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Estetica musicale nella Grecia antica e nel cristianesimo primitivo, Sintesi del corso di Estetica

Storia della musicaEsteticaFilosofia greca

Il pensiero greco sulla musica, dai tempi omerici al VI-V secolo a.C., e il suo ruolo nella società e nella filosofia. Vengono discussi i concetti di mousichè, la lira e l'aulos, e due diverse concezioni della musica presso i Greci. Il documento poi affronta il pensiero di Platone, Aristotele e il pitagorismo, e infine la percezione della musica nel cristianesimo primitivo. La musica viene vista come strumento educativo, catartico, iniziatico e simbolo di armonia divina.

Cosa imparerai

  • Come Platone, Aristotele e il pitagorismo hanno influenzato il pensiero sulla musica?
  • In che modo la musica è percepita nel cristianesimo primitivo?
  • Qual è il ruolo e il significato della musica nella Grecia antica?

Tipologia: Sintesi del corso

2012/2013

Caricato il 19/05/2022

Zemanuela
Zemanuela 🇮🇹

Anteprima parziale del testo

Scarica Estetica musicale nella Grecia antica e nel cristianesimo primitivo e più Sintesi del corso in PDF di Estetica solo su Docsity! ESTETICA MUSICALE DAI GRECI ALL’ALTO MEDIOEVO DA OMERO AI PITAGORICI È estremamente problematico ricostruire il pensiero greco sulla musica per il periodo arcaico, cioè dai tempi omerici sino al VI-V secolo a.C., per l’assenza di fonti dirette. Si dispone, in compenso, di un consistente numero di miti e leggende (Orfeo, Marsia, Dioniso, ecc) che, oltre a dimostrare la funzione primaria della musica presso la civiltà greca, e la permeanza in tutti i suoi ambiti, da quello religioso a quello cosmogonico, rappresentano uno dei mezzi più autentici attraverso cui i greci esprimevano le loro concezioni sulla musica. Lo studioso delle concezioni più antiche sulla musica si imbatte poi in una difficoltà di carattere esegetico, legata all’ambiguità o oscurità semantica dei termini chiave del discorso, ad esempio lo stesso “mousichè”, termine impiegato per indicare sì la musica in senso stretto, cioè il fenomeno acustico, ma anche la poesia, la danza e la ginnastica. Questo composito significato rimanda, peraltro, ad un’epoca antecedente a quella dei poemi omerici, in cui la musica era strettamente connessa alle discipline corporali, ed alla medicina, e sembrava rivestita d’un valore esoterico. Per quanto riguarda i poemi omerici, il trattato De Musica di un autore del III sec. d.C., lo Pseudo Plutarco, è in grado di sussidiare il tentativo di estrapolare le idee sulla musica sparse, in forma non sempre esplicita e sistematica, nelle opere in questione. Le testimonianze omeriche ci presentano la musica come una disciplina largamente praticata, essenziale all’uomo ed assolvente una funzione ricreativa, ma anche etico-conoscitiva. Tuttavia la funzione che maggiormente spicca sulle altre è quella edonistica. Nell’Odissea, in particolare, il musicista (citaredo) si configura come un professionista della propria arte, che non compie mica incantesimi, o pratica qualche rito religioso, ma canta unicamente per dilettare i suoi ascoltatori in occasione di eventi mondani e di raccoglimento, come banchetti e cerimonie. Il musicista è investito della responsabilità di commuovere l’animo umano con la propria perizia, ma riceve l’ispirazione primigenia, l’impulso poietico, dalla divinità; il suo mestiere è altamente specializzato, il che comporta, complementarmente, che la musica presso la Grecia arcaica non fosse intesa come attività collettiva. Significativo, nel sottolineare questo concetto, è il ritratto di Demodoco, cantore che la Musa “privo fe’ degli occhi, ma il canto soave gli diede.” La cecità, dunque, viene a configurarsi come allegoria di una condizione di isolamento del musicista, concentrato nella sua arte e distolto dal mondo esterno. Fino al VI secolo pare che la musica non rientrasse in un ideale educativo; tuttavia tale ideale si andava lentamente affermando e rafforzando, di pari passo, ed in conseguenza, alla presa di coscienza degli effetti moralistici della musica. Nelle stesse opere di Omero, fermo restando quanto detto finora, si legge in filigrana tale presa di coscienza: la musica ha un compito calmierante ed assennante in occasioni vivaci ed eccitanti come i banchetti, in cui l’abbondanza di vino induceva comportamenti sconsiderati negli uomini. Aristosseno riprende più coscientemente questo concetto affermando, in alcuni suoi scritti, che la musica deve subentrare quando il vino ha stravolto il corpo e lo spirito di coloro che ne hanno abusato. A partire dal VII sec. a.C., la musica greca iniziò ad avvalersi di un primordiale elemento di sistematizzazione, i cosiddetti nomoi. Si svilupparono le scuole musicali, dapprima a Sparta (V sec a.C.), poi ad Atene, e ivi poterono concepirsi le melodie dell’attualmente ignoto repertorio ellenistico. Secondo una tradizione ripresa anche dallo Pseudo Plutarco, fu Terpandro -poeta e musico cui è attribuito l’ampliamento della lira e l’aggiunta di tre corde alle quattro preesistenti- a inventare i nomoi. Questo termine, che compare per la prima volta nell’accezione musicale in un frammento del poeta Alcmane, si caratterizza per la sfocatura di significato: nel suddetto frammento sembra configurarsi come sinonimo di melodia o motivo o tema (è riferito al canto degli uccelli). Inoltre è arduo comprendere perché si impiegasse la parola nomos, cioè legge, per indicare le rudimentali melodie greche. Aristotele avanzò al merito un’ipotesi pragmatica, ma poco persuasiva: prima dell’avvento della scrittura, gli uomini decantavano le leggi a fini mnemonici. Questa appare, tuttavia, una grossolana semplificazione di un termine che, invece, suggerisce significati più profondi, e potrebbe persino leggersi come laconica metafora del fatto che alla musica fosse riconosciuto un valore etico, una forte capacità di modellare il comportamento degli uomini, proprio alla stregua di una legge. Secondo lo Pseudo Plutarco i primi nomoi furono composti per la cetra o la lira e solo in un secondo tempo per il flauto. Questo fatto è emblematico ed illuminante a proposito del valore attribuito ai nomoi nel periodo attico. Bisogna tener conto del fatto che la cetra e la lira erano gli strumenti musicali ellenici per antonomasia, consacrati dalla tradizione dorica, mentre il flauto, o meglio, la siringa e l’aulos, di importazione asiatica, erano tacciati di negatività. Le due famiglie di strumenti, infatti, erano i simboli della grande antinomia tra apollineo e dionisiaco, tra moralità e irrazionalità. La loro stessa struttura comportava tali caratteristiche: la lira, infatti, è dotata di un numero definito di corde di intonazione immutabile, consente quindi una musica razionale, mentre l’aulos, strumento di Dioniso, delle danze ditirambiche, produce suoni imprecisi, scomposti, e di conseguenza si presta ad una musica impulsiva e anti-etica. Che i primi nomoi fossero destinati alla cetra è indice del fatto che gli si fosse attribuito un compito morigerante e razionalizzante, ma anche una purezza paradigmatica cui si contrapponevano tutte le innovazioni musicali, e, più in generale, la deriva morale dell’epoca. Negli scritti di Platone, specie nei dialoghi delle Leggi, questa concezione è assai esplicita: si parla di teatrocrazia, di decadenza dei costumi, della scomparsa di un criterio normativo con cui stabilire la bontà e la liceità delle composizioni, di modo che il popolo s’arrogava la pretesa di giudicare la musica senza alcuna cognizione di causa, guidato soltanto da volgari ragioni edonistiche. È dunque possibile individuare due concezioni della musica presso i Greci: la prima, quella di strumento essenziale all’edificazione ed educazione dell’uomo, la seconda, quella di una forza oscura capace di soggiogare l’animo umano, e precipitarlo nel male, ossia nell’invasamento e nel malcostume. Le due concezioni coesistono in un sofferto ed incerto dualismo, che viene simbolizzato, oltre che dall’antinomia citarodia-auletica, dalla compresenza di due miti assai pregnanti, quello di Orfeo, da un lato, e quello di Dioniso, dall’altro. Orfeo è il mitico eroe che, mediante la lira, e dunque sfruttando il potere incantatorio della musica, riconcilia in un’unità i principi opposti su cui sembra reggersi la natura: vita e morte, male e bene, bello e brutto. Dioniso, dio dell’ebbrezza, è invece colui che celebra con l’uso dell’aulos la gioia orgiastica di vivere. Le leggende sembrano collocare le due suddette figure in epoca molto anteriore a quella omerica, e questo esprime una priorità non tanto cronologica della musica rispetto alla poesia, quanto piuttosto sostanziale. La musica pura, dunque, appare privilegiata rispetto alla parola. modi differenti; Socrate è in grado di ottenere gli stessi effetti dell’arte di Marsia “senza strumenti e con le nude parole”. Riallacciandosi al filone pitagorico, e in particolare al pensiero secondo cui tutto è sostanzialmente omogeneo e suscettibile di armonia, Platone vi innesta la sua teoria delle idee, e dell’insuperabile dualismo tra physis ed iperuranio, e nel Timeo lascia una frase che è probabilmente la summa di tutta la speculazione: la musica è rappresentazione dell’armonia divina in movimenti mortali. Partendo da questa natura, essa può e deve assurgere ad essere un’operazione puramente intellettuale, spogliandosi d’ogni arbitrarietà e ogni forma di adulazione autoreferenziale. Nel periodo post-platonico, in cui la figura del musicista assumeva una sempre maggiore preminenza sociale presso le polis, si delineò con evidenza quella antinomia già presente nella speculazione platonica, seppure ivi superata, in ultima analisi: da una parte la musica pratica, l’ars musicale, dall’altra la musica teorica, materia di filosofi e scienziati, rimandante all’armonia pitagorica. L’effetto principale di questa concezione dualistica fu il deprezzamento della musica pratica e l’elevamento di quella scientifica: non a caso non si dispone attualmente di musica greca, mentre abbondano le trattazioni su di essa. Questo effetto rientrava nel ritorno ad una concezione pre-omerica, svecchiata da un concretismo molto epicureo, di musica come attività capace soltanto di recare un piacere acustico allo spettatore, non già un qualsivoglia mutamento di tipo morale: pur senza volerlo, Platone e suoi epigoni avevano creato l’opinione che la musica fosse un fatto inutile e triviale, benchè il messaggio originale non fosse affatto questo. Filodemo, poi, nel De musica, in risposta a Diogene di Babilonia (che sosteneva che la musica enfatizzasse il contenuto degli inni patriottici) puntualizzò come non solo ciò non fosse vero, ma addirittura si verificasse il contrario, cioè la musica fosse ostativa alla fruizione delle parole. In questo contesto in cui coesistono le istanze di Damone-Platone sul potere etico della musica, ed istanze opposte, a veder le quali sembra essersi verificato un ritorno ad un passato pre-omerico, Aristotele sviluppò il suo pensiero, che assunse sembianze composite proprio per essere sorto in tale varietà di dottrine. Emblematico è il fatto che il filosofo abbia trattato il discorso della musica nell’VIII libro della Politica, dedicato all’educazione: questo suggerisce senza equivoci come Aristotele avesse accolto l’antica idea sulla funzione moralistica della musica. Ma sussiste una differenza sostanziale: l’opinione dinanzi al piacere. Per Aristotele il piacere associato alla musica non è qualcosa di abominevole, che interferisce con la sua capacità di educare l’uomo, anzi, è esso stesso strumento per questa finalità. La musica nobilita l’ozio, è una disciplina liberale e nobile: ma come conciliare il mestiere del musicista, sempre più raffinato e virtuosistico, con queste caratteristiche? A tal proposito Aristotele svolge un discorso dettagliato, sempre nel libro VIII della politica. Un principio cardine è quello secondo il quale non è possibile farsi buoni giudici della musica, e trarne quindi giovamento, senza conoscerla. D’altra parte, l’esercizio musicale non è un’attività liberale. La soluzione più idonea sembra allora essere quella di iniziare la pratica musicale da giovani, e per quel tanto che basta affinchè se ne sappia giudicare, per poi sospenderla da anziani, o comunque non appena si rischia di diventare dei meri “manovali volgari”. Aristotele mutuò da Damone la teoria della capacità della musica di imitare, o rappresentare, le passioni umane, e ne fece un punto ventrale della sua speculazione, dotandola di una prospettiva psicologica e soggettivistica di una certa modernità. Riesumò il concetto di catarsi, ma ipotizzò che esso si realizzasse secondo un meccanismo perlopiù omeopatico, ossia tramite l’imitazione delle stesse passioni che turbano l’animo, e non di quelle verso cui l’animo dovrebbe essere condotto, com’è proprio dell’agire allopatico. Aristotele, del resto, non rinnegò la teoria damoniana sulla catarsi, affermò piuttosto che la funzione emulativa della musica, sia che essa riguardi uno stato umorale negativo sia uno positivo, può essere vantaggiosamente spesa per calmare l’anima e spegnere i suoi contrasti intestini. Di conseguenza non ha più senso operare una selezione di musiche buone, inducenti la virtù, come auspicava Platone, perché tutte le musiche hanno una ragion d’essere in prospettiva di educare e morigerare l’essere umano. Nei Problemi musicali, Aristotele risultò particolarmente acuto nell’individuare la ragione della similarità di linguaggio verbale e musicale, di quella corrispondenza su cui si regge tutta la teoria dell’etica musicale e della catarsi. I predecessori avevano classificato certosinamente i nomoi e persino i ritmi in base alla loro valenza semantica ed umorale, in maniera piuttosto assolutista e opinabile. Aristotele si mostrò più acuto ed elastico, asserendo che la causa profonda del potere rappresentativo della musica, e solo di quest’arte, è legato ad un attributo comune a uomo e musica: il movimento. In esso si trova anche l’origine del piacere, a prescindere dai sentimenti infusi dalla musica in sé. Il movimento va inteso come pulsazione regolare e ordinata, come numero: può suscitarci piacere solo se ha questo aspetto, in definitiva, armonico. Sembrerebbe un ammiccamento al pitagorismo, ma a ben vedere, qui manca quell’impalcatura filosofica secondo cui tutto è armonia, dagli astri all’anima: il discorso è condotto in termini molto empirici e anti-metafisici. Le istanze empiriche e vagamente psicologistiche di Aristotele e della scuola peripatetica furono sviluppate da Aristosseno, nei trattati Elementi di armonia ed Elementi di ritmica. Aristosseno pose al centro della sua speculazione il processo di formazione del giudizio sulla musica, e la disamina delle facoltà umane coinvolte in esso, vale a dire i sensi. La modernità della trattazione di Aristosseno sta proprio nell’aver posto il fuoco sulla percezione del fatto uditivo, operazione che è indispensabile affinchè l’intelletto elabori un giudizio in sede extra-sensoriale e sia avviato ad un dato percorso filosofico. Queste due fasi dell’approccio alla musica godono di egual peso, per cui errano sia coloro che riducono la musica a una mera operazione intellettuale, sia coloro che ne fanno un mestiere senza cognizione di causa. Bisogna sempre fare i conti con l’esperienza e con la natura dinamica della musica, degli strumenti e degli affetti ad essa attribuita. Così ad esempio, l’ethos associato ad un certo nomos non è un attributo metastorico, ma una convenzione; Aristosseno parla a tal proposito di come il modo lidio, aborrito da Platone, fosse largamente usato dai poeti tragici, e di come il modo dorico, assunto come virile e morigerante, in altri tempi fosse impiegato con un’accezione molle e sentimentale nei canti amorosi. Dunque i modi del sistema greco non traggono identità e valore da una connotazione emotiva immanente, ma semplicemente dal fatto che sono belli. Pertanto Aristosseno sembra suggerire il primato della funzione estetica rispetto alla funzione etica. Con Aristosseno e con la scuola peripatetica si delinearono nettamente due prospettive speculative circa la musica: da una parte, l’indagine del fenomeno estetico, dall’altra una trattazione di impronta piuttosto scientifica e astratta, inerente l’armonia, intesa ancora in senso pitagorico. Questa biforcazione del discorso rimandava ad un evento più profondo e ampio del pensiero occidentale: la frattura sempre più palese tra i teorici della musica ed i musicisti, solo raramente sanata da figure come Guido d’Arezzo, Vincenzo Galilei, ecc. che esercitarono agevolmente entrambi i ruoli. DAL MONDO ANTICO AL MEDIOEVO I primi padri della chiesa raccolsero la tradizione pagana greco-romana e il composito pensiero musicale dei greci da un lato, e la tradizione ebraica del canto sinagogale dall’altro. Su queste due diverse tradizioni bisognava innestare il nuovo canto cristiano e creare nuove scale di valori per la muova musica e i nuovi contenuti che essa esprimeva. La problematicità di questa impellenza generò atteggiamenti spesso contradditori ed ambigui nei teorici e nei filosofi dei primi secoli del cristianesimo: la musica era concepita come strumento del demonio, fonte di corruzione, e insieme come potente mezzo di elevazione spirituale, e immagine dell’armonia divina. Su un punto concordavano i primi padri della chiesa: la distinzione di ordine etico tra musica pagana e musica cristiana, nella fattispecie lo svilimento della prima e il riguardo per la seconda, unicamente per ragioni di contenuti, non già di forma o di qualità. Nel II sec. d.C. Clemente alessandrino, nel suo Protrettico ai greci, asseriva che i gli eroi della mitologia greca, come Orfeo ed altri musici, erano degli ingannatori che, spinti dal demonio, sapevano suscitare stordimento e perdizione negli uomini, e indurre idolatrie di vario tipo, mediante la musica. Il contenuto religioso ha avuto il merito di purificare la musica dalle sue potenzialità maligne, e di convertirla addirittura in strumento salvifico. La musica è in grado di riconciliare l’anima con l’universo, in virtù di quella comune natura armonica propugnata dai pitagorici. Sulla necessità d’impiegare la musica a fini edificanti e pedagogici insistette San Basilio, nel III sec. d.C.: egli decantava le qualità estetiche della musica salmodica, capace di calmare i turbamenti, di limitare il disordine nell’animo, e soprattutto renderlo propenso a ricevere il messaggio verbale musicato, grazie all’indubbia lusinga sensistica: il piacere addotto dalla musica, dunque, è ben accetto come strumento per l’elevazione religiosa. Un pensiero analogo fu espresso da Giovanni Crisostomo nel IV sec. d.C., il quale riteneva che Dio stesso avesse mescolato “melodia e profezia”, in modo che l’uomo, di tendenza indolente, deliziato dalla modulazione del canto potesse rivolgere inni a Dio con maggior fervore. Il concetto di musica di Giovanni Crisostomo è di inequivocabile impronta pitagorica, soprattutto nel momento in cui si parla di una musica non necessariamente sensibile, ma interiore: il canto può essere anche silenzioso o addirittura identificarsi con la percezione dell’armonia cosmica. Viene dunque riesumata la categoria di musica mundana, e tenuta per molto tempo in gran considerazione dai teorici.
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