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Estetica Relazionale - Bourriaud, Dispense di Storia dell'arte contemporanea

Sintesi del libro per esame integrato di Forme e Funzioni dell'Arte Contemporanea a.a. 2021/2022

Tipologia: Dispense

2020/2021

Caricato il 24/01/2023

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valeria-gabriele-3 🇮🇹

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Scarica Estetica Relazionale - Bourriaud e più Dispense in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! 1 ESTETICA RELAZIONALE – Nicolas Bourriaud La forma razionale L’attività artistica costituisce un gioco le cui forme, modalità e funzioni evolvono secondo le epoche e i contesti sociali; non è un’essenza immutabile. Per inventare strumenti più efficaci e punti di vista più corretti, è importante capire le trasformazioni che operano oggi nel campo sociale, cogliere ciò che è cambiato e ciò che continua a cambiare. LE PRATICHE ARTISTICHE CONTEMPORANEE E IL LORO PROGETTO CULTURALE CONTESTO > XVIII-XX secolo >> Modernità = razionalismo VS. spontaneità Se le avanguardie del Novecento, dal dadaismo all’Internazionale situazionista, si inscrissero nella linea di questo progetto moderno (cambiare la cultura, le mentalità, le condizioni di vita individuale e sociale), non va dimenticato che esso già esisteva e che differisce dal loro in parecchi punti. La modernità, infatti, non si riduce a una teologia razionalista, e nemmeno a un messianismo politico1. Quel che si chiamava avanguardia si è certo sviluppata a partire da quell’immersione nell’ideologia fornita dal razionalismo moderno; ma ormai si ricostituisce a partire da altri presupposti filosofici, culturali e sociali. È chiaro che l’arte di oggi prosegue questa battaglia, proponendo modelli percettivi, sperimentali, critici e partecipativi, andando nella direzione indicata dai filosofi dei Lumi, da Proudhon, da Marx, dai dadaisti o da Mondrian. Se l’opinione pubblica stenta a riconoscere la legittimità o l’interesse di queste esperienze, è perché esse non si presentano più come fenomeni precorritori di un’evoluzione storica ineluttabile; al contrario, paiono frammentarie, isolate, orfane d’una visione globale del mondo che le appesantiva col peso di un’ideologia. Non è la modernità a esser morta ma la sua versione idealista e teleologica. L’arte doveva preparare o annunciare un mondo futuro; oggi elabora modelli di universi possibili. Gli artisti che inscrivono la loro pratica nella scia della modernità storica non hanno l’ambizione di ripeterne forme e postulati, e ancor meno di assegnare all’arte le medesime funzioni. Il loro compito è apprendere ed abitare meglio il mondo, invece che cercare di costruirlo a partire da un’idea preconcetta dell’evoluzione storica. In altri termini, le opere non si danno più come finalità quella di formare realtà immaginarie o utopiche, ma di costituire modi d’esistenza o modelli dell’azione all’interno del reale esistente, quale che sia la scala scelta dall’artista. L’artista abita le circostanze che il presente gli offre, al fine di trasformare il contesto della sua vita (il suo rapporto col mondo sensibile o concettuale) in un universo durevole. Nulla è più assurdo dell’affermare che l’arte contemporanea non dispiega alcun progetto culturale o politico, e che i suoi aspetti sovversivi non poggino su alcuna base teorica anzi, il suo progetto (che riguarda le condizioni di lavoro e di produzione degli oggetti culturali, così come le forme mutanti della vita sociale) sembrerà pertanto insipido agli spiriti formati all’impronta del darwinismo culturale o agli amanti del “centralismo democratico” intellettuale. L’OPERA D’ARTE COME INTERSTIZIO SOCIALE La possibilità di un’arte relazionale – un’arte che assuma come orizzonte la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale, piuttosto che l’affermazione di uno spazio simbolico autonomo e privato – testimonia un rivolgimento radicale degli obiettivi estetici, culturali e politici messi in gioco 1 la speranza di restaurazione di un regno, popolo o dell'umanità, attesa di un radicale rinnovamento della società. 2 dall’arte moderna. Volendo abbozzarne una sociologia, quest’evoluzione proviene essenzialmente dalla nascita di una cultura urbana mondiale, e dall’estensione di tale modello cittadino alla quasi totalità dei fenomeni culturali. Se per lungo tempo l’opera d’arte ha potuto figurare come un lusso signorile, in questo contesto cittadino (le dimensione dell’opera, come quelle dell’appartamento, servivano a distinguere il loro proprietario dalla persona qualunque), l’evoluzione della funzione dell’opera e della sua presentazione testimonia la crescente urbanizzazione dell’esperienza artistica. In altri termini, non si può più considerare l’opera contemporanea come uno spazio da percorrere (il “tour del proprietario” si apparenta a quello del collezionista). Si presenta ormai come una durata da sperimentare come un’apertura verso la discussione illimitata. La città è il simbolo tangibile e il quadro storico dello stato della società, quello “stato di incontro imposto agli uomini”, secondo l’espressione di Althusser. Questo regime di incontro intensivo, una volta elevato alla potenza d’una regola assoluta di civilizzazione, ha finito per produrre pratiche artistiche corrispondenti, cioè una forma d’arte la cui intersoggettività forma un substrato che assume come tema centrale dell’essere-insieme, l’incontro fra osservatore e quadro, l’elaborazione collettiva del senso. L’arte (le pratiche derivate dalla pittura alla scultura che si manifestano sotto forma d’esposizione) si rivela particolarmente propizia all’espressione di questa civiltà della prossimità, perché rinserra lo spazio delle relazioni. L’arte è il luogo di produzione di una partecipazione sociale specifica. Al di là del suo carattere commerciale o del suo valore semantico, l’opera d’arte rappresenta un interstizio sociale, cioè, riferendoci alla definizione di interstizio Karl Marx, uno spazio di relazione che, pure inserendosi più o meno armoniosamente e apertamente nel sistema globale, suggerisce altre possibilità di scambio rispetto quelle in vigore nel sistema stesso. Questa è precisamente la natura dell’esposizione d’arte contemporanea nel campo del commercio delle rappresentazioni: crea spazi liberi durante i quali il ritmo si oppone a quelli che ordinano la vita quotidiana. L’arte contemporanea sviluppa apertamente un progetto politico quando si sforza di investire la sfera relazionale, problematilizzandola. La mostra è il luogo privilegiato in cui si instaurano collettività istantanee (come per esempio Gabriel Orozco con Crazy Tourist, 1991 e Hamoc en el MoMa, 1993, oppure Jens Haaning con Turkish and Arabic Jokes, 1994), rette da principi diversi: secondo il grado di partecipazione dello spettatore richiesto dall’artista, la natura delle opere, i modelli di partecipazione sociale proposti o rappresentati, un’esposizione genererà un particolare “ambito di scambi”. Quest’“ambito di scambi” va giudicato con criteri estetici, cioè analizzando la coerenza della sua forma, poi il valore simbolico del “mondo” che propone, dell’immagine delle relazioni umane che riflette. All’interno di quest’interstizio sociale, l’artista ha il dovere di assumere i modelli simbolici che espone: ogni rappresentazione (ma l’arte contemporanea modernizza piuttosto che rappresentare, si inserisce nel tessuto sociale piuttosto che ispirarsene) rinvia a valori trasponibili nella società. Attività umana basata sul commercio, l’arte è al contempo l’oggetto e il soggetto di un’etica. E lo è tanto più che, contrariamente ad altre, non ha altra funzione oltre all’esporsi a questo commercio. L’arte è uno stato d’incontro. L’ESTETICA RELAZIONALE E IL MATERIALISMO ALEATORIO La tradizione filosofica sulla quale si basa l’estetica relazionale fu egregiamente definita da Louis Althusser, in uno dei suoi ultimi testi, come “materialismo dell’incontro” o “materialismo aleatorio”. Tale materialismo assume come punto di partenza la contingenza del mondo, che non ha origine nel senso che gli preesista, né ragione che gli assegnerebbe un fine. Così, l’essenza dell’umanità è puramente trans-individuale, costituita da legami che uniscono gli individui tra loro in forme sociali che sono sempre storiche (Marx: l’essenza umana è l’insieme dei 5 L’opera d'arte non si può dunque più consumare nel quadro di una temporalità "monumentale" e aperta per un pubblico universale, ma si svolge nel tempo reale per un'audience convocata dall'artista. In breve, l'opera suscita incontri e dà appuntamenti, gestendo la propria temporalità. Lo spettatore è così portato a spostarsi per constatare un lavoro che esiste in quanto opera d'arte solo grazie a questa stessa constatazione. La forma del biglietto da visita (utilizzato da Dominique Gonzalez-Foerster, Liam Gillick, Jeremy Deller) o dell'indirizzario (certi disegni di Karen Kilimnik), l'importanza crescente del vernissage nel dispositivo d'esposizione (Parreno, Joseph, Tiravanija, Huvohe) cosi come l'originalità applicata alla fabbricazione degli inviti (residuo della mail-art), oggi indicano l'importanza di questa "funzione di ritrovo" costituisce il campo artistico e che ne fonda la dimensione relazionale. CONVIVIALITÀ E INCONTRI Un'opera può funzionare come dispositivo relazionale che comporta un certo grado di casualità; una macchina per provocare e gestire incontri individuali o collettivi. Il lavoro di Sophie Calle consiste in buona parte nel rendere conto dei suoi incontri con sconosciuti: che segua un passante, perquisisca camere d'hotel dopo esser stata assunta come cameriera o chieda a dei ciechi di definire la bellezza, l'artista formalizza a posteriori un'esperienza biografica che la porta a "collaborare" con le persone che incontra. Trovare una forma alle relazioni conviviali è una costante storica dagli anni Sessanta. La generazione degli anni Novanta riprende questa problematica, ma alleggerita dal peso della questione della definizione dell'arte, centrale per i decenni Sessanta e Settanta. Il problema non è più allargare i limiti dell’arte ma mettere alla prova le capacità di resistenza dell'arte all'interno del campo sociale globale. A partire da una stessa famiglia di pratiche, emergono due problematiche radicalmente differenti: ieri l'insistenza posta sulle relazioni interne al mondo dell'arte, nel quadro di una cultura modernista che privilegiava il "nuovo" e che chiamava alla sovversione attraverso il linguaggio; oggi l'accento posto sulle relazioni esterne, nel quadro di una cultura eclettica in cui l'opera d'arte oppone resistenza nei confronti della "Società dello spettacolo". Le utopie sociali e la speranza rivoluzionaria hanno lasciato il posto a micro-utopie quotidiane e a strategie mimetiche. Ogni posizione critica "diretta" della società è vana, se si basa sull'illusione di una marginalità oggi impossibile, quando non regressiva. Già una trentina d'anni fa, Félix Guattari raccomandava queste strategie di prossimità che fondano le pratiche artistiche attuali: "Penso sia illusorio scommettere su una trasformazione progressiva della società, mentre credo che i tentativi microscopici, comunità, comitati di quartiere, organizzazione di asili in facoltà... rivestano un ruolo assolutamente fondamentale”. La filosofia critica tradizionale (in particolare la scuola di Francoforte) non nutre più l'arte, se non nella forma di un folklore arcaico, di uno splendido balocco senza efficacia. La funzione sovversiva e critica dell'arte contemporanea si realizza ormai nell'invenzione di linee di fuga individuali o collettive, in quelle costruzioni provvisorie e nomadi attraverso le quali l'artista modella e diffonde situazioni disturbanti. Da qui deriva l'attuale infatuazione per gli spazi di convivialità rivisitati, crogioli dove si elaborano modelli di partecipazione sociale eterogenei. La forma della festa ispira Philippe Parreno, la cui personale al Consortium di Digione (gennaio 1995) consisteva nell' occupare due ore di tempo piuttosto che dei metri quadrati di spazio", organizzando una festa di cui tutte le componenti portavano alla produzione di forme relazionali: gruppi d'individui intorno a oggetti artistici in situazione. Rirkrit Tiravanija con Surfaces de réparation, Digione 1994 (spazio relax destinato agli artisti della mostra) esplora l’aspetto socio- professionale della convivialità. E ancora, Heimo Zobernig , crea un bar per la mostra Project Unité; o le Passtücke di Franz West. 6 Altri artisti fanno irruzione nel tessuto relazionale in maniera più aggressiva. Il lavoro di Douglas Gordon, per esempio, esplora la dimensione "selvaggia" di quest'interattività, intervenendo in maniera parassitaria o paradossale nello spazio sociale: chiama al telefono i clienti di un caffè, o invia "istruzioni" multiple a determinate persone. Creazioni o esplorazioni di schemi relazionali, queste opere costituiscono micro-territori relazionali conficcati nello spessore del "socius" contemporaneo; esperienze rese pubbliche da superfici-oggetti (i "consigli d'amministrazione" di Liam Gillick, cartelloni realizzati per strada da Pierre Huyghe, le video-conferenze di Eric Duyckaerts) o consegnate all'esperienza immediata (le visite guidate di Andrea Fraser). COLLABORAZIONI E CONTRATTI Gli artisti che propongono in quanto opere d'arte: a) Momenti di partecipazione sociale; b) Oggetti produttori di partecipazione sociale; Talvolta utilizzano un quadro relazionale definito precedentemente, al fine di trarne dei principi di produzione. Ad esempio, l'esplorazione delle relazioni esistenti fra l'artista e il suo gallerista può determinare delle forme e un progetto. Dominique Gonzalez-Foerster, il cui lavoro tratta dei rapporti che legano l'esistenza vissuta ai suoi supporti, immagini, spazi od oggetti, ha cosi consacrato diverse mostre alla biografia dei suoi galleristi. Gonzalez-Foerster esplora così il tacito contratto che lega la sua gallerista al "suo" artista, l'una partecipando alla storia personale dell'altra. Ma il binomio artista-curatore, iscritto nell’istituzione, non è che il primo grado delle relazioni interpersonali suscettibili di determinare una produzione artistica: gli artisti vanno al di là, collaborando con personalità dello spettacolo. ES. • Lavoro di Dominique Gonzalez-Foerster con l'attrice Maria de Medeiros (1990); • Serie d'interventi pubblici organizzati da Philippe Parreno per l'imitatore Yves Lecoq (Un homme public, Marsiglia, Digione, Gand, 1994-1995); • Noritoshi Hirakawa > per l’esposizione alla galleria Pierre Huber di Ginevra (1994), ha pubblicato un annuncio di lavoro per assumere una giovane che accettasse di viaggiare con lui in Grecia, soggiorno che doveva costituire il materiale della mostra; • Alix Lambert, per la serie Wedding Piece (1992), investiga sui legami contrattuali del matrimonio. Certe manifestazioni artistiche, di cui Project Unité resta il miglior esempio (Firminy, giugno 1993), hanno permesso agli artisti di lavorare su un modello relazionale informe, come quello che offre la popolazione di un grande insieme di abitazioni. Parecchi partecipanti hanno direttamente lavorato per modificare od oggettivare i rapporti sociali, come il gruppo Premiata Ditta, che ha interrogato sistematicamente gli abitanti dell'immobile nel quale si svolgeva l'esposizione, al fine di trarne delle statistiche. Fareed Armaly, la cui installazione di documenti sonori comprendeva interviste con i locatari ascoltabili in cuffia. Clegg & Guttmann hanno presentato una sorta di mobile-biblioteca (la cui forma si rifaceva all'architettura di Le Corbusier) destinata a raccogliere su cassetta i brani musicali preferiti da ogni abitante. Le abitudini culturali dei residenti si vedevano cosi oggettivate da una struttura architettonica, raggruppate piano per piano su nastro, per arrivare a compilation consultabili da tutti e per tutta la durata della mostra. RELAZIONI PROFESSIONALI: CLIENTELE Come abbiamo visto, queste differenti pratiche di esplorazione dei legami sociali concernono tipologie di relazione preesistenti, nelle quali l'artista si inserisce per trarne delle forme. Altre 7 pratiche mirano a ricreare modelli socio-professionali e ad applicarne i metodi di produzione: in questi casi l'artista opera nel campo reale della produzione di servizi e merci, mira ad instaurare una certa ambiguità, nello spazio della sua pratica, tra la funzione utilitaria e la funzione estetica degli oggetti che presenta. Ho tentato d'identificare questa oscillazione dalla contemplazione all'uso col nome di realismo operativo (Peter Fend, Mark Dion, Dan Peterman, Niek Van de Steeg, Ingold Airlines, Premiata Ditta, Panamarenko o a The Artist Placement Group di John Latham.) Questi artisti hanno come punto in comune la creazione di modelli di un'attività professionale, con l'universo relazionale che ne deriva, in quanto dispositivo di produzione artistica. Queste finzioni si accontentano di costruire repliche di una compagnia aerea, di una pescheria o di un atelier di produzione, senza tuttavia trarne le conseguenze ideologiche e pratiche, limitandosi cosi a una dimensione parodistica dell'arte. L'agenzia Les ready-made appartiennent à tout le monde, diretta dal compianto Philippe Thomas, è un caso a parte. Il sistema di Philippe Thomas, nel quale i lavori prodotti venivano firmati dal loro acquirente, ha messo in evidenza la torbida economia relazionale sottesa ai rapporti fra artista e collezionista. Christine Hill, si dedica ai piccoli gesti, ad un'arte con propensione angelica, ad un insieme di compiti effettuati a latere o al di sotto del sistema economico reale, al fine di ricucire pazientemente il tessuto relazionale. Carsten Höller applica la sua formazione scientifica di alto livello per inventare situazioni oppure oggetti che mettono in gioco il comportamento umano: inventando una droga che fa scattare il sentimento amoroso, scenografie barocche o esperienze para-scientifiche. Comportandosi, all'interno del mondo dell'arte, secondo i parametri di "mondi" eterogenei a esso, questi artisti vi introducono universi relazionali retti dalle nozioni di clientela, commissione, progetto. Il progetto Fabrice Hybert (Museo d'Arte Moderna di Parigi, 1995) si lega alla dimensione di desiderio dell'economia. Con la sua attività di import-export di sedili verso il Maghreb, o la trasformazione del Museo d'arte moderna di Parigi in supermercato, Hybert definisce l'arte come una funzione sociale fra le altre, permanente "digestione di dati" il cui obiettivo potrebbe consistere nel ritrovare i "desideri iniziali che hanno presieduto alla fabbricazione degli oggetti". COME OCCUPARE UNA GALLERIA? Anche gli scambi che si svolgono fra le persone, nello spazio della galleria o del museo, possono servire da materiale grezzo per un lavoro artistico. Il vernissage fa spesso parte integrante del dispositivo d'esposizione, modello di una circolazione ideale del pubblico: quello dell'Exposition du vide di Yves Klein, nell'aprile del 1958, costituisce un prototipo. Dalla presenza delle guardie repubblicane davanti all'ingresso della galleria Iris Clert fino al cocktail blu offerto ai visitatori, Klein ha tentato di padroneggiare tutti gli aspetti del monotono protocollo del vernissage, dando loro una funzione poetica che circondava il suo oggetto: il vuoto. Cosi, per citare un'opera rinomata, il lavoro di Julia Scher (Security by Julia) consiste nel piazzare dispositivi di sorveglianza nei luoghi espositivi. Nel 1962, Ben Vautier vive e dorme per quindici giorni nella Gallery One, a Londra. A Nizza nel 1990, Pierre Joseph, Philippe Parreno e Philippe Perrin vanno anche loro ad "abitare" la galleria Air de Paris, in senso proprio e figurato, con la mostra Les ateliers du paradise. Si potrebbe frettolosamente concludere che si tratta del remake della performance di Ben, ma i due progetti si riferiscono a due universi relazionali radicalmente differenti, tanto divergenti nel loro fondamento ideologico ed estetico quanto lo sono le rispettive epoche. Quando Ben occupa la galleria, vuole affermare l'estensione dell'ambito dell'arte, tanto da includere perfino il sonno e la colazione dell'artista. Quando Joseph, Parreno e Perrin occupano la galleria, è per farne un atelier di produzione, uno "spazio fotogenico" cogestito dall'osservatore, secondo giochi di ruolo ben precisi. 10 di vista, al contempo estetico (come "tradurlo" materialmente?), storico (come aderire all'insieme dei riferimenti artistici?) e sociale (come trovare una posizione coerente in rapporto allo stato attuale della produzione e delle relazioni sociali?). Se queste pratiche trovano evidentemente le loro impronte formali e teoriche nell'arte concettuale, in fluxus e nell'arte minimal, se ne servono però come di un vocabolario, una base lessicale. Ma quali sono i modi d'esposizione giusti in rapporto al contesto culturale e alla storia dell'arte per come si attualizza oggi? Il video, per esempio, oggi è diventato un supporto dominante. Questo medium si rivela semplicemente come il più atto alla formalizzazione di certe azioni e progetti. Lontana dalla razionalità amministrativa dell’arte concettuale, l’arte relazionale si ispira maggiormente ai processi flessibili che regolano la vita comune. Laddove i media affrontavano la forma visiva della comunicazione di massa e le icone della cultura popolare, Liam Gilick, Miltos Manetas o Jorge Pardo lavoravano su modelli ridotti di situazioni comunicazionali. Ciò si può interpretare come un cambiamento nella sensibilità collettiva: oramai si gioca in gruppo contro massa, vicinato contro propaganda, “low tech” contro “high tech”, tattile contro visivo. E, soprattutto, il quotidiano si rivela oggi un terreno più fertile della “cultura popolare”, forma che non esiste se non in opposizione alla “cultura alta”, attraverso di essa e per essa. Per tagliare corto con qualunque polemica riguardante un sedicente ritorno a un’arte “concettuale”, ricordiamo che questi lavori non celebrano affatto l’immaterialità: nessuno di questi artisti privilegia le “performance” o il concetto, parole che qui non significano più molto. In sintesi, non esiste più un primato del sistema di lavoro e sul modo in cui viene formalizzato. Nei mondi che questi artisti costruiscono, al contrario, gli oggetti sono parte integrante del linguaggio, l’uno e l’altro sono considerati i vettori di relazioni con l’Altro. Gli oggetti e le istituzioni, l’impiego del tempo e le opere sono al contempo il risultato dei rapporti umani, perché concretizzano il lavoro sociale, e dei produttori di relazioni, perché organizzano i modelli di partecipazione sociale e regolano l’incontro tra gli uomini. Compresenza e disponibilità. L’eredità di Felix Gonzalez-Torres In Offset print on paper endless copies del 1991 di Felix Gonzalez-Torres possiamo portarci via un manifesto pronto; ma che succede se tutti i visitatori si impadroniscono dei fogli offerti al pubblico ideale? Secondo quale processo il lavoro cambia per poi sparire? Queste problematiche dell’offerta conviviale, della disponibilità dell’opera d’arte, per come la mette in scena Felix Gonzalez-Torres, si rivela oggi piena di significato: non solo si ritrova al cuore dell’estetica contemporanea, ma porta ben più lontano, all’essenza dei nostri rapporti con le cose. [[ Nelle opere di Felix Gonzalez-Torres, l’oggetto non è più creato per essere osservato ma per essere esperito, ha dunque un tempo diverso. Sostanzialmente le sue opere puntano a mettere in crisi il sistema dell’arte e a far si che l’azione dello spettatore sia correlata a quella dell’artista.]] L’OMOSESSUALITÀ COME PARDIGMA DI COABITAZIONE La forza di Felix Gonzalez-Torres risiede nell’abilità a strumentalizzare delle forme e nella capacità di sfuggire alle identificazioni comunitarie, per andare al cuore dell’esperienza umana. L’omosessualità rappresenta così per lui non tanto un tema discorsivo, quanto una dimensione emozionale, una forma di vita creatrice di forme d’arte. Si tratta di uno slancio verso l’universale e non di una rivendicazione di categoria. In Gonzalez-Torres, l’omosessualità non finisce con l’affermazione comunitaria: al contrario, si fa modello di vita condivisibile da tutti, e col quale ciascuno si può identificare. Inoltre, genera nella sua opera un campo di forme specifico, che si caratterizza principalmente per una dualità senza opposizione. La cifra “due” è onnipresente, ma 11 non è mai un’opposizione binaria ➔ ES. Untitled (Perfect Lovers), 1991 – sono due orologi fermi alla stessa ora. La solitudine non è mai raffigurata dall’”1”, ma dall’assenza del “2”. La coppia di Gonzalez-Torres si caratterizza come comunità doppia e quinta, con un’ellisse (Untitled (Duble Portrait), 1991). La struttura formale della sua opera risiede in questa parità armoniosa, in questa inclusione dell’altro a sé, che essa declina all’infinito e che costituisce senza dubbio il suo principale paradigma. Dall’inizio alla fine, Gonzalez-Torres non racconta la storia di un individuo, ma quella di una coppia, dunque di una coabitazione. L’opera si divide d’altronde in figure che intrattengono uno stretto rapporto con la coabitazione amorosa. Nella sua globalità, il lavoro di Gonzalez-Torres si articola proprio intorno a un progetto autobiografico, ma è un’autobiografia bicefala, condivisa. Così, sin dalla metà degli anni 80, epoca delle sue prime mostre, l’artista cubano prefigura uno spazio basato sull’intersoggettività, che è precisamente quello che esploreranno gli artisti più interessanti del decennio seguente. Per citarne solo alcuni la cui opera oggi si può considerare matura: Rirkrit Tiravanija, Dominique Gonzalez- Foerster, Douglas Gordon, Jorge Pardo, Liam Gillick, Philippe Parreno. Sebbene sviluppino ognuno problematiche personali, questi artisti trovano un terreno comune nella priorità accordata allo spazio delle relazioni umane nella concezione e nella diffusione dei loro lavori. La nozione di inclusione dell’altro non costituisce soltanto un tema, ma si rivela altrettanto essenziale per la comprensione formale del lavoro. Si è insistito molto su come Gonzalez-Torres “rigeneri” forme già storicizzate, del suo riutilizzo del repertorio estetico dell’arte minimale, dell’anti-form e dell’arte processuale o dell’arte concettuale. Ma, ancora una volta, si tratta di una questione di accoppiamento e coabitazione. L’iniezione dell’universo intimista dell’artista nelle strutture dell’degli anni 60 crea situazioni inedite e piega retroattivamente la nostra lettura di quell’arte verso una riflessione meno formalista e più psicologizzante. L’essenziale, nelle opere di Gonzalez-Torres, resta quest’orizzonte di fusione, quest’esigenza di armonia e coabitazione che abbraccia anche il suo rapporto con la storia dell’arte. FORME CONTEMPORANEE DEL MONUMENTO Il denominatore comune fra gli oggetti classificati sotto l'appellativo "'opera d'arte" risiede nella loro facoltà di produrre un senso dell'esistenza umana (indicare possibili percorsi) in seno a quel caso che è la realtà. In nome di questa definizione l'arte contemporanea – tutta – viene oggi denigrata, generalmente da coloro che vedono nel concetto di "senso" una nozione preesistente all'azione umana. Una pila di fogli non potrebbe rientrare nella categoria dei capolavori, poiché considerano il senso come un'entità prestabilita, che va oltre gli scambi sociali e le costruzioni collettive. Questa relativa immaterialità dell'arte degli anni Novanta (che, d'altronde, è più il segno della priorità che questi artisti accordano al tempo rispetto allo spazio che una volontà di non produrre oggetti) non è motivata da una militanza estetica né da un rifiuto manierista di creare oggetti. Una mostra di Tiravanija, ad esempio, non evita la materializzazione, ma deostruisce i modi di costituzione dell'oggetto d'arte in una serie di eventi, riconferendogli una durata propria, che non è necessariamente la durata convenzionale dell'osservazione di un quadro. Non bisogna cedere su questo punto: l'arte attuale non ha nulla da invidiare al "monumento" classico, per quanto riguarda la produzione di effetti di lunga durata. Felix Gonzalez-Torres è esemplare per la sua consapevolezza acuta della durata, della sopravvivenza delle emozioni più impalpabili; attento ai modi di produzione, ha centrato la propria pratica su una teoria dello scambio e della condivisione; militante, ha promosso nuove forme d'impegno artistico; omosessuale, è riuscito a trasmutare il proprio modo di vita in termini di valori 12 etici ed estetici. Più precisamente, pone il problema dei processi di materializzazione in arte e dello sguardo dei nostri contemporanei sulle nuove forme di materializzazione. Affrontando e rasentando la morte in quanto individuo, Gonzalez-Torres decide coraggiosamente di porre la problematica dell'iscrizione al centro del proprio lavoro. Va addirittura ad affrontarla sul suo versante più delicato, cioè secondo i differenti aspetti del monumentale: la commemorazione degli eventi, la perennità del ricordo, la materializzazione dell'impalpabile. La parte più monumentale del suo lavoro, Gonzalez-Torres la riserva ai ritratti, che realizza a partire da interviste con i committenti. Fregi in cui si succedono, in un ordine spesso cronologico, ricordi intimi ed eventi storici, i ritratti realizzati alla maniera dei wall-drawing svolgono una funzione essenziale del monumento: la congiunzione, all'interno d'una forma unica, di un individuo e della sua epoca. Ma questa stilizzazione delle forme sociali si manifesta ancor piu chiaramente nel permanente contrasto che Gonzalez-Torres instaura fra l'importanza degli eventi ricordati, la loro complessità, la loro gravità, e il carattere minimale delle forme impiegate per evocarli. Nulla è mai dimostrativo o esplicito nella strategia monumentale, politica, alla quale si dedica l'artista. Gonzalez-Torres non rilascia messaggi: include i fatti nelle forme, come altrettanti messaggi criptati, messaggi in bottiglia. La memoria subisce qui un processo d'astrazione analogo a quelli che subiscono i corpi umani. Con l'aiuto d'una semplice natura morta fotografica, ritrova l'essenza del monumentale: detto altrimenti, la produzione di un'emozione di ordine morale. Che un artista riesca a far scattare quest'emozione, rovesciando i procedimenti tradizionali (una foto incorniciata) e la morale borghese (una coppia lesbica), non è l’aspetto meno rilevante di quest’opera profondamente e deliberatamente discreta. IL CRITERIO DI COESISTENZA (LE OPERE E GLI INDIVIDUI) L'opera di Gonzalez-Torres riserva dunque un posto centrale alla negoziazione, alla costruzione di una coabitazione. Contiene altresì un'etica dell'osservatore. In questo senso partecipa ad una storia specifica, quella delle opere che portano lo spettatore ad essere consapevole del contesto nel quale si trova (gli happening, gli "ambienti" degli anni Sessanta, le installazioni in situ). Questi lavori con le caramelle pongono cosi un problema etico sotto una forma apparentemente banale: il nostro rapporto con l'autorità e l'uso che i guardiani dei musei fanno del loro potere; il nostro senso della misura e la natura delle nostre relazioni con l'opera d'arte. Nella misura in cui quest'ultima rappresenta l'occasione di un'esperienza sensibile basata sullo scambio, dev'essere sottomessa a criteri analoghi a quelli che fondano l'apprezzamento di qualsiasi altra realtà sociale costruita. Ciò che fonda oggi l'esperienza artistica è la compresenza degli osservatori davanti all'opera, che sia effettiva o simbolica. Queste domande non rimandano a una visione estremisticamente antropomorfica dell'arte, ma a una visione molto semplicemente umana. Che si sappia, un artista destina i propri lavori ai propri contemporanei, a meno che si consideri un morto vivente o abbia una versione fascista-integralista della storia (il tempo chiuso sul suo senso, sull'origine). Al contrario, le opere d'arte che oggi mi paiono degne d'uno spiccato interesse sono quelle che funzionano come interstizi, come spazi-tempo retti da un'economia che va al di là delle regole vigenti che concernono la gestione dei pubblici. Ciò che colpisce nel lavoro di questa generazione di artisti è in primo luogo la preoccupazione democratica che lo anima. Poiché l'arte non trascende dalle apprensioni quotidiane, ci pone a confronto con la realtà attraverso la singolarità di un 15 Si potrebbe chiamare legge di delocalizzazione: l’arte non esercita il proprio dovere critico nei confronti della tecnica se non a partire dal momento in cui ne sposta la posta in gioco. Ad esempio, i principali effetti della rivoluzione informatica sono oggi visibili negli artisti che non usano il computer. Al contrario, quelli che producono immagini di computer-grafica generalmente cadono nella trappola dell’illustrazione. La funzione di rappresentazione si gioca a comportamenti: oggi non si tratta più di dipingere dall'esterno condizioni di produzione, ma di metterne in gioco la gestualità, decriptare i rapporti sociali che essi inducono. Il paradosso fondamentale che lega arte e tecnologia è che se la tecnica è per definizione perfettibile, l’opera d'arte non lo è. Le difficoltà incontrate dagli artisti disposti a seguire il progresso della tecnologia consistono nel fabbricare qualcosa di durevole, a partire dalle condizioni generali di produzione dell'esistenza, per essenza modificabili. LA TECNOLOGIA COME MODELLO IDEOLOGICO (DALLA TRACCIA AL PROGRAMMA) La tecnologia essendo produttrice di merci, esprime lo stato dei rapporti di produzione. La funzione dell'arte, in rapporto a questo fenomeno, consiste nel far proprie le abitudini percettive e comportamentali indotte dal complesso tecnico-industriale, per trasformarle in possibilità di vita. La tecnologia che domina la cultura della nostra epoca è l’informatica, potremmo dividerla in due campi: da una parte il computer e i cambiamenti che provoca nel modo in cui percepiamo e trattiamo l'informazione; dall'altra, la rapida avanzata di tecnologie conviviali, dal Minitel a Internet, i touch screen e i videogiochi interattivi. Il primo campo, che riguarda il nostro rapporto con le immagini che produciamo, contribuisce prodigiosamente alla trasformazione della mentalità. Tutte le immagini che conosciamo sono la risultante di un'azione fisica, dalla mano che traccia un segno fino alla manipolazione di una telecamera; le immagini digitali, invece, per esistere non hanno alcun bisogno di un rapporto analogico col proprio soggetto. L'immagine contemporanea si caratterizza precisamente per il suo potere generatore; non ve piú traccia (retroattiva), ma programma (atte). D'altronde, è questa proprietà dell'immagine digitale a informare l'arte contemporanea con maggior forza: già in gran parte dell’arte d'avanguardia degli anni Sessanta l'opera non era una realtà autonoma, ma piuttosto un programma da eseguire, un modello da riprodurre. Negli anni Novanta, con le tecnologie interattive che si sviluppano a velocità esponenziale, gli artisti esplorano gli arcani della partecipazione sociale e dell'interazione. In questo decennio, l'orizzonte teorico e pratico dell'arte si fonda in gran parte sulla sfera delle relazioni interpersonali. Cosi, le mostre di Rirkrit Tiravanija, Philipps Parreno, Carsten Höller, Henry Bond, Douglas Gordon o Pierre Huyghe costruiscono modelli di partecipazione sociale atti a produrre relazioni umane, come un'architettura "produce" letteralmente gli itinerari di coloro che la occupano. L'opera propone dunque un modello funzionale, non un modellino. In altri termini, l’influenza della tecnologia sull'arte, che le è contemporanea, è contenuta dai limiti che l'arte stessa circoscrive fra reale e immaginario. Computer e telecamere delimitano le possibilità di produzione che dipendono dalle condizioni generali della produzione sociale, dai rapporti tangibili fra gli uomini. A partire da questo stato di cose, gli artisti inventano modi di vita, oppure rendono cosciente un momento particolare nella catena di montaggio dei comportamenti sociali, permettendo d'immaginarsi un ulteriore stadio della nostra civiltà. LA TELECAMERA E LA MOSTRA. LA MOSTRA COME SCENOGRAFIA Vediamo, dunque, che l'arte attuale è influenzata dalle maniere di vedere e pensare che accompagnano l'informatica da un lato e la telecamera dall'altro. 16 La nostra ipotesi è che la mostra sia diventata l'unità di base a partire dalla quale è possibile concepire relazioni fra l'arte e l'ideologia che le tecniche comportano, a scapito dell'opera individuale. Si tratta del modello cinematografico, non in quanto soggetto ma come schema d'azione, che ha permesso l'evoluzione della forma-mostra negli anni Sessanta. La pratica di Marcel Broodthaers, ad esempio, testimonia di questo passaggio dalla mostra-negozio (che raggruppava oggetti apprezzabili separatamente) all'esposizione-scenografia (la "messa in scena' unitaria degli oggetti). L'ambiguità che l'opera d'arte intrattiene tra il valore d'esposizione e il valore d'uso, la ritroviamo in quasi tutti gli artisti di questa generazione (da Fabrice Hybert a Mark Dion, da Felix Gonzale-Torres a Jason Rhoades). La mostra Ozone (ideata nel 1908 da Dominique Gonzalez-Foerster,Bertrand Joisten, Pierte Joseph e Philippe Parreno, e realizzata nel 1980 all'Apac di Nevers e al Frac Corsica), che ha significativamente aperto prospettive di lavoro cruciali per la nostra epoca, si presentava cosi come uno "spazio fotogenico", cioè secondo un modello cinematografico, quelle di una camera oscura virtuale all'interno della quale gli osservatori si trasformano come una telecamera, costretti ad inquadrare il proprio sguardo, a ritagliare angoli di visione e segmenti di significato. Ozone, concepita come “programma” generatore di forme e situazioni, funzionava come “campo iconografico”, “vari livelli d’informazione”, pur insistendo su valori di convivialità e produttività. Interessane, in tale direzione, anche il progetto della collettiva How We Gonna Behave che all’ingresso della mostra ha messo delle macchine fotografiche usa-e-getta in modo che i visitatori potessero realizzare da soli il catalogo della mostra. Il destino del cinema (o dell'informatica) in quanto tecnica utilizzabile nelle altre arti non ha nulla da condividere con la forma del film, contrariamente a ciò che affermano quegli opportunisti che trasferiscono su pellicola (o su computer) idee nate nel XIX secolo. Come fa il cinema ad influenzare davvero l'arte? Dipende dal modo in cui tratta il fattore tempo, grazie alle "immagini-movimento" (Deleuze) che genera: così, come scrive Philippe Parreno, l'arte forma "uno spazio nel quale gli oggetti, le immagini e le mostre sono istanti, scenari da reinterpretare". COMPARSE La forma classica della presenza sullo schermo è quella della convocazione, dell'ingaggio di uno o più attori chiamati per occupare la scena: cosi, chi frequentava la factory di Warhol, uno per volta veniva arruolato davanti alla cinepresa. Un film si basa generalmente su degli attori, proletari che affittano la propria immagine come forza lavoro. Con il video si tende a diminuire la differenza fra l'attore e il passante. Rispetto alla cinepresa, la videocamera è un'evoluzione come lo erano i tubetti di pittura per la generazione impressionista: è leggera e maneggevole, permette un'acquisizione en plein air e una certa disinvoltura, rispetto al materiale girato, che non era possibile con la pesante attrezzatura cinematografica. La forma dominante della programmazione videografica è dunque il sondaggio, quell'incursione casuale nella folla che caratterizza l'era televisiva. Il video riveste lo stesso ruolo didattico che aveva lo schizzo nel XIX secolo. Il video ci informa anche sul processo di lavoro. Inoltre, la maneggevolezza del video ci può indurre anche a considerarlo il sostituto dislocato di una presenza. L’ARTE DOPO IL VIDEOREGISTRATORE. REWIND/PLAY/FAST FORWARD Questa maneggevolezza dell'immagine video si estende all'ambito della manipolazione delle immagini e delle forme artistiche. Le operazioni più comuni su un videoregistratore (rewind, pausa, fermo immagine...) fanno ormai parte del bagaglio di conoscenze di qualunque artista. La stessa cosa succede con lo zapping. Secondo Serge Daney, al pari dei film, le mostre diventano "piccoli programmi diversificati con cui fare zapping", il visitatore combina mostre diverse componendo un 17 proprio percorso. Ma il cambiamento maggiore consiste in un nuovo approccio al tempo che la presenza dell'home video comporta. Abbiamo visto che l'opera d'arte non si presenta più come segno di un'azione passata, ma come l'annuncio di un prossimo evento ("effetto trailer") o proposta di un'azione virtuale. Qualunque evento si presenta come durata materiale che ogni esposizione deve aggiornare e far rivivere. L'opera diventa un fermo immagine, un momento fisso che, tuttavia, non elimina il flusso di gesti e forme che le ha dato origine. Oggi sembra normale che un lavoro, un'azione o una performance diventino una documentazione su videocassetta: quest'ultima costituisce il concentrato dell'opera, suscettibile di vedersi diluito in contesti eterogenei d'esposizione. Il video, lo si può constatare persino in ambito giudiziario, funziona come una prova. L’utilizzo artistico delle immagini video non succede a caso: l’estetica dell’arte concettuale è già un’estetica che testimonia, fattuale, ha a che fare con delle prove, e le recenti pratiche proseguono questa estetica. VERSO LA DEMOCRATIZZAZIONE DEI PUNTI DI VISTA? Il video partecipa alla democraticizzazione del processo di produzione d'immagini (proseguimento logico della fotografia), però influisce anche sulla nostra vita quotidiana grazie alla diffusione della tele-sorveglianza, contrappunto di sicurezza alle sedute video familiari. L'arte dopo il videoregistratore nomadizza le forme e le fluidifica, promuove la ricostruzione di oggetti estetici del passato "ricaricati" con forme storicizzate. Ma se il video permette a (quasi) tutti di fare un film, è facile per (quasi) chiunque catturare la nostra immagine. Quando ci muoviamo in città siamo sotto sorveglianza. Le nostre stesse produzioni culturali sono sottoposte a una rilettura/riciclaggio che certifica l'ubiquità degli strumenti ottici e la loro attuale prevalenza su ogni altro mezzo di produzione. Giocando sull'iconografia dei sistemi di sicurezza (monitor, grate, scenografie da parcheggio), Julia Sher fa dell'esposizione uno spazio in cui ognuno viene per esser percepito e per percepire la propria visibilità. Al di là degli evidenti problemi etici che pone questo genere d'interventi (i rapporti fra l'artista e il pubblico diventano rapidamente sadomasochisti), non possiamo non constatare che – dopo Present continuous past(s), la straordinaria installazione di Dan Graham (1974) che diffondeva l'immagine di chiunque la visitasse, ma in leggera differita – il visitatore filmato è passato dallo statuto di "personaggio" teatrale colto nell'ideologia della rappresentazione a quello di pedone assoggettato a un'ideologia repressiva della circolazione urbana. Il soggetto del video contemporaneo è raramente libero. Il futuro dell'arte, come strumento di emancipazione, strumento politico che mira alla liberazione delle forme di soggettività, dipende dal modo in cui gli artisti tratteranno questo problema. Verso una politica delle forme COABITAZIONI. NOTE SU ALCUNE ESTENTISONI POSSIBILI DI UN’ESTETICA RELAZIONALE Sistemi visivi Nel Rinascimento la prospettiva assegna un luogo simbolico allo sguardo e dà all’osservatore un suo posto in una partecipazione sociale simbolica. L’arte moderna, invece, ha modificato questo rapporto, permettendo sguardi multipli e simultanei sul quadro. Nelle opere di Rothko e Pollock il quadro, per esempio, ingloba l’osservatore in un’atmosfera cromatica. 20 LA SOGGETTIVITÀ CONDOTTA E PRODOTTA Denaturalizzare la soggettività La nazione di soggettività costituisce certamente il principale filo conduttore delle ricerche di Guattari che ha dedicato la sua vita a smontarne e ricostruire i meccanismi, a esplorarne le componenti e i modi d’uscita, fino a farne la chiave di volta dell’edificio sociale. La posizione centrale che Guattari assegna alla soggettività determina la sua concezione dell’arte e il valore di quest’ultima. Nel suo ordine di cose, la soggettività come produzione riveste il ruolo di perno intorno al quale i modi di conoscenza e d’azione possono liberamente agganciarsi e lanciarsi all’inseguimento delle leggi del socius. L’arte è definita come un processo di semiotizzazione non-verbale, e non come categoria separata dalla produzione globale. Sradicare il feticismo per affermare l’arte come modo di pensiero e “invenzione di possibilità di vita” (Nietzsche): la finalità ultima della soggettività non è altro che un’individuazione sempre da conquistare. La pratica artistica forma un territorio privilegiato per questa individuazione, fornendo modelli potenziali per l’esistenza umana in generale. Perciò, si potrebbe definire il pensiero guattariano come una vasta impresa di de-neutralizzazione della soggettività, utilizzata nel campo della produzione, di teorizzare il suo inserimento nel quadro dell’economia generale degli scambi. Nulla è meno naturale della soggettività. Sostanzialmente dobbiamo imparare a “captare, arricchire e reinventare” la soggettività, altrimenti la si vedrà trasformare in un meccanismo collettivo rigido, servizio esclusivo del potere. Statuto e funzionamento della soggettività Questa denuncia alla naturalizzazione di fatto della soggettività umana è un apporto capitale: la fenomenologia la brandiva come emblema insuperabile della realtà, al di fuori della quale nulla potrebbe esistere, mentre lo strutturalismo talvolta vi vedeva una superstizione, e talvolta l'effetto di un'ideologia. Guattari ne offre una lettura complessa e dinamica, all'opposto della deificazione del soggetto che ha corso nella vulgata fenomenologica, ma pure refrattaria alla pietrificazione che operano gli strutturalisti. Ponendola all'intersezione dei giochi di significanti, la soggettività guattariana è determinata da un ordine caotico e non più, com'era nel caso degli strutturalisti, dalla ricerca dei cosmi nascosti sotto le istituzioni quotidiane. Questa urgenza caotica induce un certo numero di operazioni. La prima consiste nello scollare la soggettività dal soggetto, nel dissolvere i legami che ne fanno l'attributo naturale di quest'ultimo. Guattari non fa altro che segnalare fino a che punto la soggettività è alienata, dipendente da una sovrastruttura mentale, e indicare delle possibilità di liberazione. In altre parole, la soggettività non può che essere definita dalla presenza di una seconda soggettività: non costituisce un "territorio" se non a partire dagli altri territori che incontra; formazione evolutiva, si modella sulla differenza che costituisce essa stessa in principio d'alterità. È in questa definizione plurale, polifonica della soggettività che appare la vibrazione prospettica che Guattari fa subire all'economia filosofica. La soggettività, spiega, non potrebbe esistere in maniera autonoma, e in alcun caso fondare l'esistenza del soggetto. Esiste soltanto in modalità accoppiamento, come associazione con "gruppi umani, insiemi socio-economici, macchine dell'informazione". Intuizione folgorante, decisiva: se l'impatto di Marx, nelle sue Tesi su Feuerbach, si basava sulla definizione dell'essenza dell'uomo come "insieme dei rapporti sociali", da parte sua Guattari definisce la soggettività come insieme dei rapporti che si creano fra l'individuo e i vettori di soggettivazione che incontra, individuali o collettivi, umani o inumani. È una rottura decisiva: cercando l'essenza della soggettività del soggetto la troviamo, decentrata per sempre, intrappolata da "sistemi semiotici a-significanti". 21 I significanti fluidi che compongono la produzione di soggettività sono: l'ambiente culturale ("la famiglia, l'educazione, l'ambiente, la religione, l'arte, lo sport"); in seguito il consumo culturale ("gli elementi fabbricati dall'industria dei media, del cinema...), i gadget ideologici, frammenti vari della macchina soggettiva; l’insieme delle macchine informazionali, che forma il registro a-semiologico, a-linguistico della soggettività contemporanea. Il processo di singolarizzazione/individuazione, dunque, consiste precisamente nell’integrare questi significati in “territori esistenziali” personali, in quanto strumenti che servono a inventare nuovi rapporti e per resistere all’omologazione di pensieri e comportamenti. La soggettività individuale si forma così a partire dal trattamento dei prodotti di queste macchine. La determinazione a trattare l'esistenza come una rete di interdipendenze, che dipende da un'ecologia unitaria, determina i rapporti di Guattari con la pratica artistica: essa costituisce solo una placca di sensibilità fra le altre, collegata a un sistema globale. La sua riflessione sull'ecologia conduce cosi Guattari alla consapevolezza, prima della maggior parte dei "professionisti" dell'estetica, della desuetudine dei modelli romantici ancora in vigore per descrivere l'arte moderna. La soggettività guattariana fornisce cosi all'estetica un paradigma operativo che è legittimato dalla pratica degli artisti di questi ultimi tre decenni. Le unità di soggettivazione L'estetica romantica – dalla quale forse non siamo ancora veramente usciti – ipotizza che l'arte, in quanto prodotto della soggettività umana, esprime l'universo mentale di un soggetto. Nel corso del XX secolo, numerose teorie hanno discusso questa versione romantica della creazione, senza però mai ribaltarne completamente i fondamenti. Le tesi di Guattari, se vanno nella medesima direzione rifiutando la nozione romantica di genio e raffigurando l'artista come un operatore di senso, più che come un puro "creatore" dipendente da un'ispirazione cripto-divina, tuttavia non corrispondono agli inni strutturalisti che riguardano la "morte dell'autore". Per Guattari si tratta di un falso problema: sono i processi di produzione di soggettività a dover essere ridefiniti nell'ottica della loro collettivizzazione. Poiché l'individuo non ha il monopolio della soggettività, poco importa il modello dell'Autore e la sua supposta scomparsa. Solo una concezione "trasversalista" delle operazioni creative, che snellisce la figura dell'autore a profitto di quella dell'artista-operatore, può render conto della "mutazione" in corso: Duchamp, Rauschenberg, Beuys, Warhol, tutti hanno costruito la loro opera su un sistema di scambi con i flussi sociali, dislocando il mito della "torre d'avorio" mentale che l'ideologia romantica assegna all'artista. Non è un caso se, lungo tutto il XX secolo, la progressiva smaterializzazione dell'opera d'arte si è accompagnata a un'irruzione dell'opera nella sfera del lavoro. La firma, che nell'economia artistica suggella i meccanismi di scambio della soggettività (forma esclusiva della sua diffusione, che la trasforma in merce), implica la perdita della “polifonia”, di quella forma bruta della soggettività che è la moltiplicazione di voci, profitto di un funzionamento sterilizzante, reificante. La polifonia si ricompone tuttavia a un altro livello, in quei complessi di soggettivazione che legano ambiti eterogenei. È sufficiente accettare il fatto che la soggettività non deriva da alcuna omogeneità; al contrario, evolve per tagli, segmentando e smembrando le unità illusorie della vita psichica. L'artista, munito dell'autorità della firma, è assai spesso presentato come il direttore d'orchestra di facoltà manuali e mentali avvolte intorno a un principio unico, il suo stile: l'artista occidentale moderno si definisce innanzitutto come un soggetto la cui firma funge da "unificatore degli stati di coscienza", mantenendo una confusione calcolata fra soggettività e stile. Il soggetto guattariano è formato da placche indipendenti, che si rapportano con diversi accoppiamenti, che vanno alla deriva all'incontro di campi di soggettivazione eterogenei: il "capitalismo mondiale integrato" descritto da Guattari non ha cura dei "territori esistenziali" che 22 l'arte ha per missione di produrre. Tramite la valorizzazione esclusiva della firma, fattore di omogeneizzazione e reificazione dei comportamenti, può continuare a svolgere il suo compito, cioè trasformare quei territori in prodotti. All'omogeneizzazione e alla standardizzazione dei modi di soggettività, Guattari oppone la necessità d'impegnare l'essere in "processi di eterogenesi". È questo il principio primo dell'ecosofia mentale: articolare universi singolari, forme di vita rare; coltivare in sé la differenza, prima di farla passare nel sociale. Tutta l'argomentazione guattariana procede da questa configurazione preliminare, interna, dei rapporti sociali: nulla sarà possibile senza una profonda trasformazione ecologica delle soggettività, senza essere consapevoli delle interdipendenze fondatrici di soggettività. In ciò si ricollega alla maggior parte delle avanguardie del secolo, che chiamavano a una trasformazione congiunta delle mentalità e delle strutture sociali. Il dadaismo, il surrealismo, i situazionisti tentarono così di promuovere una rivoluzione totale, prevedendo che nulla può cambiare nell'infrastruttura (nei dispositivi di produzione) se la sovrastruttura (l'ideologia) non viene anch'essa profondamente rimodellata. La difesa guattariana delle "tre ecologie" (ambientale, sociale e mentale) sotto l'egida di un "paradigma estetico", atto a collegare le differenti rivendicazioni umane, si situa cosi nella scia delle utopie artistiche moderne. IL PARADIGMA ESTETICO La critica del paradigma scientista Nell'universo "schizoanalitico" di Guattari, l'estetica beneficia di uno statuto a parte. Costituisce un "paradigma", una struttura flessibile in grado di funzionare a diversi livelli, su differenti piani del sapere. Innanzitutto come base che gli permette di articolare la sua "ecosofia"; modello di produzione di soggettività; strumento che serve a fecondare la pratica psichiatrica-psicoanalitica. Guattari fa appello all'estetica per contrastare l'egemonia del "super-ego scientista" che irrigidisce le pratiche analitiche in formule. Più generalmente, Guattari intende rimodellare l'insieme delle scienze e delle tecniche a partire da un "paradigma estetico". Le teorie e i concetti hanno per lui solo il valore di "modelli di soggettivazioni" fra gli altri; nessuna certezza è irrevocabile. Secondo Guattari, il paradigma estetico è chiamato a contaminare tutti i registri del discorso, a inoculare il veleno dell'incertezza creativa e dell'invenzione delirante in tutti i campi del sapere. Ritornello, sintomo e opera L’estetica guattariana, al pari di quella di Nietzsche, nei confronti della quale è ampiamente debitrice, considera soltanto il punto di vista del creatore. Non vi si trova alcuna traccia di considerazioni sulla ricezione estetica, eccezion fatta per le pagine che trattano della nozione di “ritornello”. L’arte fissa l’energia (psichica) , la “ritornellizza”, dirottandola sulla vita quotidiana: è una questione di ripercussione, di rimbalzo. I “motivi esistenziali” offerti alla contemplazione estetica, in senso ampio, captano le diverse componenti della soggettività e le dirigono: l’arte è ciò su e intorno a cui la soggettività può ricomporsi, come vari faretti luminosi si assemblano in un fascio per illuminare un unico punto. Il contrario di questa condensazione, della quale l’arte fornisce l’esemplare più probante, sarebbe la nevrosi, nella quale il “ritornello”, caratterizzato dalla sua fluidità, si “indurisce” nell’ossessione; ma anche la psicosi, che fa implodere la personalità, facendo partire le “componenti parziali” della soggettività “in linee deliranti, allucinatorie”. Il capitalismo integrato, che trasforma i territori esistenziali in merci e manda alla deriva l’energia soggettiva verso i prodotti, funziona allora alla maniera della nevrosi: genera un “immenso vuoto
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