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Esperienza Problematica-Storini, Sintesi del corso di Letteratura

Riassunto dettagliato per esame di letteratura moderna italinana

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Esperienza Problematica-Storini e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura solo su Docsity! L’ESPERIENZA PROBLEMATICA. LE 9 DOMANDE SUL ROMANZO. CRISI A CONFRONTO. L’INCHIESTA DI “NUOVI ARGOMENTI”. “Nuovi argomenti” era una rivista bimestrale diretta da Moravia e Carocci. Il romanzo non era affatto in crisi e, se poteva sembrarlo, dipendeva dalla generale crisi del sistema di tutte le arti. Conseguenza della nuova visione frammentaria, critica e destrutturata della realtà e del mondo economico. È il rapporto fra individuo e realtà che è entrato in crisi. E soprattutto bisogna evidenziare la sostituzione del prodotto artistico, con quello industriale. Moravia trova una responsabilità precisa al cinema, che ha sottratto gran parte dei lettori e degli argomenti al romanzo. I più grandi esponenti della cultura italiana si trovano d’accordo all’unanimità sulle condizioni della cultura novecentesca occidentale. Più che altro, ciò che sembra essere andato in crisi, e che anzi è il punto fondamentale della critica, è proprio la figura dell’autore, il quale sembra inadatto al romanzo, incapace di vedere che l’unica cosa per il quale un romanzo possa funzionare, è la ragione per cui esso è stato scritto. La sua necessità. Il romanzo è quindi necessario e deve essere prodotto e producibile. La domanda che ora ci si pone è quale tipo di romanzo? Il questionario gli sottopone alcune tipologie specifiche: romanzo saggistico, romanzo di scuola francese (no psicologia, si realtà visiva), romanzo oggettivo (‘800-terza persona), romanzo soggettivo (prima persona), romanzo realista-socialista, romanzo dialettale ed in lingua, ed infine il romanzo storico (nazionale). Calvino ha il merito di individuare con chiarezza quale sia la qualità e la natura del soggetto di cui si sta parlando. Calvino avverte che la crisi potrebbe adombrarsi nel modo in cui il romanzo viene definito nel Novecento: quello secondo cui il libro diviene merce, e quindi prodotto di una letteratura commerciale legata al concetto di “industria culturale”. Quindi Calvino individua il problema nel soggetto che produce l’oggetto, e non nei mezzi che lo promuovono e lo distribuiscono. E neppure negli elementi strutturali e nelle forme narrative. Sicuramente alcune tecniche narrative si sono andate perdendo, ma a favore di altre tecniche non meno influenti nella qualità del romanzo novecentesco. Quindi la chiave, come si può interpretare dalle parole di Calvino, è che il romanzo novecentesco si caratterizza per il fatto che è un genere che “tiene tutto insieme”. Il romanzo quindi non è più unidimensionale, ma pluridimensionale, permettendo così al lettore di potersi spostare su tutti gli strati ed i livelli. Probabilmente la lettura su piani multipli è la caratteristica di ogni romanzo di ogni epoca, semplicemente questa analizzata è un’epoca in cui la plurileggibilità è un dato di fatto fuori del quale nessuna realtà può essere accostata. Quindi il romanzo non è in crisi, bensì è un’opera narrativa fruibile e significante su molti piani che si intersecano. Anche Moravia si trovava d’accordo sulla questione, ragionando sul fatto che ogni mutamento va a condizionare non tanto il contenitore, quanto il contenuto, ossia le tecniche narrative. In un mondo di civiltà diviso come il nostro, la qualità che garantisce al romanzo la sua immortalità, è la compresenza di diversissime forme e modi ed ideali stilistici e morali. Il sistema dei generi non ha subito alcun mutamento. Al massimo possono essere i sottogeneri ad aver subito modifiche, sparizioni, ricomparse, morti letterarie. L’unico contenitore che potrebbe contenere dentro di se questa varietà di elementi, sembra essere quello dei romanzi saggistici in prima persona. Si tratta spesso di romanzi di memoria. Dunque, la mancanza di crisi del romanzo va ad evidenziare una più profonda crisi dei generi. Questa affermazione effettivamente coincide con la drastica riduzione del sistema di generi occidentale, a tre tipi soltanto: lirica, epica e drammatica. ANNI ’80 E ’90. L’impossibilità di dare vita ad un nuovo genere di romanzo, risiedeva, secondo Raffaele La Capria, dalla mancanza di un contenuto preciso che prendesse forma nella scrittura. Nei romanzi di oggi, al contenuto, è subentrata la nullità, il luogo comune, un’essenza sottile ed omologante che banalizzava la vita ed ogni forma di pensiero. La valanga di immagini, propone un vuoto di immaginazione. L’inflazione delle parole, propone una svalutazione delle stesse. Prima degli anni Cinquanta esisteva il romanziere, mentre dagli anni sessanta nasce la figura dello scrittore. Il romanzo si è quindi trasformato in un gioco linguistico? In un certo senso si. Come lo dimostra il fatto che il romanziere italiano non abbia conosciuto l’epica della realtà, che si andava a proiettare sull’epica dell’esistenza. I personaggi non si identificano più tramite le loro azioni, in quanto la borghesia di inizio novecento si slega e si estranea dalle proprie azioni. Tra l’inchiesta di “NUOVI ARGOMENTI” e gli anni ’80-’90, si assiste alla deflagrazione del metodo strutturalista e formale e degli sperimentalismi letterari ad esso legati. Già la <Nouvelle ècole du regàrde> fu ampiamente criticata in quanto sembrava risolversi in una scrittura puramente linguistica, che dava spazio di rappresentazione agli oggetti, dimenticandosi dei soggetti. Ad una letteratura che guardava al mondo, agli uomini, ed alla società, subentra una letteratura autoreferenziale, che guarda a se stessa e parla a se stessa. Tutto ciò ha invaso anche il metodo di interpretazione. Il critico poteva prima cogliere le differenze tra pieno e vuoto, mentre il critico-meccanico non cerca di cogliere ciò che il testo è o che dice, ma come funziona. Ciò che si coglie da questa critica, è che questa prassi teorica, genera una scrittura artistica che non si basa più sulla realtà dei fatti, ma dalla letteratura stessa, libri da altri libri, scritture da altre scritture. “Le teorie e le pratiche intertestuali” sono il referente ultimo di queste accuse: riportano l’attenzione sul piano del linguaggio. Le teorie intertestuali individuano e rivelano al lettore le pratiche intertestuali, le quali portano a risignificare tranches testuali precedenti in nuove testualità, attuandone una contaminazione linguistica tra le diverse testualità. Ciò che lamentano gli scrittori del Novecento, sostanzialmente, è l’introduzione di forme generiche diverse in un corpus testuale genericamente connotato (nella struttura romanzo subentrano la lettera, il diario, la cronaca, la memoria, la biografia, ecc…) Difficoltà generiche. L’intento d Jean Pierre Albert, nello studio delle mistiche, è quello di constatare come l’identità dello scrivente sia una limitazione al riconoscimento della legittimità dello scrivente, pur restando comunque una condizione necessaria. 2. Atteggiamento descrittivo-analitico. Divenuto centrale dagli anni Sessanta-Ottanta. Gli elementi formali divengono gli unici pertinenti. I generi si definiscono da criteri strutturali differenziali. 3. Atteggiamento normativo. I caratteri del genere divengono vincolanti per l’autore, e quindi la teoria si trasforma in consigli pratici per la redazione di uno specifico testo. La teoria, nella stragrande maggioranza dei casi, persiste al testo: il testo è definibile a partire dal suo genere. Se un testo ha caratteristiche G, allora apparterrà al genere G. E QUANDO UN TESTO NON CONDIVIDE QUELLE PROPRIETA’? Lo si occulta, lo si rimuove, oppure non lo si include nella lista di quel genere. GENERI ED IDENTITA’ DI GENERE. Postulati del dibattito della scrittura femminile. a) La presenza storica dei testi delle donne ha fatto parlare di preferenza di generi. Questa però non è una preferenza, ma bensì un obbligo, utilizzando un diverso linguaggio e venendo considerati fruizione “bassa”. b) In tutti gli altri casi si è parlato di tradimento dei generi. Questo è un discorso che postula l’esistenza di una specifica serie di tratti dominanti immodificabili. Serie storicamente definita a partire da un determinato gruppo di potere che la stabilisce e la rende normativa. Le soluzioni sono poche. O tutti gli scritti femminili sono dei capolavori, dato che non sono inscrivibili in nessun genere letterario. Oppure si constata che queste affermazioni non abbiano alcun senso, in quanto la teoria dei generi è frutto di una storia e di una storicizzazione, che può accogliere solo testi alla teoria favorevoli, e non che le vadano contro. Il dato incontrovertibile che ne fuoriesce è che: l’identità di genere del locutore, comporta uno specifico immaginario ed uno specifico simbolico che non possono non divenire elementi formali, formalizzabili e formalizzati di un testo letterario, e non. Allora la scrittura femminile è un genere a se stante? Oppure una teoria dei generi potrebbe essere la chiave di questa esclusione? L’unica teoria di genere finora esistente è stata costituita sulla base di una produzione maschile, sia a livello intragenerico, che intergenerico. CLARA REEVE (1729-1807). “La natura della narrativa” . In questo testo, Scholes e Kellogg la individuano come colei che pone la distinzione tra Romance e Novel sulla base della maggiore o minore vicinanza alla verosimiglianza ed al reale. Scholes e Kellogg ne fanno le due categorie fondamentali della narrativa, compiendo il primo tradimento nei confronti dell’autrice, la quale non ha mai avuto nel suo testo l’ansia della riduzione ad unico valore. Anzi per Clara il tentativo era quello di valorizzare la molteplicità sul doppio registro del romanzo. Contrappone alla rigidità della teoria dei generi, la regola aristotelica della separazione dei generi, del principio armonico e totalizzante dei valori estetici. La rottura con la teoria dei generi è nell’appello alla sensibilità di chi ne fruisce, ossia il lettore/la lettrice: la controparte è quel pubblico fatto dalla soggettività dei singoli lettori. In sostanza la scrittrice considera illegittima la diversificazione dei generi partendo dalla forma testuale. Soprattutto perché l’umanità è più influenzata dai nomi che dalla realtà delle cose. Reeve dimostra quindi di aver individuato la natura nominale dei generi: bisogna quindi leggere i testi, rintracciare la soggettività di chi li ha prodotti, e da lì, poi, ricavarne una teoria. TIPI E TEMPI BONTEMPELLIANI . La ristrutturazione complessiva dell’arte e della letteratura, per Bontempelli, passa per il “realismo magico”. In questo caso, la realtà diventa tale, se osservata e resa in chiave magica. La cultura occidentale della terza epoca dell’umanità avrebbe comportato la netta separazione della materia dallo spirito. TEMPORALITA’ E ATEMPORALITA’. “Vita e morte di Adria e dei suoi figli”: romanzo maggiormente rispondente alla poetica di Bontempelli. Da questo romanzo voleva: “far vivere un’umanità cui tutto il mistero ed il miracolo viene dal di dentro: dalla sua passione, dal suo volere.” Il metodo biografico del racconto ha la finalità di conferire al personaggio un’immagine che viene lì descritta dall’autore. Tutto il rimanente della sua vita deve essere impensabile. Primo importante richiamo alla temporalità: i testi di natura agiografica svincolano la vicenda narrata dal tempo e la fissano in un’atemporalità universale. Ciò che era valido prima, per il protagonista, può essere valido ora, per chi fruisce della lettura. La narrazione è un exemplum da imitare adesso. Bontempelli fa affidamento sul proprio valore esperienziale. Egli è il primo testes veritatis. Molteplicità dei ruoli dell’autore: Funzione di garante, di auctoritas, inscindibile dal compito di narrare. La voce narrante appare una figura esterna: decide cosa dire, cosa non dire, come costruire la narrazione. Il livello temporale è oggetto di una scrupolosa ed attenta manipolazione. Verso la fine del testo, il narratore esterno diviene personaggio-narratore. Condivide lo stesso livello di infatuazione e la stessa percezione temporale degli altri protagonisti. Al narratore extradiegetico spetta la gestione del tempo realistico della storia. Al narratore intradiegetico spetta il tempo della narrazione interna, il compito di dare voce all’ineffabile. Il primo riveste il ruolo dello storico, il suo piano è quello della realtà oggettiva. Per l’altro tutto questo è impossibile. Accanto allo storico, vive quindi l’agiografo. Il divenire è la certezza del primo, mentre l’atemporalità, l’illusione del secondo. Questa scissione-contrapposizione consegue che il meraviglioso conviva col reale, e che quindi il tipo narrativo prodotto sia al contempo biografia storica e leggenda agiografica. Questo romanzo ci appare innanzitutto come un discorso sui tipi narrativi, già esperiti o da sperimentare, verso una migliore definizione di quello che egli ritiene sia la forma più efficace per il romanzo del Novecento. Si tratta di una riflessione su come il romanzo possa far propri, innanzi tutto, l’immobilità temporale narrativa del poema, senza rinunciare al realismo narrativo. Il tempo meraviglioso dell’agiografia, senza danneggiare quello storico della biografia. Ed infine tutte le forme possibili della manifestazione, senza prediligerne nessuno, ma anzi cercando di mantenere un certo realismo. Questo testo è l’esempio più riuscito di quella ricostruzione del tempo che assieme alla ricostruzione dello spazio, rappresentava secondo lui il compito più urgente e preciso del ventesimo secolo. CORRETTIVI CIALENTIANI. ELEMENTI NARRATIVI DI FAUSTA CIALENTE: Pone l’ambiente e l’ambientazione autobiograficamente e direttamente esperiti. In che misura si modifica nel passaggio dalla forma romanzo al racconto, dal racconto lungo alla favola, per poi tornare nuovamente al romanzo e poi al racconto? Esiste uno sviluppo del realismo magico simile a quello di Bontempelli, che ci permette di avvicinare lo sperimentalismo di generi? I suoi testi avevano bisogno dell’apporto di più generi. LA PARABOLA DI “MARIANNA”. Dichiara che nel testo narrativo non sono accreditate le fonti utilizzate. Il testo nonostante se ne dichiari l’impossibilità, è il prodotto di una testimonianza: la favola si è svolta proprio come una storia che ricorre al testes veritatis. È vera perché è vero il mondo che lo ha ospitato, non è meno vero e meno reale del mondo oggettivo, è solo un mondo altro. Lo spazio-tempo del fantastico ha una funzione ben precisa: è leggero e senza sofferenze è incantato e senza gloria, ed infine è ironico. Proprio per questo è sovvertitore del mondo reale, attuando una profanazione e sostituendovi un’altra realtà. L’epifania del mondo altro, incantato, del mondo alla rovescia, consegue innanzitutto il caos. Il disordine subentra all’ordine, sostituendo il sociale col ribelle. Il tutto in una totale assenza della temporalità. La parabola prevede un rientro nella cosiddetta normalità, la quale rientra grazie all’elemento del tempo. La figura di Ugolino, condannato all’erranza ed all’estromissione, permette il ritorno della figura di Marianna. L’autrice compie con la narrazione di questo testo, molto più che una semplice vicenda di degrado e perdizione. Non è più solo un genere la cui dimensione fantastica è data da un fatto extrareale. Il tutto è rappresentato nella maniera più reale possibile, anzi. È piuttosto la figura di una condizione di libertà e di emancipazione dalle norme e dalle convenzioni sociali. È favola in quanto lo spazio-tempo dell’età adulta annulla il ricordo e l’esistenza reale di quella condizione interiore che caratterizzava. NATALIA. Il romanzo tratteggia una figura di adolescente e la sua crescita dall’infanzia all’età adulta attraverso l’amore per le più matura Silvia, il matrimonio con Malaspina, fino all’accettazione consapevole del ruolo di moglie. La vicenda particolarmente importante avviene proprio nella relazione col marito. Egli trova nella donna una giovane madrina di guerra che intrattiene con lui una fitta corrispondenza, attraverso la quale Natalia tratteggia il nascere e il dispiegarsi di una passione fortemente sensuale. La guerra resta dunque sullo sfondo. All’inizio della seconda parte il racconto indugia sul rapporto col fratello Jacopo, alla luce del disappunto di Natalia per l’arrivo della lettera di Malaspina che desiderava vedere fisicamente la donna a conflitto terminato. Natalia si trova così di fronte all’impossibilità di perdonarsi tre mesi di letteratura amorosa, ed il lettore apprende che l’immagine di cui l’uomo si è innamorato è il prodotto finzionale che riproduce il simbolico sociale che corrisponde e genera risposte da chi, in quel mondo, è assorbito. L’autodenuncia della falsità rievoca la figura del padre morto a Caporetto, attraverso la quale prospetta all’evidenza dei lettori una linea genealogica che ha con la finzione un legame stretto e vitale. Qui Natalia non ha fatto altro che operare una trasfigurazione, prospettando sull’atrocità della realtà contrassegnata VICISSITUDINI DI UN ROMANZO STORICO. Anche per la Banti quando si parla di definizioni generiche, denuncia una qualche palese difficoltà. Ad esempio, “Artemisia” a quale genere letterario appartiene? È un romanzo? Un romanzo storico? E se lo è, è alla Manzoni, oppure un diario “a due”, un diario “aperto”? Bisogna anche ricordare che si fa riferimento ad un genere letterario non istituzionalizzato come l’oroscopo. Nella prefazione di Artemisia c’è un breve scritto intitolato Al Lettore, dove Banti dice che il suo racconto aveva delle ambizioni. Vuole tentare un nuovo accostarsi alla letteratura, una connivenza nuova storico- letteraria. Vuole far coincidere vita perenta con vita attuale. Si tratta solo di Artemisia in questa pluralità di vite? Dell’esistenza di due corpi e di due vissuti della stessa identità? Esistono due dimensioni della stessa vita, quella storica e quella finzionale. La vita perenta è inattingibile e diventa la vita attuale. Questa nuova concezione di biografia storica realizza una nuova misura di connivenza storico-letteraria. Con questo ultimo termine, probabilmente la Banti intende riferirsi alle modalità secondo cui la realtà storica e la finzione letteraria entrano in contatto offrendo l’una all’atra il loro tacito supporto. Dimensione personale della pratica narrativa legata alla commozione ed alla commemorazione. Ciò che però “Artemisia” sembra essere in realtà, va in contraddizione con quello che è scritto nella lettera “Al Lettore”: non si può ne dire che la commemorazione rappresenti la vera vita di Artemisia Gentileschi, ne che si esaurisca nella scrittura di un romanzo storico. Ciò che ne segue è un mix tra questi due aspetti, dove si aggiunge un terzo livello, quello di una temporalità intermedia, fra il passato biografico e la commemorazione della precedente narrazione di quel passato. Ciò di cui parla la Banti non è Artemisia in sé, ma il manoscritto andato perduto. Non è quindi un corpo di carne, ma un corpo fittizio che ha preso forma nella scrittura. Racconta della violenza subita dalle due Artemisia: quella reale e carnale dello stupro che ha subito; e quella del suo secondo corpo, cancellata dalla violenza della guerra. Ad attestare il primo atto sono le fonti d’archivio del processo avvenuto; mentre ad attestare il secondo atto di violenza, diviene il romanzo stesso documento e fonte. “Artemisia” diviene quindi la narrazione della vicenda della perdita di un manoscritto. In una duplicità operativa che attua il recupero di un personaggio storico e di un’operazione di scrittura. ANSIA DEFINITORIA. La struttura della narrazione può essere definita frammentaria, ma non il testo in se, in quanto molto esteso. Le anacronie più presenti riguardano il movimento di andata e di ritorno tra il tempo di Artemisia e quello della Banti. All’inizio dell’ottava partizione, questa oscillazione temporale scompare, per tornare verso la fine, nelle ultime due partizioni. Ma c’è qualcos’altro che si interrompe alla fine dell’VIII partizione, ossia la comparsa di termini che nel corso della narrazione fanno riferimento al testo stesso ed all’atto del raccontare. Quello che dovrebbe essere un romanzo storico, è in realtà narrato nella sua genesi come un atto di pura invenzione, attraverso però un percorso narrativo dell’oggi, che non è finzionale, dato che appartiene alla memoria della scrittrice e del suo precedente prodotto scritturale. Quindi ciò che è finzionale al livello del contenuto del romanzo storico, può essere veritiero a livello della storia della costruzione del romanzo stesso e del vissuto della scrittrice. La scrittrice è così resa nuovamente autrice del testo. Questa Artemisia nuova che unisce memoria del suo vissuto storico e memoria del suo vissuto narrativo è l’unica protagonista possibile. L’autore non è il garante del narrato, bensì lo è la protagonista stessa, ossia l’invenzione stessa. Comunque nella ricostruzione della memoria, le due voci si danno mutua assistenza. Secondo Walter Scott, ritenuto il fondatore del romanzo storico, la natura del romanzo storico consisterebbe nella fusione tra romance e novel, per cui il rapporto tra finzione romanzesca e realtà storica, rappresenta il carattere fondamentale del genere, dando luogo alla possibilità di far rivivere una storia dimenticata. Proprio l’escamotage del manoscritto distrutto e perduto, rappresenta un tentativo di dialogo della creazione di Artemisia con quel genere letterario. L’autrice perde un manoscritto, e ciò permette di accedere ad una memorazione del già scritto. L’autrice crea così un doppio autoriale, ma un doppio che è lei stessa in un’altra fase del suo vissuto di autrice. Se questo doppio di autrice è interno, bisogna rinunciare alla pretesa di veridicità, assumendosi le responsabilità della creazione e dell’invenzione. Quindi l’operazione di scrittura, è una scrittura del sé. Questa biografia sostituisce la storia, ed è una biografia di dimensioni moderne, che guarda all’interiorità del personaggio, interpretabile grazie ai segni lasciati da una donna, e poi letti ed interpretati da una donna. Quello che l’autrice attua è l’interpretazione di un vissuto, l’unico in grado di restituirci la storicità di una vita. Questa sembra essere la risposta della scrittrice al paradosso del romanzo storico. La Banti si fa praticamente erede della storia di Artemisia Gentileschi, di cui ne diventa garante. La garanzia in realtà diviene una confessione. Il fantasma di questo perduto manoscritto, di confessioni penosamente ricordate, genera una sorta di cortocircuito tra biografia ed auto-biografia, poiché la prima è parte della seconda, e la seconda diviene autobiografia della prima. Spezza, confonde e mescola i vincoli temporali, le identità ed i vissuti. È come se Banti sgretolasse anche questi due generi letterari e si trovasse davanti alla rottura del meccanismo. Distrugge anche la fiducia che era riposta nell’eternità del cartaceo: anche il corpo del manoscritto è perito, e tutto ciò butta l’autrice nella disperazione della nullità del testamento di Artemisia. Il nuovo corso della narrazione è segnato dall’attrito esistente tra la propria memoria e quella del suo personaggio. Questa alternanza di voce narrante e voce autobiografica era già stata avvertita. Solo che ora il personaggio ruba la capacità enunciativa all’autrice, per dare veridicità ad i suoi fittizi racconti. Questa nuova forma del racconto raggiunge il livello del “gioco”, i cui momenti dinamici sono segnati dalla ribellione, dell’autrice o del personaggio, e dalla delega di autorevolezza, la quale lascia all’auctor la possibilità della reticenza. Tutta l’ottava partizione svolge questo tema. Banti afferma che ormai il gioco s’è fatto crudele, e la narrazione non potrà più contare su quella narrazione a due che era stato anche un confronto con quella pratica della scrittura. L’IMMAGINAZIONE DELLA SCRITTURA. Come sulla voce narrante di Banti torna la responsabilità della veridicità della storia di Artemisia, l’uso sapiente della parola e della scrittura diviene una qualità del personaggio attraverso l’uso della lettera. Però Artemisia, rispetto all’autrice, ha un uso difficile e diffidente delle parole. Sappiamo che i Gentileschi parlano tra loro attraverso la pittura ed il disegno, che è la loro forma comunicativa. La scrittura ha inizialmente per lei un valore negativo: basti pensare al verbale di Serafino Spada, cioè la memoria della tortura e del processo; o le lettere attraverso cui Agostino la illude all’amore ed al matrimonio; poi c’è una parola cantata, bella, ma prodotto di arte ed in quanto tale non corrispondente a nessuna realtà. Il legame di Artemisia con la parola, sia nel linguaggio verbale che nel canto, è un rapporto difficoltoso, e in quanto tale, negato. Il valore del linguaggio universale, al contrario, lo detiene la pittura, la quale sarà strumento di riappacificazione tra padre e figlia. Del legame della Gentileschi con la scrittura, non se ne fa menzione fino al suo arrivo a Marsiglia, quando la sua capacità scrittoria si manifesta in tutta la sua valenza di desiderio rimosso. A Napoli, precedentemente, per quanto odiasse la scrittura si era affidata a dei segretari, che poi spesso divenivano suoi amanti. L’abitudine viene codificata come un atto di potere sugli uomini. Transazione commerciale che corrisponde alla prestazione di un servizio ripagata con una moneta come un’altra. Piacere fisico e strumento di comunicazione verbale appaiono strettamente collegati, e tale collegamento viene avvertito da Artemisia come fosse il preludio all’esplosione della malattia, altra manifestazione ineluttabile del corpo. Artemisia pensa di scrivere delle lettere, che relega al piano dell’immaginazione, ma il linguaggio verbale rimane assunzione di un codice altro e di un corpo estraneo. APPRESSANDOSI ALLA FINESTRA. Quella della finestra rappresenta un’immagine molto significativa che attraversa le pagine di Artemisia. La sua prima comparsa è nelle fasi iniziali del testo, dove si fa riferimento alla finestra di Borgo San Jacopo, da dove la protagonista osserva lo scorrere dell’Arno, che genera l’idea della perdita, dello scomparire. Tuttavia questa finestra è anche anticipazione di un’altra finestra, limite e separazione, ma anche mezzo di comunicazione dal quale si consuma il legame fittizio con Cecilia Nardi. In questo caso, oltre ad essere il limite attraverso il quale le donne si parlano, è anche segno dell’opposizione tra l’immobilità di Cecilia e la mobilità di Artemisia, fanciulla di dieci anni. Ma le ragazze condividono un certo grado di immobilità, per Cecilia di tipo fisico mentre per Artemisia di natura sociale. La loro amicizia non può che concludersi con il reciproco isolamento, con la perdita della comprensione che ne consentiva l’accostamento presso il limite della finestra. Perdita che coincide con il fraintendimento della corte di cui Artemisia era oggetto da parte dei frequentatori dello studio del padre. Allo sviluppo fisico di Artemisia, ne consegue una prigionia. Ora la condizione di Artemisia è quella di chi è costretta alla stanzialità, o meglio al non potersi mostrare in quanto vittima di parole e gesti osceni da parte degli uomini. L’epifania del suo corpo, ormai di donna, consegue un rischio di esposizione all’invasione e quindi alla violenza da parte dell’elemento maschile. Artemisia è condannata all’appartenenza ad un luogo che per lei è protezione mentre per gli altri è libero ed aperto. L’uscio si chiude soltanto quando entra Agostino, cioè quando l’elemento di pericolo si trova già all’interno del luogo, ne ha infranto e superato il confine. Questo spazio allora appare simbolo della fisicità di Artemisia: la sua apertura è segno della disponibilità che il corpo sociale impone al corpo della donna. Inutilmente la protagonista può ribellarsi, non ha il controllo sugli spazi così come non ha il controllo sul suo corpo. Sono gli uomini ad aprire le finestre: il fratello, oppure il padre, a segnalare ancora una volta che è l’elemento maschile a detenere il controllo sulla mobilità e la spazialità, a deciderne la portata etica, a stabilire quando l’infrazione della linea di confine rappresenti un errore od una colpa e quando no.
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