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esperienza e educazione, Dewey, Sintesi del corso di Pedagogia

il testo riassume il pensiero di John Dewey e la sua visione sull'importanza dell'esperienza nell'ambito educativo

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 21/12/2020

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irene-traficante 🇮🇹

4.8

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2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica esperienza e educazione, Dewey e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Esperienza e educazione- John Dewey Introduzione Il pensiero di Dewey esercitò fin dai primi anni del XX secolo una grandissima influenza pedagogica, filosofica, sociale e politica sulla cultura non solo statunitense. Dopo gli studi universitari, fortemente influenzati dal pensiero neohegeliano, Dewey iniziò a costruire le premesse della sua interpretazione del pragmatismo strumentalistico, fondando in quel periodo con Mead la “scuola di Chicago”. Dewey diede inizio all’educazione “progressiva”, che influenzò le politiche educative e le istituzioni formative a lui contemporanee, portandole a una svolta di tipo democratico che giungerà fino all’attivismo. Egli spostò l’attenzione verso gli scopi sociali in educazione e verso i problemi di ordine logico e psicologico dell’apprendimento. La pedagogia, che fino a quel momento era considerata come un’attività teorica e normativa fondata sulla filosofia, sull’etica, sulla teologia, iniziò progressivamente a svincolarsi da queste tutele e ad essere pensata come una scienza autonoma. Sarà Dewey uno dei primi a considerarla come scienza in quanto adotta la metodologia scientifica e sperimentale e mutua dalle altre scienze categorie, metodi, conoscenze, linguaggi, dati oggettivi. Con Dewey la pedagogia non ripudierà mai gli apporti della filosofia, ma attingerà finalmente dalla psicologia, biologia, antropologia e sociologia senza instaurare con tali discipline un rapporto di subalternità malcelata. Le posizioni di Dewey fanno esplicito riferimento all’evoluzionismo e al pragmatismo di Peirce e James, e pongono l’esperienza concreta dell’uomo come base fondamentale della cultura e della conoscenza. L’esperienza deve essere considerata come qualcosa che tende a modificare attivamente l’ambiente naturale e quello sociale e a proiettarsi verso il futuro, non limitandosi dunque ad essere ricezione passiva di impressioni sensibili provenienti dall’esterno. Per Dewey il concetto di esperienza riduce notevolmente il dualismo tra esterno ed interno. L’esperienza non è mai esperienza di un oggetto da parte di un soggetto, ma interazione fra soggetto ed oggetto, fra organismo e ambiente, relazione in cui i termini non sussistono mai per sé, ma solo nei termini della relazione stessa. L’esperienza rinvia sempre a situazioni di precarietà e di problematicità in cui l’uomo è coinvolto nel suo sforzo di adattamento e di evoluzione, e ha quindi a che fare con bisogni e interessi vitali. Rispetto a tali situazioni lo strumento fondamentale di cui l’uomo dispone è la ragione, chiamata da Dewey l’attività intelligente, cioè un’attività simbolica di ricerca e indagine, secondo un metodo proprio fatto di ipotesi e sperimentazioni, un metodo che orienta il processo educativo. L’opera di Dewey ha determinato un’apertura significativa della scienza dell’educazione sia agli indirizzi dell’indagine biologica, psicologica, filosofica e sociale, sia verso le fonti concrete di tale scienza rappresentate dai problemi reali della pratica educativa. Per questo motivo l’educazione deve essere incentrata su forme di attività pratica, sociale e culturale che consentano alla scuola e alle altre istituzioni di riprodurre la ricchezza di esperienze annunciatrici di cambiamento. L’educazione diviene così l’ambito prioritario nel quale la transazione fra organismo e ambiente, natura e cultura, mezzi e fini, individuo e società, gioco e lavoro, filosofia e scienza può costruire sempre nuovi spazi di libertà. Lo scritto esperienza e educazione viene pubblicato nel 1938 e rappresenta la sintesi del pensiero filosofico e pedagogico di Dewey sull’educazione e sulla scuola. La prima traduzione italiana del testo è di oltre sessant’anni fa, ma il suo valore è rimasto immutato anche nel dibattito pedagogico italiano. Nel testo Dewey contrappone la sua posizione a quella dei conservatori che criticavano le “scuole nuove”, ispirate dal suo credo pedagogico, e auspicavano il ritorno alla tradizione e al princ ipio di autorità come fondamento pedagogico. Già nella forma polemica, questo scritto è di grande attualità, e riesce ancora oggi a mettere a nudo le differenze tra chi vuole una scuola e un’educazione autoritaria e chi immagina una democratica ed innovativa. Dewey non parla mai di pedagogia in questo scritto, ma di una filosofia dell’educazione basata sull’esperienza, che è la chiave di volta per pensare e fare educazione, per criticare i punti deboli delle scuole tradizionali e l’applicazione sbagliata dei programmi delle scuole nuove. Educare significa accrescere l’ambito dell ’esperienza del ragazzo e dell’adulto, dell’alunno e dell’insegnante. È in questa simmetria dell’esperienza che si trovano i fondamenti della rivoluzione pedagogica di Dewey. L’originalità di questa posizione non può essere ricondotta al fatto che al centro del campo educativo ci siano le relazioni fra insegnante ed alunno. Tale relazioni infatti, vanno sempre considerate come effetti del reticolo complesso fra la storia e le storie dei soggetti, fra il fatto sociale e l’evento del singolo. Certo con Dewey l’accento viene messo sulla centralità dell’esperienza del discendente, sulle sue esigenze vitali, da intendere come il vero cuore dell’attività didattica, generando così una conversione dello sguardo che costringe a considerare le istituzioni educative come comunità educanti. Dewey ci ha permesso di pensare la scuola come una comunità di pratica educante, e ha saldato il fare educazione a una teoria dell’esperienza, capace di orientare il rapporto educativo. Si apprende grazie all’esperienza, per questo l’insegnamento deve essere centrato sulle possibilità dell’alunno e la scuola deve essere per tutti. L’esperienza deve costituire il punto di inizio per l’elaborazione della teoria e il punto di arrivo, perché la validazione di una teoria dell’educazione presuppone il confronto critico con l’esperienza. L’esperienza non è primariamente “conoscenza”, ma “modi di fare e di patire”. Nell’esperienza infatti si intrecciano elementi di attività e passività e la nozione di esperienza così intesa, può risultare più ampia della nozione di conoscenza, come sostiene Dewey stesso. È sulla scena educativa, quello spazio di azione che arriva fino alle “quinte” di ogni istituzione che si muovono i corpi materiali e immaginari degli studenti e docenti. La ribalta tende ad appiattire i corpi rendendoli pronti a declamare monologhi anziché voci autonome capaci di riflessioni originali. Sulla scena educativa i corpi presi nel campo dell’esperienza educativa indicano con la loro presenza una profondità dell’esperienza data dall’intreccio di sguardi reciproci, dalla consistenza di ciò che non si vede immediatamente: un’esperienza che assume necessariamente una prospettiva temporale non votata alla mera “infuturazione”. Per vivere il pieno significato di ogni esperienza educativa presente dobbiamo comprenderla a partire da una prospettiva temporale della qualità della nostra presenza, e non il nostro assillante proiettarci sulle esigenze del prossimo futuro. La conoscenza, il principio di autorità, la libertà, il fine che ognuno si pone agendo nascono dall’esperienza e si sviluppano su questa scena, che è sempre presa tra il dato naturale e il suo squilibrio verso il cambiamento, tra il passato da conoscere e un futuro differente da costruire e da vivere. Rispetto a questa visione della temporalità educativa si fa sentire l’importanza del rapporto tra Dewey e Mead. Il principio della continuità dell’esperienza educativa, posto al centro del pensiero di Dewey, va compreso anche alla luce della nozione di “prospettiva temporale” elaborata da Mead. Nelle riflessioni di Mead viene da un lato confermata l’importanza degli aspetti socioculturali nella costruzione degli habiti e dall’altro evidenziata nella nozione di prospettiva temporale un’attenzione al processo di costruzione e formazione del sé. Per Mead non si può comprendere la natura del tempo se non si tematizza il rapporto originario che “l’emergente” intesse con il flusso temporale, modello della costruzione del sé. Il presente è il luogo dell’emergenza. L’emergente però è eccedente rispetto alla situazione da cui proviene e pertanto irriducibile ad essa: tuttavia si può spiegarlo a posteriori perché il suo apparire comporta l’emergenza delle sue condizioni materiali e simboliche. L’emergente ha le stesse caratteristiche dell’evento educativo, e porta sempre una discontinuità, uno squilibrio, ma allo stesso tempo si dà una storia osservabile: una traccia della continuità dell’esperienza rimane visibile a partire dal fatto che il presente “accade in una prospettiva”. Ogni presente riscrive e amplia questa prospettiva che viene dal passato, che è sempre individuale e sociale, interna ed esterna, per aprirsi al futuro che la novità emergente dischiude, nelle condizioni che la situazione e i dispositivi pedagogici rendono operanti. Non si deve dimenticare che per situazione non deve intendersi né un oggetto singolo, né un gruppo di oggetti e eventi. Non sono possibili giudizi formali o di esperienza circa oggetti ed eventi se sono isolati, ma solo se connessi in un contesto complessivo. Quest’ultimo è ciò che si chiama situazione. Mead inoltre afferma che l’emergente che ristruttura l’esperienza educativa sarà solo quello praticato da un soggetto e da un ambiente relativamente estranei. Il mondo diventa incessantemente ciò che esso significa, la nostra storia di formazione e il nostro orizzonte temporale sono i testimoni da interrogare sulla scena dell’agire educativo se vogliamo comprendere pienamente cosa sia un’esperienza pedagogica. Quando Dewey parlava dei rapporti tra pensiero ed esperienza, pensava ad una formazione come ricostruzione, aveva proprio in mente il nesso transazionale tra il sistema educativo e quello sociale. “l’educazione, la formazione come ricostruzione differisce dalle al tre concezioni unilaterali. Essa significa che l’esperienza come processo attivo si svolge nel tempo e che ogni periodo successivo completa quello precedente: mettendo in luce nessi impliciti ma finora non osservati”. Per questo gli strumenti essenziali del lavoro educativo sono l’osservazione e la memoria. Solo dall’uso intrecciato di questi strumenti l’educatore può allestire e incarnare la sua funzione di mediatore. La questione cruciale che Dewey segnala riguardo la necessità di scoprire il nesso che e siste dentro l’esperienza fra gli effetti educativi e i risultati del passato e i problemi del presente. Questo nesso promuove per l’educatore un’attenzione che possiamo definire “clinica”, nella misura in cui promuove una vera e propria “scrittura della singolarità” dell’esperienza. Questo ascolto per la singolarità, rivolto quindi verso la “qualità dell’esperienza” indicata da Dewey, diventa significativo e orienta la pratica del lavoro educativo perché consente di comprendere più a fondo quali siano le strutture elementari dell’esperienza pedagogica, non solo del singolo individuo, ma di un soggetto che diviene “transindividuale”. Permettendo di illuminare i nessi impliciti e le zone d’ombra che ogni processo formativo genera, tagliando con un gesto intenzionale il flusso della vita diffusa. In questo senso Dewey trasforma la vita diffusa in esperienza. L’interazione, la transazione della filosofia di Dewey diventa direttamente uno strumento etico e politico. L’esperienza è il banco di prova di ogni teoria pedagogica e allo stesso tempo è ciò che permette di educare ogni uomo alla responsabilità, alla partecipazione, alla soluzione di problemi di tutti in una società fondata sull’integrazione, sulla comprensione di quell’evento che noi siamo e che soprattutto possiamo ancora divenire, nella complessità e nella molteplicità in cui i nostri pensieri, i nostri desideri e le nostre azioni si muovono. In questa prospettiva la filosofia dell’educazione di Dewey non solo trova il suo fondamento in una filosofia dell’esperienza, ma diviene un’etica della pratica educativa profeticamente attuale. Prefazione Tutti i movimenti sociali danno luogo a conflitti che si riflettono in controversie intellettuali. Non sarebbe un buon segno se un rilevante interesse sociale, come l’educazione, non fosse un campo di battaglia pratica e teorica. Ma per la teoria, per lo meno quella che costituisce una filosofia dell’educazione, i conflitti pratici e le controversie sollevate sulla base di questi conflitti pongono unicamente un problema. Il compito di un intelligente teoria dell’educazione è quello di distinguere le cause dei conflitti esistenti, e invece che schierarsi da una parte all’altra, indicare un piano di operazione che provenga da un livello più profondo di quello rappresentato dalle due parti. Assegnare questo compito alla filosofia dell’educazione non significa che essa debba tentare di trovare un compromesso fra scuole di pensiero opposte, ma significa invece che è necessario introdurre un nuovo ordine di idee che avvii nuove pratiche. È proprio questa la ragione per cui è così difficile sviluppare una filosofia dell’educazione quando ci si allontana dalla tradizione o dal costume. Perciò dirigere una scuola che si ispira a un nuovo ordine di idee è più difficile che indirizzarla per il sentiero battuto. Ne consegue che ogni movimento verso un nuovo ordine di idee provoca prima o poi, un ritorno a quelle che sembrano le idee e le pratiche più semplici e fondamentali del passato. In tal senso ho suggerito a chi guarda a un nuovo movimento dell’educazione, adatto alle esigenze di un nuovo ordine sociale, di preoccuparsi dell’educazione in sé, e non di qualche “ismo” (es.progressismo). ogni movimento che pensa e opera in base a un “ismo” è infatti talmente coinvolto nella reazione contro altri “ismi” che finisce per essere involontariamente controllato da loro. Questo lo induce a formulare i suoi principi per reazione a essi invece di muovere una visione costruttiva dei bisogni, dei problemi e delle possibilità effettive. Il saggio tenta di richiamare l’attenzione su problemi dell’educazione di più ampio respiro e più profondi, tali da suggerire la giusta cornice di riferimento. John Dewey 1. Educazione tradizionale e educazione progressiva L’umanità pensa per estremi opposti. Formula le sue fedi in termini di opposizione (o in termini di aut-aut), fra i quali non sa scorgere possibilità intermedie. Quando è costretta a riconoscere che gli estremi non si possono realizzare, è ancora incline ad ammettere che essi hanno ragione in teoria, ma che quando si viene all’atto pratico si è costretti dalle circostanze al compromesso . Non fa eccezione la filosofia dell’educazione. La storia della teoria dell’educazione è caratterizzata dall’opposizione fra l’idea che l’educazione sia sviluppo dal dentro e l’idea che essa sia formazione dal di fuori; fra la tesi che essa sia basata sulle doti naturali e la tesi che l’educazione sia un processo di soggiogamento delle inclinazioni naturali e di sostituzione al loro posto di abiti acquisiti mediante la pressione esteriore. Attualmente l’opposizione, per quanto concerne la scuola, tende ad assumere la forma di contrasto fra l’educazione tradizionale e quella progressiva. Le idee che stanno alla base della prima sono: la materia dell’educazione consiste in corpi, informazioni e abilità che sono stati elaborati in passato e, quindi il compito della scuola è quello di trasmetterli alla nuova generazione. Nel passato sono state generate norme e regole di condotta; l’addestramento morale consiste nel formare abiti di azione conformi a queste regole. Insomma il piano generale dell’organizzazione scolastica fa della scuola un’istituzione del tutto diversa dalle altre istituzioni sociali. Richiamando all’immaginazione un’aula scolastica consueta con i suoi orari, le regole disciplinari, i suoi sistemi di classificazione ecc. e poi si contrappone a quest’immagine quella di una famiglia si comprende quanto la scuola sia un’organizzazione diversa dalle altre istituzioni sociali. 2. Bisogno di una teoria dell’esperienza Il rifiutare la filosofia e la pratica dell’educazione tradizionale pone un nuovo problema educativo a coloro che credono nella nuova educazione. Noi continueremo a operare nella confusione fino a che non avremo riconosciuto che svincolarsi dal passato non risolve nessun problema. Ciò che sarà detto nelle pagine seguenti è rivolto ad indicare i principali problemi a cui deve far fronte l’educazione nuova e a suggerire le vie per la loro soluzione . Per Dewey fra tutte le incertezze rimane un punto fermo: il nesso tra educazione ed esperienza personale, ovvero che la nuova filosofia dell’educazione si innesta su qualche tipo di filosofia empirica e sperimentale. Ma esperienza ed esperimento non sono idee ovvie, piuttosto il loro significato è parte del problema da dibattere. Per conoscere il significato dell’empirismo occorre comprendere cos’è l’esperienza. Credere che ogni educazione autentica proviene dall’esperienza non significa che tutte le esperienze siano genuinamente educative. Esperienza e educazione non possono equivalersi. Ci sono infatti delle esperienze diseducative. È diseducativa ogni esperienza che arresta lo svolgimento di un’esperienza ulteriore. Un’esperienza può procurare incallimento, può diminuire la sensibilità e la capacità di reagire. In questi casi sono limitate le possibilità di avere una più ricca esperienza in futuro. E ancora, un’esperienza può aumentare l’abilità automatica di una persona in una particolare direzione e tuttavia tendere a restringere la sua libertà di movimento: l’effetto è di nuovo limitare il campo della futura esperienza. Un’esperienza può recare benefici e allo stesso tempo negligenza o fiacchezza, questo atteggiamento impedisce all’individuo di trarre frutto dalle esperienze future. E ancora, le esperienze possono essere così sconnesse fra loro che per quanto esse in sé siano stimolanti, non costituiscono un tutto ben saldo. L’energia e l’attenzione allora si disperdono. Le singole esperienze possono essere vive e tuttavia, la sconnessione fra le parti può generare abiti dispersivi, disintegrati; la conseguenza della formazione di tali abiti è l’incapacità di controllare esperienze future. Queste sono allora prese come vengono, sia come oggetto di divertimento sia come oggetto di scontentezza. In questa situazione non si può parlare di autocontrollo. L’educazione tradizionale offre varie esperienze dei tipi appena menzionati. È un errore credere che nell’aula tradizionale gli alunni non facessero esperie nza, è piuttosto da mettere in risalto come le esperienze che venivano fatte erano in gran parte negative. Molti studenti sono stati resi inetti e hanno perso l’appetito dell’apprendere a causa del modo in cui ne fecero esperienza; molti hanno acquisito abilità tramite un addestramento automatico in modo tale che il loro potere di giudicare si è trovato limitato; molti hanno associato l’idea dell’imparare con quella della noia e della stanchezza. Queste considerazioni vogliono accentuare il fatto che i ragazzi nelle scuole tradizionali fanno esperienza, ma che ha un carattere erroneo dal pdv della relazione con l’esperienza ulteriore. Tutto dipende infatti dalla qualità dell’esperienza che si fa. La qualità di ogni esperienza ha due aspetti: - Da un lato può essere immediatamente gradevole o sgradevole - Dall’altro esercita la sua influenza sulle esperienze future Il primo è facile da cogliere, l’effetto di un’esperienza invece non è facile da cogliere. Pone un problema all’educatore. È suo compito disporre le cose in modo che l’esperienza non si limiti ad essere sgradevole o gradevole ma promuova nel futuro esperienze che si desiderano. Nessun’esperienza vive e muore per se stessa, indipendentemente dal desiderio o dall’intenzione ogni esperienza continua a vivere nelle esperienze future. Di conseguenza il problema centrale di un’educazione basata sull’esperienza è quello di scegliere esperienze che vivranno fecondamente nelle esperienze che seguiranno. Questo principio è di grande importanza per la filosofia del l’esperienza educativa. Una filosofia dell’educazione come qualsiasi teoria deve essere espressa in parole e simboli; ma quando essa è più di un insieme di parole si tratta di un piano educativo. Come ogni piano non può costituirsi senza riferimento a ciò che si persegue e al come perseguirlo. Più si tiene fermo, in modo definito e sicuro, che l’educazione è svolgimento dentro, più è necessario che sia chiarito cos’è l’esperienza. Finché l’esperienza non è concepita in modo che quello che ne risulta sia un piano che permetta di decidere su vari aspetti della scuola, essa è campata in aria. È ridotta a un contesto di parole che può generare dei sentimenti ma che può essere sostituita egualmente bene con un’altra serie di parole. Il fatto che l’educazione tradizionale fosse una “routine” in cui i piani e i programmi erano trasmessi dal passato non implica che l’educazione progressiva debba essere un’improvvisazione. La scuola tradizionale era diretta dal costume e dalla routine stabilita e bastava allo scopo di una serie di parole astratte: cultura, disciplina, patrimonio culturale ecc. Appunto perché le scuole progressive non possono affidarsi a tradizioni cristallizzate se non vogliono procedere a caso, devono farsi dirigere da idee che quando sono articolate in modo coerente costituiscono una filosofia dell’educazione. La rivolta contro l’organizzazione della scuola tradizionale implica la richiesta di un’organizzazione basata su idee. Nella storia dell’educazione soltanto i rinnovatori e gli innovatori dell’educazione hanno sentito il bisogno di una filosofia dell’educazione. Coloro che accettarono il sistema esistente avevano bisogno solo di parole risonanti per giustificare le pratiche in uso. L’opera effettiva era compiuta dalle abitudini che erano talmente fissate da essere istituzionali. Di conseguenza l’educazione progressiva ha molta più urgenza che non i novatori precedenti di una filosofia dell’educazione fondata sulla filosofia dell’esperienza. È molto più difficile scoprire i tipi di materiali, di metodi e di relazioni sociali appropriati alla nuova educazione rispetto a quelli dell’educazione tradizionale. Molte delle difficoltà incontrate nelle scuole progressive e delle critiche a essa rivolte dipendono da questa fonte. Le difficoltà e le critiche non possono che aumentare quando il pensiero diffuso è quello che la nuova educazione deve essere più facile dell’antica. Questo modo di pensare presuppone che quel che conta è non fare quello che si faceva nelle scuole tradizionali. Dewey ammette che la nuova educazione nel principio è più semplice dell’antica. Essa è in armonia coi principi della crescita ma c’era molto artificio nella scelta delle materie di studio e dei metodi, e l’artificio porta sempre ad una difficoltà non necessaria. Quando l’artificiale e il complesso si sono ingranati nel costume e nella routine è più facile battere i sentieri conosciuti piuttosto che scegliere un nuovo pdv e operare in base ad esso. Una coerente teoria dell’esperienza che fornisce una direzione positiva per la scelta e l’organizzazione di metodi e materiali educativi appropriati, è indispensabile se si vuole dare un nuovo indirizzo alle scuole. Il processo è lento e con molti ostacoli che tendono a impedire la crescita. Occorre eliminare la tendenza a pensare all’organizzazione nei termini del tipo di organizzazione dell’educazione tradizionale. Una buona parte dell’opposizione deriva dal fatto che è estremamente difficile liberarsi dall’immagine degli studi della scuola antica. appena si pronuncia la parola “organizzazione” l’immaginazione corre al genere di organizzazione che ci è familiare, e rivoltandoci contro di essa siamo portati a ripudiare l’idea stessa si organizzazione. Dall’altro lato i reazionari nell’educazione, si valgono della mancanza di un’organizzazione intellettuale e morale adeguata al nuovo tipo di scuola per dimostrare che occorre un’organizzazione, e per identificare qualsiasi specie di organizzazione con quella che si affermò prima del sorgere della scienza sperimentale. 3. I criteri dell’esperienza A questo punto della discussione è opportuno esporre i principi più significativi per costituire una teoria dell’educazione. Categoria della continuità o il continuum sperimentale. Questo principio è implicito in ogni tentativo di distinguere quali esperienze hanno un valore educativo e quali no. Questa scelta è necessaria per criticare l’educazione tradizionale e soprattutto per iniziare ad attuarne una differente. Una delle ragioni che ha favorito il movimento progressivo è il fatto che e sso sembra più conforme all’ideale democratico cui si attiene il popolo, rispetto alle scuole tradizionali che hanno invece un aspetto autocratico. I suoi metodi inoltre sono più umani rispetto alla rudezza dei sistemi della scuola tradizionale. Perché preferiamo i procedimenti democratici e umani a quelli autocratici e duri? Una delle ragioni può essere che ci è stato insegnato non solo dalla scuola, ma dalle leggi e dai codici che la democrazia è la migliore istituzione sociale. Può essere che siamo talmente imbevuti di quest’idea per opera dell’ambiente circostante che essa è diventata una parte integrante del nostro assetto intellettuale e morale. Ma cause analoghe hanno portato altre persone in differenti ambienti a conclusioni diverse, a preferire il fascismo ad esempio. L’ultima ragione dell’accoglienza fatta all’educazione progressiva, a causa della sua fiducia nell’uso di metodi umani e della sua parentela con le democrazia, risale alla discriminazione fatta fra i valori inerenti alle diverse esperienze. Ritorno quindi al principio della continuità dell’esperienza come a un criterio discriminante. Questo principio si poggia sull’abitudine, se si dà dell’abitudine un interpretazione biologica. La caratteristica fondamentale dell’abito è che ogni esperienza fatta e subita modifica chi agisce e subisce, e al tempo stesso questa modificazione influisce sulla qualità delle esperienze seguenti. È infatti modificato anche il soggetto che la intraprende. Così inteso il principio dell’abitudine va più a fondo del concetto ordinario di un abito, vale a dire un modo più o meno stabilito di fare le cose, mare ha un’esperienza diversa dal ragazzo di città. Una delle principali responsabilità dell’educatore è che sia attento al principio generale della formazione dell’esperienza mediante le condizioni circostanti, ma anche che riconosca in concreto quali sono le condizioni che facilitano le esperienze che conducono alla crescita. Egli dovrebbe soprattutto conoscere in che modo utilizzare la situazione circostante, fisica e sociale, per estrarne tutti gli elementi che contribuiscano a promuovere esperienze di valore. L’educazione tradizionale non affrontava questo problema, si sottraeva alla sua responsabilità. L’ambiente scolastico fatto di banchi, lavagne e di un piccolo cortile pareva sufficiente. Non si chiedeva che il maestro si informasse delle condizioni della vita circostante per utilizzarle a scopo educativo. Un sistema di educazione basato sul nesso dell’educazione con l’esperienza deve prendere costantemente in considerazione queste cose. Questa partecipazione attiva che l’educazione progressiva esige dall’insegnante è un’altra ragione della sua maggiore difficoltà rispetto al sistema tradizionale. Ogni teoria che ritiene possa essere assegnata importanza a fattori oggettivi (libri, materiale, equipaggiamento ecc.) solo per imporre un controllo esterno e per limitare la libertà degli individui, si fonda sulla nozione che l’esperienza è vera esperienza solo quando le condizioni oggettive sono subordinate a ciò che si verifica nell’interno degli individui che hanno l’esperienza. Ciò non vuol dire che le condizion i oggettive si possano eliminare, si ammette che esse devono essere considerate: è una concessione all’ineliminabile fatto che viviamo in un mondo di cose e di persone. Ma Dewey pensa che l’osservazione di ciò che accade in certe famiglie e in certe scuole rivelerebbe che certi genitori ed insegnanti agiscono con l’idea che le condizioni oggettive devono essere subordinate a quelle interne. In questo modo si ammette che queste ultime sono le più importanti e che nella loro durata fissano l’intero processo e ducativo. Chiariamo la cosa con l’esempio di un bimbo. I suoi bisogni di nutrirsi, di riposare ecc. sono di primaria importanza e decisivi sotto un certo aspetto. Lo si deve nutrire, gli si deve procurare un sonno tranquillo e cosi via. Ma questo non signi fica che il genitore nutrirà il bimbo ogni volta che mostra malumore, che non ci sia un orario regolare per la nutrizione e il sonno. La madre tiene conto dei suoi bisogni senza però sottrarsi alle sue responsabilità per regolare le condizioni oggettive sotto le quali i bisogni sono soddisfatti. Se una madre è accorta sotto questo aspetto, si baserà sulle passate esperienze degli esperti e sulle proprie per rendersi conto di quali sono le esperienze che meglio promuovono lo sviluppo normale dei bambini. Que ste condizioni, invece che essere subordinate agli impulsi interno del bambino, sono predisposte in modo che ci possa essere una particolare specie di interazione fra esse e questi stati interni. La parola “interazione” esprime il secondo principio essenziale, che permette di interpretare un’esperienza nella sua funzione ed efficacia educativa. Essa assegna eguali diritti alle condizioni obbiettive e interne. Qualsiasi esperienza è un gioco reciproco di queste due serie di condizioni. Prese insieme e nella loro interazione, costituiscono una situazione. Il problema dell’educazione tradizionale consisteva nel porre poca attenzione ai fattori interni, che hanno invece un peso notevole sul tipo di esperienza che si avrà. Si violava così il principio dell’interazione. Ma questa violazione non è una buona ragione perché la nuova educazione violi il principio, a meno che non si accetti la filosofia dell’ “aut-aut”. L’esempio del bambino indica in primo luogo che i genitori hanno la responsabilità di sistemare le condizioni in cui si compie l’esperienza del nutrimento, del sonno ecc., e in secondo luogo, che assolvano il proprio dovere con l’utilizzare l’esperienza accumulata del passato, quale essa è rappresentata ad esempio dal consiglio di medici competenti. Viene forse limitata la libertà della madre quando essa si giova dell’insieme di conoscenze che si è procurata in questo modo per regolare le condizioni oggettive del sonno e del nutrimento? O piuttosto il potenziamento della sua intelligenza nell’adempiere i l compito materno accresce la sua libertà? Indubbiamente se informazione e consigli si trasformassero in imperativi da cui non è possibile allontanarsi, si verificherebbe una diminuzione di libertà della madre e del figlio. Sotto quale aspetto la regolamentazione delle condizioni oggettive limita la libertà del piccolo? Certo, si limitano i suoi movimenti immediati quando lo si pone nella culla nel momento in cui desidererebbe giocare, o non gli si dà da mangiare quando ne manifesta il desiderio, o non lo si prende in braccio quando richiama la nostra attenzione con gli strilli. Ma c’è restrizione di libertà anche quando la madre afferra il bambino che sta per cadere nel fuoco. Per libertà si deve intendere allora qualcosa che si collega con incidenti fuggi tivi o si deve piuttosto riporre nella continuità di svolgimento dell’esperienza? Dire che gli individui vivono in un mondo significa in concreto, che essi vivono in una serie di situazioni. E quando si dice che essi vivono in queste situazioni, il signifi cato della parola “in” significa che è in corso un’interazione fra un individuo e oggetti e altre persone. La situazione e l’interazione non possono essere concepite una scissa dall’altra. Un’esperienza è sempre quel che è in virtù di una transazione stabi lita fra un individuo e il suo ambiente, sia che quest’ultimo consista in persone con cui sta parlando di un argomento, sia che consista in giochi cui attende; in un libro che sta leggendo, ovvero in materiali di un esperimento in corso. L’ambiente sono qu indi le condizioni che interagiscono con i bisogni, i desideri, i propositi e le capacità personali per creare l’esperienza che si compie. I due principi della continuità e dell’interazione si collegano e uniscono fra di loro, sono la longitudine e la latitudine dell’esperienza. Situazioni differenti si succedono l’una all’altra, ma in virtù del principio della continuità qualcosa passa da quella che precede a quella che segue. Via via che un individuo passa da una situazione all’altra, il suo mondo, il suo ambiente si espande o si contrae. Egli non si trova a vivere in un altro mondo, ma in una diversa parte o diverso aspetto del suo medesimo mondo. Quello che ha acquisito in conoscenza e abilità in una situazione diventa strumento di comprensione e azione nella situazione che segue. Il processo continua quando la vita è l’apprendere. Se non è così il corso dell’esperienza è disordinato, perché il fattore individuale (che è parte dell’esperienza) è spezzato. Un mondo le cui parti e i cui aspetti non si legano l’un l’altro è causa di una personalità scissa. Quando questa scissione raggiunge un certo punto allora l’individuo è folle. D’altra parte una personalità è pienamente integrata solo nel caso che le successive esperienze si siano integrate l’una nell’al tra. Essa può essere costruita soltanto come è costruito un mondo di oggetti in relazione vicendevole. La continuità e l’interazione nella loro unione reciproca offrono il significato e il valore educativo di un’esperienza. La preoccupazione di un educatore è la situazione in cui ha luogo l’interazione. L’individuo che entra a far parte di essa, è quel che è in quel dato momento. È l’altro fattore, quello delle condizioni oggettive, che può essere regolato dall’educatore. La frase “condizioni oggettive” ha un senso molto lato: implica quel che è fatto e il modo in cui è fatto, non solo le parole dette, ma anche il tono delle voce con cui sono dette. Implica arredamento, libri, attrezzi, giocattoli, giochi, i materiali con cui l’individuo interagisce e, più importante di tutti, il totale assetto sociale delle situazioni in cui una persona è impegnata. Quando diciamo che le condizioni oggettive sono quel che l’educatore ha il potere di regolare, intendiamo che la sua abilità di influenzare direttamente l’esperienza degli altri, e quindi la loro educazione, gli impone il dovere di determinare quell’ambiente che interagirà con coloro a cui insegna, per creare un’esperienza che abbia valore. Il guaio dell’educazione tradizionale era che non consideravano l’altro fattore nel creare esperienza, vale a dire i poteri e i propositi di quelli cui insegnavano. Si muoveva dal presupposto che una certa serie di condizioni fosse intrinsecamente desiderabile, ma si astraeva dalla sua capacità di evocare una certa qualità di risposta negli individui. Questo difetto rendeva accidentale il processo dell’insegnare e dell’apprendere. Coloro per i quali le condizioni che si erano provviste erano adatte riuscivano ad imparare, gli altri se la cavavano come potevano. La responsabilità di scegliere condizioni oggettive porta allora con sé la responsabilità di comprendere i bisogni e le attitudini degli individui che imparano in un dato tempo. Non basta che certi materiali e metodi siano stati efficaci con altri individui in altri tempi . Ci deve essere una ragione per pensare che essi provocheranno un’esperienza che ha qualità educativa con dati individui in un dato tempo. All’abitudine di non prendere nel debito conto la necessità di adattarsi ai bisogni e alle attitudini degli individui risale l’idea che certe materie di studio e certi metodi siano intrinsecamente culturali o buoni per la disciplina mentale. L’idea che certi oggetti di studio e certi metodi e che la conoscenza di certi fatti e di certe verità posseggono valore educativo in sé e per sé è la ragione per cui l’educazione tradizionale ha ridotto in gran parte il materiale dell’educazione a una dieta di materiali predigeriti. Sulla base di quest’idea si è creduto che bastasse regolare la quantità e la difficoltà del materiale offerto secondo un piano di gradualità, di mese in mese. Si è supposto che l’alunno l’avrebbe preso in base alle dosi prescritte dall’esterno. Se egli si rifiutava di prenderlo, se lasciava fisicamente la scuola, se mostrava ripugnanza per l’argomento di studio lo si imputava a una sua colpa. Nessuno si chiedeva se l’inconveniente risalisse alla materia e al modo in cui venisse offerta. Il principio dell’interazione ci fa intendere che il mancato adattamento del materiale ai bisogni degli individui può provocare un’esperienza non educativa quanto il mancato adattamento di un individui al materiale. Il principio di continuità nella sua applicazione all’educazione significa che il futuro deve essere tenuto presente in ogni gradino del processo educativo. Questa idea è travisata dall’educazione tradizionale. Essa ammette che l’acquisto di certe abilità e l’apprendimento di certe materie preparano gli alunni ad affrontare le esigenze del futuro. Quella di “preparazione” è però un’idea che si presta ad equivoci. Ogni esperienza dovrebbe preparare l’individuo alle esperienze posteriori più profonde e ampie. È questo il vero significato di crescita e continuità dell’esperienza. Ma è erroneo supporre che la mera acquisizione di nozioni di aritmetica, geografia, s toria ecc. studiate allo scopo di essere utili in futuro, abbia questo effetto. E non è meno erroneo supporre Volontà o il desiderio di una persona che mette ordine, ma lo spirito motore dell’intero gruppo. Il controllo è sociale, ma gli individui sono parte della comunità, non sono fuori di essa. Non intendo con questo che non ci siano occasioni in cui l’autorità, per esempio dei genitori, non debba intervenire ed esercitare un controllo diretto. Ma dico in primo luogo che il nume ro di queste occasioni è limitato rispetto a quelle in cui il controllo non è esercitato da un’autorità personale ma di situazioni cui tutti prendono parte. Ma quello che più importa, l’autorità di cui si parla quando viene esercitata in una casa ben regolata o in un altro gruppo comunitario, non è una manifestazione di volontà meramente individuale; il genitore o l’insegnante la esercita in quanto rappresenta ed è l’esecutore degli interessi del gruppo. Riguardo al primo punto, in una scuola ben ordinata la fiducia di controllare questo o quell’individuo deve essere riposta nel controllo esercitato sulle attività che vi si esplicano e sulle situazioni di cui queste fanno parte. L’insegnante riduce al minimo le occasioni in cui deve esercitare un’autorità pe rsonale. In secondo luogo, quando è necessario parlare e agire fermamente, lo fa in nome dell’interesse del gruppo, non per far mostra di un potere personale. Ecco ciò che differenzia l’azione arbitraria da quel che è giusto e leale. Inoltre non è necessario che la differenza sia formulata con parole, o dall’insegnante o dall’allievo, per essere avvertita nell’esperienza. Sono pochi i ragazzi che non avvertono la differenza fra un’azione motivata dal potere personale e il desiderio di imporla, e l’azione che è giusta perché suggerita dall’interesse per tutti. Sarei incline a dire che i ragazzi sono più sensibili degli adulti alle manifestazioni e ai sintomi di questa differenza. I ragazzi imparano questa differenza quando giocano tra di loro. Essi sono incl ini ad accogliere suggerimenti di un ragazzo e a farlo capo se la sua condotta aggiunge qualcosa a ciò che stanno facendo, mentre si risentono contro tentativi di imposizione. In quest’ultimo caso si ritirano, e quando gli si chiede il perché rispondono: “fa troppo il padrone”. Facendo riferimento alla scuola tradizionale penso sia giusto dire che se i comandi dell’insegnante erano spesso illegittimi e l’ordine che regnava era dovuto alla acquiescenza alla volontà di un adulto, ciò risaliva al fatto che l’insegnante vi era costretto dalla situazione. La scuola non era un gruppo tenuto insieme dalla partecipazione alle attività comuni . Mancavano quindi le varie condizioni normali di controllo. La loro mancanza veniva colmata con il diretto intervento dell’insegnante che “teneva l’ordine”, in quanto l’ordine era nelle sue mani anziché nella partecipazione collettiva al lavoro. La conclusione è che nelle scuole nuove la fonte principale di controllo sociale è riposta nella natura stessa del lavoro, inteso come un’impresa sociale, a cui tutti gli individui prendono parte e si sentono responsabili. La maggior parte dei ragazzi è naturalmente “socievole”. L’isolamento pesa più a loro che a essi. La vita di comunità ha le sue radici in questa socialità naturale. Ma la vita di comunità non si organizza in modo meramente spontaneo, esige pensiero e piani precisi. L’educatore deve conoscere gli individui e la materia di studio, in modo tale da trarre le attività che si prestano all’organizzazione sociale, cioè un’organizzazione nella quale ogni individuo può portare il suo contributo e nella quale attività sono i mezzi principali del controllo. Non mi illudo che tutti gli alunni risponderanno in ogni occasione. Alcuni di essi quando iniziano la scuola, sono già vittime di condizioni esterne sfavorevoli, e sono così diventati passivi e inopportunamente docili, a tal punto da non essere più in grado di collaborare. Altri, per colpa di esperienze precedenti sono presuntuosi, indisciplinati e ribelli. Ma questi casi non po ssono mettere in dubbio il principio generale del controllo sociale. È altresì vero che non ci sono regole generali per trattare questi casi, l’insegnante deve regolarsi caso per caso. L’educatore deve scoprire le cause dell’abitudine ad opporsi. L’esclusione dal processo educativo è una misura che conviene in certi casi, ma non è una soluzione. Può infatti rafforzare proprio le cause che hanno dato origine all’atteggiamento antisociale, per esempio al desiderio di richiamare l’attenzione su di sé. Non vorrei attribuire troppa importanza a questi casi eccezionali, per quanto sia vero che oggi le scuole progressive abbiano un gran numero di questi casi; i genitori infatti come ultimo scampo affidano i figli a queste scuole. Credo che l’insufficiente discipli na in certe scuole progressiste sia da far risalire non a questi casi eccezionali, ma piuttosto alla mancata predisposizione di attività capaci di creare situazioni che tendono a esercitare controllo su ciò che fa ogni alunno. Questa omissione risale a insufficiente meditazione del piano che ci si è proposti. Le cause di questa insufficienza sono varie. Una è l’idea che non occorre predisporre un piano, ma che anzi esso contrasti con la legittima libertà di coloro che vengono istruiti. Naturalmente può darsi che il piano predisposti dall’insegnante sia stato fatto in maniera così rigida da averlo ridotto ad un’imposizione dell’adulto. Ma la pianificazione non deriva affatto da questo principio. La maggiore conoscenza dell’insegnante di materie, del mondo e degli individui sarebbe inutile se egli non fosse in grado di disporre le condizioni che promuovono l’attività della comunità e l’organizzazione che esercita controllo sugli impulsi individuali. Non è perché un dato piano è stato predisposto in maniera così meccanica da lasciare poco spazio al pensiero indipendente che si deve respingere ogni idea di piano. Al contrario, l’educatore deve predisporre un genere di piano molto più intelligente e quindi difficile. Deve esaminare la capacità e i bisogni degli allievi con cui ha a che fare e predisporre le condizioni che forniscano materia di studio e contenuto per esperienze che appaghino questi bisogni e sviluppino queste capacità. Il piano deve essere abbastanza flessibile per permettere il libero gioco dell’esperienza individuale e abbastanza fermo per indirizzare verso un continuo esercizio del potere. Colgo l’occasione per dire qualcosa delle attribuzioni e dell’ufficio dell’insegnante. Il principio che lo sviluppo dell’esperienza si compie attraverso l’interazione indica che l’educazione è un processo sociale. Essa lo diventa maggiormente quando gli individui formano un gruppo comunitario. È assurdo escludere l’insegnante dai membri del gruppo, egli è il più maturo del gruppo e ha quindi la responsabilità di dirigere le interazioni e le intercomunicazioni, che costituiscono la vera vita del gruppo in quanto comunità. La tendenza di togliere all’insegnante libertà come individuo e rispettare solo quella degli allievi è un altro esempio di reazione da un estremo all’altro. Quando gli alunni erano una classe piuttosto che un gruppo sociale, l’insegnante era costretto ad agire in gran parte dal di fuori e non in veste di direttore di processi di scambio in cui tutti hanno la loro parte. Se l’educazione è basata sull’esperienza e l’esperienza educativa viene concepita come un processo sociale, la situazione cambia radicalmente. L’insegnante perde la sua posizione esterna di padrone per assumere quella di direttore di attività associate. Discutendo del gioco come esempio di controllo sociale, abbiamo accennato alla presenta di un fattore convenzionale standardizzato. Nella vita scolastica a questo fattore fa riscontro il problema delle maniere, specialmente quelle buone nella manifestazione di garbatezza e cortesia. Più impariamo a conoscere i costumi di diverse parti del mondo in tempi diversi, più ci accorgiamo di quanto siano differenti nei diversi luoghi e tempi. Questo attesta che la convenzione ha una parte importante nei cambiamenti. Ma non c’è gruppo in qualsiasi luogo e tempo che non abbia il suo codice di maniere. La forma particolare di convenzione non ha nulla di fisso ne assoluto. Ma l’esistenza stessa di una forma di convenzione non è una convenzione. Essa accompagna ogni relazione sociale. È possibile che queste forme sociali diventino “mere formalità”, o pura apparenza esteriore, senza alcun intrinseco significato. Ma respingere le forme ritualistiche delle relazioni sociali non significa rinunciare a ogni elemento formale. Attesta piuttosto l’esigenza che si sviluppino forme di socializzazione fra gli uomini che siano appropriate alle situazioni sociali. Certi visitatori di scuole progressive sono urtati dall’assenza di buone maniere che osservano, un conoscitore meno superficiale della situazione si accorge che l’assenza di esse è dovuta a un interesse più vivo dei ragazzi per quello che stanno facendo. Nel loro fervore possono urtarsi fra di loro o urtare i visitatori senza chiedere scusa. Si può dire che questa condizione è migliore una mera sottomissione esterna congiunta a una totale assenza intellettuale e sentimentale di interesse per l’opera scolastica. Ma essa rappresenta anche una deficienza nell’educazione, una deficienza nell’apprendimento del sapersi accordare e adattare reciprocamente. L’educazione procede per una via unilaterale, poiché quegli abiti sono nel processo di formazione quelli che ostacolano il futuro apprendere. 5. La natura della libertà Desidero fare qualche osservazione circa l’altro alto del problema del controllo sociale, cioè la natura della libertà. La sola libertà che ha durevole importanza è la libertà dell’intelligenza, cioè di osservare e di giudicare. L’errore più comune per quanto concerne la libertà è quello di identificarla con la libertà di movimento o con il lato esterno e fisico dell’esperienza. Questo lato esterno e fisico dell’attività non può essere separato dal lato interno di essa, dalla libertà di pensare, di desiderare, di fare progetti. La limitazione imposta esternamente dalle disposizioni immutabili dell’aula scolastica tradizionale, con le immutabili file di banchi e il regime militare degli alunni a cui era concesso muoversi solo in certi momenti, poneva una grave restrizione alla libertà intellettuale e morale. Se si voleva creare un terreno propizio all o sviluppo dell’individuo occorreva farla finita con i metodi della camicia di forza. Non è meno vero che una maggiore libertà di moto esterno è un mezzo e non un fine. Il problema educativo non è risolto quando si è ottenuta questa forma di libertà. Tutto dipende da ciò che si fa con questa maggiore libertà. Parliamo dei benefici che ci sono nell’accrescimento della libertà esterna. In primo luogo, senza di essa è impossibile che un insegnante impari a conoscere l’individuo con cui ha a che fare. La calma La formulazione di propositi è quindi un’operazione intellettuale complessa. Implica osservazione delle condizioni circostanti, conoscenza di ciò che è accaduto in passato in situazioni analoghe e giudizio che raccoglie quel che è stato osservato e richiamato per vedere cosa significano. Un proposito differisce da un impulso e da un desiderio originale per il fatto di venire tradotto in un metodo d’azione basato sulla previsione delle conseguenze de ll’operare sotto certe condizioni date in un certo modo. Il desiderio di qualcosa può essere così intenso da impedire un’esatta valutazione delle conseguenze che deriveranno dal suo soddisfacimento. Non si deve cercare qui il modello dell’educazione. Il problema cruciale dell’educazione è ottenere che l’azione non segua immediatamente il desiderio, ma sia preceduta dall’osservazione e dal giudizio. Questo punto ha molta importanza nelle scuole progressive. L’eccessiva accentuazione dell’attività in generale , anziché dell’attività intelligente come fine dell’educazione, conduce a identificare la libertà con l’esecuzione immediata di impulsi e desideri. Questa identificazione genera una confusione dell’impulso con il proposito; mentre invece non c’è proposito finché l’azione non è proposta nella previsione delle conseguenze che l’esecuzione dell’impulso reca con sé; previsione che è impossibile senza osservazione, informazione e giudizio. La previsione deve mescolarsi al desiderio e all’impulso per acquistare forza propulsiva. Essa dà allora direzione a ciò che altrimenti è cieco, mentre il desiderio dà alle idee impeto e intensità. Allora un’idea diventa proposito dentro e per l’attività da promuovere. Supponiamo che un individuo abbia il desiderio di costruirsi una casa. Per quanto sia forte il suo desiderio non può realizzarlo direttamente. Deve formarsi un’idea del genere di casa che desidera, deve tracciare un piano, fare la pianta ecc. egli deve fare i conti anche con la sua capacità di pagare, l’ampiezza e i bisogni della sua famiglia, le possibili località ecc., sono fatto obbiettivi e non parte del desiderio originale. Ma essi devono essere presi in esame e giudicati prima che il desiderio possa essere convertito in proposito e il proposito in piano d’azione. Ognuno di noi ha desideri, almeno finché non cadiamo in uno stato patologico di apatia. Questi desideri sono le vere spinte dell’azione. L’intensità del desiderio misura l’intensità dello sforzo che sarà fatto. Ma i desideri sono castelli in aria finché non vengono trasformati in mezzi con cui possono essere realizzati. Poiché i mezzi sono obbiettivi, occorre studiarli e comprenderli per formare un proposito autentico. L’educazione tradizionale ignorava l’importanza dell’impulso e del desiderio pers onale come spinta iniziale all’azione. Ma non è una buona ragione perché l’educazione progressiva identifichi impulsi e desideri con il proposito e trascuri quindi il bisogno di accurata osservazione, di giudizio, di informazione. In un piano educativo l’esistenza di un desiderio e di un impulso non è lo scopo finale. È un’occasione, è la richiesta della formazione di un proposito e di un metodo di attività . Un proposito può essere formato solo con lo studio delle condizioni e con il procurarsi tutte le informazioni che occorrono. Il compito dell’insegnante è vigilare che l’occasione sia colta. Poiché c’è libertà nelle operazioni dell’osservazione intelligente e nel giudizio con cui viene sviluppato un proposito, l’ indirizzo che l’insegnante dà all’esercizio dell’intelligenza dell’alunno è un aiuto alla libertà, non una limitazione di essa. Talvolta gli insegnanti temono di dare suggerimenti ai membri di un gruppo su quello che dovrebbero fare. In alcuni casi gli alunni sono messi fra gli oggetti e i materiali e abbandonati interamente a se stessi, ripugnando all’insegnante di suggerire quel che si può fare con i materiali nel timore di violare la loro libertà. Perché fornire materiali allora, se anch’essi suggeriscono qualcosa? Ma quel che più importa è che il suggerimento deve provenire da qualche parte. Non si capisce perché un suggerimento che proviene da uno che ha una più larga esperienza e un più esteso orizzonte non debba essere altrettanto valido quanto un suggerimento che proviene da una fonte accidentale. Naturalmente è possibile abusare del proprio ufficio e costringere i ragazzi a operare secondo direttive imposte dal volere dell’insegnante piuttosto che degli alunni. Il mezzo per evitare questo pericolo non consiste nel ritirarsi dell’adulto; l’insegnante deve rendersi conto delle capacità, dei bisogni e delle esperienze passate degli alunni, e inoltre deve permettere alla suggestione di trasformarsi in un piano e in un proposito mediante i suggerimenti forniti dai membri del gruppo. Il progetto educativo è quindi un’impresa cooperativa e non un’imposizione: la sollecitazione dell’insegnante è un punto da cui prendere le mosse per sviluppare un proposito in un piano attraverso i contributi che provengono dall’esperienza di tutti quelli impegnati ne l processo di apprendimento. Lo svolgimento si compie attraverso un reciproco “dare e prendere”; l’insegnante prende e da. Il punto essenziale è che il proposito nasca e prenda forma attraverso il processo dell’intelligenza sociale. 7. Organizzazione progressiva della materia di studio Le condizioni oggettive di osservazione, memoria, informazione procurata dagli altri, di immaginazione hanno la funzione di promuovere o meno l’arricchimento dell’esperienza posteriore; e sono state implicitamente identificate con la materia dello studio e del sapere; o più generalmente, con la materia del corso degli studi. Tuttavia non è stato detto nulla di esplicito intorno alla materia di studio come tale : occorre ora trattarla. Tutto ciò che può essere chiamato materia di studio, aritmetica, storia, geografia, scienze naturali ecc. deve essere tratto dal materiale che rientra nell’ordinaria esperienza quotidiana. Sotto questo riguardo la nuova educazione contrasta con i procedimenti che nascono da fatti e verità che sono fuori dell’ambito dell’esperienza di coloro che vengono istruiti, da cui sorge il problema di scoprire vie e mezzi per portarli nell’esperienza. Indubbiamente una delle ragioni principali del grande successo dei nuovi metodi nell’educazione elementare è stata l’osservanza del principio opposto. Ma trovare il materiale per l’insegnamento entro l’esperienza è solo il primo passo. In un secondo momento ciò che è stato sperimentato deve progressivamente assumere una forma più ricca e meglio organizzata, che gradualmente si avvicini a quella in cui la materia del sapere si presenta a una persona matura. Questo cambiamento è possibile senza allontanarsi dal legame dell’educazione con l’esperienza, e ciò è dimostrato dal fatto che questa trasformazione si compie fuori dalla scuola e dall’educazione. Il bimbo per esempio, all’inizio è circondato da oggetti limitati nello spazio e nel tempo. Il mondo che lo circonda si estende costantemente con l’estend ersi dell’esperienza stessa senza aiuto di istruzione scolastica. Mentre il bambino impara a camminare, parlare ecc. il contenuto della sua esperienza si amplia ed approfondisce. Entra in contatto con nuovi oggetti ed eventi che suscitano nuove forze, e l’esercizio di queste forze allarga la sua esperienza. Il mondo circostante, il mondo dell’esperienza si fa sempre più fitto, e l’educatore deve trovare il modo di fare consapevolmente quel che la “natura” compie nei primi anni. La prima delle due indicazioni che abbiamo dato è un precetto cardine della nuova scuola: gli inizi dell’istruzione si collegano all’esperienza che gli educandi già posseggono, questa esperienza e le capacità che sono state sviluppate per mezzo suo devono fornire il punto da cui deve muovere tutto il sapere posteriore. Non sono sicuro che l’altra condizione, lo svolgimento ordinato verso l’espansione del sapere attraverso l’esperienza, riceva altrettanta attenzione. Indubbiamente questa fase dell’esperienza è più difficile dell’altra. Coloro che lavorano con bambini nei loro primi anni di vita non hanno difficoltà a trovare la loro esperienza passata e a trovare attività che si connettano ad essa in modo vitale. Con ragazzi di età più avanzata ambedue i fattori diventano più complessi. È erroneo supporre che il principio che ogni esperienza avvia a qualcosa di diverso sia adeguatamente soddisfatto con il dare agli alunni nuove esperienze. È essenziale che i nuovi oggetti ed eventi siano intellettualmente riferiti a quelli delle esperienze precedenti, il che significa che ci deve essere qualche progresso nella consapevole articolazione di fatti e idee. In tal modo il compito dell’educatore diventa quello di discernere, nell’ambito dell’esperienza attuale, quelle cose che contengono la promessa di presentare nuovi problemi, i quali con lo stimolare nuove vie d’osservazione e di giudizio allargheranno il campo dell’esperienza futura. Egli deve costantemente considerare quello che è già acquisito non come un possesso statico, ma come un mezzo e uno strumento per aprire nuovi campi, i quali esigono nuovi sforzi di osservazione e intelligente uso della memoria. Continuità nella crescita deve essere la parola d’ordine costante. Più di qualsiasi altra attività l’educatore esige che si guardi lontano. Un medico una volta ridata la salute al paziente ha terminato il suo compito; egli può certamente suggerirgli come vivere per evitare ricadute in futuro, ma la condotta del paziente non è affar suo. Nel momento in cui il medico istruisce e da consigli al paziente per il futuro, assume la funzione di educatore. L’educatore per la natura della sua stessa attività è costretto a considerare il suo compito attuale in funzione di ciò che esso produrrà o meno in futuro, i cui oggetti sono legati con quelli del presente. Il problema dell’educatore progressivo è quindi più complesso rispetto all’insegnante della scuola tradizionale. Anche quest’ultimo doveva guardare avanti a sé, ma a meno che la sua personalità ed entusiasmo lo portassero al di là dei limiti del la scuola tradizionale, poteva accontentarsi di pensare al prossimo periodo di esami o alla promozione alla classe superiore. Poteva prospettare il futuro nei termini dei fattori che rispondono alle esigenze del sistema scolastico tradizionale. L’insegnante progressivo che deve congiungere educazione ed esperienza effettiva ha un compito più duro. Egli deve conoscere quali possibilità ci sono di introdurre gli allievi in nuovi campi che appartengono a esperienze già fatte, e deve servirsi di questa conoscenza come di un criterio per scegliere di disporre le condizioni che influenzano la loro esperienza presente. Gli argomenti della dall’esperienza della vita presente dell’alunno per avviarla alla scienza è il miglior esempio che si può portare a sostegno del principio fondamentale, che occorre usare l’esperienza esistente come mezzo per avviare il discente verso un mondo circostante più ampio e meglio organizzato di quel che si trova nelle esperienze da cui muove la crescita educativa. L’opera di Hogben, Mathematics for the Million, mostra come la matematica può recare il contributo desiderato non solo alle scienze fisiche. È in riferimento all’organizzazione della conoscenza che consideriamo le filosofie dell’aut-aut più attive. Nella pratica si prende spesso per certo che siccome l’educazione tradizionale si basava su un’organizzazione della conoscenza che disprezzava l’esperienza presente della vita, l’educazione fondata nell’esperienza della vita dovrebbe disprezzare l’organizzazione di fatti e idee. Un’educazione che non tende a conoscere un maggior numero di fatti e ad accogliere un maggior numero di idee quanto a meglio ordinarli non è educativa. Non è vero che l’organizzazione è un principio estraneo all’esperienza. L’esperienza dei ragazzi ha per centro le persone e la casa domestica. Il perturbamento dell’ordine normale delle relazioni familiari, è una fonte feconda di disordini mentali ed emotivi. Fatto che attesta quanto sia reale per i ragazzi questa forma di organizzazione. Uno dei grandi benefici della prima educazione nelle scuole d’infanzia e nei primi gradi, è che essa preserva il centro sociale e umano dell’organizzazione dell’esperienza, impedendo che il centro di gravità venga violentemente cambiato, come accadeva invece in passato. Uno dei problemi più importanti dell’educazione è la modulazione, cioè movimento da un centro sociale e umano verso un piano intellettuale più obbiettivo di organizzazione, tenendo però sempre fermo che l’organizzazione intellettuale è il mezzo con cui le relazioni sociali, legami e vincoli umani possono essere compresi e intelligentemente ordinati. Quando l’educazione è basata in teoria e pratica sull’esperienza, va da sé che la materia del sapere organizzato dell'adulto e dello specialista non può costituire il punto di partenza. Rappresenta tuttavia la meta verso la quale l’educazione dovrebbe muovere ininterrottamente. Uno dei principi fondamentali dell’organizzazione scientifica della conoscenza è il principio di causa effetto. Il modo in cui il principio è colto e formulato dallo scienziato è ovviamente diverso da quello in cui lo può accostare nell’esperienza il ragazzo. Ma né la relazione né il suo significato sono estranei all’esperienza del ragazzo, anche piccolo. Quando un bimbo di 2/3 anni impara a non avvicinarsi troppo alla fiamma, e ad avvicinarsi quanto basta alla stufa per goderne il calore, egli coglie la relazione causale e se ne avvale. Non c’è attività intelligente che non si conformi alle esigenze di questa relazione, ed essa è intelligente nella misura in cui vi si conforma consapevolmente. Nelle prime forme di esperienza la relazione causale non si presenta in astratto, ma nella forma di relazione fra mezzi impiegati e fini raggiunti. Progresso nel giudicare e nell’intendere è progresso nell’abilità a fare propositi e di scegliere mezzi per realizzarli. Le esperienze più elementari dei ragazzi sono piene di casi di relazione di mezzi e conseguenze. L’inconveniente nell’educazione è l’incapacità di sfruttare le situazioni per condurre gli alunni a cogliere la relazione in quei determinati casi di esperienza. I logici chiamano “analisi e sintesi” le operazioni con cui sono scelti e organizzati i mezzi in relazione a un proposito. L’attività intelligente è distinta da quella s enza meta per il fatto che implica una scelta di mezzi attivi (analisi), e la loro sistemazione (sintesi) per conseguire uno scopo o un progetto che ha di mira. È ovvio che più sarà immaturo il discendente, tanto più saranno semplici i fini da perseguire e più rudimentali i mezzi impiegati. Con la maturità il problema della relazione reciproca tra i mezzi diventa più urgente. Quando l’osservazione intelligente è trasferita dalla relazione di mezzi a fini al più complesso problema della relazione dei mezzi fra loro, l’idea di causa effetto diventa esplicita. La giustificazione finale del laboratorio, della cucina, e così via nella scuola non è il fatto che favoriscono l’acquisizione di abilità meccaniche che avviano gli alunni a fare attenzione alle relazioni fra mezzi e fini, e quindi a considerare il modo in cui interagiscono fra loro per produrre certi effetti. In principio si tratta della medesima ragione che giustifica l’esistenza di laboratori per la ricerca scientifica. Se non si riuscirà a risolvere i l problema dell’organizzazione intellettuale sulla base dell’esperienza, si verificherà certamente una reazione a favore dei metodi imposti dall’esterno. Ci sono già sintomi di questa reazione. Si dice che le nostre scuole, falliscono nel loro compito fond amentale. Non sviluppano il discernimento critico e la capacità di ragionare. L’attitudine a pensare è soffocata dal cumulo delle informazioni disparate mal digerite, e dalla pretesa di acquistare nuove forme di perizia da operare immediatamente negli affari e nel commercio. Si afferma che questi guai derivano dall’influsso della scienza e dall’eccessivo peso dato alle esigenze del presente a scapito dello sperimentato retaggio culturale trasmessoci dal passato. Se ne deduce che la scienza e il suo metodo devono tenere un posto subordinato; che dobbiamo tornare alla logica dei principi primi formulati da Aristotele e san Tommaso, perché i giovani possano disporre di un punto saldo di appoggio nella loro vita intellettuale e morale. Non vedo che due alternative fra cui l’educazione deve scegliere, se non vuole andare alla deriva. L’una consiste nel tentativo di indurre gli educatori a ritornare ai metodi e agli ideali intellettuali che sorsero secoli prima che apparisse il metodo scientifico. L’esortazione a farlo può avere un successo temporaneo in un periodo in cui l’inquietudine generale, sentimentale, intellettuale ed economica, è al colmo. In queste condizioni risorge vivo il bisogno di affidarsi ad una salda autorità. Tuttavia esso è cosi estraneo alle condizioni della vita moderna che considero stoltezza cercare la salvezza in questa direzione. L’altra alternativa è la sistematica utilizzazione del metodo scientifico considerato come modello e ideale dell’intelligente esplorazione e sfruttamento delle possibilità implicite nell’esperienza. Il problema si pone con una forza particolare per le scuole progressive. Se non si dedica un’attenzione costante allo svolgimento del contenuto intellettuale delle esperienze e al conseguimento di un’organizzazione incessantemente crescente di fatti e idee, non si fa che rafforzare la tendenza a un ritorno reazionario verso l’autoritarismo intellettuale e morale. Certi tratti del metodo scientifico sono così strettamente legati con qualsiasi progetto educativo basato sull’esperienza che essi non possono non essere noti. Anzitutto il metodo sperimentale della scienza dedica maggiore importanza alle idee in quanto idee di qualsiasi altro metodo. Non ci può essere esperimento in senso scientifico senza un’idea che diriga l’azione. Il fatto che le idee adoperate siano ipotesi e non verità definitive, è la ragione per cui le idee sono più esaminate e verificate nella scienza che altrove. La ragione di esaminarle scrupolosamente cessa solo quando sono accolte come verità. Ma finché sono ipotesi devono essere costantemente soggette alla verifica e revisione, il che implica che siano accuratamente formulate. In secondo luogo, idee e ipotesi sono verificate dalle conseguenze che provoca la loro attuazione. Ciò significa che occorre osservare con cura le conseguenze dell’azione. Un’attività che non è arrestata per osservare le conseguenze può suscitare gioia per un momento, ma intellettualmente non reca nessun frutto. Non fornisce conoscenza sulle situazioni in cui si compie l’azi one e non può condurre al chiarimento e all’espansione di idee. In terzo luogo, il metodo dell’intelligenza quale si manifesta nelle diverse tappe del procedimento sperimentale esige che si conservino tracce delle idee, delle attività e delle conseguenze osservate. Conservare tracce significa che la riflessione riconsideri operazioni che comprendono il discernimento e il ricordo dei tratti significativi di un’esperienza in corso. Riconsiderare significa riesaminare quel che è stato fatto in modo da estrarne i significati netti, che sono il capitale di cui si vale l’intelligenza nelle esperienze future. È qui il cuore dell’organizzazione intellettuale e della disciplina mentale. Quel che è stato detto è strettamente connesso con la seguente richiesta: le esperienze per essere educative devono sfociare in un mondo che si espande in un programma di studio, di fatti, di notizie ed idee. Questa condizione si soddisfa solo a condizione che l’educatore consideri insegnare e imparare come un continuo processo di ricostruzione dell’esperienza. Questa condizione a sua volta può essere soddisfatta solo a patto che l’educatore guardi lontano dinnanzi a sé, e consideri ogni esperienza presente come una forza propulsiva per le esperienze future. L’accento posto sul metodo scientifico può dar luogo ad erronee interpretazioni; si può supporre che io intenda riferirmi alla tecnica speciale delle ricerche di laboratorio come è esercitata dalla gente del mestiere. Ma il risalto che ho dato ha poco a che fare con le tecniche degli specialisti. Vuole significare solo che il metodo scientifico è l’unico mezzo autentico a nostra disposizione per cogliere il significato delle nostre esperienze quotidiane nel mondo in cui viviamo. Vuol significare che il metodo scientifico offre un modello efficace del modo in cui e delle condizioni sotto le quali sono adoperate le esperienze per ampliare sempre più il nostro orizzonte. L’adattare il metodo agli individui di vari gradi di maturità è un problema dell’educatore, e i fattori costanti del p roblema sono la formazione delle idee, operanti sulle idee, l’osservazione delle condizioni che ne risultano, e l’organizzazione di fatti e idee per usi futuri. Né le idee, né le attività, né le osservazioni, né l’organizzazione sono le medesime per un individuo di sei, dodici o diciotto anni, per tacere dello scienziato adulto. Ma in tutti i gradi, se l’esperienza è effettivamente educativa si constata un processo d’espansione dell’esperienza. Ne consegue che quale sia il grado dell’esperienza, non abbiamo altra scelta: o agire in conformità del modello che essa ci offre o trascurare la funzione dell’intelligenza nello sviluppo e nel controllo di un’esperienza vivente. 8. L’esperienza come mezzo e fine dell’educazione Ho preso come consolidato il principio che l’educazione per conseguire i suoi fini, sia nei confronti dell’alunno singolo che della società, deve essere basata sull’esperienza della vita di qualche individuo. Non ho sostenuto a favore di questo principio, né ho tentato di giustificarlo.
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