciato il significato platonico di Eidos alla forma in generale e particolarmente a quella intima forma che vive nell’anima dell’artista e che plasma con la sua attività la materia. La formula di Cicerone costituisce un compromesso fra Aristotele e Platone, che però già anticipa il sorgere di una concezione estetica antiplatonica. Ma racchiude un suo problema: se quell’intima immagine che costituisce l’oggetto peculiare dell’opera d’arte altro no è che una rappresentazione vivente nello spirito dell’artista, una “cogitata species” (un aspetto pianificato), che cosa le garantisce quella perfezione affinché superi gli aspetti della realtà? E se al contrario essa possiede realmente quella perfezione, non dev’essere fondamentalmente diversa da una mera “cogitata species”? Due vie possibili: 1) o si nega l’Idea, identificata con la rappresentazione artistica, la sua assoluta perfezione: Seneca 2) oppure questa perfezione viene legittimata metafisicamente: Neoplatonismo Seneca ammette senza riverse la possibilità che l’artista, in luogo d’un oggetto naturale visibile, possa voler imitare una rappresentazione formatasi in lui stesso: che l’artista lavori secondo un modello reale o ideale, che il suo soggetto si presenti allo sguardo come un aspetto del reale o che invece abiti il suo spirito come fantasma interiore, non è per Seneca questione di valore, ma puramente questione di fatto. In accordo con Aristotele enumera le quattro “cause” dell’opera d’arte: la materia dalla quale esse sorge, l’artista, per mezzo del quale sorge, la forma, in cui essa sorge, e lo scopo, a motivo del quale sorge. A queste quattro cause Platone ne aggiunge ancora una quinta, il modello (esemplare) che egli chiama Idea (che sarebbe esattamente quello cui l’artista guarda per effettua l’opera propostasi). Inteso in tal senso il concetto di Idea artistica concorda fondamentalmente con quello dell’oggetto rappresentato in opposizione alla forma della rappresentazione ed anzi può essere senz’altro riferito al modello naturale. Ciò che l’artista trae dal modello ed impone all’opera d’arte è l’idos (forma). Uno il modello l’altra la forma, che è presa dal modello ed impressa all’opera. Il primo è imitato dall’artista, la seconda è da lui creata. Il sembiante (guardo un 22 Le Idee si erano dunque trasformate, nel corso di una evoluzione che fu portata a termine proprio da Agostino, dapprima nel contenuto di uno spirito creatore del mondo e finalmente nei pensieri di un Dio personale. Il loro significato originariamente filosofico- trascendentale si mutò dapprima in significato cosmologico (da Platone stesso) e poi teologico. [Non bisogna diventare che il concetto stesso di IDEA era stato all’inizio destinato a spiegare, o meglio a legittimare, gli atti dello spirito umano, ossia la possibilità di una conoscenza sicura genuina, di azione buone e morali] ➜ Dottrina delle Idee: da filosofia dell’umana ragione a logica del pensiero divino. Tre problemi: 1) se in Dio vi sono Idee o “immagini preesistenti” (Eckhart) delle cose create 2) se sono già di una ovvero una sola 3) se Dio possa riconoscere le cose solo attraverso le Idee La definizione aristotelica dell’IDEA (nel senso di una “forma interiore” non trascendente) era dal punto di vista cristiano non soddisfacente quanto quella platonica (intesa come essenza reale di per sé). E’ chiaro che in questa condizioni non era più il caso di parlare di un Idea artistica in senso proprio. Produrre le Idee è divenuto un privilegio dello spirito divino. Ma il rapporto fra lo spirito artistico e le sue rappresentazioni interiori, così come con le sue creazioni esteriori, ben può essere messo a parallelo con quello dell’intelletto divino rispetto alle Idee insite in esso ed al mondo da lui creato per modo che l’artista, sebbene non possegga l’Idea come tale, può tuttavia essere pensato in possesso di una “quasi-Idea”. Concezioni estetiche della Scolastica (il termine con il quale comunemente si definisce la filosofia cristiana medioevale, in cui si sviluppò quella scuola di pensiero detta anche scolasticismo. Dal greco scholastikos, che significa letteralmente "educato in una scuola", “istruito”, la filosofia scolastica cercava di conciliare la fede cristiana con un sistema di pensiero razionale, specialmente quello della filosofia greca. Il "periodo scolastico" si riferisce soprattutto al medio e Basso Medioevo in Occidente, quando il Cristianesimo conosce una rinascita intellettuale ed è sfidato dal pensiero razionale dell'Islam): Tommaso d’Aquino riprese ancora una volta il paragone aristotelico - avanzato già da Filone e Plotino - dell’ “architetto”: La forme delle cose da crearsi deve avere un archetipo (similitudo) in colui che crea…Così la casa preesiste nello spirito dell’architetto, e più essere definita come “Idea” della casa, perchè l‘artista si sforza di imitare (nella realtà) la casa stessa in quella forma ch’egli possiede nel proprio spirito. Poiché il mondo no è nato a caso, ne segue necessariamente che deve essere preesista una forma nello spirito divino secondo il cui modello il mondo fu creato. In ciò consiste l’essenza razionale dell’IDEA. Per la speculazione medievale l’artista forgiava la sua opera, se non proprio secondo un’Idea metafisica nel vero senso della parla, secondo un’intima rappresentazione formale o “quasi- idea” preesistente all’opera stessa. Si è voluto impedire però un parallelo tra la creazione artistica e la conoscenza divina, non potendosi prendere in considerazione a priori un oggetto esistente al di fuori di quella. E la tesi che l’arte “imiti” la natura, o meglio si adegui alla natura, viene intesa, come già in Aristotele, soltanto nel senso di un parallelismo non già di un rapporto: l’arte non imita ciò che la natura crea, ma opera al modo stesso in cui la natura crea, procedendo con determinati mezzi verso scopi determinati e realizzando determinate forme in determinate materie. 25 Le tre parole: immagine, forma e figura sono una cos sola. Siano nell’interno dell’anima l’immagine, la forma o la figura di un oggetto, come l’immagine di una rosa, nondimeno sono una, e ciò si dimostra in due modi. Il primo è che io foggi in una bella materia l’immagine di una rosa secondo il sembiante racchiuso nell’anima. Il secondo è che io nell’immagine interiore della rosa riconosco indubbiamente le rose esteriori, quando anche non avessi a riprodurla mai, così come porto in me l’immagine della casa che pure no costruirò. (Maestro Eckhart). Concludiamo che, per la concezione medievale, l’ opera d’arte non nasce mediante un adattamento, un accordo, tra l’uomo e la natura, come si è espresso il pensiero del secolo XIX, bensì mediante la proiezione d’un immagine interiore nella materia - immagine interiore che, se non può essere addirittura contraddistinta dal concetto d’Idea divenuto ormai espressione teologica, può ben essere eguagliata al contenuto di esso. Dante, visione medievale dell’arte: Si ha arte in tre momenti, nello spirito dell’artista, nello strumento, e nella materia che, a mezzo dell’arte, riceve la sua forma. III, RINASCIMENTO: Contrapponendosi al pensiero medievale, la letteratura teoretica e storica dell’arte, durante il Rinascimento italiano, ha accentuato con una risolutezza e fermezza che il compito dell’arte è l’imitazione immediata della verità. Durante il Rinascimento la letteratura teoretica e la storia dell’arte erano concordi nell’affermare che compito dell’arte fosse l’imitazione immediata della realtà, visione questa completamente opposta a quella medievale. All’artista è quindi consigliato di porsi davanti a un modello; proprio norma artistica dimostra che il concetto di arte come copia fedele della realtà non solo sia stato riportato in auge, ma anche elevato con piena consapevolezza a programma. Fin dall’inizio, la letteratura del Rinascimento ha ritenuto che i grandi artisti del XIV e XV secolo abbiano avuto il merito di aver ricondotto l’arte alla realtà: tale concetto di imitazione contiene l’esigenza di una assoluta aderenza (tanto formale quanto obiettiva) al vero. Accanto a questo, si colloca un altro importante concetto ovvero quello di superamento della realtà: l’artista travalica il reale non solo grazie alla sua facoltà immaginativa o intellettiva grazie alla quale crea figure nuove (raffigurando, ad esempio, chimere e dragoni) ma anche e soprattutto traducendo in forma visibile un grado della bellezza mai interamente realizzato nella realtà. Per mezzo dell’intelletto artistico con cui sceglie e corregge, l’artista è esortato – oltre ad essere quanto più fedele possibile alla realtà – ad eleggere tra i molteplici oggetti della natura quanto vi sia di più bello. Il pittore deve non solo raggiungere somiglianza con la natura ma anche esaltarne la bellezza. Il Rinascimento pretende dall’opera d’arte dunque naturalezza e bellezza insieme senza però comprendere che questi due concetti siano in realtà in contraddizione: allora invece si riteneva che conciliassero nella medesima esigenza di porsi davanti al vero (si in veste di imitatori, sia in veste di correttori). La doppia esigenza di uniformarsi alla natura imitandola ma anche correggendola sarebbe risultata inattuale se non fosse superata la vecchia tradizione “di bottega”. Da questo superamento deriva quella disciplina che cade sotto il nome di estetica, la quale non risponde più alla domanda “Come si fa questo?” bensì “Quali attitudini, e soprattutto, cosa occorre sapere per porsi bene armati di fronte alla natura?”. La concezione artistica del Rinascimento si contrappone a quella medievale sottraendo l’oggetto al mondo rappresentativo interiore del soggetto e assegnandogli un posto in un “mondo esteriore” 26 solidamente definito di modo che si stabilisca una distanza che al tempo stesso obbietta l’oggetto e impersona il soggetto. Questa teoria estetica del XV secolo nasce con un fine essenzialmente pratico e solo in maniera minore a scopo scientifico o apologetico mirando, da un lato ad eleggere l’arte contemporanea come erede diretta di quella greco-romana (e quindi degna di essere inclusa tra le artes liberales) e dall’altro di fornire agli artisti delle norme fisse e scientificamente fondate. Per derivare leggi simili, il presupposto imprescindibile era che al di sopra del soggetto e dell’oggetto vi fosse un sistema di leggi universali e assolutamente valide; compito della teoretica dell’arte è appunto la definizione di queste leggi. La teoria estetica rinascimentale era doppiamente ingenua: credeva di poter conciliare bellezza e esattezza nella riproduzione del vero ed anche di poterne indicare la via per la realizzazione pratica. Si credeva che l’esattezza formale ed obbiettiva fosse garantita semplicemente se l’artista rispettasse leggi fisse; mentre la bellezza si raggiungeva se l’artista trovava una “bella invenzione”, evitava irregolarità e conferiva alla rappresentazione quell’armonia data della concinnitas (= concordia) tra colori, qualità e proporzioni razionalmente determinate. Ci si chiede dunque quale sia il rapporto tra l’armonia e il suo aspetto gradevole ed anche quale sia il carattere di questo. La risposta ad entrambe le domande non risiedeva nella soggettività dell’artista (che poteva legittimare per buona una proporzione) bensì o nelle leggi universali della matematica o della musica oppure, in assenza di queste, si faceva riferimento alle affermazioni di autorità riconosciute o agli esempi di statue antiche. La concezione artistica medievale non si era posta questa domanda perché negava contemporaneamente sia il soggetto che l’oggetto (reputando la creazione artistica semplice rappresentazione di una forma non dipendente né dalla manifestazione di un oggetto reale né dall’attività del soggetto in quanto corrisponde a un’immagine pre-esistente nell’animo dell’artista); allo stesso modo questo quesito non può pienamente essere risolto dalla concezione artistica rinascimentale poiché questa considerava l’essere e la condizione del soggetto e dell’oggetto come sottoposti a regole fisse e valevoli a priori cioè fondate empiricamente. È dunque comprensibile che la nascente teoria estetica del XV secolo sia inizialmente estranea alla rinascenza filosofica di Platone che negli stessi anni stava avendo luogo in ambiente fiorentino. Questa filosofia (cioè quella tornata in auge di Platone) aveva una concezione del mondo interamente metafisica addirittura quasi mistica – interpretava Platone dal punto di vista cosmologico e teologico, assommava insieme Platone e Plotino, cosmologia ellenistica e mistica cristiana – la quale avrebbe potuto dare impulsi assai vari ad una teoria speculativa sull’arte ma almeno per la sua prima fase, è del tutto inutile alla teoria artistica del Rinascimento. Per via del suo fondamento naturalistico, la concezione artistica rinascimentale non è pronta ad accogliere le suggestioni di Marsilio Ficino la cui dottrina riteneva che l’anima umana porta in sé un’immagine impressale dallo spirito divino e, tramite questa, giudica gli oggetti naturali. La sua definizione di bellezza è dunque prettamente metafisica e a questa si contrappone quella dell’Alberti, più propriamente fenomenica (e che, inoltre, si imporrà come canone anche per i secoli successivi): «La bellezza consiste in un certo accordo ed armonia delle parti in un’unità secondo un numero, una proporzione ed un ordine stabiliti, così come esige la concinnitas, cioè la suprema e assoluta legge di natura». Per Alberti – e per tutti i teorici rinascimentali – dunque l’essenza della bellezza risiedeva nell’armonia di masse, colori e di qualità cioè quella essenza contro cui Plotino si era strenuamente accanito perché era in grado di coglierne solo l’aspetto esteriore e non il fondamento e il significato profondo. La mancanza di una spiegazione metafisica della bellezza ha sancito (per la 27 I due significati non furono mai sufficientemente distinti perché il secondo, più ampio del primo, poteva in certi casi inglobarlo; entrambi però dimostrano che tra soggetto e oggetto vi è un rapporto di assoluta corrispondenza. L’estetica del Rinascimento riconosce per la prima volta quello che comunemente è chiamato genio poiché pone accanto ad un oggetto reale anche un soggetto reale. Si credeva però anche che esistessero delle norme universali (le quali si opponevano alla libera creazione artistica) ma il concetto dell’idea artistica andava pian piano minando la validità di tali norme perché lo spirito artistico cui è assegnata la facoltà di trasformare intuitivamente e in modo autonomo la realtà in idea, non aveva bisogno di regole aprioristiche o empiricamente fondate. Invece è suo diritto e suo dovere (suo inteso dello spirito artistico) acquisire con la propria forza la perfetta cognizione dell’oggetto intellegibile. Tuttavia il Rinascimento non giunse ad una vera e propria accentuazione della genialità artistica, fu invece molto esplicito riguardo il concetto di ideale: non si reso conto dell’antitesi tra genio e norma e tra genio e natura ma proprio in concetto di idea rappresentò la conciliazione dei due opposti in quanto riuscì a garantire e a circoscrivere al tempo stesso l’autonomia dello spirito artistico rispetto alle esigenze della realtà. IV, MANIERISMO: All’atteggiamento sereno e scevro caratteristico dell’estetica del Rinascimento - di ridurre in armonia le più evidenti antitesi - cede il posto ad un altro atteggiamento del tutto diverso presso scrittori teorici della seconda metà del secolo. Tendenza dell’epoca: rivoluzionaria e tradizionalista al tempo stesso,, differente ma che mirava comunque a riunire e e riassumere le direttive del passato. Se il Quattrocento pretendeva la rottura completa col Medioevo, la secondo metà del Cinquecento mira al superamento, ma anche alla continuità col periodo della Rinascenza. Prima erano esistite scuola diverse con differenti metodi pratici (ma concordi nel fine teorico) ora esistono diverse tendenze - scaturite da quelle scuole - che cominciano ad affrontarsi l’un l’altra con scritti programmatici. Quest’epoca, che prepara tanto il Barocco quanto il Neoclassicismo, offre tre correnti stilistiche: 1) moderata, che continua l’Indirizzo classicista (Raffaello) ma sotto nuove tendenze 2) estremista, Correggio e altri artisti dell’Italia settentrionale: senso nuovo della luce-colore 3) estremista, Manierismo puro, che vuole superare il Classicismo ponendosi sulla via opposta La teoria dell’arte dell’epoca equilibra e in parte condanna queste tendenze, ma soprattuto favorisce l’indirizzo classicità rivolto al passato, quello del tardo Classicismo. Troviamo difatti ripetuti, dai teorici del tempo, le stesse esigenze e gli stessi pensieri espressi già da L. Alberti e Leonardo, anzi è proprio su questi pensieri che si basa ancora tutta la concezione estetica. In questa maniera la teoria si attiene sempre al postulato della “simmetria”; e il precetto di ritrarre in una scena dolorosa una figura la quale piangendo guardi lo spettatore (che a prima vista sembra affare barocco) in realtà richiama una precisazione delle stesso Alberti. D’altro canto acquista valore teorico anche l’altro indirizzo pittorico lombardo-veneto che si scaglia contro i fanatici fiorentini e romani dediti al “disegno” (N.B pittura veneta: colore; pittura fiorentina: disegno). E finalmente, in terzo luogo, abbiamo quel complesso di scritti innovatori che rappresentato la Tendenza “manieristica” vera e propria: sistematico perfezionamento e evoluzione della Dottrina delle Idee. Pittori manieristi: Parmigianino, Pontormo, Rosso Fiorentino, Bronzino, Allori, Salviati, Giambologna, Cellini etc. Insorge ora una sorte di ribellione generale contro ogni regola fissa e specie contro le regole matematiche. L’arte manieristica rompe e modifica le formule armoniche consacrate dalla classicità, abbandona la rappresentazioni chiare (fondate sul 30 concetto della prospettiva razionale dell’epoca aurea) attraverso quella particola maniera di comporre (quasi medievale!) che affolla tutte le figure in solo piano. Si afferma anche una critica consapevole dei vari tentativi che la teoria dell’arte aveva intrapreso in passato per razionalizzare le rappresentazione artistica su basi scientifiche e matematiche. Se Leonardo si era affaticato a determinare i movimento del corpo secondo le leggi della forza e del peso, anzi di fissare in maniere matematica gli spostamenti delle masse che si determinano in tali movimenti, e Se Piero della Francesca e A. Dürer aveva cercato di ottenere gli scorci con le costruzioni geometriche, e Se tutti questi teorici erano in accordo nell’ammettere che le proporzioni della figura umana in riposo debbano essere fissate con l’ausilio della matematica, nel Manierismo troviamo invece la forma decantata ad “S”, con figure serpentine (Giovanni Paolo Lomazzo, 1538-1592: teorico della figura “serpentinata”) che sono sproporzionate e mosse irrazionalmente, paragonate a “lingue di fiamma” (Lomazzo, Trattato) . Viene ammonita la dottrina delle proporzioni, che sì è necessario conoscere, ma non sempre deve essere applicata, specialmente nelle figure in moto. La matematica, considera nel Rinascimento come il più saldo fondamento delle arti figurative, viene ora odiata. Si leggano le parole di Federico Zuccari (1539-1609), antesignano della tendenza “manieristica”: «Dirò anno, come è vero, che in tutti i corpi della Natura prodotti vi è proporzione e misura - come afferma Aristotele - …[…] l’intelletto dell’artista ha da essere non solo chiaro, ma libero e l’ingegno sciolto e non così ristretto in servitù meccanica di sì fatte regole». Detto questo, comunque, il Manierismo è un dualismo interiore, un’intima tensione: nonostante rifiuti le regole mira ad un’ intensa concentrazione del dipinto, e non le rilascia le figure, ma saldamente le circoscrive e ne accentua l’anatomia (a volte imitando gli antichi più dello stesso Rinascimento!). Con la sua superficialità crea costrizione altrettanto severe. Se da un lato si difende la libertà artistica, dall’altro si fa dell’arte un cosmo razionalmente organizzato (dogma del tirocinio e dell’apprendistato dell’artista). Problema “regole e genialità” e “spirito e natura”: in entrambi queste antitesi si manifesta sempre la contrapposizione fra soggetto e oggetto. Non è cosa nuova che alle esortazioni di una illusoria fedeltà alla natura se ne contrappongono altre nel senso di abbellire la realtà data, ma è cosa nuova che questa contraddizione sia riconosciuta sino al punto che il tam quam di un tempo divenga ora un aut aut. Vincenzo Danti (1530-1576) distingue ritrarre: riprodurre la realtà come la si vede e imitare: raffigura la realtà come dovrebbe essere. Il felice compresso tra soggetto e oggetto che si era creato viene ora a distruggersi: lo spirito dell’artista viene a sentirsi in rapporto con la realtà in un atteggiamento di padronanza, ma anche di incertezza. In questo periodo appare indiscutibile che L’Idea (quel concetto mentale-intellettuale) non possa essere qualcosa di meramente soggettivo o psicologico: si affaccia per la prima volta il problema di come sia possibile che nello spirito di formino tali immagini interiori, giacché queste non possono essere tratte semplicemente dalla natura, né possono avere origine soltanto dall’uomo. Questo è il problema della Creazione Artistica. Questo pensiero concettuale, ovvero il rapporto dello spirito con la realtà presentata dai sensi, diviene ora problematico contrariamente a prima (pensiero fra l’altro che aveva osato minare le premesse teoriche del Rinascimento: valore assoluto delle regole e rappresentazione artistica come espressione visibile di una immagine spirituale). Se prima lo scopo della teorica dell’arte era stato quello di dare un fondamento pratico alla creazione artistica, ormai essa deve cercare di legittimare teoricamente. Il pensiero si rifugia ormai quasi in una metafisica che giustifichi l’artista nella sua esigenza di attribuire un valore ultra- soggettivo alla sue rappresentazioni interiori, si nel senso dell’esattezza che nel senso della 31 bellezza. Fra breve la letteratura d’arte passerà dalle mani degli stessi artisti in quella di antiquari, letterati o filosofi per svilupparsi in un’estetica normativa ed infine in una scienza interpretativa dell’arte nel suo senso attuale. Agli antichi quesiti Come può l’artista rappresentare in modo giusto? o Come può l’artista rappresentare in modo bello? ora si aggiunge questo Come è possibile la rappresentazione artistica e particolarmente la rappresentazione del Bello?. La Dottrina delle Idee è finalmente contemplata per la prima volta in tutte le sue conseguenze logiche e collocata quindi al centro del pensiero teoretico in materia d’arte. Nel Rinascimento il concetto di Idea aveva contributo a celare l’abisso fra spirito e natura. Ora invece svela quell’abisso e richiama l’attenzione sul problema soggetto-oggetto ma risolve poi questa difficoltà dandone una propria interpretazione metafisica ed elevando l’opposizione tra soggetto e oggetto ad una unità superiore e trascendente. Questo indirizzo aristotelico-scolastico della teorica dell’arte divenuta speculativa, che si era già affermato col Trattato dell’arte della pittura, della scultura e dell’architettura di Lomazzo del 1584, raggiunse l’apogeo col trattato di Federico Zuccari del 1607: L’Idea dei pittori, scultori ed architetti. Viene qui trattato per la prima volta il problema sulla possibilità della creazione artistica in generale. Per Zuccari quell’Idea interiore - di cui l’opera d’arte era considerata come la realizzazione esterna - viene ad essere la vincitrice. L’autore comincia con l’affermazione che ciò che rivela nell’opera d’arte deve preesistere nello spirito dell’artista: egli indica questa immagine spirituale come disegno interno o Idea (perché secondo la sua definizione il disegno interno non è altro che una forma o idea del nostro spirito che indica in modo chiaro e preciso le cose da esso raffigurate) e non vuole avvalersi del termine teologico di Idea poiché parla da pittore anch’egli a pittori, scultori e architetti. La rappresentazione pratica dell’opera d’arte viene invece denominata disegno esterno. Il trattato si divide in due libri: nel primo l’Idea è presentata come una forma spirituale plasmata dall’intelletto, il quale riconosce in essa tutti gli aspetti della natura; nel secondo sono considerate le realizzazioni dell’Idea nei colori, nel legno, nel marmo o in altra materia. Questo disegno interno o Idea che precede la realizzazione e rispetto ad essa è indipendente, può dunque - e proprio qui sta la differenza fondamentale rispetto alla concezione del Rinascimento - essere prodotto nello spirito dell’uomo solo in quanto la facoltà gliene è data da Dio, anzi in quanto l’Idea dell’uomo non è altro che una scintilla dello spirito divino. L’Idea (dalla Summa di Tommaso, che lo Zuccari stesso cita) è il modello immanente all’intelletto divino, secondo cui questo crea il mondo. Ma è anche l’immagine che Dio ha impresso agli angeli, e infine, in terzo luogo, è rappresentazione nello spirito dell’uomo. Questo disegno interno è un segno dell’affinità divina fra Dio e uomo: disegno ➜ segno di Dio in noi. F. Zuccari: «Iddio avendo per sua bontà creato l’uomo ad imani e similitudine sua volle ancora darli facoltà di formare vinse medesimo un Disegno interno intellettivo…acciocchè con questo Disegno, quasi imitando Dio e emulando la Natura, potesse produrre infinte cose artificiali simili alle naturali, e col mezzo della pittura e della scultura farci vedere in terra nuovi Paradisi…». L’intelletto umano, in virtù della sua partecipazione alla facoltà divina di formare le Idee e della sua affinità con lo spirito divino, possiede la facoltà di produrre in sé le “forme spirituali” di tutte le cose create e di tradurle in materia. Sussiste un accordo necessario tra il procedimento dell’uomo 32 naturalistica ma, proprio in virtù di quei canoni ai quali si atteneva per rappresentare una realtà nobilitata e “purificata”, era veramente naturale. Tale tesi venne sintetizzata da Giovan Pietro Bellori in un discorso accademico tenuto nel 1664 (e poi inserito come prefazione delle Vite); in questo discorso è presente anche la concezione della dottrine delle Idee del tempo. Di fatto il trattato L’idea del Pittore, dello Scultore e dell’Architetto si apre con una dissertazione chiaramente neoplatonica: l’eterno spirito creatore genererebbe le Idee, immagini originarie e modelli di tutte le creature. Le sfere celesti, non soggette a mutazioni di alcun tipo, riproducono queste Idee in maniera perfetta; mentre gli oggetti terreni a causa di difformità di materia (di cui sono composti) appaiono solo come immagini delle Idee deformate e impure. Compito dell’artista è dunque quello di, così come il Sommo Artefice, portare in sé un’immagine di Bellezza incontaminata e tramite questa correggere la natura. Il punto di distacco dalla vigente concezione neoplatonica sta nel fatto che all’immanente idea di bellezza insita nell’animo dell’artista non sono dati né origine né valore metafisico ma l’idea artistica in quanto tale è fatta provenire dalla contemplazione sensibile, solo che questa si manifesta in una forma sublimata e purificata. Nella dottrina del Bellori dunque, l’idea non è innata e a priori ma si acquisisce a posteriori mediante la contemplazione della natura (Goethe: idea come risultato dell’esperienza); sulla base di questa interpretazione si può comprendere l’attacco nei confronti dei naturalisti (non hanno idee e copiano pedissequamente gli oggetti della natura anche con difetti) ma anche verso coloro che riducono la facoltà artistica ad una mera esercitazione perché rifiutano lo studio della natura e si limitano o a «lavorare di maniera» o secondo «idee fantastiche». La tesi del Bellori ha dunque i suoi antecedenti non nel Neoplatonismo vero e proprio, quanto piuttosto nella concezione neoplatonica tipica del Rinascimento (Alberti, Raffaello, Da Vinci). L’arte classicistica si può definire come un’arte classica che ha preso coscienza della propria essenza allo stesso modo in cui l’ha presa la teoria classicistica, così come è formulata dal Bellori: i presupposti rinascimentali sono ora da lui postulati in forma esplicita e fondata su dimostrazioni storiche e filosofiche. [In Cicerone L’Idea esclude ogni visione sensibile, in Bellori invece si collega a questa: nel primo l’opera d’arte visibile sta nel rapporto all’Idea che verso qualcosa di più alto che la supera, nel secondo l’oggetto di natura si adegua all’Idea da pari a pari]. Alla metafisica di fine Cinquecento (che faceva risolvere il rapporto soggetto-oggetto nell’armonia di Dio) fa seguito una nuova concezione che tenta di armonizzare in modo immediato soggetto e oggetto, spirito e natura e che, di fronte all’onnipotenza divina, fa valere la capacità di conoscenza dell’uomo. In merito alla conoscenza umana, la dottrina estetica del Classicismo afferma che l’idea non è altro che una visione della natura «purificata» dal nostro spirito. Tale questione era stata avvertita nel Rinascimento ma solo ora – col Classicismo – è stato risolto e dotato di fondamenti teorici al fine di non essere denigrata dagli altri indirizzi di pensiero; ora, la dottrina delle idee viene elevata a sistema. Questa concezione combatteva al tempo stesso metafisica ed empirismo e spiega il particolare carattere polemico e normativo dell’estetica classicista, che proprio attraverso questa duplice lotta era giunta alla consapevolezza di sé. Con ciò si spiega anche quella sua affermazione secondo la quale l’arte come ha necessariamente bisogno della natura quale substrato e di un materiale per attuare il processo di sublimazione, così deve essere necessariamente superiore alla natura comune (non limitandosi quindi ad una mera imitazione della natura). - Idealismo vs Naturalismo - Studio dell’antico vs studio dei modelli 35 Secondo Bellori la figura umana, dipinta o scolpita, possa e debba essere più perfetta del naturale. La Bellezza è necessariamente imperfetta: la guerra di Troia non sarebbe nata a causa della bellezza di una donna reale, ma dalla bellezza perfetta di una statua che Paride avrebbe rapito. Soltanto il Classicismo ha elaborato una dottrina delle idee nel senso di un’estetica normativa perché nel periodo “classico” non esiste ancora una teoria filosofica parallela all’arte quanto piuttosto una teoria costruttiva dell’arte; nel Manierismo non ci sono né l’una né l’altra bensì una metafisica dell’arte di carattere speculativo. VI, MICHELANGELO E DÜRER: La visione del mondo di Michelangelo espressa nella sua poesia è ispirata alla metafisica neoplatonica. Ha una Idea artistica neoplatonica. Il “concetto” che indica la rappresentazione interiore dell’artista per Michelangelo è l’IDEA? Sì. Michelangelo scelse di utilizzare il termine concetto e mai quello di Idea: Immagine ➔ rappresentazione che riproduce un oggetto già esistente Concetto ➔ indica la libera rappresentazione creatrice, che costituisce il proprio oggetto così che possa per suo conto farsi modello di una rappresentazione esteriorizzata Ma di fatto il pensiero che l’Idea dell’opera d’arte esista nell’artista in atto è altrettanto aristotelico quanto il concetto che l’opera d’arte stessa esiste racchiusa nel marmo o nel legno di potenza. Platonico, o meglio neoplatonico, sarebbe soltanto quando fosse affermata una assoluta supremazia dll’IDEA sull’opera d’arte attuata nella realtà. Ma questo no è il caso di Michelangelo. E’ evidente che al pensiero di Michelangelo appariva chiara l’idea che l’opera d’arte non si riproduce dalla semplice copia di un oggetto dato dal di fuori, ma dalla realizzazione di un IDEA interiore. Come è certo che Michelangelo si è rifiutato di far provenire L’Idea artistica dall’esperienza sensibile (concezione del Classicismo), è altrettanto certo che egli non ha creduto di dover necessariamente affermare che questa derivasse da una sfera sopraterrena (metafisica manieristica). Diversa è l’Idea artistica nel pensiero di Dürer: regolamentazione razionale dell’arte + valore individuale dell’ingenium artistico. L’artista è riuscito a riconoscere come problematico il rapporto tra legge e realtà, tra genio e norma, tra oggetto e soggetto. Egli ha riconosciuto l’impossibilità di stabilire una norme di bellezza assoluta, ma ha anche riconosciuto l’impossibilità di appagarsi della semplice imitazione del dato sensibile, ed è pervenuto finalmente al risultato che tanto il metodo matematico delle proporzioni quanto quello empirico dell’imitazione dei modelli siano, per l’artista autentico, solo le premesse per quella libera creazione originata dallo spirito che da un lato si base sempre sulle norme, dall’altro deve tenersi in contatto con la natura. Dürer si servì della parola Idea in un altro significato rispetto all’uso della dottrina estetica italiana di quel tempo: l’IDEA non è, come per la speculazione del Rinascimento, la risultanza ultima di una esperienza esteriore; ma, accostandosi alla concezione del Medioevo e del neoplatonismo, è una rappresentazione esclusivamente interiore (vedi Maestro Eckhart riguardo l’interiore immagine dell’anima). Per Dürer le Idee (oltre a garantire validità e bellezza obbiettiva all’opera 36 d’arte) sono inesauribili e originale, di modo che sono esse che conferiscono all’artista la possibilità di creare sempre qualcosa di nuovo dal proprio spirito. Quando Seneca dice di Dio ch’egli è interiormente pieno di figure, Dürer lo dice invece dell’uomo. Quando Ficino con la sua frase divinis influxibus si riferisce a certi filosofi (teologi), Dürer le riferisce ai pittori. Pertanto l’artista ha collegato il concetto di Idea con quello di ispirazione artistica. L’attività artistica come una “creazione simile a Dio”: l’artista crea le sue opere ad imitazione del Sommo creatore, quasi ad essere un alter deus. Il Medioevo era stato solito d’ammogliare Dio all’artista per farci intendere la natura della creazione divina. L’età moderna paragona invece l’artista a Dio, per eroicizzare l’attività artistica (artista divino). dottrina delle Idee vs teoria dell’imitazione = innatismo vs intellettualismo 37
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