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ESEMPIO PROVA FINALE SID, Prove d'esame di Sociologia

Esempio prova finale SID Forlì

Tipologia: Prove d'esame

2019/2020

Caricato il 22/06/2020

margaretblame
margaretblame 🇮🇹

4.6

(19)

34 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica ESEMPIO PROVA FINALE SID e più Prove d'esame in PDF di Sociologia solo su Docsity! ESEMPIO PROVA FINALE SID Globalizzazione è un termine semplice che cela infiniti fenomeni connessi con l’integrazione economica, sociale e culturale degli stati che dal secondo dopo guerra a oggi ha dato vita a nuovi assetti politici, nuove speranze e nuovi bisogni della comunità mondiale e, più precisamente, dell’opinione pubblica. Sebbene il termine globalizzazione sembri creare un’antitesi qualora affiancato al termine “utopia”, ciò non dimostra che entrambe non possano coesistere in un mondo globalizzato. A questo proposito, esistono varie correnti di pensiero che elaborano la giustapposizione dei due termini socio-economici. In primis, dall’analisi di F. Fukuyama in La fine della storia (1989) e La fine della storia e l’ultimo uomo (1992), si evolve una dottrina che basandosi sui principi economici del liberalismo esposti da Bentham, Malthus e Friedman combina la teoria utopica, secondo i contemporanei, della Pace perpetua kantiana, passando attraverso la dialettica storica hegeliana e ponendosi come discriminante la fine della storia. Fukuyama risponde al quesito sostenendo che l’utopia che determina l’obiettivo del neoliberismo e della globalizzazione è il progresso mantenibile soltanto grazie alle democrazie liberali. In secundis, nel 2017 uscì un saggio di Z. Bauman dal titolo Retropia che illustrava come, secondo l’autore, oggi la parola utopia si possa accostare al presente attuale e alla globalizzazione, solo come una sorta di “rimpianto” dell’opinione pubblica. Bauman sostiene che oggi l’opinione mondiale globalizzata rigetti il proprio ruolo, non tanto quello di opinione pubblica, quanto a quello di globalizzata. Continua la sua tesi mostrando come in molti stati sia nato il bisogno di tornare allo stato sovrano, non regolato da alcuna organizzazione sovrannazionale che ne limiti i poteri, come quello che sta accadendo nel Regno Unito attraverso il Brexit Referendum 2016 e la trattativa in corso tra UE e Westminster che dovrebbe ridare un ruolo “negato” al parlamento britannico. Dulcis in fundo, si pone la teoria di S. Latouche esposta nel saggio Breve trattato sulla decrescita serena (2008). Secondo Latouche, si è giunti, attraverso alla globalizzazione, all’idolatria del mercato e da quella che definisce “la santificazione del Vitello d’Oro”. Stando a quest’ultima visione, è necessario eliminare qualunque genere di sviluppo, rifiutando il modello economico, sociale e politico dovuto alla globalizzazione. Perciò è necessario elaborare un modello alternativo a quello vigente che si concretizza nel fenomeno della decrescita, costruzione di società̀ conviviali autonome ed econome, abbandonando una fede e una religione, quella dell’economia. Benché tutt’e tre le posizioni siano autorevoli e abbiano una vasta letteratura da cui attingere per poter analizzarli contestualmente all’attualità, questo testo si focalizzerà sulla prima corrente di pensiero fondata dal politologo statunitense F. Fukuyama, in quanto si evince, non solo dalla letteratura e dalla sua vastità, ma anche dagli ultimi trent’anni, quelli dalla pubblicazione del primo articolo di Fukuyama nel 1989, che essa sia quella che meglio sposa il termine globalizzazione con quello di utopia. Innanzitutto, è necessario reiterare il fatto che il primo articolo di Fukuyama sia stato pubblicato nel 1989, all’alba della caduta e dissoluzione dell’URSS. Inoltre, il motivo per cui l’articolo sia stato intitolato “fine della storia” è poiché l’autore si è rifatto a Hegel e alla sua notoria espressione apparsa nelle Lezioni sulla filosofia della storia. Hegel, con la suddetta espressione, si riferisce sia a un momento storico-politico, sia a un momento filosofico. Infatti, individua la fine della storia nel 1806, anno in cui le truppe di Napoleone vinsero quelle prussiane a Jena, mentre come momento filosofico, probabilmente, indica a se stesso, in quanto ha superato la filosofia stessa Immanuel Kant con l’elaborazione della Fenomenologia dello Spirito. Ma – esattamente – per quale motivo la storia, secondo Hegel, sarebbe finita nell’anno 1806? Al quesito risponde il grande filosofo franco-russo A. Kojève come ci mostra Fukuyama nell’articolo Trent’anni dopo, ritorno su La fine della storia? (2018). Secondo l’analisi pubblicata da Kojève negli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, per Hegel la fine della storia si racchiude nell’anno 1806, perché si tratta del momento preciso in cui si afferma il modello di stato basato sui principi di libertà e uguaglianza incarnati dalla Rivoluzione francese e, quindi, da Napoleone stesso. Per questo motivo, Kojève e Fukuyama sostengono che il grande filosofo tedesco avesse completamente compreso i tempi in cui viveva e come quello stato “basato sulla libertà e sull’uguaglianza” sarebbe diventato l’ordine politico ultimo e per – Fukuyama – l’utopia della globalizzazione. Ciononostante, i neo-marxisti tenterebbero di confutare la sopracitata tesi, evidenziando come secondo la concezione materialistica della storia di Marx, la fine della storia e il fine ultimo di essi combacerebbero con l’utopia comunista. Tuttavia, a questo proposito, Fukuyama non intende rinnegare completamente la tesi marxista, ma intende interpretarla e questo lo svolge in maniera eccellente nell’articolo del 2018, in cui mostra come l’assetto politico comunista non è mai destinato a perdurare nel tempo, infatti già nel 1989, era in corso, sia in URSS che in Cina, una vasta politica di riforme che non avrebbe dato luogo alla nascita di una democrazia quanto più liberale (quanto lo stabiliscono i politologi di Polity e di Freedom che analizzano la percentuale di democraticità di uno stato) nella prima e una dittattura di libero mercato sotto la guida di Xiaoping nella seconda. Tuttavia, Fukuyama si sofferma a riflettere sul caso della Cina e aggiunge che se la sua teoria è davvero giusta e tutti gli stati, chi più, chi meno, all’interno del grande motore della globalizzazione, tendono a un assetto politico di una democrazia liberale, allora anche la Cina, eventualmente, lo farà. Fukuyama non dice esattamente quando, ma analizza il come: il modello cinese non è sostenibile nel lungo periodo, il suo sviluppo e la sua produzione non lo sono nemmeno, inoltre in favore del progresso economico e dello sviluppo del paese è stato danneggiato l’ambiente. Qualora una di queste dovesse variare, allora la dittatura di libero mercato cinese non sarà più un modello sostenibile e si conformerà alle altre democrazie liberali mondiali. Benché la globalizzazione tenda all’omologazione delle culture, o meglio all’ibridazione delle tali, come afferma la teoria della global mélange di J. N. Pieterse, Fukuyama mette in guardia dalle correnti volte all’affermazione delle identità, dal momento che porterebbero quella che per lui è un’utopia al contrario, cioè alla distopia. In poche parole, ammonisce nei confronti della tesi sostenuta da S. Huntington ne Lo scontro delle civiltà del 1996, in cui Huntington elabora quello che sarebbe stato l’assetto politico mondiale dopo la caduta del comunismo. L’assetto politico si sarebbe sovrapposto alle religioni, alla cultura e alla geopolitica. Tutte le civiltà, l’autore ne individua sette, si sarebbero allontanate le une dalle altre e avrebbero mantenuto comportamenti ostili le une fra le altre, tanto che si spinge fino a sostenere la necessità di un muro che impedisca la migrazione da una regione a un’altra e il mischiarsi delle società. Non solo Fukuyama si pone in una posizione di contrasto nei confronti di Huntington, ma anche U. Beck muove critiche taglienti nei confronti dello scontro delle civiltà ipotizzato dal secondo. Ne La metamorfosi del mondo del 2016, U. Beck sostiene che il mondo non sia solo cambiato, ma abbia subito una vera e propria “metamorfosi”. Innanzitutto, sostiene che lo Stato non è più l’attore principale sulla scena internazionale; gli stati non sono più né gli unici né i principali attori sulla scena internazionale, che è invece dominata da enti sovranazionali che li sovrastano, o in altri casi si pongono come interlocutori alla pari con gli Stati nazionali, in un fitto intreccio di relazioni. Inoltre, qualora si guardasse a ogni singolo stato, si creerebbe un forte etnocentrismo di base, ovvero l’atteggiamento per cui si esaltano la propria cultura, le proprie istituzioni, la propria storia, per cui si ritiene che il proprio modo di leggere la realtà sia il più efficace, prendendo le distanze da e svalutando le altre culture. Così facendo – sottolinea Beck – si rischia ovviamente di entrare in conflitto con “l’altro”, motivo per cui le Società di Huntington sono in conflitto le une con le
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