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Estetica - Serena Feloj, Appunti di Estetica

Appunti e Sintesi per l'esame di Filosofia Estetica

Tipologia: Appunti

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Caricato il 23/08/2020

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Scarica Estetica - Serena Feloj e più Appunti in PDF di Estetica solo su Docsity! ESTETICA aka filo morale orientale La prima categoria di cui tratteremo sarà quella del “Bello”; bisogna ricordare che non esiste una definizione univoca di questo concetto, ma si parla piuttosto di una serie di posizioni spesso contrapposte. Parlare della categoria del bello significa parlare della storia dell’estetica seguendo lo sviluppo delle varie definizioni: Tatarkiewicz, autore russo, sostiene che l’estetica può essere articolata attorno a sei grandi idee e che il bello sia il grande paradigma attorno a cui l’estetica si costituisce. T. ci fa vedere come il bello sia un termine comparativo, quindi le altre categorie si spiegano a partire da tale concetto. La definizione di bellezza cambia radicalmente nel susseguirsi dei secoli ed è possibile individuare alcuni nuclei tematici:  TEMA DELLA PROPORZIONE (Armonia)  già dall’antichità il bello è definito in base all’armonia e la simmetria della forma (Pitagora e Platone); per Platone il bello coincide con l’idea di Bene e per ciò è immateriale ed “ideale”. Questa idea Platonica è stata poi applicata alla realtà sensibile (Vitruvio). T., richiamando Platone, intende vedere il bello come armonia e proporzione delle parti ( da lui chiamata “la grande teoria del bello” intesa come primo riferimento comune per l’estetica. Altor importante esponente di questa imposizione è Shalftesbury (Posizione  tradizione Metafisica)  TEMA DELL’UNITA’ NELLA VARIETA’  la bellezza non è concepita come assoluta in quanto essa parte dall’esperienza e dalla varietà del mondo; alcuni autori riconducibili a tale paradigma sono Crousaz (FR), Hutcheson (UK) e Hume. La volontà di trovare un’unità ha comunque a che fare con l’armonia, intesa secondo la definizione fornita da Leibniz. Rinunciando ad un modello assoluto, l’attenzione ricadrà sempre più sul soggetto che dovrà cogliere l’unità nella varietà; ciò si configura come un ritorno alla sensibilità e alla soggettività. (Posizione  Relativismo empirista)  TEMA DELLA BELLEZZA COME VERITA’  Questo è un nucleo di sintesi tra le due posizioni precedenti; la bellezza è simbolo sensibile di una verità che sta altrove. In questo senso la bellezza è una via di accesso privilegiata per la verità (Goethe e Hegel). La bellezza possiede la capacità di “esibizione” (Darstellung), intesa come la manifestazione sensibile di un contenuto sovra sensibile e nella sua possibilità di esibirsi nel mondo sensibile. Hugo sostiene che la bellezza si faccia traccia di un’età classica ormai scomparsa; Per Baudelaire il bello sarebbe simbolo di verità quando esprime una forma duplice, riconducibile sia all’eterno sia all’occasionale (relativo alla cultura e al tempo). Valery, rimproverando la posizione Platonica si trova d’accordo con la necessità dell’occasionale nel bello e dunque il suo legame con il proprio tempo. Questi nuclei tematici ci permettono di vedere come nella storia del bello vi siano due grandi tendenze:  La ricerca dell’assolutizzazione (Universale)  oggettività (intesa come appartenente al predicato)  La frantumazione della bellezza (Personale)  soggettività (riferita a piacere e gusto dei soggetti) Le due posizioni possono essere esemplificate in Platone e nei Sofisti; tra questi due poli opposti subentrano infinite sfumature, una delle quali è il caro Aristotele. Per Platone questo concetto non può essere propriamente prodotto in quanto non ha nulla a che fare con la sensibilità e con la materialità; ne l’arte ne la poesia hanno a che fare con la bellezza in quanto esse si allontanano dal mondo delle idee (copia di una copia). Nella tradizione Sofistica la Bellezza è un attributo retorico del discorso o qualcosa che viene suscitato nell’uditore. Per Aristotele la Bellezza è un valore che genera piacere; è una forma oggettiva determinata dall’ordine, ma allo stesso tempo genera un piacere sensibile. Con Plotino, e successivamente con Tommaso d’Aquino, la vista diviene il senso che riesce a cogliere la bellezza; per Plotino la bellezza deve essere intesa secondo una teoria Ascensionale (dal sensibile all’assoluto). Nel Medioevo la tensione sovra citata tra oggettivo e soggettivo continua a persistere. Il tema della vista introduce un’ulteriore tema centrale, quello dell’immagine; la diatriba tra iconoclasti e … si basa sulla possibilità di utilizzare l’immagine per comunicare il bello; in tal senso la seconda opposizione fondamentale sarà quella tra Bellezza e Arte. Con il rinascimento abbiamo una forma di secolarizzazione della bellezza, dunque rimane l’idea di proporzione della bellezza (Platone) ma anche che questi modelli proporzionali possano essere traslati al campo delle arti (architettura, pittura e scultura). La vista e la visione sono intese in primo luogo in senso incorporeo come visione spirituale che funge da mezzo per cogliere la bellezza che sta nell’essenza delle cose; l’artista rinascimentale è chiamato alla ricerca di un disegno interno alle cose, ossia ricercare l’idea che sta alla base delle cose. La novità del rinascimento sta nella possibilità di applicare la nozione di Bellezza all’arte (legittimazione dell’arte), in quanto mezzo di ricerca della bellezza ideale. Il superamento di Platone sta nella concezione di un’arte come contemplazione dell’ideale, e non come semplice copia; le arti figurative saranno quelle privilegiate per il processo di nobilitazione dell’arte, che diventa persino più perfetta rispetto alla sensibilità. Si ricerca ora il “non so che”, facoltà che garantisce di cogliere l’idea e figurarsela (in sorta è l’immaginazione). Nel 1708, R. De Piles per primo parla di “Belle Arti”, espressione che riesce a porre fine all’opposizione Bellezza – Arte. L’estetica nasce dunque da quel dibattito tra antichi e moderni, oggetto del secondo modulo; questa opposizione ha un proprio iniziatore, ossa K. Perrault che nel 1688 scrive “parallelo tra gli antichi e i moderni”. Perrault vede gli antichi come sostenitori di una bellezza astratta e fondata sull’abitudine, mentre i moderni riescono a cogliere la permanenza della bellezza senza cadere nell’astrazione. Du-Bos e Batteux parlano di un modello che si basa sul legame bellezza – arte che deve essere ricondotto alla capacità emotiva del soggetto; la bellezza comincia a diventare un sentimento. Crousax e André propongono un’idea di bellezza come proprietà reale delle cose, con forte richiamo a Leibniz e al concetto di armonia; Il concetto di “Rappresentazione” (Vorstellung) è fondamentale nel dibattito moderno. Shaftesbury riprende le idee Platoniche e sulla stessa linea Hutcheson vuole ricercare delle caratteristiche universali della bellezza. A segnare una svolta importante nell’estetica moderna è sicuramente la nascita della filosofia empirista, in particolare quella di Locke; l’empirismo chiama a guardare alle cose sensibili (ogg.), ma allo stesso tempo ha una dimensione scettica che chiama a vedere la bellezza come risposta soggettiva (sogg.). Locke, Hume, Adison e Burke costituiscono la scuola scozzese e saranno punto di ispirazione per l’estetica settecentesca ed ottocentesca. Addison (i piaceri dell’immaginazione) fa vedere come la bellezza si fondi sull’immaginazione; Burke (inchiesta sul bello e il sublime) ha stabilito la specificità esperenziale del bello come sentimento e ha iniziato la trattazione del sublime; Hume si accorge che è necessario giustificare il fatto che tutti noi possediamo il sentimento del bello in maniera condivisa. Un autore che si fa portatore della prima esplosione dell’estetica è Diderot (1751); Nell’Enciclopedie questo autore traccia una prima storia del concetto di bellezza, partendo dall’opposizione tra antichi e moderni (classicismo oggettivistico vs empirismo espressivo). D. sostiene che il bello sia percezione dei rapporti, cioè appartiene sia alle qualità intrinseche sia alla capacità ricettiva e percettiva del soggetto; le cose devono avere qualità espressive e il soggetto deve avere la facoltà di percepirle. Diderot si pone l’obbiettivo di mediare tra le due posizione, muovendo da una critica fortissima a Wolff e Baumgarten (estetica tedesca). In ogni caso notiamo l’impossibilità di dare una definizione di carattere normativo del concetto di Bello. ESTETICA TEDESCA  Wolff, autore d’inizio secolo, ha come principale allievo Baumgarten; Wolff inaugura una tradizione che identifica la bellezza con la perfezione, molto distante dalle definizioni poste da Diderot. Per B. la bellezza è una forma di armonia radicata nella sensibilità e dunque ricadente nel dominio della conoscenza; una Gnoseologia inferiore rispetto a quella logica. Un altro autore centrale nella Germania che ci fa rendere conto che immaginazione ed intelletto sono in accordo tra loro. Il piacere è ciò che ci rende consapevoli del LIBERO GIOCO  forte legame con l’esperienza vissuta e con Hume. Il problema del disaccordo estetico è fondamentale per Kant; preliminarmente possiamo dire che l’argomentazione è paro paro a quella di AYER riguardo al giudizio morale. RELAZIONE  anticipiamo le coppie concettuali antitetiche  Bellezza –attrattiva dei sensi  Bellezza – perfezione  Bellezza Libera – Bellezza Aderente  Idea normale (canone) – ideale di Bellezza (idea) Per Adorno Kant era uno sfigato che non ha mai visto un’opera d’arte, però è stato comunque bravo. [recupero appunti 5/03] la bellezza libera (autentica), ovvero priva di un fine determinato è ben distante dalla bellezza aderente. Per Kant la bellezza libera è quella naturale; ciò non significa che nella natura non esistono fini, ma piuttosto che sia possibile avere un giudizio libero da concetti. Per quanto riguarda la bellezza aderente (meno pura) dobbiamo ricordare come essa aderisca al concetto di fine e che questa sua caratteristica ci porta ad affermare che la bellezza non può prescindere dalla funzione dell’oggetto (es. Architettura). La bellezza aderente per antonomasia è l’essere umano, essere che conserva in sé stesso il fine ultimo della moralità. Sorge ora il tema dello sguardo: la bellezza non dipende dall’oggetto, ma dal nostro sguardo, ossia un carattere soggettivo e, lo vedremo in seguito, sentimentale. Da questa affermazione sorge anche una questione basilare, ossia l’individuazione del criterio che orienta il nostro giudizio; a tal proposito, Kant mette in obbiezione il concetto di Idea Normale proposto da Hume. Il filosofo inglese sosteneva l’esistenza di uno standard, una sorta di misura media che emerge dall’esperienza; su questo dato empirico si fonda un canone a cui l’artista si può ispirare. Kant afferma che questa tesi porta ad “un opera sclolasticamente corretta” senza però scendere al livello dell’essenza. Kant introduce il tema dell’ideale estetico, cioè la capacità del bello di rendere visible un’idea mediante un moto di carattere emozionale; quando un artista crea si deve solo preoccupare della contemplazione e dell’espressione di un idea, facendo si che essa aderisca ad un’oggetto fenomenico. Beninteso, l’oggetto cui verrà riferita la bellezza risulterà sempre caratterizzato da una bellezza aderente, non da una bellezza naturale. La bellezza piace necessariamente. La necessità, di cui parla Kant si può dire “esemplare” ed è strettamente connessa alle due facoltà, intrecciate in un “libero gioco” : immaginazione ed intelletto. Quando queste due sono in accordo l’osservatore proverà un piacere, necessario. Questo piacere non sta alla base del bello, ma è la conseguenza che scaturisce dal riconoscimento dell’accordo delle facoltà. Schiller si rende conto della porta rivoluzionaria della Critica del giudizio Kantiana [1790] e muove la sua riflessione dalla necessità di trasporre l’estetico kantiano in una dimensione oggettiva, legata all’oggetto, che possa garantire il superamento della dicotomia platonica tra bellezza ed arte. Dopo Kant , qualsiasi tentativo di associare una realtà normativa all’esperienza estetica viene percepita come impossibile. HEGEL Hegel rappresenta un punto di svolta, una pietra miliare seguita alla riflessione Kantiana: per il filosofo tedesco il bello ha a che fare con l’idea, ma è la semplice rappresentazione sensibile dello spirito. A questo tema si collega direttamente la riflessione sull’arte; per Hegel l’arte è incarnazione dello spirito ed ha un necessario collegamento con il dato storico. Ogni momento storico sarà rappresentato dall’arte, basti pensare ai tre momenti fondamentali dell’arte simbolica, classica e romantica. Questo radicamento storico dell’arte fa si che si cominci a contemplare la possibilità di una vera e propri “storia dell’arte”. Con le tesi Hegeliane assistiamo ad un cambio di paradigma che non vedrà più il bello come cadine dell’estetica; l’estetica vive una fase di espansione che la porta a contemplare concetti quali la bruttezza, la comicità e il disgusto,quelle che ora definiamo “categorie negative”. Questa tendenza si è però rarefatta negli ultimi decenni in cui vari pensatori e artisti hanno deciso di affrontare con nuova insistenza il tema della bellezza (Zangwill). L’ottocento e la prima parte del 900 sono secoli in cui emerge la volontà di definire le categorie negative piuttosto che definire il bello; questo movimento cambia nella seconda metà del ‘900, dove vediamo l’oggetto artistico in modo diverso, senza distinzione tra opera d’arte e oggetto comune. È chiaro ormai che l’estetica prescinde dalla conoscenza logica, ma sorge un quesito fondamentale: cos’è la proprietà estetica e cosa può essere attribuito al giudizio estetico. Dopo gli esempi di Duchamp e Warhol l’estetica deve tornare ad interrogarsi sulla natura della bellezza; la corrente che si propone di dare alcune risposte a proposito è l’estetica analitica. L’estetica analitica si trova di fronte ad un panorama problematico ed indeterminato, caratterizzato da una certa confusione terminologica; la volontà dei vari autori appartenenti a questa corrente è quella di fornire una definizione dei termini estetici e di comprendere se sia possibili fornire tale definizione a partire dalle proprietà fisiche dell’oggetto. F. Sibley pone molta attenzione alla terminologia estetica e si chiede se per spiegare gli attribuiti estetici si possa fare riferimento al significato metaforico di un predicato non estetico; per S. non è sufficiente intendere la bellezza come un’estensione metaforica, ma l’estetica è piuttosto una specifica forma di vita nella quale dobbiamo indagare l’uso dei termini estetici (necessità di un repertorio lessicale). S. sostiene che le qualità estetiche dipendono da aspetti dell’oggetto che sono percepibili, visibili o udibili; per elaborare un giudizio estetico è necessario che dell’oggetto venga fatta esperienza (Q. sensoriali). Sebbene vi sia una dipendenza tra qualità fisiche ed estetiche è necessario che esse siano distinte. Le qualità fisiche sono necessarie, ma non sufficienti per darci un’esperienza estetica, difatti esse vengono definite “condizioni” delle qualità estetiche. Sibley avanza la tesi della mancanza di condizioni di governo; la condizione secondo cui non ci sono condizioni non estetiche sufficienti a garantire l’utilizzo di un termine estetico. Vi è un totale rifiuto dei criteri oggettivistici e Sibley si rende conto del fatto che esistano comunque alcuni aspetti che favoriscono le qualità estetiche (colori, linee ecc.); è necessario partire dall’esperienza particolare sui generis, perché in estetica compiamo un esperienza che trae la sua base dall’esperienza diretta e non da delle regole prestabilite. L’esperienza estetica segue una logica eccentrica; detto in altri termini nell’esperienza estetica noi guardiamo all’oggetto con sguardo differente, diverso dalla logica consueta che vede l’identificarsi di proprietà fisiche con quelle estetiche [ se B è A; A è proprietà di B e A è B]  o una cosa del genere. Beardsley sostiene che effettivamente esiste una differenza essenziale tra qualità estetiche e non estetiche e che questa differenza debba essere posta in termini epistemologici; si tratta di modi alternativi di fare esperienza dello stesso contenuto (tesi regionale). Quando facciamo un’esperienza estetica stiamo facendo un gioco di attenzione, focalizzandoci su aspetti regionali e tralasciandone altri. In sostanza le facoltà sono le stesse ma si trovano in diversa relazione tra loro, ossia le qualità sensoriali sono sempre le stesse. Secondo B. quando esprimiamo un giudizio di gusto utilizziamo le qualità estetiche non per descrivere l’oggetto, ma le usiamo come motivazione della nostra attribuzione di valore all’oggetto; dunque le qualità estetiche non sono valori, ma TENDONO al valore. B. sostiene che non c’è una normatività diretta in estetica che ci dica come individuare le qualità estetiche a partire da quelle fisiche, ma possiamo dire che esse tendono. Le qualità che tendono alla valutazione sono quelle che possiedono il carattere dell’umanità, qualità che suscitano attenzione e risultano interessanti per l’uomo. B. è molto importante per la definizione del rapporto tra qualità fisiche ed estetiche, parlando di emergentismo: le qualità estetiche dipendono da una regione di qualità non estetiche ed emergono da esse. le qualità fisiche delineano una tendenza verso la proprietà estetica, senza mai determinarla (assenza di concetto). Kivy sostiene che B. riduce troppo la distanza tra proprietà fisiche ed estetiche; secondo K. bisogna avvicinare un po’ di più il carattere esperienziale immediato all’esperienza estetica. l’estetico è svincolato dalle proprietà fisiche, ma dall’altra parte vi è un nesso esperienziale dove diventa centrale la dimensione del piacere provata dal soggetto. Secondo K. è stata ridotta troppo la distanza parlando di emergentismo, quindi occorre reintrodurre il tema del piacere, concetto che segna il carattere dell’esperienza. L’esperienza estetica è un atto immediato per il quale non serve alcuna riflessione; questo piacere è privo di finalità e quindi l’esperienza estetica non è un atto interpretativo in quanto non ha in se quel carattere del ragionamento. Per K. rimane fermo il carattere dell’emergentismo, ma sostiene che non sono solo le proprietà fisiche del soggetto a far emergere le proprietà estetiche, bensì vi sono due altri fattori: l’intenzionalità dell’artista e la determinazione storica e contestuale (elementi non fisici). K. sottolinea che l’esperienza estetica non è un atto di riconoscimento o determinazione cognitiva. Scruton afferma che nella percezione estetica si afferra qualcosa, senza saper dare dei criteri oggettivi. Secondo Scruton nell’esperienza estetica abbiamo a che fare con una descrizione di elementi estetici che per lui sono predicati espressivi. Vengono distinte proprietà e aspetti: quando parliamo di proprietà parliamo di qualcosa che si può verificare (Credenza  Belif), mentre gli aspetti sono l’espressione di uno stato mentale che deve essere provato in prima persona (attitude) [guardare the square]. Per Scruton è importante il tema del disaccordo; l’accordo nell’individuazione della bellezza significa vedere dallo stesso punto di vista dell’altro (vedere largo  Kant). Il rischio della posizione di Scruton è quella del relativismo estetico. Goldman tenta di riprendere Scruton sostenendo che le qualità estetiche siano quelle qualità che vengono colte come aspetti da un critico ideale, cioè da una persona che guarda quell’opera senza pregiudizi, con la dovuta educazione e in un dato momento storico. Goldman riprende anche Hume e sostiene che l’attribuzione di qualità estetiche ha tre funzioni: descrittiva (fisica) , espressiva (emotiva) e normativa. Parlando di normatività si intende l’invito agli altri di rispondere alla stessa qualità estetica (volontà di condivisione  Russel). Quello che Goldman ribadisce e che le qualità estetiche necessitano di una base fattuale, garantita dall’esperienza, e che il valore estetico emerge sia dall’esperienza dei fatti sia dal piacere che questa esperienza provoca. In questo senso abbiamo una doppia incidenza del nostro e sentimento e … sul giudizio estetico e tanto più la nostra esperienza emotiva sarà ricca, tanto più giudicheremo l’opera d’arte come meritevole. Levinson prende dall’etica analitica un concetto molto complesso e teorizza la “sopravvenienza estetica”; L. sostiene che due opere d’arte che differiscono nelle loro proprietà estetiche necessariamente differiscono anche nelle loro qualità non estetiche. Secondo L. le proprietà estetiche sono dei modi di apparire dell’oggetto di ordine superiore rispetto alle proprietà fisiche, ma è un ordine superiore che dipende da quello inferiore (emergono). la posizione di L. è abbastanza assodata ed è una posizione forte all’interno del dibattito contemporaneo in estetica, ma il problema principale di questa posizione riguarda la validità intersoggettiva dei giudizi estetici, cioè non spiega la pretesa del giudizio sulla bellezza di valere anche per gli altri; una critica che viene mossa a L è la critica della riuscita, secondo cui la sopravvenienza spiega perché sentiamo qualcosa come bello/ potente, ma non spiega perché questo sentire sia condiviso. Il tema emozioni più sottili dello spirito”, molto difficili da definire; in queste è possibile individuare una continuità dettata da principi generale, derivabile esclusivamente dall’osservazione empirica e dall’esperienza. Hume sostiene l’esistenza di costanti; se noi guardiamo alla storia ci rendiamo conto che esistono delle opere d’arte che superano la variabilità del gusto e che suscitano un sentimento comune (il tema del classico; Test time). In questo senso rimane comunque fermo che per Hume la bellezza non è insita nell’oggetto e che ciò che rimane costante è semplicemente il sentimento. Hume inaugura un dibattito in cui al gusto si da regolarità. Per Hume l’espressione di gusto la facoltà protagonista è l’immaginazione, concetto derivato dalla riflessione da Locke che la intende come la capacità di associare idee senza darne necessariamente una determinazione. Già per Locke l’immaginazione non è la capacità di creare immagini, ma di associare un sentimento alla percezione di un oggetto. Hume deriva da Locke questa nozione e la colloca al centro della propria riflessione sul gusto e ha il merito di porre una questione centrale dell’estetica settecentesca: il dato dell’universalizzabilità. Hume parla di “Common sense”, comune a tutti gli esseri umani in quanto essi sono dotati di immaginazione; il gusto ha in questo caso un’accezione “spirituale” che ci da una percezione vivace e acuta della bellezza e della bruttezza. Un’ulteriore tema fondamentale, ma ambiguo, è quello del “giudice” (Critico). Nell’ottica di Hume, alcuni individui possiedono una capacità eccellente nel cogliere la bellezza o la bruttezza  questo è il critico. Hume ci ha dimostrato come tutti gli uomini sono potenzialmente uguali, ma ora afferma che soltanto alcuni uomini eccellenti possono esercitare il gusto in modo appropriato e soltanto questi ultimi potranno dare uno standard al gusto. Hume ci fornisce 5 caratteristiche del Critico:  Deve possedere squisitezza o delicatezza di gusto (dono naturale).  Deve possedere pratica (necessità di esercizio del gusto).  Deve possedere metodo (esercizio del gusto secondo certi criteri).  Deve essere libero da pregiudizi (scevro da ogni preconcetto).  Deve possedere buon senso (tener conto della reazione comune, non deve essere eccentrico). Il gusto deve essere educato attraverso l’esperienza e la pratica, ma persino la figura del critico ci da una determinazione del gusto; Hume afferma che il critico non debba essere inteso come una regola del gusto, bensì come una sorta di guida (esemplare) e non come una prescrizione cui dobbiamo aderire. Hume arriva a riconoscere che nelle espressioni di gusto vi è sempre un residuo molto raffinato di relativismo, che porterebbe all’incomponibilità del giudizio in quanto il gusto non vuole essere un giudizio verofunzionale e dipende dalle nostre emozioni (non prescrittive); in sorta stimo parlando ancora dell’universalità soggettiva proposta da Kant. La percezione del gusto non è paragonabile alla percezione dei sensi, ma si sta parlando di qualcosa di indeterminato. in fine per Hume la regola del gusto è un potere critico valutativo, svincolato dalle proprietà oggettive della bellezza: le regole del gusto altro non sono che la constatazione empirica. E. Burke scrive un testo intitolato “inchiesta sul bello e il sublime” (1757 - 1759); Burke scrive del gusto in una prospettiva Humana, pur portando grandi innovazioni. L’autore afferma che il gusto è pervaso da incertezza e … e proprio questa incertezza porta alla volontà di definirlo mediante la costatazione empirica. Proprio attraverso l’esperienza, Burke afferma che il gusto una o più facoltà della mente che sono impressionate dalle opere dell’immaginazione o dalle belle arti (campo ristretto); il gusto è sia sentimento che giudizio. Burke afferma una prospettiva con un marcato interesse psicologico e questa dimensione verrà fortemente criticata da Kant. Il gusto è un potere soggettivo dotato di un buon senso comune che rende minime le differenze nel proprio esercizio; gli uomini si accordano su ciò che ritengono un oggetto di gusto. Per Burke il gusto viene esercitato a seguito della percezione di oggetti capaci di mettere in moto la nostra immaginazione (influenza da Locke e Addison); L’oggetto diventa degno d’attenzione in base alla sua capacità di destare qualcosa nel soggetto. Con Burke l’immaginazione è ancora più protagonista, anche se la grande innovazione sta nel fatto che egli affronta per primo la coppia Bello-Sublime. Burke sostiene l’impossibilità di dare una regola all’arte e il vero metro “standard” [dissing hume] delle arti è il potere di ciascuno e dipende esclusivamente dalla facoltà della mente (diversa dai sensi), cui deve essere accostata un’osservazione empirica. Per Burke l’unico metodo per risolvere le discussioni in estetica è una catalogazione delle passioni del soggetto, una sorta di disamina psicologica. Questa catalogazione ha forte carattere empirico e in questo contesto Burke introduce il tema del sublime: mentre il bello è una forma di piacere (estetica sentimentalista), il sublime è una forma più complessa in quanto sentimento misto di piacere che scaturisce da un iniziale senso di dispiacere o terrore (monaco di Fredrich). Burke afferma una sostanziale differenza tra gusto e bello, in quanto il primo ha confini più ampi rispetto al campo della bellezza in quanto si estende anche al terrore (Sublime). L’inserzione del sublime è una svolta per l’estetica, che vedrà ora un cambio di paradigma che non vede più il bello come cardine di tutto. Il terrore si trasforma in piacere nell’esperienza del sublime, ma questa trasformazione sta ad un livello superiore; esiste un terzo campo dell’esperienza (dopo i sensi e l’intelletto). Burke si riferisce al paradise Lost (Milton), a Blake e a Turner. Il sublime è tutto ciò che può destare sensazioni di terrore o di pericolo, ciò che desta l’idea della più forte emozione dell’animo. In questo senso Burke affronta anche il tema dell’arte, intendendo quest’ultima come oggetti che suscitano qualcosa nel soggetto. L’esperienza del sublime è quella che maggiormente muove la nostra immaginazione; le nostre facoltà sono vivificate, ci sentiamo vivi. Ciò che interessa non è più l’oggetto ma lo stato d’animo del soggetto e la sua vivificazione. Con Burke viene condotta un’analisi delle passioni del soggetto, yo. Allora centralità del tema delle facoltà. Wolff cerca di inserire il gusto come strumento della logica, cercando di istituire una logica del gusto e della fantasia. Ci sono altri due autori che nessuno si fischia, ma sono della scuola wolffiana; Bodmer e Breitinger provano ad istituire una logica del gusto e provano a dire che il gusto sia un potere autonomo che prepara il giudizio intellettuale, una sorta di esercizio per sviluppare le proprie facoltà intellettuali. Sulla stessa linea si muoverà poi Baumgarten secondo cui il gusto e le sue regole rispecchieranno le regole logiche (linea Leibneziana). Poi arriva Kant che gli sbatte il cazzo sui manuali e dice “no zio non si fa così”. Il gusto viene trattato come facoltà naturale, ma non si esclude che esso possa essere perfezionato con l’esercizio. Per inglesi e tedeschi il gusto è una facoltà mista che va di pari passo con il perfezionamento dell’immaginazione. Con Schiller noi abbiamo la possibilità di affrontare una struttura dell’educazione estetica, un tentativo di poetica filosofica del gusto. Dopo Hume si genera una scolastica il cui allievo più prodigioso è Kant; la brutta bestia sostiene che il giudizio di gusto sia estetico e che discutere di estetica significa discutere del gusto. Kant ha una specificità in quanto egli esclude il sublime dal gusto; questo non significa che il gusto aderisce nuovamente al bello, ma dobbiamo comunque escludere il sublime dato che per Kant questa è un’esperienza che in nessun modo interessa l’oggetto. Per Kant è chiaro che il gusto non fonda un piano oggettivo del sapere e non è mai un esercizio per l’intelletto in quanto possiede una propria autonomia, con una funzione trascendentale (mi fa paura) che si manifesta nel sentimento di piacere di fronte alla bellezza. In Kant si compie la comparazione tra giudizio e gusto, dove il giudizio ha carattere “contemplativo” che in qualche modo da forma ai sentimenti. In Kant si ricerca ancora una regola del gusto, una ricerca di regolarità nell’universalità dell’espressione di gusto: per Kant vi è un’antinomia in cui ciascuno dispone del proprio gusto, ma esiste comunque una “voce universale” attraverso la quale ci esprimiamo nel momento in cui esprimiamo giudizi di gusto (dialettica dei giudizi di gusto; di tipo trascendentale  facoltà e fondamento a priori). Il gusto ha limiti storici ben precisi, sostanzialmente con il filosofo brutto (Hegel). Hegel tornerà ad affermare che il bello è inaccessibile al gusto; il bello è una realtà spirituale, storica e artistica. Il bello è una manifestazione dello spirito, inaccessibile ad una facoltà incerta, instabile e soggettiva. Hegel è interessato al percorso dello spirito e il gusto non è adeguato a cogliere la bellezza. Il gusto sarebbe esercizio astratto incapace di cogliere il senso spirituale del sentimento universale della bellezza, e in particola dell’arte. Con Hegel il gusto torna ad essere legato alle nozioni di Moda e dei costumi. Nell’800, il gusto rimane un residuo storico o categoria sociologica, anche se questa riflessione ci lascia in eredità alcuni argomenti: la natura del sentimento estetico e la sua centralità, la relazione di fruizione tra oggetto e soggetto, la possibilità dell’esistenza di un giudizio extra-logico, il tema della valutazione e il problema del senso comune. Il gusto appare nell’estetica contemporanea con nuovi nomi; vi è il problema delle costanti dei gusti (del classico), il tema delle diversità antropologiche, il tema della normatività estetica eccetera. KANT HA INVENTATO ESKEREEEEEEEEEEEEE. Sai qual è il programma televisivo preferito dai filosofi? Il gusto è una categoria che si esaurisce nel 700, ma comunque ritorna nella contemporaneità secondo l’accezione di gusto palatale. Tra l’otto e novecento sboccia il chic e quindi viene apprezzato e ricercato il cattivo gusto. L’ARTE  nuovo pezzittino Il tema dell’arte ci costringe a ricercare l’origine di questo concetto a partire dalla distinzione arte-tecnica; prima non si distingueva tra arte e artiginato. Altra grande distinzione sta nella coppia dicotomica arte- natura. Che bello parliamo di nuovo di Platone.  capire che cazzo è la Land Art. Non bisogna associare completamente l’estetica all’arte, dato che “sarebbe come equiparare la medicina al malato”; l’arte non è l’unico oggetto dell’estetica, ma è stato uno dei tanti con il susseguirsi dei secoli. L’estetica non si è limitata a dare una definizione dell’arte, bensì ha affrontato temi più profondi riguardanti i meccanismi sottesi all’esperienza estetica. L’arte è un oggetto, mentre l’estetica è un ambito di riflessione e nella prima non si esaurisce; è comunque certo che l’estetica tenti di dare una definizione di Arte. Nell’antichità il termine arte intendeva qualcosa di molto più vasto rispetto all’accezione odierna (v. artigianato); se dovessimo dare una definizione di arte secondo l’antichità dovremmo dire che essa è di tipo prestazionale e creativa, ossia fare e produrre qualcosa con una certa abilità e secondo determinate regole. Nell’antichità però già esisteva la distinzione Arte-natura, lasciando intendere che la prima è peculiare dell’uomo. L’arte non comprendeva ciò che siamo abituati ad intendere come tale, basti vedere il caso della poesia, concepita come una produzione differente e mistica; la poesia non è un sapere tecnico e perciò per gli antichi non è arte. Tatarkiewicz scrive che nell’antichità era considerata intuitiva ed irrazionale, mentre l’arte si basa sull’esperienza e alla conoscenza empirica, limitandosi ai fenomeni dell’esperienza quotidiana, mentre la poesia coglie l’essenza profonda dell’essere. Con Aristotele comincia a restringersi il concetto di Arte, ma è comunque vero che per questo autore l’arte è tecnica ed “imitazione del reale”, radicata nel mondo empirico. Con Aristotele si distingue però l’arte dalla scienza dato che la seconda ha a che fare con la necessità, mentre l’arte ha a che fare con l’ambito della possibilità; l’arte è un abilità poietica sempre sorretta dalla ragione e dalla tecnica (Teckné); si genera ora l’opposizione tra Arte e conoscenza. l’arte si distingue dalla pratica stessa in quanto essa è un’attività produttivo - imitativa. Nell’antichità non esiste un concetto di arte autonomo dalla tecnica e questo concetto permane anche nel medioevo; anche qui l’arte è una produzione che segue regole determinate e si estende anche all’artigianato, non è ancora intesa come “espressione”. Chiaramente il medioevo non può essere considerato come un blocco unitario e di fatti vi saranno diverse evoluzioni, in particolare il tema delle arti liberale: con Varrone emerge il tema delle arti L’ultima diatriba è quella tra Benjamin e Adorno che si interrogano del rapporto arte-tecnica in ambito contemporaneo, analizzando gli ambiti della fotografia e del cinema. Questi due autori si formano nella Germania degli anni 20, ma si collocano su due posizioni molto differenti in campo estetico. Benjamin, ne “l’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, si interroga su come le nuove tecnologie abbiano mutato il nostro rapporto con l’arte. Benjamin attribuisce un … positivo alle nuove tecnologie e sostiene che la tecnica ha un ruolo liberatorio nei confronti dell’arte, in quanto essa da la possibilità all’arte di uscire dal proprio elitarismo; la tecnica laicizza e politicizza l’opera d’arte e la restituisce alle masse. Secondo Benjamin le nuove tecniche hanno generato un nuovo atteggiamento creativo, un nuovo modo di fare arte, ma alla funzione positiva si accosta un contro: è vero che l’arte viene diffusa maggiormente, ma essa perde la sua “aura”, quel carattere sacro di irripetibilità e unicità. In sostanza la posizione di Benjamin è ambivalente. Fabrizio desideri sostiene che la riflessione di Benjamin per analizzare la nostra percezione dell’opera d’arte oggi. Adorno sostiene che non bisogna esasperare e sopravalutare il ruolo che le nuove tecnologie ricoprono rispetto al nostro modo di vedere l’arte: per Adorno l’opera d’arte è in sé la propria riproduzione, dato che ogni spettatore produrrà la propria percezione di quell’opera. Secondo Adorno, Benjamin sbaglia a vedere una dicotomia radicale tra arte e tecnica dato che l’arte si strappa comunque alla riproduzione dei fatti dell’anima. Secondo Adorno l’arte è quel braccio prolungato del soggetto dominatore della natura, è figlia di un soggetto che plasma la natura e ne fa arte. Adorno ha in mente Paul Klee, autore esemplificativo di come la tecnica sia introiettata all’arte e come questa sia già forma di riproduzione. Per Adorno non c’è perdita dell’Aura con le nuove tecnologie, ma bisogna stare attenti al rischio che l’arte vada in contro alla mercificazione dei nuovi media; l’arte non deve cercare il consenso delle masse, ma deve essere a servizio di un “utopia”, di un idea. Adorno vede in anticipo il problema della fruizione di massa dell’arte e pensa che il museo sia diventato ormai il luogo in cui l’osservatore non ha più un rapporto vivo con l’opera d’arte; i musei sono come tombe di famiglia delle opere d’arte, rappresentano la mercificazione dell’opera d’arte che nega la libera e felice contemplazione dell’opera d’arte. Anche il critico d’arte Jean-Clair si interessa di questo problema, ponendosi criticamente nei confronti del museo. Per Adorno la dimensione museale è ormai il luogo in cui si da il sigillo a ciò che è arte, molto spesso a culo; il termine arte a talmente tanto dilatato il proprio significato, arrivando persino a perderlo. La definizione di arte e di contemplazione artistica (fruizione) diventano temi fondamentali che scaturiscono dal discorso del rapporto arte-tecnica e arte-natura; questo secondo tema è complesso e vastissimo, quindi noi ci dedicheremo ad una parte della critica del giudizio di Kant e al dibattito contemporaneo. Abbiamo già visto come nell’antichità l’arte e la natura erano totalmente scisse, ma nella storia dell’estetica ci sono stati diversi tentativi di accomunare le due parti. Questo rapporto porta al primo quesito, con la ricerca della differenza ontologica tra Arte e Natura: Kant si interroga su questo aspetto giungendo alla considerazione secondo cui il soggetto necessità di intendere la natura come ordinata. Kant introduce la possibilità di vedere la natura come fosse Arte, ossia riusciamo a percepire la bellezza della molteplicità naturale riconducendola ad un’unità imputabile ad un artista creatore; questo vale anche per l’opera d’arte, nel senso opposto (è arte quando essa può sembrare natura, non necessariamente imitazione). Kant rifiuta il modello mimetico di Arte e afferma che essa deve essere “illusione”, inganno. Helder espone il mito di pigmalione per far vedere come arte e natura si distinguano. L’arte non deve essere copia illusoria della natura, ma deve riuscire a restituirci la stessa immediatezza della natura; perché l’arte possa piacerci come ci piace la natura, deve essere distinta da essa. In altri termini, l’arte deve essere vicina alla natura, ma non troppo; il problema sta ora nel trovare l’esatto punto di equilibrio. Il problema viene esaminato a partire dalla figura dell’artista. Così come noi tentiamo di guardare la natura come sei un creatore l’avesse data a noi per darci piacere, così dobbiamo guardare l’arte, provando a guardare all’opera d’arte senza sapere chi l’ha prodotta e perché. Kant pone tre fondamentali distinzioni:  L’arte si distingue dalla natura  l’arte è prodotto della volontà libera umana  L’arte si distingue dalla scienza  l’arte è una sapere fare, non un sapere  L’arte si distingue dall’artigianato  l’arte è piacevole di per sé, senza avere un fine preciso Per Kant l’arte è bella quando è produzione di uno spirito libero, libero da un fine determinato; l’arte bella ha come suo unico fine la generazione di rappresentazione che generino piacere e il sentimento del bello; la seconda caratteristica sta nella funzione di promozione della cultura, divenendo qualcosa che vivifica le nostre facoltà; infine l’arte ha una funzione filosofica dato che essa è un mezzo per conoscere noi stessi attraverso un oggetto sensibile. Ho avuto due minuti di vuoto psicologico, so solo che ha detto qualcosa su robe trascendentali. In sorta, per Kant: “La natura era bella quando appariva al contempo come arte, e l’arte può essere detta bella soltanto quando noi siamo consapevoli che è arte, ma essa ci appare natura”. Esposta una prima definizione dell’arte, il rapporto arte e natura porta avanti la richiesta di definizione dell’opera d’arte e cosa rende un oggetto tale; la soluzione Kantiana è l’impossibilità di descrivere l’opera d’arte attraverso termini normativi. Compitino per casa; guardare cose della Land Art pensando a Kant. Margolis si interroga su come sia possibile che un oggetto naturale diventi arte, domandandosi quale sia lo scarto ontologico che garantisce questo fenomeno. La risposta più semplice sarebbe l’arte-fattualità (l’ha fatta un artista quindi è arte), ma per Margolis questo non basta; piuttosto bisogna concepire l’opera d’arte come un oggetto fisico che sarà esemplificazione di un idea astratto, in accordo con le sensibilità sviluppate in una società [Estetica e filosofia analitica; Giovanni Matteucci]. “Gli oggetti della natura sono talvolta giudicati solo come se la loro possibilità si fondi sull’arte; in tali casi , i giudizi non sono né teoretici né pratici (nel significato sopra esposto), per il fatto che non determinano alcunché della costituzione naturale dell’oggetto, né del modo di produrlo, mentre qui la natura stessa è giudicata non in relazione oggettiva con gli oggetti, ma solo in analogia con un’arte e cioè in relazione soggettiva con la nostra facoltà di conoscenza.” IL TEMA DELLA MIMESIS Questo tema ritornerà spesso e sarà strettamente connesso al tema del Genio. Partiamo dall’origine del termine: il concetto di mimesis nasce per lo più in ambito platonico, nel quale l’arte era considerata “copia di copia” ma anche secondo un accezione differente. Parlando di poesia nello Ione, Platone sostiene che la mimesis sia riconducibile ai misteri del culto dionisiaco e al “infottamento del poeta” (non ricordo il termine per spiegare l’ispirazione poetica). Nella repubblica l’arte e la mimesis sono considerate come imitazione passiva del reale (Natura). in questo senso la mimesis sarà sempre riproduzione inadeguata dell’essere, in quanto essa è un impulso non conoscitivo non conforme alla verità … delle idee; in questo senso l’imitazione è inganno e non è possibile parlare di illusione estetica. L’immagine è sempre ad un grado minore di verità. Con Aristotele viene esplicitato il bisogno umano di cogliere i collegamenti tra le cose, un bisogno che non sempre può essere colto dalla logica. Per Aristotele la mimesis è un nostro istinto naturale e questa ha un inclinazione conoscitiva (il bambino impara per imitazione). Aristotele afferma anche il collegamento tra piacere e imitazione; un piacere dato dal riconoscimento di ciò che è stato rappresentato nell’imitazione. L’imitazione ha a che fare con la conoscenza tecnica. In tutto ciò la nozione di mimesis si complica; per l’adulto il riconoscimento è un atto teoretico (intellettuale) che ci permette di mettere in relazione il modello con la copia. In Aristotele l’attività mimetica diviene il fine dell’arte, precisamente in relazione alla tragedia e alla possibilità di rendere un dato verosimile e spaventoso pur mantenendo una distanza dallo spettatore (tema del sublime). Il compito del poeta diviene quello di restituire il possibile secondo verosimiglianza e necessità così che l’opera d’arte assuma un significato universale. La tragedia è imitazione di un azione seria e compiuta avente una propria grandezza con parola ornata. Arrivati a questo punto abbiamo tre definizioni di Mimesis: la mania platonica, la copia di copia e la mimesis aristotelica (libera composizione dei fatti a partire da temi presenti in natura). Con Cicerone la mimesis diviene un elemento retorico ed ha carattere inventivo; secondo l’autore l’arte ha origine nella mente dell’artista e la mimesis è la capacità inventiva di quest’ultimo. Secondo il panzone la mimesis diviene rappresentazione di un immagine ideale, non da considerarsi come copia più o meno fedele di un modello. Con Plotino abbiamo una duplicazione del termine mimesis; la mimesis è sia copia di copia, ispirata alla natura, sia come desiderio di unione alla realtà intellegibile, ossia copia dell’idea. Questa tradizione neo platonica fonda la concezione medievale della mimesis: per Agostino e molti medievali la bellezza viene rimandata al piano spirituale e la mimesis sarà concepita come somiglianza all’idea. Questa stessa concezione ritornerà forte tra la fine del 700 e l’inizio del 800. Durante l’umanesimo e il rinascimento l’imitazione non riguarda solo la natura, ma anche l’opera dei predecessori (gli antichi) che hanno saputo imitare la natura al meglio. Nel momento in cui l’estetica nasce essa ha già a disposizione un ampio ventaglio delle definizioni del termine mimesis ed ha il compito di restituirne una significato unitario. Nella prima metà del 700 l’imitazione oscilla tra i significati di capacità inventiva ed imitazione passiva della natura. Per esempio, in Batteux l’imitazione diviene restituzione di natura bella, ma anche delle passioni che animano il genio, ossia associata al tema dell’espressione. La capacità espressiva è la capacità di cogliere l’essenza ed è ben distante dalla mera riproduzione passiva. In sintesi B. sostiene che la mimesis, pur essendo imitazione del reale, è sempre un azione di carattere attivo e questo diventerà il principio di tutte le arti. Questo tema sarà parecchio discusso nei secoli che seguiranno. Per B. l’arte non deve essere copia del reale, ma idealizzazione della natura al fine di superarla pur imitandola; l’artista riporta l’oggetto reale all’apice della sua bellezza ideale (fiore mezzo appassito). B. sostiene che l’arte debba rappresentare la natura come la concepirebbe lo spirito, una selezione idealizzatrice che ricerca la bellezza all’interno della natura. Diderot si confronta con il tema della mimesis ne “la lettera sui sordomuti”; qui l’artista sostiene che l’arte non può e non deve imitare la natura e che l’intervento dell’artista è fondamentale e necessario. Per Diderot non bisogna guardare all’arte come mera copia, ma come espressione dell’essere dell’artista; viene qui sottolineato il concetto di espressione, dove per espressione dell’artista va intesa come la capacità di guardare alle cose ed esprimerle nella propria arte. Avviene un esaltazione del momento espressivo che proseguirà per lungo tempo, basti pensare al romanticismo. Diderot inaugura la crisi del concetto di Mimesis, anche se poi il Neoclassicismo di Winckelmann ripropone questa nozione, pur arricchita e dunque intesa come imitazione dell’idea e di coloro che sono stati più in grado di avvinarsi all’ideale (gli antichi); il fine è una resa della bellezza ideale ed universalizzabile. In Winckelmann l’imitazione degli antiche non è però da intendersi come mera copia, dato che l’artista deve comunque applicare il proprio gusto, la propria inclinazione di geni, dunque non si può parlare di un mero manierismo; raggiungere parimenti la bellezza ideale mediante uno sguardo agli antichi. natura. il genio è dotato di un immaginazione che supera la sensibilità, non fermandosi alla mera … degli oggetti naturali e trascendendo la ragione. Kant si trova a raccogliere tutte queste teorie sul genio, per lo più di carattere psicologico. L’autore prende avvio dall’analogia tra Arte e natura inserendovi il genio; il genio ha in Kant una funzione di mediazione in quanto esso è un dono naturale (non una capacità artificiale e culturale) riservato a pochi uomini. In questo senso, essendo il genio un talento, Kant può sostenere che mediante il genio la natura dà la regola all’arte; il genio è lo strumento tramite il quale la natura può imporre il suo dominio sull’arte, scindendosi dalla mimesi. Il genio è una figura che permette l’abbandono di ogni pretesa normativa nei confronti dell’arte e la concezione di quest’ultima come mimesis. Il genio assurge ora a figura della filosofia e diverrà quella figura in grado di mediare tra i fenomeni naturali e le idee sovra sensibili. Per Kant il genio è “esemplare”, ossia costituisce l’esempio da seguire dato che crea, muovendosi su un piano altro rispetto a quello razionale. Il genio è la facoltà di cogliere al volo il libero accordo tra immaginazione ed intelletto e di comunicare tale accordo mediante l’espressione; in questa comunicazione non vi sono regole e si perde anche la regola del giudizio. L’originalità del genio consiste nella capacità di creare qualcosa in assenza di regole ed è questo il motivo per cui è impossibile parlare di una scolastica del genio. Attraverso la propria arte il genio è in grado di esprimere un idea: quando il genio crea egli non esprime un contenuto intellettuale e determinato, ma un idea indeterminata. Il genio è in grado di colmare l’incommensurabile abisso che si apre tra mondo fenomenico e idee; il genio si muove nell’abisso ed è in grado di contemplare l’idea e trasportarla (esibirla  Darstellung) nel mondo fenomenico. Beninteso, il genio non esprime l’idea morale esposta nella seconda critica (la cosa in sé), ma l’idea estetica ossia un idea che non esprime alcun concetto. L’idea estetica è un idea particolarissima di cui non possiamo dire il contento, ma può essere ritrovata in un oggetto concreto e fenomenico. Il genio crea una Darstellung (esibizione) dell’idea estetica, che può essere corporea o incorporea. Il genio ci da una rappresentazione parziale (Teilvorstellung) dato che l’idea estetica non verrà rappresentata nell’opera d’arte nella sua totalità; ne emerge solo una parte che è infusa nell’opera d’arte, sarà una rappresentazione simbolica ed indiretta  l’opera d’arte sarà sempre inadeguata rispetto all’idea. L’idea estetica non ci fa conoscere, ma può farci pensare a qualcosa di ineffabile. “l’idea estetica è una rappresentazione dell’immaginazione, associata ad un concetto dato, che è collegata ad una molteplicità di rappresentazioni parziali” Attraverso l’opera d’arte il nostro sentimento si attiva e in questa espressione abbiamo una lingua altra che permette un collegamento con lo spirito, ossia un collegamento con il mondo delle idee. Quindi le idee estetiche attivano l’immaginazione e tornano a discutere il rapporto immaginazione-intelletto. Il ruolo della regola risulta ora complicatissimo; Kant deve dire che la funzione del genio non segue regole perché trovare un criterio per stabilire la creazione artistica è “fatica vana” e bisognerebbe individuare l’archetipo del gusto (Urbild  immagine originaria). Il genio torna ad essere una guida che, attraverso l’archetipo, genera un “esemplare” che orienta il nostro gusto, non dandoci delle regole, ma dandoci delle “dritte” (?). il genio ci da esibizione singola e sensibile dell’idea, comunque in grado di parlare a tutti gli uomini di tutte le epoche (significato universale dell’idea). Le idee estetiche sono diverse da quelle razionali, in quanto esse sono sprovviste di concetto e possono essere rappresentate parzialmente nel mondo fenomenico. Il tema dell’archetipo si avvicina alla concezione dell’ideale del bello; si tratta sempre dell’esibizione di un idea che può essere ricondotta alla bellezza. Grazie al genio otteniamo una nuova definizione della bellezza, sotto la forma di espressione di un’idea estetica. Il contenuto di questa espressione è indeterminato, ossia il substrato sovra sensibile; per Kant così come i fenomeni rimandano alla cosa in sé, l’uomo conserva questa duplicità. Nell’opera d’arte il genio esprime il sovrasensibile che caratterizza l’uomo, unico essere che possiede questa duplicità e un fine in sé. La creazione del genio è tipicamente umana; il genio riceve dalla natura il talento, ma, in quanto uomo, contiene in sé il sovrasensibile che verrà espresso in modo indeterminato nell’opera d’arte. Siccome questo sovrasensibile è comune a tutti, l’opera d’arte potrà avere un significato universale. L’idea estetica è una rappresentazione inesponibile dell’immaginazione; Kant intende dire che abbiamo una rappresentazione parziale che può essere esposta, ma non spiegata o argomentata. Per Kant Il genio consiste propriamente nel felice rapporto di trovare idee nel concetto dato e di trovare per esse l’espressione mediante la quale la disposizione d’animo soggettiva che ne è l’effetto può essere comunicata ad altri. Viene spazzata via l’idea neoclassica di un’artista che segue regole, canoni e prescrizioni dato che esso deve essere totalmente “libero” per poter contemplare l’idea, mediante la facoltà protagonista dell’immaginazione. È l’immaginazione che permette al genio di farsi un idea del sovrasensibile; questa facoltà risulta più adeguata in quanto essa è in grado di muoversi su più piani (sensibilità-intelletto-idee). È l’immaginazione del genio che lo spinge ad andare oltre la percezione sensibile delle cose e oltre l’esperienza; Beninteso, il genio riesce ad accedere alle idee solo con l’immaginazione e non con l’intelletto. Kant afferma che attraverso l’immaginazione il genio acquisisce la capacità potentissima di “creare quasi una seconda natura”. in questa affermazione ritroviamo un richiamo all’ambito dell’arte (la seconda natura), che ci inganna della sua naturalezza pur essendo stata creata da un artificio del Genio. Abbiamo visto che le idee estetiche e le idee della ragione si trovano in una sorta di analogia in quanto nessuna delle due può essere conosciuta dall’intelletto, essendo esse a-concettuali. Vi sono poi tre punti di distanza tra idea della ragione ed idea estetica: 1. Le I.E. si fondano su un principio soggettivo, mentre le idee della ragione sono riferite ad un concetto determinato ed oggettivo (Libero gioco / Legge Morale ). 2. L’idea estetica non ha principi o regole, mentre l’idea razionale agisce secondo “gli scopi dell’umanità” (destinazione Morale). 3. L’idea estetica può essere intuita ed esibita, mentre l’idea razionale non potrà mai avere un’esibizione adeguata (rappresentazione inesponibile/concetto indimostrabile). Mel momento in cui il genio manipola la materia rielaborandola sotto il segno dell’idea, questa non sarà più materia ma qualcosa di altro, sarà cioè un’idea. L’attività del genio è un attività creatrice ed estensiva, nel senso che essa … L’ultimo tema che orbita attorno al genio Kantiano è quello dell’originalità; il genio crea qualcosa di nuovo mediante un atto creativo, originale e soprattutto libero. L’immaginazione è totalmente libera nella sua potenza creatrice e genererà sempre qualcosa di nuovo nel Genio. Il genio è l’originalità esemplare del dono naturale di un soggetto nel libero uso delle sue facoltà; questa libertà non è però da intendersi in senso assoluto, in quanto esiste sempre il vincolo dell’esperienza. Anche nel caso del genio vi è un ancora, perché l’immaginazione è si libera dal concetto, ma non dalla materialità; l’immaginazione non è pura fantasia e deve sempre partire dal materiale che è fornito dai sensi. Se l’immaginazione non avesse questo vincolo, l’opera del genio svaporerebbe (le statue devono esser fatte in bronzo o marmo) [Comunque Dada]. IL ROMANTICISMO  21/03/18 L’estetica romantica deve molto a Kant; i temi fondamentali che verranno trattati dai romantici saranno il Genio e il Simbolo. I romantici riprendono il tema del genio come originalità esemplare, protagonista dell’esperienza estetica. È difficile parlare del romanticismo in senso unitario, giacché i vari autori non condividono un programma unitario. Nonostante ciò possiamo pur dire che i romantici concepiscono come maggiore rischio dell’esperienza che questa si possa esaurire; se noi proviamo piacere nell’esperienza estetica deve essere certo che non raggiungeremo mai una completa sazietà, dato che una volta raggiuta questa soddisfazione completa cadremmo preda della noia; l’opera d’arte deve essere sempre incompiuta e deve sempre avere qualcosa di “indicibile”. Il genio è originale nel momento in cui riuscirà a creare qualcosa di “infinitamente nuovo”, che non si esaurirà mai e che genererà sempre piacere. È con i romantici che noi arriviamo ad un identità compiuta tra genio e artista. Un’altra caratteristica fondamentale del Genio è la capacità di connettere l’opera particolare allo spirito universale. F. Schlegel è uno dei principali teorici del romanticismo tedesco e fornisce una definizione del genio in quello che possiamo identificare come il “manifesto dell’estetica romantica” (dialogo sulla poesia). Schlegel afferma che il genio è la capacità di creare una mediazione tra finito ed infinito, ossia tra il sensibile e il sovrasensibile; in questa sua opera di mediazione il genio è in grado di farci percepire il Divino. Per Schlegel il genio è questa potenza creativa che fa intuire il senso della Divinità. Anche a partire da uno sguardo all’antichità Schlegel comprende come l’opera d’arte possa essere una via maestra per la contemplazione della divinità; il genio creava statue di Dei, regalandoci il senso della divinità. La capacità espressiva del genio non ha più a che fare con la facoltà di connettere e ordinare il sensibile. Il genio ci fa accedere ad un livello veritativo ulteriore rispetto alla conoscenza. I romantici esasperano la posizione kantiana per cui esiste un ulteriore via altra per la conoscenza, intendendo questa via alternativa come qualcosa di superiore alla conoscenza intellettuale. Shlegel sostiene che il Genio, seppur libero, è comandato dalla necessità di esibire la propria opera mediante un espressione o rappresentazione. Come già per Schiler, anche per Schlegel il genio è percorso da un doppio impulso: un impulso alla socievolezza e un impulso divino (guardare alle idee). Un altro tema proposto dal filosofo tedesco è quello de “l’intelletto influente”; Kant attribuiva a Dio questo tipo di intelletto, contrapposto a quello umano (discorsivo) che ha sempre bisogno di dimostrazioni. Schlegel parla dell’intuizione intellettuale e afferma che il genio sia in possesso di un intelletto superiore che non ha bisogno di dimostrazioni, accostabile all’intelletto divino; in sostanza il genio non ha bisogno di concetti e la sua intuizione intellettuale lo conduce direttamente all’assoluto. L’artista per Shlegel possiede due elementi che caratterizzano la sua espressione:  l’ironia  la capacità di distaccarsi dal condizionato naturale (finitezza), per accedere all’incondizionato (assoluto); il genio utilizza il materiale sensibile distaccandosene e vedendo il sovrasensibile ne sensibile.  il simbolo  la capacità di esprimere un significato divino mediante qualcosa di simbolico. 26/03 /18 In Novalis il genio diventa una sorta di Mago, essendo esso in grado di penetrare nell’intimità segreta della natura; in questo senso il Genio è in sé il simbolo e la poesia è l’esemplificazione della capacità di cogliere i nessi tra le cose. Per Novalis il genio si manifesta nella storia come una sorta di emergenza dell’infinito nel finito, al pari dello spirito hegeliano. La genialità secondo Novalis ha caratteri estremamente irrazionali e sregolati. Wackenroder riprende la posizione di Novalis, pur naturalizzandola; l’artista può fondere ciò che è sensibile e ciò che è sovrasensibile. Beninteso, l’opera del genio è in grado di suscitare un sentimento molto forte nello spettatore. dell’estetica la capacità immaginativa diviene creatrice e produttrice. In entrambi i casi l’immaginazione è comunque vincolata al materiale che gli viene fornito dai sensi: in nessun caso l’immaginazione può operare senza aver tratto qualcosa da elaborare, non è mai dal nulla. Nasce ora la distinzione tra immaginazione e fantasia; nell’antropologia pragmatica viene enunciato che l’immaginazione è vincolata al sensibile, mentre la fantasia ne risulta totalmente svincolata. In tal senso l’immaginazione è legittima in campo trascendentale, mentre la fantasia è una produzione chimerica che non può essere ne conoscitiva ne estetica (non connessa alla facoltà di giudizio). Kant relega la fantasia alla dimensione del sogno. Questa distinzione verrà ripresa nel romanticismo e poi nel 900. 27/03/18 No lezione 11 Aprile, 18 Aprile e ponte 25 Aprile – 1 Maggio.  V. dispense Kiro per il Monografico Nella modernità l’immaginazione assume uno statuto autonomo rispetto alla fantasia, grazie anche alla chiara definizione fornitaci da Kant; il filosofo utilizza i termini Einbildungskraft (immaginazione) e Bildungskraft (Fantasia). Quello che preme all’estetica è capire fino a che punto queste facoltà stiano in rapporto con il reale. Nel romanticismo queste due assumono grande centralità, accostandosi al tema del genio; l’immaginazione viene esaltata nella sua potenza creatrice, prediligendo una visione della fantasia come facoltà svincolata dalla realtà. Viene recuperata una visione neoplatonica che vede l’immaginazione come facoltà che permette un accesso privilegiato al principio primo. Quello che il romanticismo tende a mostrare è che le immagini, come prodotto dell’immaginazione, non sono copia sbiadita del mondo reale, ma assurgono a statuto autonomo e prioritario rispetto al sensibile. Tale prospettiva è condivisa sia in ambito inglese sia in ambito tedesco. Il romanticismo di aria anglosassone si oppone all’estetica empiristica, sostenendo la necessità di esaltare il mondo della fantasia prendendo le distanze dall’osservazione del dato empirico. In quest’ottica si radicalizza la distinzione tra immaginazione e fantasia, in quanto la prima conserva un dato conoscitivo e psicologico di derivazione aristotelica, mentre la seconda è letta come disposizione che permette di trascendere il reale (facoltà estetica vera e propria). L’analisi di Coleridge si muove sull’utilizzo di due termini: Fancy (immaginazione) e immagination (fantasia). È interessante notare che l’autore ha invertito i termini, ma significano esattamente quello che c’è scritto. Prima del romanticismo già Schiller aveva esaltato l’immaginazione, facoltà che da luogo ad un espressione libera e spontanea del sentimento; anche per questo autore l’immaginazione ha funzione di mediatore tra sensibile e sovrasensibile. Glia autori successivi a Schiller esaltano ancora di più le facoltà dell’immaginazione e della fantasia, intendendole in senso autonomo. Un ruolo decisivo viene giocato dagli idealisti tedeschi (Fichte e Schelling). Novalis (mi sono perso)  la fantasia diventa creatrice in senso ontico, ossia crea un mondo dotato di esistenza propria; beninteso, questa è una realtà in cui l’esteriorità è abolita. Il cardine dell’intero paradigma è il soggetto, capace di darsi un mondo grazie alla propria fantasia. Va però ricordato che, la fantasia conserva la facoltà di giungere all’essenza della natura, cogliendo qualcosa oltre al velo dell’apparenza e restituire tale contenuto al soggetto; rimane fermo quel legame tra immaginazione e la capacità di cogliere il significato simbolico che sta oltre la forma segnica. Nonostante la propria autonomia, la fantasia rimane sempre legata al significato simbolico anche se questo non è collegato direttamente alla cosa, ma piuttosto a ciò che la cosa rimanda. La fantasia attinge a qualcosa di già esistente laddove il già esistente è qualcosa di originario e “mitologico”, al pari dell’uno plotiniano e non ad un esistenza realmente materiale. HEGELeskereeeeeeeeeee Hegel non è molto attratto dal tema dell’immaginazione, ma nelle sue lezioni d’estetica egli si interroga ancora sulla distinzione di immaginazione e fantasia: la fantasia è una facoltà artistica e creatrice, mentre l’immaginazione è meramente passiva. La fantasia, in quanto attività creatrice, è dotata della capacità di cogliere la realtà; questo aspetto è fondamentale, dato che per Hegel cogliere la realtà significa cogliere la manifestazione dello spirito. Quello che la fantasia riesce a restituirci è un immagine di ciò che esiste, valorizzando lo spirito di ciò che sta sotteso alla materialità del reale. l’immagine non è semplice copia del reale, ma agisce come una sorta di filtro che ci permette di trattenere la manifestazione dello spirito nella realtà. La fantasia ha anche funzione memorativa, permettendoci di conservare le immagini da lei create. La fantasia diviene la capacità dell’artista, individuo in grado di plasmare il materiale che la vita gli fornisce sino a giungere alla forma dello spirito, restituendoci una forma unitaria della molteplicità variopinta. L’arte deve produrre queste configurazioni unitarie e sensibili; per Hegel l’arte rimane sempre ancorata al sensibile ed è per questo che nel sistema hegeliano questa dovrà essere superata dalla religione e dalla filosofia. La fantasia coglie la verità e la razionalità del reale, ma se non fosse connessa alla riflessione sarebbe una semplice osservazione; se la fantasia non coglie la verità razionale del reale essa non potrà produrre arte, ma soltanto un immagine fluttuante. Ritorna nuovamente il tema del simbolo e del geroglifico: la fantasia è una presa di coscienza della razionalità del reale tramite una rappresentazione concreta e individuale (non universale; quella specifica figura associata a quello specifico significato). L’opera d’arte non possiede il significato universale, ma risulta una forma di esperienza individuale mediante la quale possiamo riavvicinarci alla razionalità del reale. 1929  Il dibattito di Davos è un dibattito molto acceso tra Heidegger e Cassirer, imperniato sul ruolo dell’immaginazione partendo dalle definizioni fornite nella critica della ragion pura. Nel 900 nasce l’estetica fenomenologica, corrente che più di altre sottolinea il valore dell’immaginazione; Sartre dedica un intero trattato al tema dell’immaginazione sottolineandone il peso estetico. Nell’ambito della fenomenologia francese, l’immaginazione riacquisisce la facoltà con valore cognitivo che governa la percezione estetica; questa considerazione sottende la definizione dell’estetica come forma di esperienza differente rispetto all’esperienza unicamente percettiva. In quest’ambito l’immaginazione torna a dominare sulla fantasia e ad essa viene riconosciuto un potere trasversale (come già in Kant). Sartre esalta questo potere, sostenendo che questa capacità “non esatta” è uno stimolo (il motore del reale) dal momento che è vero che l’immaginazione può generare degli errori, ma questi permettono di prendere distanza dalla realtà oggettuale, riuscendo a cogliere ciò che non è immediatamente visibile (simile all’ironia romantica). Sulla stessa direttrice, un autore centrale in questo senso è Merlot pontie, il quale afferma che il cogliere l’invisibile nel visibile è prerogativa dell’esperienza estetica. Nell’estetica fenomenologica si arriva a dire che la tecnica e il … nella creazione artistica rappresentano una sorta di imbrigliamento della fantasia; l’arte deve essere libera dal “delirio corporeo” (dal reale) che non permette la restituzione del visibile. Altro autore fondamentale è Dufrenne; egli sostiene che l’immaginazione abbia un duplice statuto (recupero della funzione mediatrice dell’immaginazione proposta in Kant). l’immaginazione per D. è quella capacità che descrive lo schema che prelude l’intelletto, un abbozzo di un atto intellettivo; attraverso l’immaginazione entriamo in contatto con l’oggetto, svolgendo un attività corporea a pari di quella dei sensi (guardiamo con gli occhi dell’immaginazione). In questo senso l’immaginazione assume una facoltà sintetico-trascendentale, mediante la quale arriviamo alla percezione di qualcosa di altro rispetto a ciò che qualcosa è nella materialità [Folle, ci chiede di leggere Proust]. Secondo Sartre, attraverso l’immaginazione mettiamo in moto una coscienza veramente libera, attiva e spontanea che non è soggetta alle costrizione della percezione o della logica dell’intelletto. Per S. l’immagine appare sul fondo del mondo, l’invisibile di cui parlavamo. Attraverso l’immaginazione si ha un annullamento dell’esistente (visibile) per fare emergere un nuovo senso (invisibile). Il riferimento a Husserl i Sartre è centrale e presente in particolare sul tema della distinzione tra immagine e percezione; la distanza sta nella diversa attitudine della coscienza. Non vi è una differenza di grado, ma emerge una differenza essenziale ( essenza). L’immagine diventa autonoma perché sottende un “intenzione” differente (fottuto Brentano). Secondo Sartre, siccome la coscienza è sempre coscienza di qualcosa possiamo parlare di coscienza dell’immagine; essa assurge a nuova autonomia rispetto alla conoscenza dato che l’atto immaginativo è un agire che fornisce un immagine e non una percezione. Si abbandona la visione dell’immaginazione come facoltà della mediazione tra intelletto e sensibile; essa ha una funzione propria, quella di darci immagini autonome dalla percezione e dalla conoscenza. L’immagine ci rappresenta sempre l’invisibile. “Porre un immagine significa costituire un oggetto in margine alla totalità del reale”. al contrario di Hegel, stiamo prendendo distanza dal reale dato che il significato reale e razionale non è ad esso sotteso. L’immagine ci da un… che è omnicomprensiva; es. il cubo può essere immaginato con le sei facce anche se nella percezione non potremo mai vederle tutte e sei. L’immagine però è caratterizzata da una certa povertà essenziale e rischia di diventare un oggetto fantasma; l’immagine è un modo per non limitarsi al materiale sensibile e diviene uno stimolo per fuggire dal reale anche se per distanziarci dal reale dobbiamo partire da esso. Quello che possiamo dire di Sartre è che l’immaginazione assume un peso enorme, nega l’essere degli oggetti e ciò non è da intendersi in senso negativo; l’immagine possiede un sovrappiù rispetto alla percezione e rimanda ad un senso altro. Sempre nell’ambito dell’estetica fenomenologica, Bachelard parla della nozione di immaginario, anche in senso sociale. Per B. le immagini sono a-priori materiali dell’immagine, cioè possiedono una propria esistenza e materialità, ma allo stesso tempo sono a-priori (possibilità della costruzione dell’immaginario). L’immaginario è la possibilità di incontro tra oggetti e soggetti. Attraverso l’immaginario siamo in grado di appropriarci del mondo. B. sostiene che l’immaginario come creazione dell’immaginazione sia una forma di apertura rispetto all’alterità del mondo e in questo senso l’immaginario dipende dal progettare dell’uomo rispetto al mondo. In B. abbiamo una dimensione sociale dell’immaginazione, presente anche in Sartre. Abbiamo visto come l’immaginazione sia diventata funzione centrale dell’esperienza estetica intendibile come funzione di creazione di immagini. QUAL È IL SIGNIFICATO INVISIBILE CHE VIENE COMUNICATO DALL’IMMAGINE  IL SIMBOLLOOOOOOO. Potevo andare a fare la melevisione. Nell’arte contemporanea e concettuale è chiaro che difficilmente potremmo cogliere l’arte in un oggetto se ci limitiamo ad osservarlo empiricamente; ciò che importa è il concetto, il significato simbolico ed invisibile, che sta oltre alla semplice percezione [troppi federico zeri, ma senza federico fanno tagli di fontana sul mio quadro preferito]. Il simbolo ha nella sua stessa radice un rapporto con l’immagine e dunque con la possibilità di raccogliere insieme un significato (riconduzione all’unità). 28/08/18 Attraverso la nozione di simbolo è possibile interpretare la maggior parte dell’arte contemporanea e attraverso tale nozione è possibile leggere la svolta dell’arte dopo il romanticismo. Il termine simbolo è, ovviamente, polivalente: il simbolo è una forma di rimando a qualcosa che sta altrove, permettendo di uscire dal binario significato-significante. Il simbolo è stato inteso come elemento caratterizzante del Benjamin, autore pericoloso e affascinante, intelligente critico del romanticismo tedesco, discute alcune punti fondamentali che muovono dalle posizione di Creuzer e Goethe, dandone una lettura interessante. L’allegoria viene associata ad un uso baroccococococco e viene contrapposta al simbolo, inteso come forma di totalità immediata a differenza della prima che è in sé una forma di ragionamento. L’allegoria emerge con il pensiero barocco a causa del confronto con la caducità, l’imperfezione e la fragilità dell’esistere; con il romanticismo è stato fatto un cattivo uso della nozione di simbolo giacché il simbolo ha in sé una forma di ingenuità tipica solo degli antichi. Questo cattivo uso viene fatto quando l’apparizione dell’idea nell’opera d’arte viene definita simbolo; dire che l’opera d’arte da apparire l’idea significa porre una distinzione tra forma e contenuto e perciò non può essere realmente simbolo, ma essa è impiegata come strumento e non come idea in sé. Hegel parla di tre fasi dell’arte: l’arte simbolica, l’arte classica e l’arte romantica. L’arte simbolica è l’arte dell’antico oriente (Zoastrismo) e dell’antico Egitto; si parla del geroglifico, inteso come simbolo in cui la forma è perfettamente l’idea. Questa nozione di simbolo ha avuto delle conseguenze importanti sulla stessa storia dell’arte perché proprio ragionando su simbolo e allegoria, Hegel giunge ad affermare la “morte dell’Arte”; quando si perde l’immediatezza tra forma e contenuto si arriva a quella che Hegel definisce la fine dell’arte in cui si perde la concezione dell’arte tra ideale e reale. Danto utilizza questa teoria riferendola all’arte contemporanea; per comprendere una tale opera devo leggere il titolo e siamo agli antipodi del mondo antico in cui il contenuto era perfettamente all’interno della forma. 4/04/18 IL BRUTTO Già nel 700 comincia ad emergere una teoria del Brutto ma solo con Rosenkranz può dirsi teorizzata una vera e propria “teoria del brutto” ( teoria dialettica); il brutto è un termine relativo, negativo e necessario al fine di sviluppare una teoria del bello autentico e assoluto (sintesi). Hugo e altri poeti si richiamano al Brutto, ma Rosenkranz rifiuta queste poetiche in quanto egli parla del brutto da un punto di vista strettamente filosofico. Ecco i tre momenti dialettici proposti da Rosenkranz: Arte immediatamente bella (tesi), il Brutto (antitesi) e il Bello (sintesi); solo un opera d’arte che in sé ha il proprio negativo sarà considerabile un’opera d’arte vera e propria. L’estetica estende il proprio campo di azione, superando i vincoli dello studio del “Bello”; persiste la necessità di definizione dei problemi e dei confini dell’estetica. Rosenkranz affronta il tema della creazione, della fruizione e del sistema delle arti, temi molto cari alla tradizione. Interrogarsi sul problema del brutto significa interrogarsi sull’estetica stessa, affrontando il problema dei “limiti della rappresentazione” (che cosa si può rappresentare in Arte). Va però ricordato che il filosofo non parla del brutto soltanto da un punto di vista estetico, ma anche morale e sociale (Es. Parigi); questa sua estetica del brutto viene da esso definita l’inferno estetico. Pittttturi lol. R. sostiene che ogniuno di noi conosce questo inferno, giacché ognuno è costantemente esposto al supplizio del brutto nell’esperienza quotidiana e ciò porta alla necessità di una problematizzazione filosofica. Il filosofo comincia a parlare della categoria del “Comico”; nella commedia l’autore riesce a guardare alla realtà in modo distaccato e critico (Hegel) e per Rosenkrantz in questa si può notare come il bello e il brutto non siano termini totalmente opposti. È quando il bello e il brutto vengono mischiati tra loro che nasce il “Comico”; quando il bello rinuncia alla propria assolutezza e si mischia al brutto si può riuscire a cogliere … . per Rosenkranz la caricatura è la perfetta sintesi tra bruttezza e bellezza, capace di farci cogliere in maniera originale un oggetto della realtà. Altri temi fondamentale è il “brutto di natura”; tra le forme che la natura può assumere c’è sicuramente anche la bruttezza, in quanto la natura non ha un interesse reale per la bellezza. Sulla stessa linea, esiste anche un brutto artistico rispecchiante il brutto nella natura; ma come è possibile che l’arte, pur avendo il compito di rappresentare il bello, possa rappresentare il brutto? Il filosofo afferma che l’arte ha prima di tutto il compito di rappresentare la totalità, laddove totalità significa totalità di un significato; per fare ciò l’arte dovrà essere lasciata libera alla rappresentazione di questa idea e dove c’è libertà vi è anche un negativo, dunque la possibilità del brutto. Si torna all’assetto dialettico secondo cui l’arte potrà essere tale solo dopo il suo confronto con il proprio negativo, richiesto dalla varietà della natura. 9/04/18 IL DISGUSTO Il disgusto è più facile da definire rispetto al brutto; esso è definibile come una delle sensazioni più violente del nostro sistema percettivo che provoca un dispiacere assoluto che non può mai essere combinato con una forma di piacere. Il disgusto (Ekel  ambiguo  simile ad Hegel  Hegel è disgustoso  illuminati confirmed) viene tematizzato come una reazione fisiologica, senza necessitare di una riflessione. L’esperienza del disgusto è immediata e coinvolge totalmente lo spettatore, negandogli ogni forma di piacere; si genera uno stato di allarme che può essere letto anche in termini evoluzionistici (impedisce l’assimilazione di un elemento pericoloso). Il disgusto sembrerebbe avere una funzione di preservazione e difatti si configura come un rifiuto totale dell’elemento che ci suscita tale sensazione. Ma questa sensazione è un istinto naturale o un fattore socialmente creato? E poi questa reazione è conscia o inconscia? Il disgusto è ambiguo in questi termini, pur essendo così chiaro e definito nella sua manifestazione. Freud propone una lettura del discorso che ha a che fare con i tabù che costituiscono la creazione di una società; l’uomo primitivo, come il bambino, non prova disgusto, ma grazie al processo di socializzazione il disgusto inizia a crearsi e diviene tabù. Per Freud non potremmo mai superare queste barriere del disgusto, a meno che non si esca dalla società (cosa che per Freud è impossibile). Il disgusto diviene anche una categoria dell’estetica, passando attraverso la categoria del gusto; il gusto è la facoltà di giudicare in modo estetico e questa categoria viene identificata come una capacità di carattere critico-filosofico. Il gusto ha funzione sociale e attraverso il suo esercizio si viene a costituire un gruppo sociale, assumendo la funzione di coesione sociale. Per semplificare, possiamo intendere l’arte e la capacità di giudicare l’arte come prodotto più alto di una cultura. Già nel ‘700 è chiaro che i gusto non è una capacità egualitaria; il gusto e il suo esercizio presuppongono una certa formazione. Soltanto esercitando il proprio gusto sarà possibile dare giudizi più adeguati alla propria comunità (società borghese). L’esercizio del gusto diviene un modo di dare identità ad una nuova struttura sociale, capace di restituire la flessibilità della nuova società borghese che va a definire sfumature sempre più sottili nel --- . Se il gusto è la capacità di accettare forme socialmente note e di assimilarle, il disgusto genererà una forma di rifiuto rispetto a ciò che è diverso ed inassimilabile, configurandosi come un operatore “conservatore” che rifiuta l’alterità. Due autori fondamentali per la definizione del disgusto sono Mendellsohn (teoria del sentimento misto) e Kant. Il disgusto ha un significato anche per la definizione dell’estetica; se il brutto genera una forma di ampliamento della disciplina estetica, il disgusto non potrà mai diventare qualcosa da ricercare durante l’esperienza estetica. Il disgusto segna il vero e proprio confine dell’estetica. Beninteso, ciò non significa che l’estetica non possa parlare del disgusto. Per M. il disgusto ------ ; noi siano disgustati quando percepiamo una cosa come reale. l’opera d’arte mette in campo una forma di illusione che ci rende consapevoli del fatto che ciò che osserviamo non è appartenente alla nostra stessa realtà. Il disgusto è invece una reazione che proviamo quando siamo convinti che ciò che osserviamo è reale e realmente pericoloso per sé stessi; in questo senso l’opera d’arte, che è per definizione una forma di illusione, troverà il proprio limite nella realtà del disgusto. Data questa definizione risulta evidente l’impossibilità di coniugazione dell’arte e del disgusto; è possibile il brutto artistico, ma non il disgusto artistico. Brutto e disgusto trovano una sostanziale distinzione anche per il fatto che il brutto è da attribuirsi ad oggetti, mentre il disgusto è la reazione del soggetto non insita nell’oggetto. È il disgusto il vero e proprio termine antitetico rispetto al bello, non il brutto. Kant (par. 48; C.D.G.) afferma che esiste una particolare specie di bruttezza, che in nessun modo può essere rappresentato in arte; il disgusto è pienamente precluso all’arte in quanto esso ci pone dinnanzi alla realtà, negando la possibilità dell’illusione artistica. Il disgusto per Kant è una sensazione violenta che ci si impone nonostante la respingiamo; non possiamo rifuggire questa reazione dato che la realtà dell’oggetto ci si impone così violentemente da cancellare ogni tipo di illusione. Nel 900 sono tantissime le riprese del tema del disgusto, giacché l’arte contemporanea tenta di misurarsi con questo tema. Laddove nemmeno l’arte non riesce a moderare il disgusto, esso diviene un tabù e dunque un fondamento della nostra società. Sopraggiunge il problema della rappresentazione del disgusto nell’arte contemporanea e la definizione del limite secondo cui l’arte non scade in realtà. Si può comunque dire che l’arte contemporanea ricerchi il disgustoso proprio perché il disgusto è ancora un tabù che sta al di fuori dall’ambito dell’estetica. IL SUBLIME (e il tragico) A partire dal 1755, grazie alle riflessioni del terremoto di Lisbona, vari intellettuali illuministi si trovano devono affrontare il tema della catastrofe naturale che sfugge al dominio umano; questo evento chiama gli intellettuali a ragionare sulla potenza naturale e da impulso alla produzione legata al tema del sublime. Nel 1757, Burke scrive “L’INCHIESTA SUL SENTIMENTO DEL BELLO E DEL SUBLIME”, procedendo secondo un metodo empirista che muove da un’analisi psicologica dell’atteggiamento umano dinnanzi agli avvenimenti naturali. Con Burke il sublime acquisisce autonomia e diviene un vero e proprio sostantivo, non più un aggettivo legato all’ambito della retorica. Secondo il filosofo è chiaro che il sublime sia un sentimento che proviamo dinnanzi al caos e alla violenza naturale, quindi agli antipodi rispetto al sentimento di pacificazione data dal Bello. Il sublime viene descritto secondo una serie di esempi di cui il più noto è certamente quello della tempesta; il sublime è il sentimento che proviamo quando siamo al sicuro e osserviamo la tempesta. Con Burke si inaugura la tradizione per cui il bello viene accostato al sublime, perché c’è la necessità di dare conto a questo sentimento che scaturisce dalla mescolanza di piacere e di spiacer e (sentimento misto; Mendellsohn); dopo l’iniziale sensazione di vertigine e dispiacere si giungerà ad un sentore di piacere, ma solo a seguito di un momento riflessivo. Per Kant la descrizione del sublime (Erhabene) costituisce una delle parti più complesse della sua estetica; nella C.D.G. Kant mantiene la duplicità presente nel “inchiesta” di Burke. Il sublime pone una quantità incredibile di problemi all’interno della filosofia analitica kantiana; la principale novità introdotta da Kant è quella di connettere il sublime alla dimensione morale, punto poi sviluppato da Schiller. Nell’analitica del sublime Kant riprende alcuni elementi della trattazione del bello. Il sublime non è un giudizio dei sensi, ma allo stesso tempo non ha a che fare con i concetti intellettuali; si tratta, come nel caso del bello, di un giudizio di riflessione che parte dal particolare per giungere alla comprensione dell’universale. Il sublime come il bello è un giudizio estetico ed è un sentimento del soggetto dinanzi a determinati oggetti. Analizzate le somiglianze, Kant elenca ora una serie di differenze molto complesse tra bello e sublime:  Il giudizio sul sublime non è un giudizio di gusto  il sublime è unicamente soggettivo.
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