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Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo, Sintesi del corso di Filosofia

Riassunto dettagliato del manuale di Etienne Gilson. Si ferma a Pietro Abelardo.

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018
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Caricato il 23/06/2018

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Scarica Etienne Gilson - La filosofia nel Medioevo e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! ÈTIENNE GILSON – LA FILOSOFIA NEL MEDIOEVO Introduzione Le filosofie greche, influenzate dalla religione greca, sono filosofie della necessità, mentre le filosofie influenzate dalla religione cristiana saranno filosofie della libertà. Il concetto greco di Logos è manifestamente di origine filosofica. Ma qual è il suo significato all’origine del IV Vangelo? Si può ammettere che un concetto filosofico greco si sostituisce al Dio cristiano, imponendo così allo sviluppo del pensiero cristiano una deviazione iniziale che esso non sarà più capace di correggere. Il momento è quindi decisivo: Ellenismo e cristianesimo sono allora in contatto; quale dei due ha assorbito l’altro? Supponiamo che l’Ellenismo abbia trionfato. Dovremmo assistere a questo avvenimento d’importanza veramente capitale: una filosofia del Logos, incontra una setta religiosa ebraica che predica un Messia, assimila a sé questo Messia e ne fa una manifestazione del Verbo. La cosa era dunque possibile, è anche avvenuta, ma non è quella avvenuta nel Vangelo di Giovanni. È stato, anzi, il contrario. Partendo dalla persona concreta di Gesù, oggetto della fede cristiana, Giovanni si rivolge ai filosofi per dir loro che quello che essi chiamano Logos è Lui; che il Logos s’è fatto carne e ha vissuto tra noi. Dire che Cristo è il Logos non era un’affermazione filosofica, ma religiosa. Il solo fatto che la religione cristiana s’appropriasse di un concetto filosofico di questa importanza fin dall’epoca del IV Vangelo costituisce, nondimeno, un avvenimento decisivo. Ciò che è vero per il Vangelo di Giovanni lo è anche per le Epistole di san Paolo. Paolo conosce l’esistenza della sapienza dei filosofi greci, ma la condanna in nome di una nuova sapienza è follia per la ragione: la fede in Cristo. La denuncia della sapienza greca non era, tuttavia, una denuncia della ragione. Subordinata alla fede, la conoscenza naturale non viene esclusa. Anzi, in un testo che nel Medioevo sarà continuamente citato e di cui lo stesso Descartes si gioverà per legittimare la sua impresa metafisica, san Paolo afferma che gli uomini ricevono da Dio una ragione naturale sufficiente a giustificare la sua severità nei loro riguardi. La tesi non era nuova giacché si trova affermata esplicitamente nel libro della Sapienza ma, grazie a san Paolo, essa incomincia ad imporre a ogni filosofo cristiano il dovere di ammettere che è possibile alla ragione umana conseguire una conoscenza sicura di Dio, partendo dal mondo esterno. Altra appropriazione filosofica. Così come san Giovanni dice ai pagani: il nostro Cristo è ciò che voi chiamate Verbo, san Paolo dice agli stoici: la nostra fede in Cristo è ciò che voi chiamate sapienza, ed è a Cristo che, senza saperlo, rende omaggio questa coscienza di cui tanto parlate. Questi punti i contatto non permettono di scoprire l’introduzione di nessun elemento greco nella sostanza della fede cristiana: la figura di Cristo e il significato della sua missione non ne sono in alcun modo toccati. Si è solito chiamare letteratura patristica, in senso lato, l’insieme delle opere cristiane che risalgono all’età dei Padri della chiesa, ma non tutte hanno come autori dei Padri della chiesa, e nemmeno questa denominazione è rigorosamente precisa. In un primo senso essa designa tutti gli antichi scrittori ecclesiastici morti nella fede cristiana e in comunione con la chiesa; in senso stretto, un Padre della chiesa deve presentare quattro caratteristiche: ortodossia dottrinale, santità di vita, riconoscimento da parte della chiesa e relativa antichità (circa fino alla fine del III secolo). Quando manca il carattere di anzianità e se lo scrittore ha rappresentato in maniera eminente la dottrina della chiesa, egli riceve il titolo di Dottore della chiesa. Quando si distinguevano i santi dai filosofi, s’intendeva parlare dei Dottori della chiesa. Nel 1298 Bonifacio VIII elevò al rango di Dottore della chiesa Ambrogio, Agostino, Gerolamo, Gregorio Magno. Ricordiamoci che un Dottore non è infallibile e che la dove sbaglia non parla come Dottore. Al di sotto dei Dottori della chiesa vengono, infine, gli scrittori ecclesiastici, la cui autorità dottrinale è assai inferiore e la cui ortodossia può anche non essere irreprensibile, ma che sono antichi e importanti testimoni della tradizione: Origene, Eusebio di Cesarea sono di questo gruppo. 1. I Padri greci e la filosofia La filosofia compare nella storia del cristianesimo soltanto nel momento in cui alcuni Cristiani prendono posizione nei suoi riguardi, sia per condannarla, sia per assorbirla nella nuova religione, sia per utilizzarla ai fini dell’apologetica cristiana. Nel XII e XIII secolo i termini philosophi e sancti significheranno direttamente l’opposizione tra le concezioni del mondo elaborate da uomini privi della luce della fede e quelle dei Padri della chiesa che parlano in nome della rivelazione cristiana. Sulle filosofie pagane, i Cristiani colti dei primi secoli hanno adottato nei loro riguardi atteggiamenti assai differenti. Certuni, convertitisi al cristianesimo soltanto assai tardi e dopo aver ricevuto un’educazione filosofica greca, erano tanto meno inclini a condannarla in blocco quanto la propria conversione appariva loro piuttosto come vicenda finale di una ricerca di Dio da loro iniziata assieme ai filosofi Per un inevitabile effetto di prospettiva, i pensatori pagani dei secoli passati apparivano loro come già impegnati sulla via di cui il cristianesimo aveva infine rivelato il termine. Altri, al contrario, che nessun interesse speculativo inclinava alle ricerche filosofiche, assumevano un atteggiamento assolutamente negativo di fronte a dottrine che non destavano in loro alcun interesse. - I Padri apologisti Fin dal II secolo dell’era cristiana compaiono i Padri apologisti, o Apologeti, così chiamati perché le loro opere principali sono apologie della religione cristiana. Nel senso tecnico della parola, un’apologia era un’arringa giuridica, e in realtà queste opere sono delle arringhe per ottenere dagli imperatori romani il riconoscimento del diritto legale dei Cristiani a vivere in un impero ufficialmente pagano. Delle due apologie più antiche, che datano entrambe intorno all’anno 125, quella di Quadrato non è mai stata ritrovata. Sembra, peraltro, che essa si sia appoggiata soprattutto sui miracoli di Cristo e nessuna testimonianza suggerisce che essa abbia preso posizione riguardo ai filosofi. Possediamo, invece, quella di Aristide che già contiene qualche tesi la cui ispirazione filosofica è manifesta. Partendo dalla considerazione dell’insieme delle cose e dell’ordine che vi si osserva, Aristide fa notare che ogni movimento regolato che così regna nell’universo obbedisce ad una certa necessità, per cui egli conclude che l’autore e l’ordinatore di questo movimento è Dio immobile, incomprensibile e innominabile; questo Dio avvolge con la sua potenza l’universo che ha creato. La visione dell’universo cristiano è dunque fissata nelle sue grandi linee fin dal primo quarto del II secolo; senza inesattezza la si chiamerà giudeo-cristiana. L’opera di san Giustino martire è contemporanea al Pastore di Erma. Nato a Flavia Neapolis (Nabulus) da genitori pagani, Giustino si convertì al cristianesimo prima dell’anno 123 e fu martirizzato a Roma al tempo del prefetto Giunio Rustico. Tra gli scritti che di lui sono stati conservati, i più importanti sono la Apologia I (150) indirizzata all’imperatore Adriano, seguita da l’Apologia II indirizzata all’imperatore Marco Aurelio, e il Dialogus cum Tryphone (160). Il Dialogus esprime nondimeno fedelmente le principali ragioni che un pagano di cultura greca poteva avere, circa nell’anno 130, per convertirsi al cristianesimo. Convertirsi al cristianesimo era spesso passare da una filosifa animata da uno spirito religioso a una religione capace di prospettive filosofiche. Dapprima frequentò gli stoici. Rivoltosi successivamente ai paripatetici, egli casse sotto un maestro che gli chiese innanzitutto di accordarsi per la retribuzione affinché le loro relazioni non restassero inutili : non era dunque un filosofo. Un miglior successo l’attendeva presso i discepoli di Platone. Ciò che Giustino cercava nella filosofia era una religione naturale: non ci si stupirà, dunque, che egli abbia più tardi scambiato il platonismo per un’altra religione. Giustino incontrò un vegliardo che lo interrogò su Dio e sull’anima, e avendo risposto esponendo le opinioni di Platone su Dio e sulla trasmigrazione delle anime, questo vegliardo gliene dimostrò l’incoerenza. A questo punto Giustino abbozzò una giustificazione del Timeo, ma il vegliardo rispose che egli non si preoccupava del Timeo, né della dottrina platonica dell’anima. L’anima vive perché Dio lo vuole, e tanto a lungo quanto egli vuole. Subito un fuoco s’accese nell’animo mio, m’innamorai dei Profeti ecc ecc. . Questo testo del Dialogus è d’importanza capitale in quanto ci fa rilevare , in un caso concreto e storicamente riscontrabile, come la religione cristiana abbia potuto assimilarsi immediatamente un dominio fino a quel momento rivendicato dai filosofi. Il cristianesimo offriva secondo le diverse specie di esseri che anima. Essa è , peraltro, materiale. La seconda parte dell’anima è lo spirito, o pnevma. È la parte superiore dell’anima propriamente detta . Essa è immateriale ed è là che risiede nell’uomo l’immagine e somiglianza con Dio. Quale sorte riserva Dio all’anima? Il solo punto sicuro sembra essere che la dottrina platonica dell’immortalità dell’anima, non s’è imposta come necessaria al pensiero dei primi cristiani. Ciò che più importava loro era di assicurare la sua resurrezione, e, se è immortale, di sostenere che essa non lo è per se stessa , ma per libera volontà di Dio. In se stessa l’anima non è che tenebra, ma ha ricevuto dal Verbo luce e vita contemporaneamente. Si produce una conversione in ogni anima che accoglie in sé nuovamente lo Spirito divino che ha cacciato il peccato. Questa conversione, o pentimento, incita l’anima a distaccarsi dalla materia e a impegnarsi in un ascetismo che la libererà da essa il più completamente possibile. Si vedono qui spuntare gli elementi gnostici che finiranno col condurre Taziano all’encratismo. La sua ultima dottrina fu esposta ne Sulla perfezione secondo il Salvatore. Tutta l’Oratio ad Graecos è l’opera di un barbaro in lotta contro il naturalismo ellenico. Non si può astenersi dal trovare un profondo senso storico al fatto, in apparenza paradossale, che il nemico inconciliabile del naturalismo greco sia finito eretico, e che colui che rapportava ogni bellezza, anche greca, all’illuminazione del Verbo, sia ancora oggi onorato dalla chiesa con il titolo di san Giustino. Si sa assai poco della Apologia indirizzata a Marco Aurelio da Melitone, vescovo di Sardi. Quattro citazioni, tre delle quali si trovano nella Historia Ecclesiastica di Eusebio, sono tutto ciò che ce ne rimane. Melitone sarebbe il primo che, andando più lontano dello stesso Giustino sulla via della conciliazione, abbia visto nell’apparizione del cristianesimo in seno all’impero un disegno provvidenziale . La sua argomentazione poggiava non di meno su questa idea: la fede cristiana deve diventare la filosofia dell’impero romano. È quello che sant’Agostino sosterrà più tardi nel De Civitate Dei, e che diventerà un fatto compiuto al tempo di Carlomagno. Non si può dubitare che Melitone di Sardi abbia concepito come possibile una certa alleanza della filosofia e del cristianesimo. Gennadio e Origene attestano che, in un trattato oggi perduto, Melitone insegnava che Dio è corporeo, si può pensare che le sue preferenze sarebbero andate a una specie di stoicismo (sono congetture). Arriviamo così alla seconda metà del II secolo e alla famosa Legatio pro Christianis composta da Atenagora verso il 177. Essa è da lui indirizzata come un discorso consolare all’imperatore Marco Aurelio, e a Commodo che era appena stato associato all’impero nel 176. I Cristiani, sotto il migliore di questi imperatori, Marco Aurelio, furono duramente e crudelmente perseguitati. I Cristiani dell’impero si dichiaravano cittadini di un impero che non era di questo mondo e soggetti a un Dio che non era l’imperatore. Dovevano dunque giustificarsi dall’accusa di ateismo, e l’Apologia di Atenagora porta il segno di questa preoccupazione. La Legatio constata semplicemente che, su un certo numero di punti, regna l’accordo tra i filosofi e la rivelazione. Netta definizione dei rapporti tra fede e ragione. La fonte di ogni salda conoscenza di Dio è Dio stesso. Fatto questo, si può riflettere sulla verità rivelata e interpretarla con l’aiuto della ragione. È ciò che Atenagora chiama, nel VII capitolo della Legatio, la dimostrazione della fede . Giustificare dialetticamente il monoteismo contro il politeismo. Se in principio, ci fossero stati molti dei, o si sarebbero trovati nel medesimo luogo, o si sarebbero trovati ciascuno in un luogo separato. Ora, essi non potevano trovarsi nel medesimo luogo, perché non potevano essere di eguale natura; e non potevano essere di eguale natura perché solo gli esseri generati gli uni dagli altri sono eguali, ad essendo dei, essi non potevano essere né generati né fatti a immagine e somiglianza d’altri. Ammettiamo allora che ciascuno di questi abbia occupato un posto proprio. Per ipotesi uno di loro è creatore e artefice del mondo; e ovunque vi esercita la sua provvidenza. Che posto resterò ancora, allora, per uno o parecchi altri dei? Nel mondo in cui siamo, nessuno. Bisogna allora relegare questi dei in altri mondi; ma dal momento che essi non esercitano nessuna azione sul nostro, la loro potenza sarà finita; non saranno dunque dei. L’ipotesi è assurda; non possono esserci altri mondi, giacché la potenza del creatore tutto avvolge. Non avendo niente da fare né da conservare, questi dei non esistono. A meno che, forse, non si conservino senza fare niente; ma allora dove si potranno mettere? Parlare di un Dio che non è in nessun luogo, non fa nulla, e non veglia su nulla, è dire che non esiste. Non c’è dunque che un unico e solo Dio, che fu fin dall’inizio autore del mondo e che solo veglia sulla sua creazione. Atenagora non sembra capace di pensare Dio senza relazione allo spazio. Si troveranno del resto tracce della sua influenza su questo punto del De fide orthodoxa di Giovanni Damasceno. Atenagora, sulla teologia del Verbo, insiste fortemente sull’eternità del Verbo e nel Padre e non parla più di lui come un altro Dio , ma conserva il concetto di una generazione del Verbo come persona distinta che si sarebbe prodotto in vista della creazione. Atenagore se lo rappresenta come emanante dal Padre e a lui riveniente come un raggio di sole . Siamo quindi ancora lontani da una definizione del dogma di Trinità. De resurrectione mortuorum. Esso stabilisce, in primo luogo, che la resurrezione dei corpi non è impossibile. Dio può infatti compierla perché chi ha potuto creare può evidentemente restituire la vita a ciò che ha creato; e può inoltre volerlo perché nulla vi è in ciò di ingiusto, né indegno di lui. Questo primo momento di ogni apologia è quello che Atenagora chiama parlare in favore della verità ; il secondo momento, che deve sempre seguire il primo, consiste nel parlare sulla verità . Questo secondo momento consiste, avendo già mostrato che la resurrezione dei corpi per opera di Dio è possibile, nel mostrare che essa effettivamente avrà luogo. Tre argomenti fondamentali lo provano. Primo, se Dio ha creato l’uomo per farlo partecipare ad un vita di sapienza e farlo rimanere nella contemplazione delle sue opere, la causa della nascita dell’uomo ci garantisce la sua perpetuità, e, a sua volta, questa ci garantisce la sua resurrezione, senza la quale l’uomo non potrebbe sussistere. Da sola, questa prova è sufficiente. (es. bambini morti troppo presto). Il secondo argomento di Atenagora si ricava dalla natura dell’uomo che è composta da anima e corpo. Dio non ha creato delle anime, ma degli uomini, in vista di un certo fine. L’uomo non è l’anima ma il composto dell’anima e del corpo. Se ci si riflette, questa tesi comportava fin dal principio l’obbligo, di cui i pensatori cristiani non prenderanno coscienza che più tardi, di non cedere al miraggio del platonismo. O si ammette con il Platone dell’Alcibiade che l’uomo è un anima e che si serve di un corpo e, a cominciare da questo principio, si dovrà progressivamente acconsentire a tutto il platonismo, oppure si pone con Atenagora che il corpo fa essenzialmente parte della natura umana, e bisognerà collegarsi a un’antropologia di tipo aristotelico. Il terzo e ultimo argomento, dopo che i primi due precedenti sono stati accettati: a ciascun uomo è dovuto il suo giusto compenso, premio o castigo. Se si ammette, dunque, un Dio creatore, provvidenza degli uomini e giusto, seguito da sanzioni, e poiché, anche qui, non è l’anima, ma l’uomo che ha meritato o demeritato, sarà necessario che il corpo resusciti perché l’uomo tutto intero sia premiato o punito. Distinzione tra la prova razionale e la fede: è per questo che l’abbiamo visto giustificare la resurrezione dei corpi senza fare appello alla resurrezione di Cristo. L’apologia di Teofilo d’Antiochia Ad Autolycum non si rivolge più ad un imperatore, ma ad un privato, Autolico, che rimproverava Teofilo di essersi convertito al cristianesimo. Si è definito l’autore un Taziano senza talento . Dio è posto come incomprensibile all’intelletto umano; un termine, come Logos non indica che il suo dominio, e il nome stesso di Dio non lo designa come colui che ha tratto tutte le cose all’esistenza, anche la materia. Teofilo si serve della formula: Dio ha prodotto tutte le cose dalla non esistenza all’esistenza , cioè con una creazione ex nihilo. Gli apologisti del II secolo non si sono mai preoccupati di costruire dei sistemi filosofici, ma l’opera loro, nondimeno, interessa direttamente la storia della filosofia. Essa ci fa conoscere in anticipo i problemi che dovevano, più tardi, attirare l’attenzione dei filosofi cristiani. In essi vediamo, inoltre, come l’azione del cristianesimo si sia esercitata sulla filosofia. Non si è passati dall’universo greco all’universo cristiano attraverso un’evoluzione continua: sembra piuttosto che l’universo greco sia improvvisamente crollato nello spirito di uomini come Giustino e Taziano. Ciò che costituisce l’interessi di questi primi tentativi filosofici è che i loro autori sembrano alla ricerca non di verità da scoprire, ma piuttosto di formule per esprimere quello che hanno già scoperto. Ora, la sola tecnica filosofica di cui dispongono è quella dei Greci, dei quali debbono insieme riformare la filosofia e confutare la religione. Gli apologisti del II secolo hanno dunque intrapreso il compito immenso, d’esprimere l’universo mentale dei Cristiani in un linguaggio espressamente concepito per esprimere l’universo mentale dei Greci. - Lo gnosticismo del II secolo e i suoi avversari Il II secolo dopo Cristo è un periodo di attivo fermento religioso. Da tutte le parti e in tutte le forme si cerca e si crede di trovare la possibilità di raggiungere la desiderata unione dell’anima con Dio. Sapere che Dio esiste e sapere ciò che si può affermare razionalmente nei suoi riguardi, in breve, conoscerlo filosoficamente, non sembrava più sufficiente; ciò che si cerca è una gnosi, cioè un’esperienza unificante e divinizzante che permetta di raggiungerlo in un contatto personale, e di unirsi realmente a lui. Il platonismo e lo stoicismo si presentavano come tecniche utilizzabili in vista di fini specificamente religiosi, che non erano stati fini loro propri, ma ai quali si poteva adattarle. Lo gnosticismo del II secolo è l’insieme di sincretismi di questo tipo che, incontrando in quel momento la nuova fede cristiana, hanno tentato di assimilarla. Questo termine generico non designa del resto che una veduta astratta della realtà storica. Non esistettero, infatti, gnostici e gnosticismi, ma uomini e dottrine che presentano certi caratteri comuni che permettono di dar loro uno stesso nome. Si può dire che tutte queste dottrine hanno avuto come scopo, partendo dalla fede in una rivelazione, di trasformala in una conoscenza capace di unire l’uomo a Dio. Tutta questa storia poggia dunque su un dialogo tra la fede religiosa e la conoscenza intellettuale. La Gnosi è il primo tentativo d’insieme di una filosofia del cristianesimo (Lipsio), o, ancora, ch’essa fu l’ellenizzazione acuta del cristianesimo (Harnack). Formule non esatte, perché lo gnosticismo fu piuttosto un tentativo di certe mitologie filosofiche per assorbire il cristianesimo a loro vantaggio. Incontriamo due distinte concezioni della conoscenza accessibile al cristiano, quella che vuole sostituire alla fede, e quella che vi si sottomette per scrutarne il mistero. La prima di queste concezioni è caratteristica dello gnosticismo propriamente detto. Marcione di Sinope era già stato scomunicato dal suo vescovo quando venne a Roma per insegnarvi la sua dottrina negli ambienti cristiani e, dopo aver sollevato vive opposizioni, fondarvi, nel 144, una comunità che doveva portare il suo nome. La dottrina di Marcione, che ci è nota soltanto attraverso le confutazioni dei suoi avversari cristiani, si caratterizza dapprima, sul terreno religioso, per il suo radicale rifiuto del giudaismo. L’Antico Testamento e il Nuovo Testamento non gli sembravano complementari, ma antitetici. È quanto egli sosteneva nel suo trattato, oggi perduto, Antitesi. L’Antico Testamento è per lui la rivelazione del Dio adorato dagli Ebrei. Ordinatore dell’universo, le deficienze della sua opera provano con evidenza che è imperfetto. Per formare il mondo, questo Dio ha utilizzato una materia ch’egli non aveva creato, e che è d’altronde il principio del male. Da questo si spiega come il demiurgo abbia fallito nella sua opera. La defezione degli angeli e la caduta dell’uomo sono venute a ostacolare i suoi disegni, e, anche allora, egli non ha trovato niente di meglio, per mascherare i suoi insuccessi, che imporre all’uomo leggi rigorose sostenute da sanzioni terribili. Ben al di là di questo Dio degli Ebrei si trova il Dio straniero, rimasto sconosciuto fino al giorno in cui Gesù è venuto a rivelarlo. A differenza del primo Dio, che è un giustiziere, questo è essenzialmente bontà. Onnipotente, onnisciente, egli esercita la sua provvidenza sul mondo prodotto dal demiurgo. Qui Gesù non sembra essere altro che questo Dio supremo che, mosso da un sentimento di pietà per la miseria degli uomini, ha voluto rivestire forma umana, soffrire e morire per salvarla. La gnosi di Marcione resta dunque ancora interamente all’interno di un problema autenticamente cristiano, quello del rapporto dell’antica legge con la nuova. La gnosi di Basilide è, al contrario, una cosmogonia lussureggiante dove abbondano gli esseri creati dalla sua immaginazione. Il suo autore, originario della Siria, pare abbia cominciato a insegnare ad Alessandria verso l’anno 130. Troviamo alla sommità e all’origine di tutto, un Dio ingenerato, incomprensibile, e così assolutamente innominabile che possiamo considerarlo come un Dio non-essere . Al di sopra egli stesso dell’essere, questo Dio ha tuttavia di che produrlo, perché egli contiene in sé, come un granaio, delle sementi da cui nasceranno tutti gli esseri. All’inizio della storia del mondo Dio trae da queste sementi tre filiazioni . La prima scaturisce da lui e ritorna subito a fissarsi presso di lui come un raggio riflesso verso la sua forma. La seconda, più pesante, resterebbe legata tra le altre sementi se uno Spirito Santo non le desse delle ali, grazie alle quali ella incorporeità relativa in rapporto ai corpi grossolani e propriamente detti. Ne è prova il fatto che le anime degli uomini sono riconoscibili dopo la loro morte. Queste idee valgono certamente per lo spiritus: quanto al pnevma, in cui alcuni interpreti non vedono niente altro che la grazia divina, la sua natura è descritta troppo confusamente perché si possa asserirne qualcosa. Le facoltà fondamentali dell’anima sono l’intelletto e il libero arbitrio. Il Padre ha fatto ogni uomo a sua immagine. L’intelletto incomincia col guardare le cose, le esamina, ne ricava un sapere sul quale ragiona, di cui discute dentro di sé e che esprime infine con la parola. Come il Padre, il nostro intelletto mette dunque un verbo, ma lui stesso non viene emesso da nulla. Un essere intelligente è libero; è anche libero di usare come crede gli ordini divini. A sant’Ireneo si è rimproverato un pelagianesimo avanti lettera . È vero che egli, come la maggior parte dei Padri greci, ha insistito molto sull’importanza del libero arbitrio come fondamento della responsabilità morale e religiosa, ma non ha mai identificato la grazie con il libero arbitrio, come farà Pelagio, ed è a san Paolo che egli si richiama per giustificare su questo punto della sua dottrina. Se, come sostiene Ireneo, ogni uomo è libero dai suoi giudizi, ogni uomo ne è responsabile. È vero che il peccato ha ridotto la nostra libertà, ma non l’ha distrutta; così si risolve l’unico problema che qui è in discussione: spiegare la presenza del male morale nel mondo senza impegnare la responsabilità di Dio. Ireneo descrive la fine del mondo come se ne avesse letto in anticipo un dettagliato reportage. Egli vede venire l’Anticristo, la Bestia, il cui numero è 666 giacché Noè aveva 600 anni al momento del diluvio e la statua di Nabuccodonosor aveva 60 cubiti di altezza e 6 di largezza (600+60+6=666). Esso devasterà il mondo intero, regnerà nel Tempio tre anni e tre mesi, dopodichè verrà il giudizip ultimo e la fine del mondo, che si verificherà quando il mondo avrà raggiunto i 6000 anni. Infatti la creazione è durata 6 giorni; un giorno di creazione equivale a 1000 anni. Allora s’aprirà un ultimo periodo di 1000 anni, (il giorno del riposo), durante il quale Cristo regnerà con i giusti a Gerusalemme. Alla fine di questo periodo, il figlio presenterà e condurrà gli eletti a Dio Padre perché essi gioiscano con lui nella beatitudine eterna. Questa è, nelle sue grandi linee, la storia futura delle anime umane. Ippolito, discepolo di Ireneo, avrà un posto considerevole nella storia del pensiero cristiano, se noi possedessimo ancora il suo trattato, quasi completamente perduto, Contro i Greci e Platone, o dell’Universo. Parte interessante è la sua Confutazione di tutte le eresie, comunemente citata sotto il titolo di Philosophoumena. Le sette eretiche non hanno la loro origine nella tradizione cristiana, ma nelle dottrine concepite dai filosofi. La sua dottrina del Verbo è impacciata quanto quella di Taziano e Giustino, se non di più. Non solo egli ne parla come di un essere generato in vista della creazione, ma considera libera la sua generazione, e di conseguenza come la creazione volontaria di una persona divina da parte di Dio. L’ambiente alessandrino, più aperto di quello di Roma alle influenze filosofiche greche, era tanto più favorevole allo sbocciare di una speculazione veramente metafisica e tuttavia nutrita di spirito cristiano. -La scuola di Alessandria Durante il II secolo Alessandria è il centro più attivo del pensiero cristiano. In questo ambiente era sorto l’alessandrinismo ebraico di cui Filone era stato il più notevole rappresentate. Poichè ebrei e cristiani si richiamavano ugualmente all’Antico Testamento, si capisce come l’esegesi di Filone, carica di elementi platonici e stoici, abbia esercitato una notevole influenza sul pensiero dei Cristiani di Alessandria. Qui, accanto al culo egiziano, romano ed ebraico, c’è una comunità cristiana, e di conseguenza un culto cristiano. C’era sicuramente ad Alessandria, verso l’anno 190, una scuola cristiana, il cui maestro era Panteno, che pare non abbia scritto nulla, ma al quale Clemente d’Alessandria deve il meglio della sua formazione. Le sue opere più importanti sono L’Esortazione ai Greci, il Paedagogus, e gli Stromata (orditure, miscellanea). L’Esortazione è imparentata con le opere di Giustino, di Taziano e di Atenagora, e Clemente vi esorta i pagani a distogliersi dal culto degli idoli per volgersi verso Dio. I filosofi e i poeti greci hanno già dimostrato la necessità di un culto più spirituale dell’idolatria, ma solo nella parola dei Profeti si trova la rivelazione del vero Dio. I pagani la rifiutano con il pretesto che è male abbandonare la fede dei propri Padri e il culto della propria patria. Dopo aver enunciato i benefici conferiti agli uomini da Cristo, Clemente impegna i Greci a volgersi verso di lui come verso il solo maestro della verità. L’opera ha un andamento molto oratorio (influenza di Giustino e Taziano). Supponiamo che il nostro pagano si converta: sarà necessario modificare i suoi costumi, e questa sarà l’opera del Paedagogus. Gli uomini sono peccatori, ma il Verbo si è assunto la funzione di pedagogo per porre dei limiti al peccato. Un pedagogo migliora l’anima insegnando a vivere bene. Di chi è il pedagogo il Verbo? Di tutti gli uomini. Clemente protesta energicamente contro la tesi gnostica di una conoscenza salutare riservata ad un’aristocrazia della salvezza. Tutti i cristiani sono eguali di fronte alla salvezza, fin dal momento in cui hanno ricevuto il battesimo. Quando Clemente parla di una gnosi che sarebbe quella dei Cristiani, non pensa dunque affatto ad una gnosi che distinguerebbe una specie di aristocrazia religiosa dal resto dei Cristiani. Anzi, egli vuol dire che i Cristiani sono i veri gnostici e che essi soli hanno diritto a questo titolo. Non occorre quindi niente più che la fede. Il pedagogo, dunque, è il Verbo ed egli ammaestra ogni uomo che viene al mondo; ma come ammaestra? Marcione aveva distinto dal Padre, pedagogo giustiziere senza bontà, il Verbo, pedagogo di bontà che non eserciterebbe più la giustizia. La bontà non deve essere separata dalla giustizia. Egli sa usare la severità ed esercitare la giustizia quando è necessario. Il pedagogo può anche educare severamente il suo discepolo ed imporgli la disciplina che lo salverà. Critica i costumi del tempo, gli onnivori di Alessandria, il gusto del lusso ecco. Se andiamo in cerca di tutto questo per abbellire la nostra vita, dobbiamo sapere che il cristianesimo è sufficiente a ciò. Il vero sapere è conoscere se stessi; conoscendosi, si conosce Dio che ci ha fatti. Il cristiano è ricco; egli è anzi il solo ricco, perché possiede i tesori dell’anima. Clemente termina la sua opera mostrandoci l’uomo rigenerato, che segue da autentico discepolo il Pedagogo divino, servendosi liberamente di tutto senza essere schiavo di niente. La sua massima è di frenare i desideri contrari alla ragione, e quindi tenersi a ciò che è semplice, naturale, moderato. Nel suo Quis dives salvetur? Clemente mostrerà che ogni ricco può essere salvato, purché le ricchezze non s’impadroniscano della sua anima. Dopo il Pedagogo dei costumi, gli Stromata c’invitano ad ascoltare il Dottore dell’intelletto. I Cristiani semplici di Alessandria rimproveravano a Clemente di perdere il suo tempo a filosofare. Lo scopo principale degli Stromata è di far vedere che la filosofia è di per se stessa una buona cosa perché è stata voluta da Dio. Nell’Antico Testamento, Dio parla di uomini il cui pensiero è saggio e che egli ha colmato nello spirito di senso . Questa formula si deve interpretare in due modi. Essa designa, prima, i sensi degli artigiani, perché si sa quanto siano perfetti il tatto del vasaio ecc. Ma anche quelli che si dedicano allo studio hanno bisogno di un senso particolare, l’intelligenza, per comprendere le figure dei poeti, i sillogismi dei dialettici ecc. Essendo questo un dono di Dio, non si può ammettere che la filosofia, che è opera sua, sia una cosa cattiva e condannabile dinnanzi a Dio. L’avversario obietta che la filosofia deve essere tuttavia una cosa cattiva, visto che Dio ha messo al suo posto la fede. Ma questo significa comprendere male il ruolo della filosofia nella storia. I greci, senza fede né legge, avevano la religione naturale, che non soltanto li giudicava, come dice San Paolo, ma li preparava a ricevere a suo tempo il cristianesimo, come si può vedere leggendo Platone e i poeti. La ragione greca ha avuto anche i suoi profeti, che furono filosofi. Senza dubbio, Dio non parlava direttamente ai filosofi, egli non trasmetteva loro una rivelazione speciale, ma li guidava tuttavia indirettamente con la ragione, che è pure luce divina. Interpretare diversamente i fatti sarebbe negare che la provvidenza divina regoli nei particolari la storia e gli avvenimenti. Se Dio ha voluto la ragione, è perché essa serve a qualcosa. Se ha voluto i filosofi è perché, da buon Pastore, egli ha scelto le sue migliori pecore per porle in testa al gregge. Il Dio di Clemente non è meno irriconoscibile di quello degli altri teologi greci. Clemente lo pone nel suo Paedagogus al di là dell’uomo e al di sopra della stessa Unità. Noi conosciamo Dio per mezzo di suo Figlio, Sapienza e potenza del Padre, il Verbo è eterno come lui e ha la sua stessa essenza. La teologia del Verbo insegnata da Clemente è in notevole progresso su quella degli apologisti. Questo Figlio, o Vebro, che il Padre proferisce senza separarsi da lui, è contemporaneamente Colui dal quale è stato creato il mondo, la sua provvidenza è fonte di luce per le intelligenze che vi si trovano. Creato da Dio a sua immagine, l’uomo è dotato di un’anima la cui essenza è più pure di quella degli altri animali. La dottrina di Gesù Cristo è sufficiente per salvarci, ma la filosofia può aiutare a condurre ad essa gli uomini e ad approfondirne il senso una volta che l’abbiamo accettata. Per l’ampiezza della sua opera e la profondità del suo genio, Origene supera di gran lunga i pensatori sin qui studiati. Nato in Egitto, e molto probabilmente ad Alessandria, verso il 184, da un padre convertito al cristianesimo, dopo un viaggio a Roma, verso il 221, partì per la Grecia. È nel corso di questo ultimo viaggio che Origene venne ordinato sacerdote. Ritiratosi in seguito a Cesarea, vi fondò una scuola e una biblioteca. Arrestato e messo alla tortura nel 250, all’epoca della persecuzione di Decio, pare sia morto a Tiro nel 253. Della sua immensa opera ci resta solamente una parte. Di quello che ci è stato conservato, la storia della filosofia deve ricordare particolarmente la sua confutazione di Celso (Contra Celsum), soprattutto il suo trattato De principiis. Il trattato si rivolge a due categorie di lettori, quelli che, avendo già accettato la fede, desiderano, in più, approfondire l’insegnamento delle Sacre Scritture e della tradizione cristiana, e poi i semplici filosofi, gli eretici e anche i nemici dichiarati della fede. I principi che egli vuole insegnare loro sono quella della verità Cristiana: Dio, il mondo, l’uomo e la rivelazione. Origene è dunque un cristiano che si rivolge in primo luogo ai cristiani, ma che desidera persuadere anche gli infedeli. Nel riconoscere la parola di Cristo non sempre tutti sono d’accordo sul significato che convenga attribuirle. Per porre fine a questa divergenza si deve fare appello alla tradizione, ma anche consultare quelli, tra i cristiani, che, oltre alla fede comune a tutti, hanno ricevuto dallo Spirito Santo i doni di Scienza e Sapienza. Tutti i cristiani, dunque, credono nelle stesse cose, ma non alla stessa maniera. L’uomo è composto di un corpo, un’anima e uno spirito. Parimenti la chiesa è composta di semplici fedeli che si attengono alla semplice fede e alla verità nel senso storico delle Scritture; di cristiani più perfetti che raggiungono la gnosi , cioè, nel senso biblico del termine, conoscere; infine di cristiani più perfetti ancora che raggiungono il senso spirituale delle Scritture. Dio è uno, semplice ineffabile e perfetto. La sua natura è immateriale, perché ciò che è perfetto è immutabile e l’immutabile è immateriale per definizione. Il fatto che Dio sia Padre, Verbo e Spirito Santo, non impedisce che egli sia uno, ma Origene ha delle difficoltà in merito al problema delle relazioni tra le persone divine. Nel suo pensiero, sussiste ancora una certa subordinazione del Verbo e dello Spirito al Padre. Origine afferma senza reticenza la coeternità assoluta col Padre di un Verbo increato che di conseguenza è Dio come il Padre; d’altra parte, Origene tende a subordinare il Verbo al Padre quando cerca di definire il ruolo del Verbo nella creazione. Origine parla allora del Verbo come di un Dio , primogenito della creazione, che genererà altri verbi dopo di sé, e di conseguenza altri dei. Saranno le nature ragionevoli, ciascuna delle quali è, rispetto al Verbo, nel medesimo rapporto in cui il Verbo è rispetto a Dio. Dio ha creato il mondo dal nulla attraverso il Verbo, nel quale stanno le forme viventi di tutte le cose. La sua bontà ha voluto produrre il mondo secondo la sua sapienza. Eterno nella durata, questo mondo è tuttavia limitato nello spazio, perché Dio, come dice la Scrittura, fa tutto in pondere et numero, dunque con misura e numero definiti. Creato da Dio con somma sapienza, questo mondo in cui viviamo è come una manifestazione del Verbo. Compreso nel Padre, il verbo conosce tutto ciò che il Padre è, ed è da questa conoscenza che egli ha prodotto liberamente questi altri verbi di cui già abbiamo parlato. Queste creature di un Dio spirito e libero erano esse stesse spiriti e libere. È alla loro libertà che il mondo deve la sua storia. Opere di una pure bontà, questi spiriti furono creati simili tra loro. Allora, usando del loro libero arbitrio, alcuni di loro s’attaccarono a Dio con maggior o minor forza, mentre altri di distaccavano più o meno completamente da lui. I diversi gradi di questa fedeltà o di questa caduta segnano esattamente la gerarchia degli spiriti che popolano attualmente l’universo; dalle più alte gerarchie angeliche fino dell’uomo, o De hominis opificio, il Commento sul Cantico dei Cantici e sulle otto Beatitudini e il Dialogo con Macrina sull’anima e l’immortalità. L’universo si divide in due zone, quella del mondo visibile e quella del mondo invisibile. L’uomo appartiene col corpo al mondo visibile, con l’anima al mondo invisibile. Sotto di lui sono disposti in ordine gli animali, poi i vegetali ed infine i corpi inanimati. L’uomo contiene in sé tutti i gradi della vita: vegeta come le piante, si muove e percepisce come gli animali e ragione perché è uomo. La principale difficoltà è sapere come spiegare l’unione di anima e corpo. Per definizione, un’anima è il principio animatore di un corpo. L’anima dell’uomo è dunque una sostanza creata che per se stessa conferisce vita e sensibilità ad un corpo organizzato e capace di sentire. Gregorio respinge esplicitamente la preesistenza dell’anima al corpo, tesi origeniana. La trasmigrazione delle anima è inaccettabile per un cristiano. Ammettere che qualsiasi anima possa animare qualsiasi corpo sarebbe come dire che tutti gli esseri sono della stessa natura. Allo stesso modo che l’anima non esiste prima del suo corpo, essa non può essere creata dopo di lui. Se l’esistenza del corpo come tale implica la presenza dell’anima, esso non può precederla. Bisogna necessariamente che il corpo e l’anima siano creati da Dio simultaneamente. Sviluppo del genere umano: il germe umano prodotto dal concepimento contiene già in sé l’uomo nella sua interezza. L’anima, presente fin dall’origine, costruisce progressivamente il suo corpo e dispiega le sue facoltà via via che si dà agli organi necessari al loro esercizio. La sua presenza e la sua azione si ravvisano in tutte le parti del corpo che sono organizzate. Così legata al corpo, l’anima non se ne separa mai. Anche dopo la morte, l’anima non si separa dagli elementi che formano il suo corpo. L’uomo è un animale ragionevole perché ha un pensiero che si esprime con la parola. L’esistenza di questo pensiero si rivela dal modo in cui l’uomo si comporta e con cui egli crea l’ordine intorno a sé. Noi possediamo un verbo, cioè un’espressione razionale del nostro pensiero. Dio deve essere dunque concepito dapprima come pensiero supremo, che genera il verbo nel quale si esprime. Poiché qui si tratta di un verbo divino, non bisogna concepirlo come instabile e passeggero come il nostro, ma come eternamente sussistente e vivente di una sua vita propria. Poichè il vive, il verbo è anche dotato di volontà e, poiché è divina, questa volontà è contemporaneamente onnipotente e assolutamente buona. Allo stesso modo che la nostra parola mentale imita la generazione eterna del Verbo divino, così anche il fiato emesso dal nostro corpo animato imita il procedere dello Spirito Santo, e come la respirazione procede dall’unità del corpo e dell’anima, lo Spirito Santo procede contemporaneamente dal Padre e dal Figlio. Creatore del mondo e dell’uomo, Dio ha prodotto tutto dal nulla, con un atto libero della sua bontà. Il solo fatto che le creature siano tratte dal nulla le apparenta alla mutabilità. Questo in particolare il caso dell’uomo e del suo libero arbitrio. L’uomo ha scelto il male o, sarebbe meglio dire, l’uomo ha scelto male. Perchè il male non è una realtà positiva che si possa scegliere; esso si riduce al fatto puramente negativo, che l’uomo non ha scelto come doveva. Si può dire che, in un certo modo, l’uomo è diventato creatore e demiurgo del male. Dato che l’errore consiste nel preferire il sensibile al divino, è l’elemento sensibile che ormai predomina nell’uomo. Contaminato dalla macchia dell’anima, da cui è inseparabile, il corpo è diventato mortale. Dio prevedeva l’errore ed ha creato l’uomo maschio e la femmina. La divisione dei sessi risulta quindi, se non dal peccato, almeno dalla previsione di esso da parte di Dio. Senza il peccato originale gli uomini si sarebbero moltiplicati in modo puramente spirituale. L’uomo si salva recuperando la somiglianza con Dio, che il peccato non ha completamente distrutto, ma cancellato. Poichè si tratta di una specie di creazione, l’intervento del creatore è indispensabile. Dato che tutto il male è venuto da uno smarrimento dell’amore umano, che aveva deviato da Dio verso le creature, il rimedio non può consistere che nel restaurare quest’intima unione dell’uomo con Dio attraverso l’amore, di cui il Cantico dei Cantici celebra l’eccellenza sotto forma allegorica, e ci insegna a farlo regnare in noi. La fede è il primo momento di questa riunione dell’uomo con Dio, ma la carità che l’accompagna impegna il fedele ad uno sforzo di ascesi morale. Il risultato di questo sforzo è una purificazione dell’anima e una restaurazione della somiglianza divina cancellata dal peccato. Il Medioevo occidentale cadrà in parecchie confusioni circa i due Gregori e si sbaglierà sull’attribuzione delle opere. In particolare, il caso di un importantissimo trattato De natura hominis che oggi si attribuisce a Nemesio. Egli concede alla scienza della natura umana, e particolarmente all’anima, un posto centrale nel complesso dell’umano sapere. L’uomo è un microcosmo. Composto di un corpo e di un’anima razionale, serve da legame tra il mondo dei corpi e quello degli spiriti. Il posto intermedio definisce il problema del suo destino; egli diventerà simile a Dio o si degraderà, per i solo fatto di volgersi ai beni spirituali o a quelli del corpo. Se l’anima è una sostanza completa, com’è possibile la sua unione col corpo? Quando si tratta di corpo, l’unione implica sempre confusione; gli elementi scompaiono nel misto. Invece, una sostanza intellegibile non può che sussistere tale e quale o cessare di esistere. Sappiamo ch’essa gli è unita giacché percepisce le sue modificazioni. Siamo parimenti sicuri che non si confonde con esso. Basta quindi ch’essa si unisca ad esso nel modo delle sostanze intellegibili, cioè senza alterarsi. L’anima possiede tre facoltà: l’immaginazione, l’intelletto e la memoria. L’immaginazione è una facoltà irrazionale, mossa da qualche immaginabile. l’immaginabile è ciò che cade sotto la presa dell’immaginazione; strumenti dell’immaginazione sono i ventricoli anteriori del cervello. La memoria è la facoltà di ritenere e di riprodurre i ricordi. La loro riproduzione dopo un periodo di oblio è la reminiscenza. Sede di questa facoltà è il ventricolo mediano del cervello. Rimane la facoltà conoscitiva dell’anima. Aristotele, che Nemesio interpreta qui seguendo Alessandro d’Afrodisia, considerava l’intelletto come naturalmente in potenza nell’uomo, ma aggiunge che esso non era in atto che grazie ad un’influenza dall’esterno: in questa dottrina l’intelletto non sarebbe un complemento necessario dell’essenza stessa dell’uomo, ma soltanto della sua conoscenza delle cose: ci sarebbero dunque pochissimi individui, soltanto i filosofi, che avrebbero l’intelletto. Nemesio preferisce attenersi a Platone: se l’uomo è essenzialmente un’anima che si serve di un corpo, essa deve essere naturalmente dotata di conoscenza intellettiva: in poche parole, l’anima stessa è intelletto. La parte irrazionale che obbedisce alla ragione si distingue in appetitiva e in irascibile. Essa è la sede delle passioni. Le passioni appetitive fondamentali sono i piaceri e le pene. Al di sopra di queste passioni animali stanno i piaceri puramente spirituali. Sotto di esse si trova la parte irrazionale dell’anima, che non obbedisce alla ragione; essa comprende le funzioni nutritiva, generativa e vitale. Le azioni dell’uomo si classificano in volontarie e involontarie. L’inizio del V secolo abbonda di tentativi curiosi che permettono di rappresentarsi un’epoca nella quale giungevano al cristianesimo spiriti di culture differentissime. Una delle più curiose figure di quest’epoca è quella di Teodoreto. Questo arcivescovo di Ciro ha composto una Guarigione dalle malattie greche, o scoperta della verità evangelica partendo dalla filosofia greca. Gli avversari della fede sono dei presuntuosi che Teodoreto cerca di guarire dalla loro malattia con l’esempio di filosofi degni di questo nome, ad esempio Socrate, Platone e Porfirio. Ma il migliore dei migliori è l’ eloquentissimo Platone , che non si può separare da Socrate di cui la Pizia diceva che era il più sapiente degli uomini. Platone ha insegnato l’esistenza di un solo Dio. Tutto questo trattato, in cui sono messi a profitto costantemente gli Stromata di Clemente d’Alessandria e la Preparazione Evangelica di Eusebio, chiude la serie delle apologie scritte da dei cristiani per convincere i rappresentanti di un paganesimo agonizzante. -Da Dionigi a Giovanni Damasceno Una delle fonti più importanti nel pensiero medievale è un’insieme di scritti spesso indicato col titolo di Corpus Areopagiticum. Esso comprende le seguenti opere: Della gerarchia celeste, Della gerarchia ecclesiastica, Dei nomi divini, Teologia mistica e dieci Lettere. Le sue opere portano il nome di Dionigi. Per sottolineare il suo carattere apocrifo si è presa l’abitudine di chiamare il suo autore Pseudo Dionigi. Un po’ stanchi di questa formula negativa, si è proposto di chiamarlo Dionigi il mistico, ma a dire il vero non sappiamo nemmeno se si chiamasse Dionigi. Il trattato più ricco di dati filosofici che sia giunto sotto il suo nome è consacrato al problema Dei nomi divini. È tuttavia un’opera essenzialmente teologica: si potrebbe quasi dire esegetica. Partendo dal fatto che la Scrittura dà a Dio una quantità di nomi diversi, Dionigi si chiede in che senso sia legittimo attribuirglieli. L’intenzione dell’autore è di non dire e di non pensare, a proposito di Dio, nulla che non sia contenuto nelle Scritture e da esse garantito. Poichè soltanto Dio si conosce, solo lui può dunque farsi conoscere da quelli che lo cercano con modestia. Decifrare la creazione alla luce delle Scritture è aprirsi alla grazia dell’illuminazione divina, conoscere Dio come causa. Le Scritture danno a Dio i nomi di cui fanno uso: unità, bellezza, sovranità ed altri ancora. Tuttavia non sono che nomi adatti alla nostra condizione e che nascondono l’intellegibile sotto il sensibile. I Fondamenti teologici avevano stabilito che Dio è assolutamente incomprensibile ai sensi e alla ragione: poiché non si può conoscerlo, non si può nominarlo. I semplici fedeli, gli attribuiscono i nomi di cui si serve la Scrittura, ma quelli illuminati da una luce superiore sanno andare al di là della lettera. Questi parlano di Dio soltanto per negazione, e niente è più giusto. Conviene dunque applicare dapprima a Dio tutti i nomi che gli dà la Scrittura, ma conviene successivamente negarli tutti (teologia negativa). Questi due atteggiamenti possono d’altronde conciliarsi in un terzo, che consiste nel dire che Dio merita ciascuno di questi nomi in un senso inconcepibile per la ragione umana, perché egli è un iper-essere , una iper-bontà , una iper-vita , e così via (teologia superlativa). Dionigi ha dato uno stupefacente esempio di teologia negativa in un breve trattato, La Teologia mistica. L’ultimo capitolo di questo scritto è formati da una serie di negazioni e di negazioni di queste negazioni, perché Dio è al di là delle negazioni come delle affermazioni. Ciò che di lui si afferma è al di sotto di lui. Non essendo luce, non per questo egli è tenebra; non essendo verità, non è tuttavia errore. Il trattato Dei nomi divini doveva agire sulla speculazione teologica e filosofica. Dio vi si presenta dapprima come Bene, perché lo si accosta attraverso le sue creature, ed è a titolo di Bene supremo che le crea. Il Dio di Dionigi assomiglia allora all’idea di Bene descritta da Platone nella sua Repubblica: come il sole sensibile, penetra con la sua luce tutte le cose. Sviluppandosi per gradi, questa illuminazione divina genererà naturalmente una gerarchia. La luce divina e l’essere che essa costituisce di trasmettono attraverso una cascata di luce i cui gradi sono descritti nei trattati: Della gerarchia celeste e Della gerarchia ecclesiastica. Questa illuminazione non deve essere concepita come un semplice rischiarimento degli esseri, ma come il loro stesso essere. Tutto ciò che merita, in qualunque grado, il titolo di realtà, non è che un momento definito di questa effusione illuminatrice del Bene. Ciò che si chiama creazione è dunque l’effetto di una rivelazione di Dio nelle sue opere. Il mondo è una teofania che sola ci permette di conoscere il suo autore. Ogni essere è un bene; diremo dunque che la sua causa è il Bene; poi negheremo che essa sia il Bene; ma questa negazione diventerà a sua volta un’affermazione, perché se Dio non è il Bene, è perché egli è l’ iper-bene . In un universo che non è che la manifestazione di Dio, tutto ciò che esiste è buono; il male dunque è , per sé, non essere; l’apparenza di realtà che esso rappresenta è dovuta solo a ciò che esso offre come un’apparenza di bene. D’altronde è per questo che il male ci inganna, perché è senza sostanza e realtà. Dio quindi non lo causa, ma lo tollera perché egli regge natura e libertà senza violentarle. In rapporto alla creazione, Dio dunque è il Bene, in rapporto a se stesso, il nome che meno male gli si addice, tra quelli presi a prestito dalle creature, è quello di Essere. Egli è Colui che è , e a questo titolo egli è causa di ogni essere. L’essere è la prima partecipazione, fondamento di tutte le altre. Nelle immagini temporali di Dio, viene dunque per primo l’essere, ed è perché, in quanto esiste, vi partecipa, che un essere può inoltre partecipare alla vita ed alle altre proprietà che lo definiscono. Considerate in Dio, tutte queste forme di partecipazione sono uno in lui. Si dicono tipi o esemplari questi modelli divini degli esseri che sono il prototipo di tutte le loro forme di partecipazione. In quanto forze attive e causali sono anche volontà divine o predestinazioni . Incontriamo qui dunque le idee divine, ma mentre Agostino, Anselmo, Bonaventura, e Tommaso d’Aquino le identificano con Dio, Dionigi le subordina a lui. Dicendo che Dio è l’Essere, Dionigi non dimentica che si tratta sempre qui soltanto di un nome divino . Infatti Dio non è l’essere, ma è al di là dell’essere. Tutto proviene dunque, da un non essere primitivo. Per essere precisi, allo stesso L’enumerazione di questi attributi non ci fa conoscere la natura e l’essenza di ciò a cui li attribuiamo. Giovanni Damasceno interpreta in questo senso il nome stesso che Dio si è dato nel celebre testo dell’Esodo: Io sono Colui che è . A ben considerarlo, infatti, questo nome designa la sua stessa incomprensibilità, perché significa che Dio possiede e raduna in sé la totalità dell’essere, come un oceano di realtà infinito e illimitato . Formula che verrà ripresa da Tommaso d’Aquino. Il De fide orthodoxa, per il suo schema d’insieme che comprende lo studio degli angeli, del cielo visibile, degli astri, degli elementi, della terra e dell’uomo, si presenta già come un’opera di andamento nettamente scolastico. I capitoli XXII – XXVIII del II libro, sulla volontà, la distinzione del volontario e del non volontario, il libero arbitrio considerato nella sua natura e nella sua causa, hanno trasmesso così al Medioevo parecchie nozioni che Giovanni Damasceno aveva forse semplicemente raccolto nell’opera di Gregorio di Nissa o di Nemesio. Senza essere lui stesso un pensatore di primissimo rango, egli ha avuto un ruolo considerevole come trasmettitore di idee. Bisogna vedere certamente in lui uno dei più importanti intermediari tra la cultura dei Padri greci e la cultura latina dei tologi occidentali del Medioevo. L’impressione d’insieme che lascia la patristica greca è che in essa l’influenza di Platone e dei neoplatonici fu dominante. Abbiamo constatato, invece, che i primi Padri accettavano facilmente, come gli stoici, una concezione materialistica dell’anima. La formula platonismo dei Padri condurrebbe in una direzione assurda, se le si facesse dire che i Padri erano dei platonici. Infatti essi furono essenzialmente dei cristiani, e niente affatto i discepoli di un filosofo per il quale l’unica salvezza concepibile era il compenso del giusto uso della ragione. Se la formula resta legittima è in un altro senso. Platone si offrì come alleato del cristianesimo su parecchi punti importanti: la dottrina di un demiurgo dell’universo; di un Dio come provvidenza; dell’illuminazione dell’anima da parte di Dio. Nel XII secolo, Abelardo e parecchi altri della scuola di Chartres si applicheranno ancora a sottolineare queste concordanze. Sant’Agostino l’ha così profondamente avvertito che ha finito col dire che, se i platonici avessero conosciuto il cristianesimo, non avrebbero avuto da cambiare che poche cose alla loro dottrina per diventare cristiani. I Padri greci hanno già provato questo sentimento, e basterebbe questo a spiegare la loro predilezione per una dottrina che non era la loro, ma che, tra tutte quelle che essi conoscevano, si presentava come la più facilmente assimilabile dal pensiero cristiano. Il platonismo fu, per il pensiero cristiano, il primo incoraggiamento a cercare un’interpretazione filosofica della sua verità. 2. I Padri latini e la filosofia La letteratura cristiana latina è incominciata a Roma, ma in Roma stessa hanno avuto la precedenza scrittori di lingua greca. Soltanto verso la metà del III secolo, quando il latino sostituirà il greco come lingua liturgica della comunità cristiana di Roma, si troverà definitivamente instaurato il suo uso come lingua letteraria cristiana - Dagli apologisti a sant’Ambrogio Tertulliano è il primo e il più grande nome di questa prima apologetica cristiana espressasi in lingua latina. È anche il primo della serie dei grandi africani. Fu ordinato sacerdote, combatté per la difesa della sua fede ma poco a poco si lasciò conquistare dal montanismo. Da allora il suo ingegno si volse contro il cristianesimo e finì col costruire una setta fondata sulla sua personale dottrina. I tertullianisti avevano a Cartagine una loro chiesa ancora ai tempi di sant’Agostino, che ebbe la gioia di riconciliarli col cattolicesimo. Le opere di Tertulliano di maggior interesse per la storia della filosofia sono l’Apologeticum, il De praescriptione haereticorum e il suo trattato De anima. È da giurista, tuttavia, più che da filosofo, che egli regola il problema del diritto esclusivo del cristianesimo all’interpretazione delle Scritture. Secondo la legge romana, ogni persona che si fosse servita di un bene per un tempo sufficiente poteva legalmente considerarsene proprietaria. Applicando questa regola alle sacre Scritture, Tertulliano respinge gli gnostici dalle loro pretese di interpretarle. Accettate e commentate dai cristiani fin dall’origine, esse appartengono loro di pieno diritto. Tertulliano prende il cristianesimo come un tutto che s’impone agli individui come semplice fede. Ogni cristiano deve accettare questa fede come tale, senza pretendere di farne una scelta, e ancor meno di giudicarla. Si è cristiani per la fede nella persona di Cristo, e in nessun’altra che nella sua. Troncando così la questione, Tertulliano s’impegna in un atteggiamento di opposizione radicale verso la filosofia. Egli la rende responsabile del moltiplicarsi delle sette gnostiche. Il più illitterato dei cristiani, se possiede la fede, ha già trovato Dio, mentre Platone stesso dichiara che non è facile scoprire l’artefice dell’universo, né, quando lo si è scoperto, farlo conoscere. È vero che talvolta certi filosofi insegnano delle dottrine che assomigliano alla fede cristiana, ma ciò accade per caso. L’antifilosofismo di Tertulliano ha trovato le sue più celebri forme quando si è sviluppato in anti- razionalismo. Non c’era niente di originale nel dire che il dogma della Redenzione è impenetrabile dalla ragione. La fede è più sicura della ragione. Se Tertulliano non amava la filosofia, essa lo ha ben corrisposto. Trattando della natura dell’anima, egli si esprime come un materialista e pensa come uno stoico. Per lui l’anima è un corpo tenue e sottile, analogo all’aria, dotato di tre dimensioni. Essa si espande attraverso tutto il corpo, di cui sposa la forma. Questo ci permette, d’altra parte, di dire che essa è una sostanza, perché tutto ciò che è reale è materiale. Se si obietta che nutrimento dell’anima è la saggezza, essa stessa immateriale, Tertulliano risponde col suo migliore umorismo; se fosse vero, molti uomini morirebbero di fame. In conformità a questa concezione dell’anima, Tertulliano ammette che la propagazione dell’anima nella specie umana avviene, dopo Adamo, per trasmissione dai genitori ai figli al momento del concepimento; il corpo è l’involucro. Dotata di organi che le sono propri, essa ha propri occhi, orecchie e anche intelletto. Si spiega, così, l’ereditarietà dei caratteri, per il bene come per il male. Così il peccato originale, dopo Adamo, s’è trasmesso di padre in figlio contemporaneamente al propagarsi e al moltiplicarsi dell’anima del primo uomo. Ma l’uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio, e questa somiglianza divina s’è ugualmente trasmessa con la generazione. Si può dire che l’anima di ogni uomo è naturalmente cristiana. Poichè tutto ciò che esiste è corporeo, e Dio esiste, Dio è corporeo. È senza dubbio il corpo più sottile e tenue di tutti. È anche il più brillante, al punto che il suo stesso splendore lo rende invisibile, ma, insomma, è un corpo. Quando fu venuto il momento di creare, Dio generò da se stesso una sostanza spirituale, che è il Verbo. Poichè questa sostanza sta a Dio allo stesso modo che i raggi stanno al sole, essa è Dio come i raggi del sole sono luce. È Dio da dio. Dio ha creato il mondo dal nulla, ma il Verbo è la ragione stessa secondo la quale egli l’ha creato, ordinato e governato. Quanto allo Spirito Santo, esso s’aggiunge al Padre e al Verbo senza rompere l’unità di Dio. La generazione del Verbo dal Padre provocata dalla sua creazione, non è, per essere esatti, eterna, poiché il Padre è esistito senza di lui. E tuttavia non si può dire ch’essa abbia abuto luogo nel tempo, poiché il tempo non incomincia che con le creature. È dunque, una relazione che non sappiamo come esprimere. Tertulliano assomiglia stranamente a Taziano. L’affascinante Minucio Felice e il suo dialogo di andamento ciceroniano, l’Octavius, evocano, invece, il ricordo di Giustino. Minucio, fedele all’esempio di Cicerone, riporta una conversazione immaginaria, o artisticamente ricostruita, che avrebbe luogo in sua presenza a Ostia, tra il pagano Cecilio Natalae e il cristiano Ottavio. I due argomenti principali portati da Cecilio contro il cristianesimo sono proprio quelli che avrebbe probabilmente formulato Cicerone. In primo luogo c’era, nel dogmatismo della fede cristiana, qualcosa di fastidioso per un pagano colto. I cristiani, anche i più incolti, avevano una risposta a tutto, sull’esistenza di Dio, la sua natura ecc ecc. Che cosa di più insopportabile che questa gente per un accademico? E non era, per un Romano, cosa pia e saggia attenersi al culto degli dei di Roma che ne avevano diretto la storia e assicurata la grandezza? A queste obiezioni Ottavio risponde con cortese fermezza, osservando che non c’è ragione alcuna per cui la verità debba restare patrimonio di un piccolo numero di persone e non appartenere a tutti. Egli mostra che l’ordine del mondo suppone un ordinatore, cioè un Dio unico e provvidenziale, come quello dei cristiani. Quanto agli dei di Roma, non possono aver fatto la grandezza dell’impero. Ottavio mostra quanto sia puro il loro culto e come parecchie delle loro credenze siano state presentite dai filosofi e anche dai poeti pagani. Cecilio ha tanta buona grazia da lasciarsi convincere, e abbraccia la religione di Ottavio. Accostandoci ad Arnobio (260 – 327) non usciamo dall’Africa. Questo curioso personaggio insegnava da lungo tempo la retorica a Sicca; verso il 296, questo avversario di Cristo si proclamò cristiano e chiese il battesimo. Il vescovo di Sicca diffidò e rifiutò di ammetterlo tra i catecumeni, ma Arnobio incominciò a convincerlo, e, in vista di questo, scrisse un’apologia della religione che desiderava abbracciare. Fu questa l’origine dell’Adversus nationes (o Adversus gentes), apologia del cristianesimo da parte di un uomo che non era ancora cristiano, se non per desiderio. L’apologia di Arnobio è in primo luogo la sua personale apologia dinanzi al vescovo di Sicca. Questo neofita vuole provare che la sua professione di fede cristiana è sincera e ch’egli ha veramente smesso di essere pagano. Il Cristo è per lui principalmente un maestro, venuto per rivelare agli uomini la verità sulla natura di Dio e del culto che gli è dovuto. Un Dio sovrano, signore di tutto ciò che esiste, che noi dobbiamo adorare, invocare con rispetto e venerazione, abbracciare, per così dire, con tutte le forze del nostro essere, ed amare; ecco qual era, per Arnobio, l’essenziale di questa religione ch’egli aveva appena compreso e che si meravigliava si giudicasse esecrabile. Il cristianesimo era, innanzitutto, per lui, la rivelazione del monoteismo attraverso il Cristo. Ciò che prima di tutto colpisce Arnobio in questa rivelazione è ch’essa è per l’uomo una lezione decisiva di umiltà. Nell’Adversus Nationes si sono notate parecchie tracce di scetticismo, o, sarebbe meglio dire, di neo – accademismo. Arnobio ebbe il merito di abbozzare i temi principali di ogni apologia di questo tipo. Il primo tema è sempre stato l’enumerazione dei problemi inevitabili per ogni spirito umano, di cui tuttavia ci sfugge la soluzione. Se ne troverà un lungo elenco nel II libro dell’Adversus nationes. Questo tema ne introduce di solito un secondo, che è il piatto forte di tutta l’argomentazione; poiché sugli argomenti in questione noi non sappiamo nulla, e tuttavia crediamo qualunque cosa, che c’è di straordinario o ridicolo in un atto di fede? D’altra parte, non poggia forse la vita umana su una serie di innumerevoli atti di fede ripetuti indefinitamente? Perchè i cristiani non dovrebbero credere a ciò che dice Cristo? È l’eterna forza e debolezza dell’argomento: esso prova certamente che i cristiani non sono i soli a credere in qualcosa; prova anche, come dimostrerà Montaigne, che molte credenze umane non sono meno straordinarie di quelle dei cristiani; ma la sua portata finisce lì, e il peggio è che nessun argomento è più facile da ritorcere. Un terzo tema, familiare a quelli che talvolta si chiamano gli scettici cristiani , è la svalutazione metodica dell’uomo e il correlativo elogio degli animali. Arnobio ne fa grande uso. Come giustificare l’immortalità dell’anima se la si ammette? Coloro che sostengono che le anime sono immortali per natura sono, per lui, gli stessi che vedono in esse esseri prossimi a Dio per dignità, generate da lui, divine, ricche di una innata saggezza e senza contatto con i corpi. È per meglio confonderli ch’egli insiste con tanto vigore sul fatto che gli uomini non sono anime, ma animali. Lo sono per il loro corpo, il loro modo di nutrizione e riproduzione. Certamente essi supererebbero con la ragione gli altri animali, se fossero capaci di servirsene. In realtà essa non ci serve granchè. L’uomo ha saputo conquistare una certa conoscenza delle cose e che a sua volta dà prova di un certo ingegno. È stato necessario che gli uomini, alla meno peggio, acquistassero queste conoscenze progressivamente e a prezzo di grandi sforzi. In breve, non hanno portato le loro anime dal cielo, scendendo nei corpi. Fermamente convinto della divinità di Cristo, non sembra che Arnobio abbia saputo granché del dogma della Trinità. Il Dio supremo di cui egli spesso parla sembra sovrintendere a molti altri dei, e Cristo spesso appare come un Dio incaricato di istruire la nostra ignoranza e di salvare le nostre anime. Queste anime non sono create dal Dio supremo, ma da un membro eminente della sua corte celeste; sono esseri di qualità mediana, come ci ha insegnato Cristo, cioè possono essere sia debba cessare di agire, né, di conseguenza, di esistere. Non è lo stesso se si ammette con Aristotele che, come tutto il resto, l’anima riceve il suo movimento dall’esterno. Ma non è necessario ammetterlo. Benché la dimostrazione aristotelica sia buona, non ne risulta né che l’anima sia questo motore immobile, né che l’anima non sia interamente vita e movimento. Essa è una forma di movimento, derivata da una fonte ancora più abbondante. Quella di Calcidio vi ha contribuito ancora più efficacemente. Egli distingue tre primi principi: Dio, la materia e l’idea (Deus et silva et exemplum). Il Dio supremo è il Bene Sovrano. Posto al di là di ogni sostanza e di ogni natura, in sé perfetto, egli è auto-sufficiente, ma è oggetto di un desiderio universale. Dopo il Dio supremo viene la provvidenza che occupa il secondo posto. Instancabilmente rivolta al bene, questa seconda essenza intellegibile ne trae a sua volta la propria perfezione e quella che conferisce agli altri esseri. Dalla provvidenza dipende il Destino. Questo destino è dunque doppiamente cristianizzato: in primo luogo è sottomesso alla provvidenza, e poi esso rispetta le nature e le volontà. Altre potenze sono subordinate alla provvidenza, come la Natura, la Fortuna, il Caso, gli Angeli. Questi ministri della provvidenza sono direttamente al suo servizio, ma essi hanno sopra di sé l’Anima del mondo, che si chiama talvolta anche Seconda Intelligenza. Così il Dio supremo comanda, il secondo fissa l’ordine, il terzo ingiunge e le anime agiscono secondo la legge . Esistono dunque due tipi di esseri, i modelli e le copie. Il mondo dei modelli (exempla) è il mondo intellegibile; quello delle copie, o immagini (simulacra) è il mondo sensibile (mundus sensibilis), prodotto a somiglianza del suo modello. Il nome tecnico di un modello è Idea . È una sostanza incorporea, comprensibile col solo intelletto e la sola ragione. Calcidio non vuole esaminare se le idee siano una o molte; risolve invece la questione della loro origine: sono le opere proprie di Dio che le produce comprendendole. In breve, le opere di Dio sono delle intellezioni, e le sue intellezioni sono ciò che i Greci chiamano idee. Dire che il mondo sensibile è eterno significa, dunque, che Dio pensa eternamente le idee, di cui il mondo sensibile riproduce perpetuamente l’immagine nel corso del tempo. In questo senso le idee fanno tutt’uno con Dio: si può quindi ridurre da tre a due il numero dei principi, e dire che il mondo sensibile è fatto di Dio e della materia. L’esistenza della materia si può dimostrare per analisi o per sintesi. L’analisi consiste nel risalire dai fatti ai loro principi. È un fatto che noi abbiamo due modi distinti di conoscere: i sensi e l’intelletto. I loro oggetti debbono dunque essere ugualmente distinti: sono il sensibile e l’intellegibile. I sensibili sono mutevoli, temporali; gli intellegibili sono immutabili, eterni. Per natura, gli intellegibili sono anteriori ai sensibili, ma i sensibili ci sono più facilmente accessibili. Il metodo analitico, che risale dal sensibile alle sue condizioni, è quindi del tutto adatto per stabilire l’esistenza della materia. L’analisi parte dai dati immediatamente percettibili, quali il fuoco, l’aria, l’acqua e la terra. Questi elementi non sono soltanto intorno a noi, ma anche in noi, poiché di essi sono formati tutti i corpi, compreso il nostro. Il nostro corpo possiede, oltre alle qualità sensibili, delle forme e figure diversamente composte. Se noi col pensiero distinguiamo tutto questo, e se ci chiediamo, inoltre, quale realtà contenga tutto questo indivisibilmente, troveremo proprio ciò che cerchiamo: la materia. Ma si può verificare questa analisi con una sintesi. Rimettiamo, per così dire, a posto le specie, le qualità, le figure, e rimettiamocele con l’ordine, l’armonia, la proporzione ch’esse hanno nella realtà. Saremo condotti a spiegare quest’ordine, quest’armonia, con una provvidenza. Non c’è provvidenza senza intelletto, né intelletto senza pensiero. È dunque il pensiero di Dio che ha modellato, abbellito tutto ciò che forma i corpi. Le intellezioni di questo pensiero divino sono le idee. La materia è dunque il principio al quale l’analisi si ferma, ma le idee sono il principio al quale arriva la sintesi, quando risale dalla materia alla causa prima delle sue determinazioni. La materia, presa in se stessa, è senza qualità. È del resto per questo che essa è un principio. Per la stessa ragione, essendo semplice, essa è indissolubile ed esisterà sempre. Non si può nemmeno dire che essa sia corporea piuttosto che incorporea; essa non è che la possibilità di essere o non essere un corpo. Tra la materia e le idee, si trova il mondo delle cose. Queste cose hanno le loro forme proprie, e poiché queste forme nascono con i corpi, vengono chiamate species nativae, o, come diranno più tardi quelli della scuola di Chartres, formae nativae. Calcidio intende, con species esattamente la stessa cosa che forma, ma egli usa regolarmente il primo di questi due termini, mentre quelli della scuola di Chartres preferiranno generalmente il secondo. Risulta da questa distinzione che l’idea esiste sotto due aspetti: in sé, come forma prima, e nelle cose, come forma nata dall’idea eterna. Poi viene la materia che ha il suo essere dalla sua forma propria. A questi tre gradi dell’essere corrispondono tre gradi della conoscenza: comprensibile con l’intelletto, l’idea è oggetto di scienza; di natura sensibile, la forma nativa è oggetto di opinione; quanto alla materia, non essendo né intellegibile né sensibile, non può essere né conosciuta né percepita. Calcidio è condotto a rifiutare la definizione aristotelica dell’anima come forma del corpo. La vera natura dell’anima non è di essere una forma, ma una sostanza spirituale dotata di ragione. Tendenze analoghe vengono alla luce nell’opera di Mario Vittorino, soprannominato Afer. Nato nell’Africa proconsolare, egli andò ad insegnare retorica a Roma e vi condusse un’attività polemica anticristiana. Verso il 355 s’era convertito, conquistato al cristianesimo a forza di leggere le Scritture per combatterle. Abbiamo conservato i suoi commenti alla Lettera ai Galati, alla Lettera ai Filippinesi, e alla Lettera agli Efesini, come anche importanti trattati di teologia Sulla generazione del Verbo divino e Contro Ario. Dio è causa di ogni essere, egli è dunque anteriore all’essere come la causa lo è all’effetto. È vero che per essere causa bisogna essere, ma per essere causa dell’essere, bisogna essere prima dell’essere. Così Dio è un preessere , e a questo titolo egli è causa di tutto, di ciò che è come di ciò che non è. Tutto viene dunque da Dio così concepito, sia per generazione, sia per produzione. In un linguaggio oscuro, farcito di termini greci, Vittorino distingue, in seguito, ciò che è veramente, ciò che è, ciò che non è veramente non essere, e infine ciò che non è. Usando una terminologia che ricomparirà più tardi, egli chiama intellectibilia ciò che veramente è, e intellectualia ciò che è. Gli intellettibili sono le realtà sopracelesti: in primo luogo l’intelletto, l’anima, le virtù, il logos; in seguito e al di sopra, l’esistenzialità, la vitalità, l’ intelligenzialità , e al di sopra di tutto, l’essere soltanto e l’uno che è soltanto essere. Ciò che Vittorino oppone a Candido (ariano) è dunque il concetto di un Verbo eternamente generato dal Padre, cioè di un essere che scaturisce eternamente dal pre-essere che è il Padre, e che ne manifesta eternamente la nascosta profondità. Vittorino può sostenere contro Candido che il Verbo è Dio, è proprio perché il Verbo Gesù non è generato da un non-essere, in qualsiasi senso s’intenda questo termine, ma, al contrario, egli è, a titolo di Logos, la manifestazione dell’essere che, nascosta in Dio Padre, si rivela in Dio Figlio. Si può dire, in questo senso, che Dio non è soltanto causa delle altre cose, ma in primo luogo di se stesso. È impossibile comprendere che, come il Figlio è nel Padre, il Padre sia nel Figlio, ed essi non siano soltanto insieme, ma costituiscano un’unità. Ecco dove avviene la frattura tra cristianesimo e arianesimo. Questo platonismo non meriterebbe di trattenere tanto l’attenzione, se esso non costituisse il terreno stesso sul quale è sorta la dottrina di sant’Agostino. Dopo aver terminato i suoi studi a Tagaste, Agostino si recò a Madaura, poi a Cartagine per studiarvi lettere e retorica. Sua madre Monica gli aveva presto inculcato l’amore per Cristo, ma egli non era battezzato, conosceva malissimo la dottrina cristiana, e i disordini d’una giovinezza inquieta l’avevano portato a meglio istruirsi in essa. Nel 373 lesse un dialogo di Cicerone oggi perduto, l’Hortensius. Questa lettura l’infiammò di un vivo amore per la sapienza. In questo stesso anno gli accadde d’imbattersi in alcuni manichei che si vantavano di dare una spiegazione puramente razionale del mondo, e di condurre i loro discepoli alla fede per mezzo della sola ragione. Per qualche tempo Agostino credette di trovare qui la sapienza ch’egli bramava. Come manicheo, quindi, e come nemico del cristianesimo, egli ritornò a Tagaste ad insegnare lettere, e poi ritornò a Cartagine dove compose il suo primo trattato, oggi perduto, De pulchro et apto. Le spiegazioni razionali che si continuava a promettergli non erano ancora venute, ed egli si rendeva conto benissimo che non sarebbero venute mai. Uscì dunque dalla setta e andò a Roma, nel 383, per insegnarvi retorica. L’anno successivo, l’intervento del prefetto di Roma Simmaco gli permise di ottenere la cattedra municipale di Milano. Egli fece visita al vescovo della città, Ambrogio, di cui seguì le prediche che gli rivelarono l’esistenza del senso spirituale nascosto sotto il senso letterale delle Scritture. Da buon discepolo di Cicerone, egli professava, allora, un accademismo moderato, dubitando pressoché di tutto. In questo periodo lesse alcuni scritti neoplatonici, specialmente una parte delle Enneadi di Plotino nella traduzione di Mario Vittorino. Fu il suo primo incontro con la metafisica. Lesse, nelle Epistole di san Paolo, che l’uomo è in preda al peccato e che nessuno può liberarsene senza la grazia di Gesù Cristo. La verità totale che Agostino da lungo tempo cercava gli veniva finalmente offerta: egli l’abbracciò con gioia nel settembre del 386, all’età di 33 anni. I manichei gli avevano promesso di portarlo alla fede nelle Scritture con la conoscenza razionale: sant’Agostino si proporrà ormai di raggiungere, con la fede nelle Scritture, l’intelligenza di ciò che esse insegnano. Sicuramente un certo lavoro della ragione deve precedere l’assenso alle verità. C’è dunque un intervento della ragione che precede la fede, ma ce n’è un secondo che la segue. Bisogna accettare per fede le verità che Dio rivela, se si vuole in seguito acquisirne qualche intelligenza che sarà l’intelligenza del contenuto della fede accessibile quaggiù all’uomo. Un celebre testo del Sermone 43 riassume in una formula perfetta questa duplice attività della ragione: comprendi per credere, credi per comprendere. Sant’Anselmo esprimerà più tardi questa dottrina in una formula: la fede in cerca dell’intelligenza. È nelle prime opere che egli più si avvicina ad una pura speculazione filosofica. Risalgono all’epoca in cui egli non era che catecumeno il Contra Academicos, il De beata vita e il De ordine, i Soliloquia e il De immortalitate animae, infine il De musica. Tra la data del suo battesimo e quella della sua ordinazione sacerdotale, la storia della filosofia ricorderà soprattutto il De quantitate animae, il De Genesi contra Manichaeos, il De libero arbitrio, il De Magistro, il De vera religione, il De diversis quaestionibus. Il De utilitate credendi, indispensabile per lo studio del suo metodo; il De Genesi ad litteram, liber imperfectus, il De doctrina Christiana; le Confessioni, in cui sono presenti tutte le sue idee filosofiche; il De Trinitate; il De genesi ad litteram, fonte principale per lo studio della sua cosmologia; l’immenso De Civitate Dei. Infine una serie di opere essenzialmente religiose, ma ricche di suggestioni filosofiche d’ogni sorta: le Enarrationes in Psalmos, l’In Joannis Evangelium; il De anima et eius origine e le Ritrattazioni. Tutta la parte filosofica dell’opera di Agostino esprime lo sforzo di una fede cristiana che cerca di spingere il più innanzi possibile l’intelligenza del suo contenuto, con l’aiuto di una tecnica filosofica i cui elementi principali sono presi a prestito dal neoplatonismo, specialmente da Plotino. Tra questi elementi, la definizione dell’uomo giustificata dialetticalmente da Platone nell’Alcibiade, e poi ripresa da Plotino: l’uomo è un’anima che si serve d’un corpo. Quando parla semplicemente come cristiano, Agostino si preoccupa di ricordare che l’uomo è unità di anima e corpo; quando fa della filosofia, egli ricade nella definizione di Platone. Egli conserva questa definizione con le conseguenze logiche che essa comporta, la principale delle quali è la trascendenza gerarchica dell’anima sul corpo. Le sensazioni sono dunque azioni che l’anima compie, non passioni che essa subisce. Alcune delle sensazioni c’informano semplicemente sullo stato e sui bisogni del nostro corpo, altre sugli oggetti che lo circondano. Il carattere distintivo di questi oggetti è la loro instabilità. Questa mancanza di stabilità, che tradisce una vera mancanza di essere, li esclude da ogni conoscenza propriamente detta. Conoscere significa apprendere col pensiero un oggetto che non cambia, e che, per la sua stessa stabilità, può essere tenuto sotto lo sguardo dello spirito. Infatti, l’anima incontra in se stessa delle conoscenze che vertono su oggetti di questo tipo. È così ogni volta che apprendiamo una verità. Infatti una verità è tutt’altra cosa dalla constatazione empirica di un fatto: è la scoperta di una regola da parte del pensiero che vi si sottomette. Se io vedo che bisogna fare il bene ed evitare il male, apprendo delle verità non sensibili, puramente intellegibili, il cui carattere fondamentale è la loro necessità. Non possono essere altrimenti. Poiché sono necessarie, sono immutabili, eterne: questi tre attributi si riassumono dicendo che sono vere. La loro verità, in fin dei conti, dipende dal fatto che esse possiedono l’essere, perché soltanto ciò che veramente è è vero. È quanto si esprime dicendo che il male è una privazione. La natura decaduta è dunque cattiva in quanto viziata dal peccato, ma essa, in quanto natura, è un bene; precisamente, essa è quello stesso bene in cui il male esiste e senza il quale non potrebbe esistere. Questo principio permette di spiegare la presenza del male in un mondo creato da un Dio buono. Il male s’incontra soltanto negli atti delle creature razionali. Questi atti, poiché dipendono da un giudizio della ragione, sono liberi: le colpe morali derivano dunque da un cattivo uso che l’uomo fa del suo libero arbitrio. È lui ad esserne responsabile, non Dio. Essere felice è la meta finale di ogni essere umano; per esserlo, bisogna che egli stesso si volga verso il Bene sovrano, lo voglia e se ne impadronisca. Gli occorre essere libero. Invece di agire così, l’uomo si è distolto da Dio per godere di sé e delle cose stesso che gli sono inferiori. In ciò consiste il peccato che nulla rendeva necessario e di cui l’uomo stesso porta la responsabilità. Il peccato originale ha avuto come conseguenza la ribellione del corpo contro l’anima; di qui vengono la concupiscenza e l’ignoranza. L’anima fu creata da Di per reggere il corpo, ed ecco ch’ella, è al contrario, retta da lui. Ormai rivolta alla materia, l’anima si appaga del sensibile, e, dato che trae da se stessa le sensazioni e le immagini, si sfinisce a fornirla. Sfinita di questa perdita di sostanza, rivestita d’una crosta d’immagini sensibili, l’anima cessa presto di riconoscersi; ella arriva a non credere più che alla realtà della sola materia, e a credersi anche lei un corpo.. Questo, e non il corpo, è la tomba dell’anima, e tale è anche il male da cui deve liberarsi. Nello stato di decadenza in cui si trova, l’anima non può salvarsi con le sue forze. L’uomo ha potuto cadere con il suo libero arbitrio, ma il suo libero arbitrio non gli basta per risollevarsi. Incapacità di risollevarsi senza la Redenzione. La grazia è necessaria al libero arbitrio dell’uomo per lottare efficacemente contro gli assalti della concupiscenza sregolata dal peccato e per essere benemeriti davanti a Dio. Senza la grazia si può conoscere la Legge; con essa si può, inoltre, adempierla. Nasce dalla fede, ma la stessa fede è una grazia. Ella è un aiuto concesso da Dio al libero arbitrio dell’uomo; essa quindi non lo elimina, ma coopera con lui restituendogli l’efficacia per il bene di cui il peccato l’aveva privato. Due condizioni sono dunque richieste per fare il bene: un dono di Dio che è la grazia, e il libero arbitrio. Senza il libero arbitrio non ci sarebbe problema; senza la grazia il libero arbitrio non vorrebbe il bene, o se lo volesse, non potrebbe compierlo. La possibilità di fare il male è inseparabile da libero arbitrio, ma poter non farlo è un contrassegno della libertà, e trovarsi confermato nella grazia al punto di non poter più fare il male è il grado supremo della libertà. L’uomo che è più completamente dominato dalla grazia di Cristo è quindi anche il più libero. Questa libertà plenaria non è accessibile in questa vita, ma avvicinarlesi quaggiù è il mezzo per ottenerla dopo la morte. Distogliendoci da Dio verso i corpi l’abbiamo perduta; è distogliendoci dai corpi verso Dio che potremo riconquistarla. La caduta fu un movimento di cupidigia, il ritorno verso Dio è un movimento di carità. Espressa in termini di conoscenza, questa conversione a Dio consiste nello sforzo della ragione che lavora a volgersi dal sensibile verso l’intellegibile, cioè dalla scienza verso la sapienza. Si chiama ragione inferiore una ragione che si dedica allo studio delle cose sensibili; si chiama ragione superiore questa stessa ragione nel suo sforzo per liberarsi dall’individuale sensibile e per elevarsi progressivamente alla contemplazione intellettuale delle idee. Gli uomini che amano Dio sono uniti a lui dall’amore che gli portano, e sono anche uniti tra loro dall’amore comune ch’essi hanno per lui. Un popolo, una società, è l’insieme di uomini uniti nella ricerca e nell’amore di uno stesso bene. Vi sono dunque dei popoli temporali uniti nel tempo per la ricerca di beni temporali, il più alto dei quali, è la pace, la tranquillità che nasce dall’ordine. Uomini come i pagani, collaborano al loro ordine e ne approfittano, ma quali siano le loro città temporali, tutti i cristiani, di tutti i paesi, di tutte le lingue e di tutte le epoche, sono uniti dal loro comune amore dello stesso Dio e dalla comune ricerca della stessa beatitudine. Anch’essi, dunque, formano un popolo, i cui cittadini si reclutano in tutte le città terrestri, e la cui sede mistica può chiamarsi la Città di Dio . Ne sono membri tutti gli eletti, quelli che furono, che sono e che saranno. Adesso le due città sono mescolate una con l’altra, ma il giorno dell’ultimo giudizio esse saranno finalmente separate e costituite distintamente. La costruzione progressiva della città di Dio è dunque la grande opera, incominciata fin dalla creazione, proseguita poi incessantemente, che dà il suo significato alla storia universale. Il suo De Civitate Dei, ha come suo preciso oggetto l’esposizione a grandi linee di questa teologia della storia, per cui tutti gli avvenimenti importanti della storia universale sono altrettanti momenti della realizzazione del piano voluto e previsto da Dio. La nostra ragione non sa perché alcuni saranno salvati ed altri no, perché è un segreto di Dio, ma possiamo essere sicuri di una cosa, ed è che Dio non danna più nessun uomo senza un’equità pienamente giustificata. Per la sua ampiezza e profondità, l’opera filosofica di sant’Agostino superava di gran lunga tutte le precedenti espressioni del pensiero cristiano. Se ne troverà il segno ovunque. Ridotta alla sua formula più schematica, essa si presenta, secondo l’espressione giustissima di san Tommaso d’Aquino, come uno sforzo per seguire i platonici quanto più la fede cattolica lo consentiva . La dose di platonismo che il cristianesimo poteva sopportare gli ha permesso di darsi una tecnica propriamente filosofica, ma la resistenza opposta dal platonismo al cristianesimo ha costretto Agostino all’originalità. - Da Boezio a Gregorio Magno Boezio (Anicio Manlio Torquato Severino Boezio), nato a Roma verso il 470, studiò dapprima a Roma, poi ad Atene. Legato alla persona del re goto Teodorico, console, poi magister palatii, fu accusato di cospirazioni, vide confiscati i suoi beni e fu imprigionato. È durante una lunga detenzione ch’egli scrisse il De consolatione philosophiae, per cercare nella sapienza un rimedio all’avversità. Fu, infine, giustiziato a Pavia, e lo si considerò a lungo come un martire. Si discusse sulla inautenticità. Cassiodoro attribuisce a Boezio un librum de sancta Trinitate et capita quaedam dogmatica, e chiude la questione a favore dell’autenticità degli Opuscula. L’opera di Boezio è multiforme e non c’è un aspetto del suo pensiero che non abbia influenzato il Medioevo, ma in nessun campo la sua autorità fu più diffusa che sul terreno della logica. Gli si deve un primo commento sull’Introduzione (Isagoge) di Porfirio tradotta in latino da Mario Vittorino, e un secondo commento della stessa opera, da lui stesso ritradotta; una traduzione e due commenti del De interpretatione; le traduzioni dei Primi analitici, Secondi analitici, Argomenti sofistici e Topici di Aristotele; poi una serie di trattati di logica: Introductio ad categoricos syllogismos, De syllogismo categorico, De syllogismo hypothetico, De divisione, De differentiis topicis; infine un commento sui Topici di Cicerone. Si può dire che, con l’insieme di questi trattati, Boezio è diventato il professore di logica del Medioevo fino a quel momento in cui, l’Organon completo di Aristotele fu tradotto in latino e direttamente commentato. Da Alcuino fino verso la metà del XII secolo, si ritroverà successivamente il gruppo di scritti che più tardi si chiamerà la logica vetus. Nell’Heptateuchon di Teodorico di Chartres, vi occupa un posto Boezio. Verso la metà del XII secolo i Secondi analitici di Aristotele si aggiungeranno a questa lista, inaugurando il nuovo gruppo di opere conosciuto sotto il nome di logica nova. Il successo di Boezio non è effetto del caso. La sua prima intenzione era di tradurre tutti i trattati di Aristotele, tutti i dialoghi di Platone e di dimostrare con dei commenti il fondamentale accordo delle due dottrine. L’autore del De consolatione philosophiae ha lasciato una definizione della filosofia. La filosofia è l’amore della sapienza. La sapienza è questo pensiero vivente, causa di tutte le cose, che sussiste in se stessa e non ha bisogno che di sé per sussistere. Illuminando il pensiero dell’uomo, la sapienza lo rischiara e l’attira a sé con l’amore. La filosofia, o amore della sapienza, può quindi essere considerata indifferentemente come il conseguimento della sapienza, la ricerca di Dio o l’amore di Dio. La filosofia, presa come genere, si divide in due specie: teorica o speculativa, attiva o pratica. La filosofia speculativa si suddivide a sua volta in tante scienze quante sono le classi degli esseri da studiare. Tre tipi di esseri sono oggetto di conoscenza vera: gli intellettibili, gli intellegibili e i naturali. Con il termine intellettibili, Boezio intende gli esseri che esistono o dovrebbero esistere fuori dalla materia. Tali sono Dio e gli angeli, forse anche le anime separate dai loro corpi. Gli intellegibili, invece, sono degli esseri concepibili dal puro pensiero, ma caduti nei corpi. Tali sono le anime nel loro stato presente. La scienza dell’intellettibile è la teologia; Boezio non propone un nome per quella dell’intellegibile, ma forse non si tradirebbe il suo pensiero chiamandola psicologia. Restano i corpi naturali, la scienza dei quali è la fisiologia. L’insieme delle discipline che la compongono, Boezio li chiama Quadrivium: il gruppo di quattro scienze che copre lo studio della natura: aritmetica, geometria, astronomia e musica. Il senso che egli stesso dà a questo termine è quello di quadruplice via verso la sapienza . Queste scienze sono infatti le strade della sapienza. Come la filosofia teoretica si divide secondo gli oggetti che si devono conoscere, la filosofia pratica si divide secondo gli atti che si devono compiere. Essa comprende tre parti: quella che insegna a comportarsi da soli mediante l’acquisizione delle virtù, quella che consiste nel far regnare nello stato queste stesse virtù di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza; infine quella che presiede all’amministrazione della società domestica. A queste quattro parti della filosofia s’aggiungono altre tre discipline, il cui insieme forma il Trivium: la grammatica, la retorica e la logica. Esse si propongono più il modo di esprimere la conoscenza che l’acquisizione della conoscenza stessa. Una difficoltà, tuttavia, sorge a proposito della logica. Essa è un’arte piuttosto che una scienza e, di conseguenza, Boezio si chiede se si debba considerarla come una parte della filosofia o come uno strumento al servizio della filosofia. Come arte di discernere il falso e il verosimile dal vero, essa ha un suo proprio oggetto e quindi può entrare, come parte, nella filosofia; ma poiché il saperlo fare è utile a tutte le altre parti della filosofia, tutte se ne servono come strumento. La logica di Boezio è un commento di quella di Aristotele, in cui spesso traspare il desiderio di interpretarla secondo la filosofia di Platone. Egli ha proposto due soluzioni. Ne suoi due commenti all’Introduzione delle Categorie di Aristotele, prevale, naturalmente, la risposta di Aristotele. Boezio dimostra dapprima l’impossibilità che le idee generali siano delle sostanze. Prendiamo, come esempio, l’idea del genere animale e quella della specie uomo. I generi e le specie sono, per definizione, comuni a dei gruppi di individui; ora, ciò che è comune a parecchi individui non può essere esso stesso un individuo. Tanto più è impossibile che il genere, per esempio, appartenga interamente alla specie ( un uomo possieda interamente l’animalità), il che sarebbe impossibile se, essendo un essere, il genere dovesse dividersi tra le sue diverse partecipazioni. Ma supponiamo al contrario che i generi e le specie rappresentati dalle nostre idee generali (universali) non siano che semplici nozioni della mente: in questa seconda ipotesi, il nostro pensiero, pensandole, non pensa nulla. Ma un pensiero senza oggetto non è che un pensiero di niente; non è nemmeno un pensiero. Se ogni pensiero degno di questo nome ha un oggetto, bisogna che gli universali siano dei pensieri di qualcosa, sicché il problema della loro natura ricomincia subito a porsi. Di fronte a questo dilemma, Boezio aderisce ad una soluzione che prende a prestito da Alessandro d’Afrodisia. I sensi ci danno le cose in stato di confusione; il nostro spirito (animus), che gode del potere di separare e di ricomporre questi dati, può distinguere nei corpi, per considerarle a parte, delle proprietà che non si trovano che in stato di mescolanza. I generi e le specie sono tra questi. O lo spirito li scopre in esseri incorporei, oppure li trova in esseri corporei. È quello che noi facciamo traendo dagli individui concreti dati nell’esperienza le nozioni astratte di uomo e animale. Nulla è più legittimo del pensare la linea separatamente dalla superficie, benché si sappia che non esistono altri corpi che i solidi. L’errore sarebbe di pensare come congiunte delle cose che non lo sono in realtà. Nulla impedisce quindi di pensare a parte i generi e le specie, benché essi non esistano a parte. E tale è la soluzione del problema degli universali: essi sussistono in unione con le cose sensibili, ma li si conosce separatamente dai corpi. Tutta la teoria aristotelica dell’intelletto agente manca nel testo di Boezio. Egli ci dice semplicemente che lo spirito preleva l’intellegibile dal sensibile, ut solet, senza ragguagliarci in alcun modo sulla natura e la condizione di questa misteriosa operazione. Infine, poiché sussistono circa sensibilia, questi universali devono essere qualcosa. Nel V libro dei De consolatione, si trova una dottrina differente. Un essere qualunque, l’uomo ad esempio, è conosciuto in diversi modi, con i sensi, l’immaginazione, la ragione e l’intelligenza. Il senso non vi vede che una figura in una L’influenza di Boezio è stata molteplice e profonda. I suoi trattati scientifici hanno alimentato l’insegnamento del Quadrivium; le sue opere di logica hanno tenuto il luogo di quelle di Aristotele per parecchi secoli; i suoi Opuscoli hanno dato l’esempio d’una teologia che si costituirebbe come scienza; quanto al De consolatione philisophiae, lo si ritroverà presente e operante in tutte le epoche. Cassiodoro contende a Boezio, il titolo onorifico di ultimo dei romani . Dopo una brillante carriera politica egli fondò in Calabria il monastero di Vivarium e vi si ritirò per terminarvi i suoi giorni. È la che egli scrisse, oltre al suo De anima, le Institutiones divinarum et secularium litterarum. Il De anima di Cassiodoro è un opuscolo che si può dire rientra in un genere letterario determinato. Ci sono dei De anima come ci saranno dei De intellectu. Quello di Cassiodoro s’è ispirato ai trattati di Agostino sullo stesso soggetto. Abbiamo constatato parecchie volte come, all’origine, il pensiero cristiano provasse scarsa ripugnanza nei riguardi del materialismo stoico. Vediamo scomparire questa tendenza ovunque il neoplatonismo di Agostino esercita la sua influenza. Così Claudiano aveva ammesso che, come ogni essere creato, l’anima deve rientrare sotto una o più categorie, la sostanza e la qualità, per esempio, ma l’aveva esclusa dalla categoria di quantità. Cassiodoro afferma la spiritualità dell’anima. Sostanza finita, poiché è mutevole e creata, essa è interamente presente all’interno del corpo, ma immateriale perché capace di conoscere, e immortalare perché spirituale e semplice. Quanto alle Institutiones, esso costituisce da solo una specie di enciclopedia delle arti liberali, o piuttosto di ciò che è necessario e sufficiente che ne sappia un monaco per studiare con profitto le Scritture e, a sua volta, insegnarrle. Martino di Bracara era un moralista, amava Seneca, e si è ispirato a lui quando non l’ha semplicemente copiato, nel suo Senecae de copia verborum, come nei suoi trattati De Ira e De paupertate. La loro importanza riguarda la dignità della vita morale e al valore assoluto della virtù. Gregorio I, soprannominato Gregorio Magno per il suo genio d’organizzatore. Il clamoroso successo dei suoi scritti è dovuto al loro perfetto adattamento ai bisogni della chiesa. Egli scrisse un Liber regulae pastoralis sui doveri d’un pastore cristiano. Scrive i Dialoghi e i due libri di Moralia in Job, che sono un commento allegorico alle Scritture dove dominano le preoccupazioni morali. Il suo vero pensiero, che si esprime nel suo commento al I libro dei Re, è che non bisogna studiare le arti liberali che per comprendere le Scritture, ma che il loro studio per questo fine è indispensabile. Dio stesso ci offre queste conoscenze come una pianura da attraversare prima di inerpicarsi sulle vette delle lettere sante. Non dobbiamo considerare Gregorio un oscurantista, ma, per dir tutto, riconosciamo che egli manca di entusiasmo. La Prefazione dei suoi Moralia in Job pone già il problema di sapere quale sia la regola dell’uso del latino per un cristiano, la grammatica degli scrittori ecclesiastici o quella che impone il testo latino della Bibbia. E Gregorio opta risolutamente per il secondo partito. Ciò che per un maestro di grammatica latina è un solecismo o un barbarismo non deve sgomentare un cristiano che commenta le Scritture, perché lo stesso testo sacro autorizza queste formule aberranti. Poiché la nostra esposizione prende origine dalla Scrittura conviene che questo figlio assomigli alla madre . Così un latino cristiano tendeva naturalmente a succedere al latino classico. - Chiesa e società Il progresso del cristianesimo e lo sviluppo della teologia cristiana in occidente hanno provocato, nel pensiero degli scrittori cristiani, dottrine completamente elaborate relative alla natura di questa nuova società che era la chiesa cattolica, ai suoi rapporti con i gruppi etnici e i diversi stati. Come la teologia cristiana ha influenzato il pensiero metafisico, la chiesa cristiana ha influenzato la filosofia politica, ma è l’Antico Testamento che ha lasciato il segno più profondo sulla metafisica, mentre la filosofia politica ha subito principalmente l’influenza del Vangelo e delle Epistole di san Paolo. Il cristianesimo è sorto nel popolo ebraico, in un periodo in cui questo faceva parte dell’impero romano. Quello che noi chiamiamo il popolo ebraico era un organismo più complesso di quanto si potrebbe essere tentati di credere. A prima vista, la sua unità sembra essere esclusivamente quella di una razza. Infatti è ben così, al punto che quando Jahvè annuncia ad Abramo la futura grandezza del popolo di Israele, gli promette semplicemente che discenderà da lui una innumerevole prosperità. Promesso spesso ripetuta dal Signore ai capi d’un popolo eletto. Insieme al legame di sangue, un altro legame assicura l’unità dei figli di Israele: è la circoncisione. Questo segno da ci si riconosce la razza eletta può sostituirsi al legame di sangue e dispensarne. In questo senso, il popolo ebraico era un popolo, e non una semplice razza. Come si è costituita questa società? Essa è il risultato di un patto, di cui il Signore ha liberamente preso l’iniziativa, e che niente, infatti, gli impediva di suggellare. Padrone assoluto, perché non si sceglierebbe un popolo a preferenza di alti, e perché non scegliere quello che gli piace, per la sola ragione che ciò gli piace? (..) sarete il mio popolo particolare tra tutti gli altri popoli, perché tutta la terra mi appartiene, ma voi, voi sarete per me un reame di sacerdoti e una nazione santa. Esodo. Il solo nome che s’adatta a una simile società è quello di teocrazia. Questo popolo ch’egli s’è scelto, il Signore lo governa proprio come un re i suoi sudditi. La storia dell’antica Israele, fino al tempo dei Profeti, fu quella di un popolo adottato da Dio, da lui benedetto finché si mostrava fedele, maledetto da lui dal momento in cui si fosse mostrato infedele. Forte di questa promessa, Israele è dunque partita alla conquista degli altri popoli, assai più preoccupata di asservirseli, o anche di distruggerli, che di farli entrare con lei in una comunità religiosa sempre più ampia dove potessero prendere posto tutti gli adoratori del vero Dio. La difficoltà per gli Ebrei consisteva nel concepire una società religiosa in cui il solo legame sarebbe stato la comune adorazione del vero Dio, e di cui, di conseguenza, sarebbero stati chiamati a far parte tutti gli adoratori di Jahvè, a qualunque nazione essi potessero appartenere. Ciò che invece caratterizza il pensiero religioso del popolo ebraico, finché fu fedele al culto di Jahvè, è la sua irriducibile opposizione ad ogni sincretismo. Il vero Dio non s’accorda con gli altri, non cerca nemmeno di assorbirli, nega semplicemente la loro esistenza e li elimina. Via via che egli veniva più chiaramente concepito, non soltanto come il più potente tra gli dei, ma come il solo vero Dio perché egli è l’unico creatore del cielo e della terra, Jahvè doveva necessariamente rifiutare di lasciar rinchiudere il suo culto nei limiti d’una sola nazione. Creatore e padre di tutti gli uomini, e non unicamente degli Ebrei, Jahvè si trovava ad essere di pieno diritto Dio di tutti gli uomini , e non soltanto il Dio degli Ebrei. Il dramma che s’è svolto nella coscienza dei Profeti d’Israele è sorto tutto da qui. Si trattava per loro di capire, e anche di confessare pubblicamente, che in virtù della sua stessa natura il Dio da cui Israele aveva ricevuto la rivelazione esclusiva non era e non poteva più rimanere esclusivamente il Dio degli Ebrei. Senza dubbio Israele non perde di vista, ancora, la sua missione di popolo eletto: è in lui e attraverso di lui che si opererà la salvezza del mondo ma, da questo momento, spera che si realizzi in lui la salvezza del mondo. Da questo momento è chiaro che la salvezza voluta da Jahvè non è più quella di una nazione contro le altre, ma quella di tutte le nazioni . Questo è, in particolare, il significato della storia del profeta Giona, e diverse testimonianze prese dai Salmi si avvalorano questa interpretazione. Il fatto è riconosciuto da tutti gli interpreti dell’Antico Testamento; il problema è piuttosto di sapere perché l’ideale universalistico, così chiaramente formulato dai Profeti, non abbia immediatamente eliminato e rimpiazzato il nazionalismo religioso dell’antica Israele. Perché è un fatto che, anche presso i suoi rappresentanti più convinti, l’aspirazione verso una società religiosa universale non ha escluso la convinzione che questa società dovesse formarsi attorno al popolo ebraico. C’erano per questo delle profonde e valide ragioni. A questo popolo s’era dapprima rivelato Jahvè, in mezzo a lui egli aveva stabilito la sua dimora, a lui aveva rivelato la sua legge. Più ancora, non era forse in Israele che egli aveva compiuto le meraviglie della sua potenza, moltiplicando i miracoli e confuso tutte le altre nazioni allo stesso tempo che i loro falsi dei? Niente di più naturale, di conseguenza, che concepire Gerusalemme come il centro del culto futuro e di vedervi tutte le nazioni radunate, attorno all’altare di Jahvè, per formare, con i resti di Israele, la società degli adoratori del vero Dio. Nessun profeta ha meglio espresso il duplice carattere di questa società di quanto l’abbia fatto Isaia. Come egli la concepisce, è già una società che si prevede universale, il cui legame comune è la natura essenzialmente religiosa. Prima di me dice Jahvè nessun Dio è stato creato, e dopo di me non ve ne sarà alcuno . Poiché egli è il solo Dio, Jahvè è anche il solo salvatore. Questo è il fatto religioso di cui il popolo ebraico, con la sua storia e la sua esistenza stessa, è il testimone vivente. Per questa stessa ragione tutti i popoli e tutti i sovrani che collaborano all’opera di salvare Israele si trovano nello stesso tempo associati all’opera di Dio come strumenti della volontà divina. Fin dall’apparire della enigmatica figura del Servo di Jahvè , la missione propria di Israele diventa chiaramente quella di estendere all’intero universo la salvezza che Dio le ha promesso. Il Servo di Jahvè parla incessantemente della salvezza di Israele, ma l’immagine sotto la quale egli se la rappresenta è quella d’una Gerusalemme ricostruita, le cui mura riparano e proteggono un popolo libero. I figli di Israele sono allora senza numero e Jahvè sottomette a questo immenso popolo la folla dei suoi nemici. In breve, anche nel secondo ciclo di Isaia, l’universalismo del profeta resta essenzialmente un giudaismo. Allargandosi in un imperialismo religioso, il nazionalismo religioso del popolo ebraico si esasperava, assai più che non cambiasse natura. Su invito dei suoi Profeti, Israele intraprende la conquista temporale del mondo sotto la protezione del solo Dio, l’onnipotente Jahvè. Così concepito, l’ideale ebraico d’una società universale nascondeva, allo stesso tempo, una opposizione interna e il germe della verità superiore che più tardi avrebbe permesso di sciogliere questa contraddizione. Da una parte, il popolo di Israele si mostrava incapace di separare l’idea d’una società universale da quella di una razza, o almeno di un popolo, il cui trionfo finale doveva infine assicurare l’ordine e la pace nel mondo intero. C’era conflitto tra l’universalismo del fine cui si tendeva, e il particolarismo dei mezzi impiegati per conseguirlo, perché nel testo biblico si parla sempre dell’invasione del mondo intero al popolo di Dio. La pace in questione resta legata al trionfo temporale di una città sulle altre città, come se l’unificazione del mondo potesse essere l’opera di una sola delle sue parti. Per questo il messaggio d’Israele non poteva farsi capire dal mondo se non degiudaizzandosi e mettendo al servizio della società universale che annunciava un mezzo tanto universale quanto il suo fine. La storia che qui tentiamo di abbozzare, e che è oggi di una tragica attualità, ha il suo inizio nella rivelazione recata al mondo dal popolo ebraico che non deve esserci che una sola società perché non c’è che un solo Dio . Dal fatto che non esista che una sola società perché non c’è che un solo Dio, non deriva che non debba esserci che un solo popolo. Israele ha confuso la missione di cui era incaricato, come popolo di sacerdoti, di preparare il regno di Dio per Dio, con quella di cui più tardi si credette investito, di divenire egli stesso, attraverso Dio, il regno di Dio. Tutta la tragicità della storia d’Israele nel mondo trova in questo punto la sua ultima spiegazione e, se si può dire, la sua completa spiegazione teorica. Israele non ha mai dimenticato, e non è forse in suo potere dimenticare, che da lui deve nascere una società veramente universale: quella degli adoratori del Dio di Israele, Dio unico e vero; definitivamente ingrandito, senza entrare in conflitto con i popoli che la circondano o quelli tra i quali risiede. Il popolo ebraico avrebbe potuto universalizzarsi come popolo se fosse rimasto, com’era all’origine, un popolo di sacerdoti, il cui universalismo fosse quello di sacerdoti incaricati di universalizzare il culto del vero Dio. Continua libro. - La cultura patristica latina La patristica latina differisce sensibilmente dalla patristica greca e la loro differenza è espressione di quella delle due culture da cui esse derivano. Nella letteratura latina, la metafisica non è mai stata altro che un argomento d’importazione; ma Roma ha prodotto moralisti notevoli, tra i quali bisogna contare i suoi oratori e i suoi storici. L’importanza di questo fatto è considerevole per chi vuole comprendere le origini della cultura europea dell’alto Medioevo, poiché essa ha origine dalla letteratura latina. Certamente questa s’era ampiamente dischiusa alle influenze greche, da cui aveva tratto grande profitto. La più chiara espressione dell’ideale che domina questa cultura su trova nelle opere di Cicerone. L’uomo, per lui, si distingue dagli animali soltanto col linguaggio: è un animale parlante. Per questo l’eloquenza è, ai suoi occhi, l’arte suprema, e non soltanto un’arte, ma una virtù. Come egli stesso tempo esse abbiano insegnato, con gli elementi della religione, niente altro che la lettura, la scrittura e indubbiamente qualche rudimento del latino di chiesa. Proprio per rimediare a questo stato di cose il capitolare del 789 ordinò di aprire in ogni vescovado e in ogni monastero delle scuole dove venissero accolti scolari di condizione sia libera che servile, e dove s’insegnasse loro il salterio, il solfeggio, il computo ecclesiastico e la grammatica. Lo spirito della riforma era più importante del programma. Per essere graditi a Dio non si voleva più soltanto vivere bene, ma anche parlare bene. Era naturale cercare in primo luogo in Italia dei rappresentanti della cultura latina. Carlomagno ne trovò tre, ai quali si aggiunse due spagnoli: Paolo Diacono, Pietro di Pisa, Paolino di Aquileia. Si dice che tra Paolino e Alcuino si stabilisse una durevole amicizia. Si può dire, di questi diversi personaggi, che essi rappresentano il fior fiore dei letterati riuniti o accolti da Carlomagno. La personalità di Alcuino si stacca da questo gruppo con una straordinaria nettezza. Egli non è forse superiore a loro, è diverso. Alcuino è un missionario e un apostolo. È precisamente un missionario della cultura latina cristiana di York e di Jarrow nella Francia carolingia dove questa stessa cultura è andata perduto. Esegeta e teologo di secondo ordine, poeta mediocre, egli non ci ha lasciato che contributi assai modesti allo studio delle arti liberali: una Grammatica, un De orthographia, una De dialectica e un Dialogus de rhetorica et virtutibus. Quanto all’unico scritto veramente filosofico di Alcuino, abbiamo il suo trattato De animae ratione. Alcuino riproduce come ovvia la dottrina agostiniana e platonica della sensazione: i sensi sono i messaggeri che informano l’anima di ciò che accade al corpo, ma è l’anima che forgia, essa stessa in se stessa, le sensazioni e le immagini. l’uomo è un’anima che si serve di un corpo. La vera grandezza di Alcuino dipende dalla sua personalità e dalla sua opera civilizzatrice, piuttosto che dai suoi libri. L’ostacolo principale alla sua opera di missionario era la mancanza di libri. La sola ambizione di Alcuino è benissimo espressa in una delle lettere a Carlomagno: edificare in Francia una nuova Atene o piuttosto un’Atene molto superiore all’antica, perché nobilitata dall’insegnamento di Cristo nostro Signore essa supera la sapienza dell’Accademia. Ciò che Alcuino si proponeva di fare l’ha fatto veramente, perché egli ha posto le fondamente della futura Università di Parigi. Fin dalla fine del IX secolo, si vede comparire, nella Cronaca di San Gallo del monaco germanico Notkero Labeone, una frase la cui eco doveva risuonare attraverso i secoli: L’insegnamento di Alcuino fu così fecondo che i Galli moderni, o Francesi, divennero pari agli antichi di Roma e di Atene . Partendo da Alcuino e fin verso la fine del XII secolo si vede, propagarsi di scuola in scuola una cultura letteraria a base scritturale e patristica, di cui la grammatica del basso impero romano costituiva il fondamento. Compatriota, discepolo di Alcuino e suo successore come abate di Saint-Martin de Tours, Fredegiso fu uno spirito di tono più speculativo e avventuroso. Gli si deve una Epistola de nihilo et tenebris, nella quale egli sostiene che il nulla e le tenebre sono qualcosa e non soltanto l’assenza di qualcosa. Il principio della sua argomentazione è che ogni nome di senso determinato significa qualcosa: dunque nulla si riferisce a qualcosa. D’altronde, là dove non c’è niente, non si può significare niente. Sarebbe assurdo dire: nihil significa il nulla. Ed è precisamente questo che Fredegiso nega. Il nihil a cui egli pensa è quello da cui Dio ha creato il mondo (ex nihilo), cioè una specie di materia comune e indifferenziata, da cui egli avrebbe formato tutto il resto. Aggiungiamo a tutto questo che il Liber contra objectiones Fredegisi abbatis , scritto da Agobardo, vescovo di Lione, contro un trattato di Fredegiso oggi perduto, gli attribuisce la dottrina della preesistenza delle anime. Agorbardo stesso sostiene, al contrario, che l’anima è creata contemporaneamente al corpo. Mentre perdurava in Francia, l’influenza civilizzatrice di Alcuino si estendeva alla Germania attraverso il suo scolare Rabano Mauro. Nato a Magonza verso il 784, egli fu mandato a Tours per perfezionarvisi sotto Alcuino, ritornò a Fulda, fu eletto abate, e nell’842 si dimise da questo ufficio, divenne vescovo di Magonza e morì nell’856. L’influenza di Rabano Mauro sullo sviluppo della cultura germanica fu immensa. Nel suo paese egli ha avuto la qualifica di praeceptor Germaniae, e lo merita, ma il precettore del precettore della Germania resta Alcuino. Rabano Mauro ha scritto una Grammatica, e un opuscolo De anima. Cousin e Hauréau gli attribuiscono, inolte, delle glosse all’Isagoge di Porfirio e al De interpretatione di Aristotele. Il De clericorum institutione è una specie di trattato degi studi ecclesiastici ad uso dei chierici tedeschi del IX secolo. Il programma proposto segue, naturalmente, l’ordine delle arti liberali quali già un tempo s’insegnavano nelle scuole romane. A questo piano di studi, Rabano ha aggiunto un’ampia enciclopedia, chiamata comunemente De universo. Tutti gli esseri conosciuti dall’autore vi sono ridotto agli insegnamenti morali e religiose che se ne possono trarre. Praticamente, le loro nature non sono nulla più di ciò che essi significano, e per sapere ciò ch’essi significano, basta conoscere l’etimologia dei loro nomi. All’influenza di Rabano Mauro si ricollega il breve trattato del monaco tedesco Bruun, detto Candido di Fulda, che è intitolato Dicta Candidi. Sono una serie di paragrafi che vertono principalmente sul tema agostiniano dell’immagine della Trinità nell’anima e sulle condizioni d’applicabilità delle categorie a Dio, secondo l’apocrifo agostiniano Categoriae decem. L’ultimo paragrafo espone la prima prova dell’esistenza di Dio sviluppata dialetticalmente che s’incontri nel Medioevo. L’universo si distingue in tre generi: ciò che esiste, ciò che vive, ciò che è intelligente. Questi tre generi sono ordinati gerarchicamente dal meno potente al più potente, poiché ciò che conosce intellettualmente deve, prima vivere ed esistere, ma non l’inverso. Essi sono anche, dunque, ordinati gerarchicamente dal meno perfetto al più perfetto. Allora, l’uomo che è al sommo di questa gerarchia col suo intelletto, si chiede se è onnipotente. Non lo è, perché non può fare tutto ciò che vuole. L’uomo deve ammettere, dunque, al di sopra di è una potenza onnipotente, che contemporaneamente domina ciò che esiste, ciò che vive e ciò che conosce. Questa onnipotenza è Dio. Qui si trovano schemi di origine agostiniana, vuotati della loro sostanza metafisica. Pascasio Radberto, abate di Corbie è soprattutto un teologo ed un biografo. Ratrammo di Corbie, autore di un De corpore et sanguine Domine, in cui si discute l’opinione del suo confratello Pascasio, di un Contra graecorum opposita, e di un De praedestinatione; è anche autore di un De quantitate animae e di un De anima, che mostrano quanto il problema della natura dell’anima abbia preoccupato gli spiriti del IX secolo. In realtà, il grande scontro dottrinale dell’epoca è la discussione del problema della predestinazione che allora mise alle prese Gotescalco, Ratrarmno di Corbie e Giovanni Scoto Eriugena. - Giovanni Scoto Eriugena Nato in Irlanda verso l’810, egli giunse in Francia tra l’840 e l’847. Si è supposto ch’egli avesse imparato il greco in Irlanda. Professore della Scuola Palatina, Giovanni Scoto Eriugena visse alla corte colta e brillante di Carlo il Calvo. La stima stessa di cui godeva doveva, d’altronde, coinvolgerlo in gravi difficoltà. Due vescovi, Pardulo di Laon e Incmaro di Reims, l’invitarono a contestare gli errori di Gotescalco, il quale sosteneva che c’è una predestinazione divina all’eterna perdizione, così come ce n’è una per la salvezza. Egli scrisse allora il De praedestinatione per stabilire che non siamo predestinati da Dio al peccato; ma, avendo egli introdotto nelle sue opere alcune delle tesi più ardite che, più tardi, si vide attaccato dagli stessi che gli avevano chiesto di scrivere e la sua dottrina fu infine condannata dai concili di Valenza e di Langres, nell’855 e nell’859. Molto più importante per l’avvenire del suo pensiero e della filosofia medievale è la sua nuova traduzione, dal greco in latino, del Corpus areopagiticum. Giovanni Scoto non era convinto che Dionigi l’Areopagita fosse il fondatore di questo monastero, ma non dubitava affatto ch’egli avesse scritto le opere che gli si attribuivano. Egli aggiunse a questa traduzione quella degli Ambigua di Massimo il Confessore e del De hominis opificio di Gregorio di Nissa. Scrisse il De divisione naturae, che è la sua opera principale, poi un importantissimo commento sul De coelesti ierarchia di Dionigi. La dottrina di Eriugena ha avuto le interpretazioni più disparate. Gorres, ad esempio, accusa Eriugena di aver confuso religione e filosofia. Hauréau lo considera un pensatore molto libero attribuendogli in tal modo il massimo elogio che avesse a sua disposizione. Infatti il significato della dottrina di Eriugena consiste nella sua concezione dei rapporti di fede e ragione. Per comprenderlo, è essenziale distinguere le posizioni successive dell’uomo rispetto alla Verità. Non c’è una risposta unica al problema della conoscenza, ma un seguito di risposte, ciascuna delle quali vale per una di quelle posizioni, e soltanto per quella. Presa in se stessa, la natura umana prova un desiderio innato di conoscere la verità. Fra il peccato originale e la venuta di Cristo, la ragione è oscurata dalle conseguenze dell’errore, e non essendo ancora rischiarata da quella rivelazione completa che sarà il Vangelo, essa non può che costruire laboriosamente una fisica, per comprendere almeno la Natura e stabilire l’esistenza del Creatore che ne è la causa. Da questo momento la ragione entra in una seconda posizione. Essa non è più sola, e poiché la verità rivelata le viene da una fonte la cui certezza è assoluta, la saggezza per lei consiste nell’accettare questa verità quale Dio gliela rivela. La fede deve dunque ormai precedere l’esercizio della ragione, ma questo non significa che la ragione debba scomparire; al contrario, Dio vuole che la fede determini in noi un duplice sforzo per farla passare nei nostri atti con la vita attiva e per esplorarla razionalmente con la vita contemplativa. Una terza posizione sostituirà più tardi la seconda. Quando vedremo la Verità stessa, la fede sparirà di fronte alla visione. Ma il fatto che attualmente s’impone a tutto il pensiero umano è che la nostra ragione è una ragione istruita dalla rivelazione. Non rimane dunque che trarre dal fatto gli ammaestramenti che esso comporta. In primo luogo, poiché Dio ha parlato, per la ragione di un cristiano è impossibile non tenerne conto. La fede è ormai, per lui, la condizione dell’intelligenza. È per lei che passa per prima, e, secondo il modo che le è proprio, raggiunge l’oggetto dell’intelligenza prima dell’intelligenza stessa. La fede passi avanti, e poiché la rivelazione divina s’esprime nella Scrittura, facciamo precedere lo sforzo della nostra ragione da un atto per il quale accettiamo come verità ciò che la Scrittura insegna. Per capire la verità, bisogna in primo luogo crederla. Questo preteso razionalista fonda interamente la sua filosofia su di una base scritturale, nel che, del resto, non fa che seguire l’esempio dei suoi maestri preferiti: Agostino e Dionigi. In primo luogo, se la fede è veramente un punto di partenza, è sì perché è da lei che si parte, ma anche perché, veramente, se ne parte. È Dio stesso che ordina di andare più lontano. Ben lo aveva capito la Samaritana del Vangelo. Ella rappresenta la natura umana in cerca del vero con la sola ragione che incontra Cristo sulla sua strada. Ora, fatto notevole, è Gesù che le chiede da bere, come se la fede domandasse alla ragione di abbeverarla. La fede è un principio che tende a svilupparsi in una conoscenza più perfetta. In principio, l’interpretazione letterale della Scrittura condurrebbe facilmente ad errori grossolani, se la ragione non intervenisse per svelare il senso spirituale che si nasconde sotto la lettera. L’interpretazione dei simboli scritturali pretende dunque uno sforzo da parte della ragione naturale per determinarne il senso. In seguito, come si vedrà, la fede non può raggiungere il fine verso cui ci avvia che conducendoci per le vie della speculazione filosofica. Diciamo piuttosto che è nella sua natura il suscitare, negli spiriti disposti a speculazioni di questo genere, una speculazione razionale di un tipo distinto. È per questo che Scoto Eriugena giunge a considerare filosofia e religione come termini equivalenti. Per rendersi conto esattamente dell’atteggiamento spirituale di Eriugena bisogna concepire la sua opera come una esegesi filosofica della sacra Scrittura. Il premio che egli attende per le sue fatiche è la pura e perfetta intelligenza della Bibbia; come Origene, egli non conosce e non desidera nessuna altra gioia. È il fine della sua felicità. Cercare Dio nelle parole che egli ci ha lasciato, e trovarvelo. Finché l’intelletto umano, a causa del suo corpo, è separato da Dio non può, quindi, che cercarlo, trovarlo per cercarlo ancora più in alto e passare di grado in grado superandosi. In questo senso conviene interpretare i celebri testi di Eriugena sul primato della ragione. Davanti all’autorità della Scrittura, la ragione non ha che da inchinarsi: Dio parla, noi accettiamo per fede ciò che egli dice, e la sua parola è indiscutibile. L’autorità alla quale Eriugena si ribella non è quella di Dio, è quella degli uomini, cioè l’interpretazione della parola di Dio, che è infallibile, con ragioni umane, che non lo sono. L’origine di questa autorità umana è la ragione. Ciò che Dio Questa idea delle idee comporta una notevole difficoltà. Se gli archetipi delle cose sono delle creature, necessariamente essi sono finiti; ma, se sono finiti, come possono identificarsi col Verbo? In primo luogo Eriugena insegna che le idee sono lo stesso Verbo; ora egli è increato, dunque anch’esse lo sono. Poi egli paragona la produzione delle idee nel Verbo alla generazione del Verbo da parte del Padre; non dovrebbe quindi esserci questione di creazione né in un caso né nell’altro; o, se si vuol arrivare fino a dire che il Verbo stesso è creato, ciò che ha di paradossale la formula, quando s’applica al Verbo, mostra a sufficienza che anche nel caso delle idee non può trattarsi di una vera creazione. In quanto sussistono nel Verbo, le idee sono identiche a lui, ma bisogna che il Padre le produca perché esse sussistano nel Verbo. È vero che Scoto Eriugena paragona la produzione delle idee nel Verbo alla generazione del Verbo da parte del Padre, ma egli conserva due differenze fondamentali: per prima cosa egli pone le idee post Deum, il che non fa del Verbo; per di più egli precisa che l’anteriorità del Verbo alle idee è reale. Il Verbo è Dio come il Padre, le idee non sono che la partecipazione di Dio. Rimane il testo in cui Scoto Eriugena rifiuta alle idee il nome di creature, ma è perché egli definisce le creature: ciò che ha inizio nel tempo, e non perché egli rifiuti loro una causa nell’ordine dell’essere. Eriugena è su questo punto formale al massimo: le idee eterne rientrano nell’ordine di ciò che viene dopo Dio, perché Dio ne è la causa. Posto questo, poco importa che si dia a loro o no il nome di creature; con qualunque nome le si chiami, dato ch’esse sono degli esseri inferiori a Dio, non si vede come potrebbero essere Dio. Il Dio di Eriugena è come un principio che, sapendosi incomprensibile, dispiegherebbe tutta in un colpo la totalità delle sue conseguenze per rivelarsi in esse. Un simile Dio non agisce mai fuori di sé che per manifestarsi . Questo atto di automanifestazione divina, che occupa un posto importante nella dottrina di Eriugena, è ciò che egli chiama, rifacendosi a Gregorio di Nanziano e a Massimo Il Confessore, una teofania . Le teofania si definiscono: apparizioni di Dio coniprensibili per gli esseri intelligenti. In qualunque grado la si consideri, la produzione degli esseri da parte di Dio non è che una teofania. Per Dio, creare è rivelarsi. Dal che risulta che, come la creazione è rivelazione, la rivelazione è creazione. Per questo Eriugena arriva fino a dire che Dio crea se stesso creando gli esseri. Le idee divine, considerate sotto questo aspetto, sono la prima autocreazione di Dio. In esse la natura divina compare contemporaneamente creatrice e creata. È creata da se stessa in queste cause primordiali; essa stessa vi si crea, cioè essa incomincia ad apparirvi nelle sue teofanie, volendo emergere, per così dire, dal segreto più nascosto della sua natura. Eriugena si rappresenta quindi la natura divina come inconoscibile, non soltanto per noi, ma per se stessa, senza una rivelazione che sia una creazione. Come egli dice nel suo De divisione naturae, Dio stesso non può conoscersi che come un essere, una natura, un’essenza, cioè come finito; ora egli è infinito, al di là dell’essere, della natura e dell’essenza; per conoscersi gli è quindi necessario incominciare ad essere, ciò ch’egli non può fare che diventando qualcosa d’altro da sé. Abbiamo detto che divisione e analisi sono complementari. Infatti, le idee non possono comparire che in virtù di una divisione del primo principio; ma è perché Dio incomincia ad esistere in loro che esse stesse incominciano ad esistere. Non sono giù più in lui stesso (divisione) perché egli è per sé inesprimibile, ma tuttavia non sono che lui stesso (analisi), poiché non ne sono che l’espressione. Da questo momento la moltiplicazione degli esseri continua senza interruzione fino agli individui. La creazione propriamente detta è l’opera del Padre, ed essa consiste nel produrre le idee nel Verbo. L’esplicitazione delle idee in una molteplicità d’individui si compie secondo l’ordine gerarchico dall’universale al particolare. Dalle idee vengono i generi, poi i sotto-generi, le specie e le sostanze individuali. Questa processione del molteplice partendo dall’uno è l’opera della terza persona della Santa Trinità, lo Spirito Santo. Egli è il fecondatore e distributore della generosità divina. Anche ogni creatura, riproducendo a suo modo l’immagine di Dio, è definita da una trinità costitutiva: l’essenza, che corrisponde al Padre, la virtù attiva che corrisponde al Figlio; l’operazione che corrisponde allo Spirito Santo. La nozione di creazione concepita come teofania introduce nell’universo eriugeniano un altro tema, quello dell’illuminazione. Riprendendo san Giacomo e san Paolo, tutti gli esseri creati sono dei lumi e ogni cosa, anche la più umile, in fondo non è che un lumicino in cui brilla, per quanto debole, il lume divino. Fatta questa moltitudine di piccoli lampo che sono le cose, la creazione, in fin dei conti, non è che una illuminazione destinata a far vedere Dio. Questa concezione dell’atto creatore porta con sé una correlativa concezione della sostanza delle cose create. Manifestazione di Dio, l’universo cesserebbe di esistere se Dio cessasse di irradiare. La loro stessa sussistenza è un’illuminazione. Ogni cosa è quindi essenzialmente un segno, un simbolo, in cui Dio si fa da noi conoscere. L’insieme delle teofanie che costituisce l’universo si divide in tre mondi: le sostanze puramente immateriali che sono gli angeli, le sostanze corporee visibili, e, tra l’uno e l’altro, questo universo ridotto che è l’uomo, che partecipa dell’uno e dell’altro e che li unisce. Dall’alto in basso della serie degli esseri, Dio è presente come nelle sue partecipazioni. Create dal nulla, cioè dal nulla della loro propria esistenza, le cose lo sono anche da quel Nulla che è il super-essere, cioè Dio. Dire che Dio è la realtà stessa delle cose significa che ogni cosa non è che il dono divino dell’essere stesso ch’essa è. Gli Angeli sono le intelligenze che possiedono la massima perfezione possibile alle creature. Immateriali, essi hanno tuttavia dei corpi spirituali. A differenza degli uomini, essi hanno una conoscenza immediata e, in certo modo, sperimentale delle cose divine. Questo non significa che gli angeli vedano Dio faccia a faccia. Nessuno ha mai visto Dio, nessuno mai lo vedrà. Non soltanto gli angeli non vedono Dio, ma non vedono nemmeno le idee di Dio; la loro visuale si arresta ad alcune apparizioni divine di queste idee, cioè alle teofanie delle cause eterne delle cose. Il loro privilegio si restringe, quindi, a ricevere le prime manifestazioni irradiate dal Verbo fuori di sé. Queste teofania non si comunicano agli angeli in blocco e indistintamente, ma in ordine gerarchico. Ogni angelo è il grado teofanico definito da quanto egli riceve di luce e da quanto ne trasmette; in breve, egli è la teofania che lo costituisce, e tutti insieme, con la loro disposizione armoniosa, gli angeli generano una bellezza che non è altro che quella stessa dell’universo intelligibile creato.. Ancor meno dell’angelo, l’uomo è capace di illuminarsi con i propri mezzi. Egli può ricevere la luce e trasmetterla, ma non ne produce. Divisi in sessi, gli esseri umani si moltiplicano come gli animali. Riprendendo a suo vantaggio la dottrina di Origene su questo punto, Giovanni Scoto ritiene che Dio, prevedendo il peccato originale, abbia preventivato una maniera di moltiplicazione della specie umana diversa dalla pullulazione istantanea e analoga a quella degli angeli, che avrebbe prevalso senza questa prospettiva di caduta. Dio si è dunque servito della divisione dei sessi come di un espediente. Separandosi da Dio, l’uomo trascinava nella sua caduta l’intero mondo dei corpi. Per capire questo punto bisogna osservare che l’universo corporeo esiste dapprima nel pensiero dell’uomo e che vi sussiste in un modo d’essere più nobile che in se stesso; poiché tutto è teofania, e l’illuminazione si trasmette dall’alto in basso, c’è un momento in cui tutto ciò che viene dopo l’uomo è già contenuto in lui, nello stato meno perfetto che nell’angelo, ma più perfetto di quanto non sarà in sé. Tutti gli esseri esistono nel pensiero dell’uomo, come tipi intellegibili, più perfettamente che nella materia in cui in seguito si sparpagliano. Si hanno dubbi perché dapprima non si capisce come il corporeo e sensibile possa uscire dall’intelligibile col modo della divisione. E tuttavia proprio così. Togliamo dal mondo dei corpi tutto ciò che esso contiene di realtà intelligibile; gli resterà ben poco. Le specie sotto le quali si dispongono i corpi sono delle realtà intelligibili; le loro quantità, pure lo sono, e anche le loro qualità, perché la qualità è una categoria che si può intendere col puro pensiero. Una quantità senza qualità non è un corpo; una qualità senza quantità neppure lo è; il corpo sensibile ha principio al punto d’incontro di questi due elementi intelligibili, la quantità e la qualità. Resta tuttavia la materia! Indubbiamente, la materia esiste; essa tuttavia forse non è ciò che si crede. Ciò che dapprima si trova in un corpo è la sostanza, ma la sua sostanza non è altro che la sua causa intelligibile, che sussiste eternamente in Dio. Considerata in Dio stesso, essa prende il titolo di essenza; presa in quanto realizzata in un corpo, essa riceve il nome di forma e genera una natura. Come tutto ciò che è in Dio, l’essenza di un essere vi è inconoscibile per definizione. Invece, le natura ci sono comprensibili, perché sono delle essenze incorporate a delle materie e sottoposte alle categorie, specialmente a quelle di quantità, di luogo e di tempo. A queste categorie si aggiunge quella di qualità che contiene tutti gli accidenti di ogni natura particolare. Preso a parte, ciascuno di questi elementi costitutivi è intellegibile. La forma è intelligibile, la quantità è int, la qualità in generale è int. Ciò che non è intelligibile è la mescolanza di questi accidenti, che è la materia stessa. In breve, i corpi sono fatti di cose incorporee; essi nascono, dice energicamente Eriugena, ex intelligibilium coitu. Nulla quindi si oppone al fatto che l’universo sensibile sia stato creato da Dio nell’uomo, cioè, come si deve intendere, non in quell’Adamo che compare alla fine dell’opera dei sei giorni, ma dell’Uomo intelligibile e riempito di intelligibili che sussiste eternamente in Dio. Questa concezione della materia spiega perché la creazione del mondo si confonda con quella di tutte le essenze intelligibili, cioè, con quella delle loro idee in Dio. La sostanza stessa di ogni creatura è la sua essenza intelligibile. L’intero mondo è un’immensa predestinazione di essenze, di cui il pensiero creatore fissa una volta per tutte la costituzione ontologica. Ciò che procura loro questo titolo di essenze (realtà stabili), è la loro stessa immutabilità. Questa stessa essenza è ciò che prende il nome di natura, in quanto essa è generata, localmente e temporalmente, in una materia suscettibile di accidenti. L’essenza è dunque un puro intelligibile, che contiene in sé questi due altri intelligibili, la quantità e la qualità, la cui congiunzione produce il quantum e il quale visibili; in breve, la materia oggetti dei nostri sensi. L’universo qual è deriva dall’errore dell’uomo ma esso non ne è il risultato. L’uomo non ha voluto conservare la sua posizione intelligibile e Dio, nella sua misericordia, ha dispiegato intorno a noi la fantasmagoria del mondo dei corpi, perché possiamo trovare anche nel sensibile il modo per ritornare a lui. Ciò che rende possibile questo ritorno è il fatto che, scalino di una gerarchia, è esso stesso una gerarchia, e ciò che è vero dell’uomo lo è dapprima dell’anima. Ora, questa gerarchia è quella di una trinità. L’anima è una, perché essa è interamente intelligenza, interamente ragione, sensazione, memoria, vita; ma esso allo stesso tempo è capace di tre operazioni principali, o per meglio dire di tre differenti processi (motus) che la diversificano senza dividerla. Il processo più alto è quello ch’essa compie come pensiero puro (animus). È un processo di ordine mistico e che richiede l’aiuto della grazia. Per esso l’anima si volge interamente verso Dio. Il secondo processo dell’anima è quello che essa compie come ragione (ratio). Essa non si eleva più al di sopra di sé, ma si volge invece verso se stessa. Si potrebbe dire che, come il Dio invisibile in sé si rivela nella sua teofania, il pensiero puro dell’anima, che rimane inconoscibile in sé, si rivela all’anima stessa nelle operazioni della ragione. Rimane il terzo processo dell’anima, di natura complessa. Esso suppone dapprima un’impressione puramente corporea prodotta da un oggetto materiale su uno dei nostri organi sensoriali, poi, che l’anima raccolga questa impressione e formi in sé l’immagine che si chiama sensazione. Si è riconosciuta così la dottrina della sensazione come atto dell’anima. Quello che si deve ricordare è che l’anima resta unica e presente tutta in ciascuna di queste vie. È il pensiero puro che si divide . Considerata sotto questo aspetto, l’anima non soltanto imita Dio nella sua trinità; essa gravita intorno a lui. Diciamo di più: essa non l’abbandona mai, non lo dimentica ridiscendendo verso i generi, le specie e gli individui. Senso e ragione in definitiva, non sono, dunque, che altri aspetti del pensiero. La molteplicità delle operazioni del pensiero esce da lui, in lui sussiste, e ritorna verso di lui, come esce da Dio, sussiste in Dio e a Dio ritorna la molteplicità degli esseri che costituiscono l’universo. Questo richiamo di Dio si manifesta dapprima con una specie di mancanza o di bisogno, interiore agli esseri stessi, che Eriugena chiama l’informitas. L’informità si definisce: un movimento del non essere verso l’essere. Questo ritorno universale è legato a quello dell’uomo e incomincia nel momento di massima dispersione che l’essere umano può raggiungere, cioè la morte. In conseguenza del peccato, l’uomo è diventato simile alle bestie. L’anima allora si divide dal corpo, che si divide, esso stesso, nei suoi elementi costitutivi e si disperde nella terra; ma proprio perché la circolazione degli esseri è un fiume la cui corrente non s’interrompe mai, l’ultimo momento della divisione fa tutt’uno col primo momento dell’ analisi . La morte dell’uomo è la prima tappa del suo ritorno verso Dio. diventa rara, e qualunque aspetto di quest’epoca si studi, ci si arresta di fronte a ciò che gli storici chiamano il vuoto del X secolo . L’attività delle scuole sembra essere stata ovunque gravemente colpita e il pensiero filosofico pareva sussistere solo ad uno stadio di vita rallentata nei chiostri riformati di Cluny, che sorge all’inizio del secolo. È tuttavia opportuno segnalare la scuola claustrale di Fleury-sur-Loire, come l’ambiente di cultura letteraria, filosofica e teologica più fiorente. Essa era diretta dal monaco Abbone di Cluny. Il nome di Abbone merita una menzione speciale perché il suo insegnamento, come quello di Gerberto, sembra aver segnato un progresso nello studio della logica. Fin da questo periodo si vede ricostruirsi il corpus quasi completo della logica di Aristotele nella seguente forma: 1) i trattati conosciuti fin dal IX secolo (logica vertus), cioè le Categorie e il De Interpretatione; 2) i trattati di Boezio sui Primi e Secondi analitici (logica nova). La sola figura rilevante di quest’epoca, con quella di Abbone, è quella di Gerberto d’Aurillac. Dopo aver ricevuto la sua prima formazione nel chiostro di Aurillac, egli andò a studiare tre anni in Spagna, poi diresse la scuola di Reims, nel 998 arcivescovo di Ravenna, fu eletto papa nel 999 col nome di Silvestro II e morì nel 1003. Egli conosceva a fondo non soltanto il trivium, ma anche il quadrivium. Gerberto rappresenta la cultura completa delle arti liberali. L’opuscolo di Gerberto, De rationale et ratione uti, verte sulla validità logica della proposizione: il razionale si serve della ragione, dove, contrariamente alle regole, il predicato sembra meno universale del soggetto. Dobbiamo inoltre a Gerberto una Geometria e un Liber de astrolabio, che rivelano l’influenza della scienza araba. Sempre a lui, dobbiamo la conservazione di parecchie Orazioni di Cicerone. Ci si farebbero idee assai false dei secoli IX e X se si giudicasse la loro cultura in termini di storia della filosofia propriamente detta. L’assenza di grandi teologie e di dottrine metafisiche è sensibile, in quei tempi in cui l’opera di Scoto Eriugena resta un’eccezione, ma essa non è che l’inverso di una presena, quella della cultura classica. In Francia, uno degli allievi di Gerberto, Fulberto di Chartres, dà alle scuole di questa città, l’impulso vigoroso che ne farà il più attivo centro di umanesimo del scolo XII. Come per meglio assicurarsi di essere i continuatori dell’opera degli antichi, i francesi decidono allora di adottare come antenati i Troiani. Questa ossessione dell’antichità, così comune nelle scuole cattedrali e monastiche di Germania e di Francia del X secolo, si esaspera in alcune menti al punto di fare delle vittime, ma ciò accade in Italia. Singolare è il movimento ereticale lanciato da un certo Vilgardo di Ravenna. Questo Vilgardo si dedicava allo studio della Grammatica, il che non ha nulla di sorprendente, poiché egli era italiano, e gli italiani hanno sempre avuto l’abitudine di trascurare le altre arti per non studiare che quella. In questa Italia grammaticale, dunque, Vilgardo si distingue dai suoi confratelli solo perché amava alla follia la grammatica. L’orgoglio che egli concepì del suo sapere lo rese un po’ strambo e fece di lui una preda proprio adatta per i demoni. Una certa notte, tre di loro gli apparvero sotto l’aspetto di Virgilio, Orazio e Giovenale, lo ringraziarono del suo amore per le loro opere e gli promisero di associarlo alla loro gloria. Perdendo completamente la ragione, il poveruomo si mise ad insegnare parecchie dottrine contrarie alla fede e sostenne che tutto ciò che gli antichi poeti avevano detto doveva essere considerato vero. 4. La filosofia nel secolo XI - Dialettici e teologia All’interno della chiesa, già s’incontravano alcuni chierici le cui disposizioni di spirito inclinavano alla sofistica, che provavano tale entusiasmo per la dialettica e la retorica da far passare volentieri la teologia al secondo posto. La pretesa ostentata da alcuni di sottomettere il dogma e la rivelazione alle esigenze della deduzione sillogistica doveva condurli infallibilmente alle più radicali conclusioni e allo stesso tempo doveva suscitare la più violenta reazione da parte dei teologi. Anselmo di Besate, detto il Peripatetico, e Berengario di Tours rappresentano molto bene ciò che furono questi dialettici intransigenti, e ci permettono di capire meglio perché la filosofia rimase a lungo sospetta a degli spiriti assai elevati. Anselmo, detto il Peripatetico, era un italiano che, dopo aver terminato i suoi studi filosofici a Parma, incominciò un giro attraverso l’Europa. La sua Rhetorimachia ci dà un’idea di quello che debbono essere stati i suoi metodi e i suoi argomenti di discussione. Anselmo voleva almeno l’attenzione e l’otteneva dappertutto tranne che a Magonza, dove, dopo averlo sentito, nessuno approvò o protestò. Anselmo allora incominciò a dimostrare al suo uditorio che tale astensione era contraddittoria perché non approvare e non biasimare è un non fare niente e non fare niente è fare niente, il che è impossibile. Gli abitanti di Magonza ebbero la cortesia di dichiararsi convinti, e Anselmo ripartì felice. Il meno che si possa dire del suo opuscolo è che esso è tale da giustificare le espressioni severe di cui si serviranno i teologi riguardo a persone della sua specie. Anselmo giustifica ampiamente l’accusa di puerilità che fu loro rivolta; Berengario di Tours giustifica quella di empietà. Il maestro di Berengario di Tours era stato Fulberto, allievo di Gerberto d’Aurillac, e fondatore della celebre scuola di Chartres. Ma mentre Fulberto insegnava la necessità di sottomettere una ragione debole e limitata ai misteri della fede e agli insegnamenti della rivelazione, il suo scolare Berengario non esitava a tradurre le verità di fede in termini di ragione. Questo tentativo lo indusse a negare la transustanziazione e la presenza reale. Berengario considera la dialettica come il mezzo per eccellenza per scoprire la verità. Fare appello alla dialettica, egli scrive nel suo De sacra coena, significa fare appello alla ragione, e poiché per la ragione l’uomo è stato fatto ad immagine di Dio, non fare ricorso ad essa significa rinunciare al proprio titolo d’onore e non rinnovarsi di giorno in giorno ad immagine di Dio. Come Giovanni Scoto Eriugena, egli è dunque persuaso della superiorità della ragione sull’autorità. Danno alla sua identificazione di religione e filosofia un significato aggressivo e negativo che il pensiero di Eriugena non aveva. In ogni composto di materia e forma, dice Berengario, bisogna distinguere il fatto della sua esistenza e ciò che esso è. Per essere una certa cosa, bisogna dunque, in primo luogo, che questo composto esista. Se dunque la sostanza del pane scomparisse al momento della consacrazione, sarebbe impossibile che sussistessero gli accidenti del pane: ora gli accidenti del pane sussistono dopo la consacrazione: possiamo dunque inversamente concludere che permane la sostanza stessa. Non ci sarebbe, di conseguenza, la generazione del corpo di Gesù Cristo nel senso che esso incomincerebbe allora ad esistere, ma semplice aggiunta alla forma del pane che sussiste, di un’altra forma che sarebbe quella del corpo di Cristo beatificato. Per Gerardo, vescovo di Czanad, quelli che sono discepoli di Cristo non hanno bisogno di dottrine estranee . L’applicazione della filosofia alla teologia gli sembrava particolarmente dannosa e condannabile. Otloh di Saint-Emmeram esprime un’analoga diffidenza riguardo a tutto ciò che non è pura teologia e tradizione. Abbiamo di lui, sotto il titolo di Liber de tentationibus suis et scriptis, un curioso scritto autobiografico, in cui egli ci informa dei dubbi che lo tormentarono a lungo sulla verità delle Scritture e anche sull’esistenza di Dio. Liberato con la grazia da queste miserei, non conosce più altro maestro che Cristo. Otloh è disposto ad ammettere che la filosofia possa essere interessante per un laico, ma egli ritiene che essa non presenti alcun interesse per un monaco. Manegoldo di Lautembach sostiene tesi dello stesso genere e sottolinea il disaccordo delle dottrine filosofiche con il contenuto della rivelazione. Nel suo Opusculum contra Wolfelmum Coloniensem, Wolfelmo sostiene che il commento di Macrobio al Somnium Sciponis s’accorda in parecchi punti col crisitianesimo. Più moderato di Otloh, Manegoldo insiste tuttavia sull’impossibilità di sottomettere la fede alle regole della dialettica, della quale d’altronde un esempio classico prova la vanità. Il più tipico di tutti i difensori della teologia contro l’abuso della scienza profana è Pier Damiani. San Pier Damiani è una perfetta illustrazione di quel contemptus saeculi che, se non costituisce tutto il Medioevo, ne è tuttavia uno degli aspetti più importanti. Quanto agli studi profani, quello che Pier Damiani ne pensa è semplice. La sola cosa che importa è il conseguimento della salvezza: la maniera più sicura per salvarsi è di farsi monaco; ritorna quindi il problema di sapere se un monaco abbia bisogno della filosofia. No assolutamente. Ciò che l’uomo deve sapere per salvarsi è il contenuto delle Scritture: il monaco dovrà dunque conoscerle ed attenervisi. (..) quanto a tutti i retori coi loro sillogismi e i loro cavilli sofistici io li squalifico come indegni di trattare questa questione. Dominus vobiscum La biblioteca di cui egli compila il breve elenco nel suo De ordine eremitarum contiene l’Antico e il Nuovo Testamento, dei commenti allegorici alla Scrittura di Gregorio Magno, Ambrogio, Agostino ecc. Questi libri, infatti, bastano ad un monaco non solo per salvare la sua anima, ma per salvare quella degli altri. Se la filosofia fosse stata necessaria alla salvezza degli uomini, dice Damiani nel suo De sancta simplicitate, Dio avrebbe mandato dei filosofi per convertirli. Da dove proviene dunque la filosofia? È un’invenzione del diavolo, corrotta dalla grammatica. Vediamo dei monaci che preferiscono le regole di Donato a quelle di san Benedetto; eppure, chi fu il primo professore di grammatica se non il demonio? Pier Damiani poteva utilizzare la filosofia contro se stessa e l’ha fatto con abilità nel suo De divina omnipotentia. Quest’opera ha inizio da una conversazione conviviale, in cui qualcuno cita le parole di san Gerolamo: Dio può fare tutto, ma non che ciò che è accaduto non sia accaduto. Pier Damiani protesta contro san Gerolamo e prova contro di lui che la volontà di Dio è la sola causa dell’esistenza di ciò che esiste. E quando gli si obietta che Dio può distruggere Roma, ma non può far sì che Roma non sia esistita, risponde che, se questo è vero del passato, è vero ugualmente del presente e dell’avvenire, perché se è impossibile che ciò che è accaduto non sia accaduto, è impossibile che ciò che accade non accada e che ciò che deve accadere non debba accadere. Non dobbiamo introdurre in Dio le regole del discorso, né le leggi della dialettica, perché il sillogismo non s’adatta senza difficoltà al mistero della potenza divina; le necessità logiche delle nostre conclusioni non valgono per Dio. Infatti Dio vive in un eterno presente; egli è quindi sottratto alle condizioni stesse in cui il problema di pone, perché per lui non c’è né passato né avvenire. Questo modo di rifiutare le leggi della natura e del pensiero in nome della trascendenza divina conteneva in germe il teologismo dell’onnipotenza di Dio che più tardi fiorirà nella dottrina di Ockham. Mentre Pier Damiani chiedeva che si riducesse in polvere la filosofia, il suo contemporaneo Lanfranco, monaco e poi abate di Bec, morto arcivescovo di Canterbury, adottava un atteggiamento più conciliante verso la filosofia. Certo non è che egli se ne fidi. Nel suo Commento all’Epistola ai Corinzi, egli volge le parole di san Paolo contro questa dialettica che rende impossibile ogni mistero; infatti Dio è immortale, e se egli è immortale, non ha potuto morire; ma invece egli approva che si sostengano e si confermino gli insegnamenti della fede con gli argomenti della ragione. Per quelli che sanno vedere bene, la dialettica non contraddice i misteri divini, ed essa può, se la si usa correttamente, servir loro di sostegno e di conferma. È la stessa tesi che l’intera filosofia di sant’Anselmo vorrà illustrare. - Roscellino e il nominalismo Il problema degli universali s’arricchisce nel secolo XI di una nuova soluzione, quella che apporta il nominalismo. Si è soliti considerare Roscellino come l’instauratore di questa dottrine e non senza ragione. Nato a Compiègne verso il 150, egli studiò nella provincia ecclesiastica in cui era nato. Ebbe per maestro tale Giovanni il Sofista, insegnò come canonico nella sua città, fu accusato dinanzi al concilio di Soissons d’insegnare che ci sono tre dei, abiurò e tornò ad insegnare a Tours, Loches, dove ebbe Abelardo come discepolo. Ci troviamo imbarazzati talvolta a definire esattamente la posizione filosofica che egli adottò, perché i suoi testi che di lui ci restano sono pochi e perché è difficile stabilire una distinzione tra ciò che egli ha insegnato e ciò che i suoi avversari l’hanno accusato di aver insegnato. Tuttavia un punto è indubbio: Roscellino è rimasto per i suoi contemporanei e per i posteri il rappresentante di un gruppo di filosofi che confondevano allora l’idea generale con la parola con cui la si designa. L’interesse presentato da questo dottrina consiste principalmente in ciò, che per il filosofi che facevano dell’idea generale una realtà la specie stessa costituiva necessariamente una realtà, mentre, se l’idea generale non è che un nome, la vera realtà si trova negli individui che costituiscono la specie. In altri termini, per un realista l’umanità è una realtà: per il nominalista di reale non ci sono che gli individui umani. Roscellino aderisce apertamente alla seconda soluzione del problema. Per lui il termine uomo non designa alcuna realtà che sarebbe, in un grado qualsiasi, la realtà della specie umana. Come tutti gli altri universali, questo non corrisponde che a due realtà concrete, uno maggiore. Il problema è di sapere se una tale natura esista o no, perché lo stolto ha detto in cuor suo: Dio non esiste (Salmi). Ora, quando diciamo davanti allo stolto: l’essere di cui non è possibile concepirne uno maggiore, egli capisce ciò che noi diciamo, e ciò che egli capisce esiste nella sua intelligenza anche se egli non ne percepisce l’esistenza. Infatti una cosa può esistere in una intelligenza senza che questa intelligenza sappia che la cosa esiste (esempio pittore). Si può convincere lo stolto stesso che, almeno nel suo spirito, esiste un essere di cui è impossibile concepirne uno maggiore, perché, se egli intende enunciare questa formula, egli la comprende, e tutto ciò che si comprende esiste nell’intelligenza. Ora, ciò di cui non è possibile concepire nulla di più grande non può esistere soltanto nell’intelligenza. Infatti, l’esistere in realtà è essere ancor più grande che esistere nell’intelligenza soltanto. Se quindi ciò di cui è impossibile concepire qualcosa di maggiore esiste soltanto nell’intelligenza, si dice che ciò di cui è impossibile concepire qualcosa di maggiore, il che è contraddittorio. L’essere di cui è impossibile concepire qualcosa di maggiore esiste quindi indubbiamente, e nell’intelligenza e nella realtà. I principi sui quali poggiare quest’argomentazione sono i seguenti: (1) una nozione di Dio fornita dalla fede; (2) l’esistere nel pensiero è già veramente esistere; (3) l’esistenza della nozione di Dio nel pensiero esige logicamente che si affermi che egli esiste in realtà. Qui dunque si parte da un fatto che appartiene ad uno speciale ordine, quello della fede. Tutta la dialettica astratta che qui si sviluppa va dalla fede alla ragione e ritorna al suo punto di partenza, concludendo che ciò che viene proposto dalla fede è immediatamente intelligibile. Una certa idea di Dio esiste nel pensiero: ecco il fatto; ora questa esistenza, che è reale, esige logicamente che Dio esista anche nella realtà: ecco la prova. Essa si compie di una comparazione di essere pensato e di essere reale che costringe l’intelligenza a porre il secondo come superiore al primo. Essa ha trovato un penetrante avversario nella persona del monaco Gaunilone. Egli obiettava che non ci si può fondare sull’esistenza nel pensiero per concludere all’esistenza fuori dal pensiero. Infatti, esistere come oggetto di pensiero non significa avere un’esistenza autentica, significa soltanto essere concepito. Perché dovrebbe essere diversamente per l’idea di Dio? Se concepiamo l’idea delle isole beate, perse in qualche parte dell’Oceano, colme di ricchezze inaccessibili, non ne seguirà che queste terre, concepite come le più perfette di tutte, esistano anche nella realtà. Al che sant’Anselmo risponde che il passaggio dall’esistenza nel pensiero all’esistenza nella realtà non è possibile e necessario che quando si tratta dell’essere più grande che si possa concepire. La nozione di isole beate non contiene evidentemente nulla che costringa il pensiero ad attribuire loro l’esistenza, ed è proprio soltanto di Dio che non si possa pensare ch’egli non esista. Questa dimostrazione dell’esistenza di Dio è certamente il trionfo della pura dialettica che opera su una definizione. Ci sono sempre stati filosofia per riprendere e rimaneggiarla a loro modo, e le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo dottrinale cui una filosofia appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l’ammettono è l’identificazione dell’esistenza reale con l’essere intelligibile concepito col pensiero; ciò che hanno in comune tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un problema d’esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Una volta dimostrata l’esistenza di Dio con una qualunque di queste prove, si può facilmente dedurne gli attributi principali. Poiché Dio è ciò che non può non esistere, egli è l’essere per eccellenza, cioè la pienezza della realtà. Gli si dà dunque il titolo di essentia, e questo termine, che significa realtà plenaria , non può essere usato propriamente che in riferimento a Dio. Niente di ciò che non è Dio è l’essere nel pieno significato del termine: bisogna dunque necessariamente che tutto il resto, che non è Dio, e tuttavia esiste, riceva da Dio il suo essere. Come si può concepire questa dipendenza dell’universo riguardo Dio? Notiamo in primo luogo che esistere per sé ed esistere per altri sono due modi differenti di esistere; non si possiede l’essere allo stesso modo nell’uno e nell’altro caso. In Dio, che solo esiste per sé, l’essenza e l’essere si confondono; la sua natura è allo stesso modo che la luce risplende. Come la natura della luce non si separa dalla luminosità che essa espande, l’essenza divina non si separa dall’essere di cui ella gode. È tutto diverso per gli esseri che ricevono la loro esistenza da altro; la loro esistenza non è tale da implicare necessariamente l’esistenza, e perché esista la loro natura bisogna che l’essere venga loro conferito da Dio. Resta da sapere come Dio lo conferisca a loro. Ora, sono possibili due sole ipotesi: o Dio è la causa produttrice dell’universo, oppure egli è la materia di cui è formato l’universo. Se ammettiamo quest’ultima ipotesi accettiamo il panteismo. In effetti, Dio è l’essere totale; se dunque il mondo è stato formato da una materia qualsiasi, questa materia deve necessariamente confondersi con l’essere di Dio. Bisogna dunque che il mondo sia stato creato dal nulla, e soltanto la dottrina della creazione ex nihilo permetterà di non confondere in un solo essere l’universo e Dio. Resta quindi soltanto la seconda ipotesi che abbiamo considerato: l’universo giunge all’essere senza nessuno preesistente materia, non esisteva, ed ecco che, per la sola potenza di Dio, esso esiste. Questa apparizione del mondo, che succede, per così dire, al suo non essere, e che si produce per un decreto della sapienza e della volontà divina, è precisamente ciò che si vuol designare quando si dice che Dio ha creato il mondo dal nulla. Quando l’universo non era ancora posto nell’essere attuale che ha ricevuto da Dio, esisteva già come esemplare, forma, immagine, o regola nel pensiero del suo creatore; soltanto, sotto questa forma, esso non aveva altra realtà che quella dell’esistenza creatrice stessa. La dottrina anseliniana delle idee divine è esattamente il contrario della dottrine eriugeniana delle idee create, perché è ben giusto dire che, secondo sant’Anselmo, le creature preesistono in Dio, ma è anche giusto aggiungere che esse sono e sussistono in Dio più effettivamente che in se stesse; ma precisamente la ragione ne è che esse in Dio non sono nient’altro che Dio. Già presenti nel suo pensiero, le creature ne sono uscite per effetto della sua parola e del suo Verbo; Dio le ha pronunciate ed esse esistettero. Così tutto ciò che non è l’essenza di Dio è stato da Dio creato, e come egli ha conferito a tutte le cose l’essere che esse possiedono, egli le sostiene e le conserva per permettere loro di persistere nell’essere. Ciò significa che Dio è presente ovunque, reggendo tutto con la sua potenza, e che là dove egli non è, non esiste nulla. Dovremo attribuirgli dei nomi che designino una perfezione positiva, e quelli soltanto. E per di più questa attribuzione non sarà legittima che a due condizioni. In primo luogo bisognerà attribuirglieli assolutamente e non relativamente. In secondo luogo, non è legittimo attribuire a Dio, indifferentemente, tutte le perfezioni positive, ma soltanto quelle che, parlando in assoluto, sono migliori di tutto ciò che è diverso da loro. Non diremo che Dio sia un corpo, perché conosciamo qualcosa di superiore al corpo, lo spirito; invece, poiché non conosciamo niente di superiore allo spirito nel genere dell’essere, diremo che Dio è spirito. Egli non ha né principio né fine: è in ogni luogo e in ogni tempo; è immutabile; sostanza e spirito individuale, egli tuttavia non si lascia rinchiudere in questa categoria di sostanza che conviene solo agli esseri creati; lui solo è nel pieno senso di questo termine, e gli altri esseri, comparati a lui, non sono. L’uomo è, tra le creature, una di quelle in cui più facilmente si ritrova l’inimagine di Dio impressa dal creatore sulle sue opere. Quando l’uomo si esamina, scopre infatti nella sua anima le vestigia della Trinità. Unica tra tutte le creature, l’anima umana si ricorda di se stessa, si comprende e si ama; e con questa memoria, questa intelligenza e questo amore, costituisce un’ineffabile trinità. Quanto al genere di esistenza delle idee generali, sant’Anselmo si oppone alle tendenze nominalistiche di Roscellino e insiste sulla realtà dei generi e delle specie, al punto di fare del realismo una condizione necessaria dell’ortodossia teologica. Secondo lui, se non si comprende nemmeno come parecchi uomini, riuniti nella loro specie, possano formare un solo uomo, ancor meno si comprenderà come un solo Dio possa consistere in tre persone distinte. Questa realtà attribuita alle idee generali è d’altra parte uno degli elementi che hanno orientato il pensiero di sant’Anselmo verso la scoperta dell’argomento ontologico e che gli hanno permesso di argomentare direttamente sui gradi di perfezione per elevarsi a Dio. Se le idee sono cose, ogni grado di perfezione è un grado del reale e l’idea dell’essere più perfetto che si possa concepire ci introduce immediatamente in un certo ordine di realtà. Il passaggio dall’idea all’essere doveva tentare il pensiero di sant’Anselmo perché, per lui, le idee sono già degli esseri. La verità di una conoscenza dipende dalla sua rettitudine , essa è cioè, come deve essere, l’apprendimento corretto del suo oggetto. Ma questa non è che una forma particolare della verità. Come la conoscenza che l’apprende, l’oggetto conosciuto ha la sua verità, ed è ancora una rettitudine : ogni cosa è vera in quanto essa è ciò che deve essere secondo la sua idea in Dio. Una volontà è vera se è retta; un’azione è vera per la stessa ragione. In breve, la verità è la conformità di ciò che è alla regola che stabilisce ciò che deve essere, e poiché questa regola è sempre in fin dei conti creatrice, il De veritate di sant’Anselmo conclude che c’è una sola verità di ciò che è vero, e cioè Dio. Le tesi di sant’Anselmo non formano una teologia, né una filosofia completa. Tecnicamente parlando, la teologia di sant’Anselmo era in anticipo sulla teologia di andamento ancora del tutto patristico che Abelardo stava per proporre. Tutta l’opera di sant’Anselmo è un dialogo tra la logica e la rivelazione cristiana. - Cristianità e società Vedi libro, Pag 293 – 294 5. La filosofia nel secolo XII - La scuola di Chartres Durante tutta la metà del XII secolo, il centro intellettuale più vivo si trova nelle scuole di Chartres. Sant’Ivo, detto Ivo di Chartres, è il nome più celebre della scuola nel secolo XII, ma il primo grande nome nell’ambito della filosofia è quello di Bernardo di Chartres, cancelliere della scuola, morto tra il 1124 e il 1130. Il pensiero di questo maestro non ci è noto direttamente, ma soltanto per il tramite di Giovanni di Salisbury nel suo Metalogicon, un certo numero di informazioni sulla sua dottrina e sul suo insegnamento. Bernardo riteneva che lo studio assiduo dei grandi scrittori dell’antichità classica fosse cosa indispensabile. Dal punto di vista della dottrina, Bernardo era considerato il più perfetto platonico dei suoi tempi. Nel suo Metalogicon, Giovanni ci presenta Bernardo come un grammatico. Il grammaticus era rimasto, dopo i tempi di Quintiliano, il professore di letteratura classica latina. Pare che, nel XIII secolo, l’insegnamento della grammatica si sia assunto l’incarico di un nuovo compito che d’altronde non ha potuto adempiere senza cambiare profondamente carattere. Con sant’Anselmo abbiamo visto la logica invadere l’insegnamento della teologia; con Bernardo di Chartres la vediamo penetrare nell’insegnamento della grammatica. Il secolo XII segna tuttavia un sensibile progresso nell’invasione della grammatica da parte della logica e questo movimento avrà due conseguenze fondamentali. In primo luogo esso condurrà alla decadenza della cultura classica propriamente detta nelle scuole francesi del XIII secolo. Anziché far servire le Belle Lettere alla formazione del gusto e del carattere, se ne ridurrà lo studio a quello della grammatica considerata essa stessa come un ramo della logica. Inoltre, questo movimento farà nascere una nuova scienza, la filosofia della grammatica, o grammatica filosofica, che nel XIV secolo prenderà il nome di Grammatica speculativa. Bernardo di Chartres non era un grammatico di questo tipo. Egli rappresentava a meraviglia l’insegnamento degli studi umanistici classici secondo la tradizione di Quintiliano. Avendo imparato da Sericca, nella Lettera a Lucilio, la definizione delle idee platoniche, egli era diventato platonico, dapprima il logica, perché insegnava che niente è un genere o una specie al di fuori delle idee, poi in grammatica, dove sosteneva che gli individui mancano troppo della stabilità delle idee per meritare d’essere designati con dei sostantivi. I nomi derivati offrivano alla sua riflessione un problema filosofico nettamente caratterizzato. Per lui, tutti i nomi derivati significavano principalmente e in primo luogo ciò che significava la loro radice. Se si ammette che bianco e imbianca sono derivati dalla bianchezza, bisogna dunque dire che il loro significato principale designa la sostanza bianchezza di cui essi partecipano, modificata dall’accidente che ne fa un verbo nel caso di imbianca e un aggettivo nel caso di bianco. Il rapporto del nome primitivo con i suoi derivati era dunque per lui dello stesso genere di quello dell’idea platonica con ciò che di essa partecipa. Se si isola la sostanza stessa che i derivati significano, si trova la qualità di bianchezza, prima nella sua innata purezza, poi compromessa in un L’inizio del testo sacro: In principio Dio creò il cielo e la terra pone due Questioni: quella della cause dell’universo, quella dell’ordine dei giorni della creazione. Le cause sono in numero di quattro: l’efficiente, che è Dio; la formale, che è la sapienza di Dio che dispone la forma dell’opera futura; la finale, che è la benevolenza divina (benignitas); la materiale, infine, che consiste nei quattro elementi. La creazione propriamente detta si fonda su questi quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco). Dio li ha creati dal nulla, per pura bontà e carità, per produrre degli esseri che partecipassero della sua beatitudine. Quanto all’ordine dei giorni, Dio ha creato la materia nel primo istante, prendendo ciascun elemento il posto che conviene alla propria natura e disponendosi tutti e quattro in globi concentrici: terra, acqua, aria e fuoco. Quest’ultimo, che è di una leggerezza estrema, tende naturalmente a muoversi, e poiché esso avvolge tutto, non può muoversi in avanti, e così, immediatamente, si mette a girare su se stesso. La sua prima rivoluzione completa costituisce il primo giorno, nel corso del quale il fuoco incominciò ad illuminare l’aria e, attraverso questa, l’acqua e la terra. Questa fu l’opera del primo giorno. Ma il fuoco non rischiara soltanto, esso riscalda. Attraversando l’acqua, il suo calore produce dei vapori. Questi s’elevarono sopra la zona dell’aria e vi rimasero sospesi di modo che l’aria si trovò presa tra l’acqua liquida sotto di sé e il vapore d’acqua sopra di sé. L’aria qui merita il titolo di firmamento poiché essa regge fermamente lo strato di vapore che la domina: ma si può anche chiamarla con questo nome perché essa preme da ogni parte la terra che circonda, e così le conferisce la durezza. Questa fu l’opera del secondo giorno. Vaporizzando una parte dell’acqua, il calore diminuiva la quantità dell’elemento liquido, scopriva delle parti di terra, lasciava così comparire le isole, e riscaldandole a loro volta, le rendeva atte a produrre erbe e alberi. Questa fu l’opera del terzo giorno. Durante il quarto giorno i vapori sospesi al di sopra dell’aria si condensarono e formarono i corpi degli astri. Questo è evidente perché gli astri sono visibili; ora, presi in loro stessi, allo stato puro, né il fuoco né l’aria lo sono: essi lo divengono soltanto per la loro mescolanza con uno degli elementi spessi, cioè la terra o l’acqua; ma la terra è troppo pesante per alzarsi fino al cielo; non resta quindi che l’acqua, la cui condensazione abbia potuto produrre il corpo degli astri. Una volta creati e girando nel firmamento, gli astri, col loro stesso movimento, accrebbero il calore e lo portarono al grado di calore vitale. Questo dapprima raggiunse l’acqua disposta alla superficie della terra e vi generò gli animali acquatici e i volatili. Questo si verificò nello spazio della quinta rivoluzione celeste: fu dunque l’opera del quinto giorno. Il calore vitale raggiunse allora la terra, per la quale furono creati gli animali terresti, ivi compreso l’uomo, fatto ad immagine e somiglianza di Dio, e fu l’opera del sesto giorno. Allora Dio entrò nel suo riposo, il che significa che nessun essere apparso dopo il sesto giorno è stato creato, ma è stato prodotto o dagli elementi che agiscono come si è appena detto, o da un germe introdotto da Dio negli elementi durante l’opera dei sei giorni. Teodorico s’è accorto delle difficoltà che emergono quando si vuole mettere d’accordo in questo modo la Bibbia, con la physica. Egli ha pertanto creduto di superarle identificando il cielo e la terra con i quattro elementi. Egli non si presenta ciascun elemento come dotato di qualità fisse né situato in un proprio luogo. Per lui, come le particelle di tutti gli elementi sono intercambiabili. La terra non è dura per natura, perché essa può liquefarsi ed infiammarsi. È il movimento incessante dell’aria e del fuoco che, stringendo da ogni parte la terra e l’acqua, conferisce loro solidità e durezza. Al contrario, la leggerezza fa tutt’uno con il movimento stesso; ora, tutto ciò che si muove s’appoggia su di un punto fisso e , se si tratta di un movimento circolare, su di un centro. L’aria e il fuoco hanno dunque bisogno di questo centro che è la terra per appoggiare le loro rivoluzioni. Al posto di una teoria dei luoghi naturali, come in Aristotele, abbiamo qui una spiegazione cinetica degli elementi: la leggerezza dell’aria e del fuoco non è che il loro movimento, e questo movimento, al tempo stesso che causa la rigidità della terra e la pesantezza dell’acqua, le richiede a titolo di punto d’appoggio. Così si capisce perché Dio doveva crearle insieme, ed è ciò che Teodorico chiama dimostrare ciò che Mosè chiama cielo e terra e come i fisici spiegano ch’essi siano stati creati insieme . Per capire la Genesi, la teologia ha bisogno delle scienze del quadrivium: aritmetica, musica, geometria e astronomia. Ora, il loro elemento comune è il numero, il cui principio è l’unità; questa è dunque la nozione fondamentale da cui dipende ogni spiegazione razionale. Presa in sé, l’unità è stabile, immutabile, eterna; il numero è variabile e mutevole. La creazione è il dominio del numero come il divino è quello dell’unità. Risalire al principio del numero, che è l’unità, è risalire dalla creatura al creatore. Le cose non esistono che per Dio e, in questo senso, Dio è la forma di tutto ciò che è. Poiché Dio è l’unità, dire che Dio è forma essendi per le creature sarebbe come dire che la loro forma essendi è l’unità. Da questo si vede bene che l’unità è condizione della conservazione degli esseri. Come l’unità è costitutiva dell’essere, lo è della verità; perché dove c’è unità c’è uguaglianza; ora una cosa non è vera, cioè veramente se stessa, che in quanto essa è uguale alla propria essenza. Così, per l’eguaglianza, l’unità genera la verità. Poiché l’unità prima e assoluta è Dio, la sua perfetta eguaglianza è anche Dio. Per rispettare contemporaneamente questa identità e questa eguaglianza in Dio, i teologi hanno usato il termine di persona: la sostanza dell’unità è identica a quella dell’eguaglianza che essa genera, ma la persona generatrice (Padre) è distinta dalla persona generata (Verbo). I filosofi hanno chiamato questo eguaglianza dell’Uno sia pensiero, sia Provvidenza, sia Sapienza, ed a piena ragione, perché tutte le cose sono vere per la verità divina, come, essendo numeri, esse sussistono per l’unità di Dio. Ci sono quindi due linguaggi, ma sono sostanzialmente la stessa dottrina. I filosofi hanno presentito la verità che i cristiani conoscono. Ciò che Teodorico afferma è che gli esseri che non sono l’Uno sono esseri soltanto per l’Uno, che non è nessuno degli esseri. Possiamo accostare a questi maestri di Chartres un’interessante scrittore del XII secolo. Bernardo Silvestre, o di Tours, ha redatto il suo De mundi universitate sive Megacosmus et Microcosmus. È un’opera composta di parti in distici elagiaci alternate a sviluppi in prosa. Nel primo libro, la Natura protesta e si lamenta presso la Provvidenza divina della confusione in cui si trova la materia prima, e la prega di ordinare il mondo con maggior bellezza. La Provvidenza vi acconsente volentieri e per aderire a queste preghiere distingue in seno alla materia i quattro elementi. Questo è l’argomento del Megacosmus. Nel secondo libro, o Microcosmos, la Provvidenza si rivolge alla Natura, celebra l’ordine che ha appena introdotto nel mondo, promette di formare l’uomo come coronamento di tutta la sua opera, e l’uomo allora viene formato con i resti dei quattro elementi. La stessa sindrome di Chartres si ritrova nella dottrina di Guglielmo di Conches. Egli fu per cultura un grammatico, platonizzante in filosofia e avversario dei Cornificiani. Gli si deve una Philosophia mundi, il Dragmaticon Philosophiae, un Moralium dogma philosophorum. Guglielmo considerava le tre parti del trivium come costituenti l’eloquenza; quelle del quadrivium rientrano nella sapienza o conoscenza vera del reale . Osserviamo d’altronde che la sapienza è più vasta del quadrivium, perché essa comprende tre parti: teologia, matematica e fisica. Il quadrivitim vi rappresenta la matematica. La conoscenza del reale è l’opera dello spirito umano, la ragione del quale ha per oggetto il corporeo, e l’ intelligenza l’incorporeo. Osservando l’ordine che regna nel mondo tra elementi contrari, il filosofo conclude all’esistenza di un artefice, la cui saggezza ordinatrice ha prodotto la natura. Giovanni di Salisbury. Con il Policraticus e il Metalogicon, il lungo sforzo dell’umanesimo di Chartres finalmente fiorisce in opere affascinanti. Sul terreno filosofico propriamente detto, egli s’è richiamato a più riprese alla setta degli accademici, ammirando Cicerone. Certamente egli non professa un completo scetticismo, ma egli incomincia con l’isolare un certo numero di verità acquisite ad abbandona tutto il resto al gioco sterile delle controversie interminabili. Dubitare di tutto sarebbe un’assurdità; gli animali danno prova di una certa intelligenza, e l’uomo è più intelligente dell’animale; è falso quindi che noi non siamo capaci di conoscere niente. In realtà, noi possiamo attingere delle conoscenze sicure a tre differenti fonti: i sensi, la ragione e la fede. In quasi tutti gli argomenti di cui si discute, bisogna accontentarsi di arrivare alle probabilità. I filosofi hanno voluto misurare il mondo e sottomettere il cielo alle loro leggi, ma essi avevano troppa confidenza nelle forze della ragione; sono quindi caduto nel momento in cui s’innalzavano e, quando si credevano saggi, incominciarono a sragionare. I filosofi, che intraprendevano contro Dio questa specie di Deomachia che è la filosofia, sono caduti nella confusione dei sistemi. Eccoli allora dispersi nella molteplicità infinita delle loro insanie e delle loro sette d’errore. Gli accademici, al contrario, hanno evitato il rischio di questi errori per la loro stessa modestia. Essi riconoscono la loro ignoranza e sanno dubitare di ciò che ignorano; questo ritegno nell’asserire è proprio la qualità che li raccomanda alla nostra stima e deve farceli preferire. Bisogna dubitare di tutti gli argomenti di cui né sensi, né ragione, né la fede ci danno una sicurezza incontestabile. Ad esempio, si riserverà il proprio giudizio sulla sostanza, la quantità, le facoltà, l’efficacia e l’origine dell’anima ecc ecc. Ciò non vuol dire che si debba trascurare d’informarsi intorno a questi argomenti col pretesto che la soluzione certa debba in ultimo sfuggire alla nostra presa. Al contrario, è l’ignoranza a produrre la filosofia dogmatica ed è l’erudizione che fa l’accademico. Quando non si conosce che un solo sistema e una sola soluzione di un problema, si è naturalmente inclini ad accettarla. Come si potrebbe scegliere, dal momento che non i ha scelta? La libertà di spirito è quindi funzione dell’estensione e della varietà delle conoscenze, ed è per questo che Giovanni di Salisbury, contro gli avversari delle scienze profane e i Cornificiani di ogni tipo in congiura contro il mantenimento degli studi, diventa il più eloquente difensore dell’umanesimo di Chartres. Il tipo del problema insolubile agli occhi di Giovanni di Salisbury è quello degli universali. Si contano attualmente, almeno cinque soluzioni di questo problema. Secondo gli uni, gli universali non esistono che nel sensibile e nel singolare; altri concepiscono le forme come separate al modo degli esseri matematici; altri ne fanno ora delle parole, ora dei nomi; altri infine confondono gli universali con i concetti. In realtà noi ignoriamo la maniera di essere e il modo di esistere degli universali: ma tuttavia si può dire almeno la maniera in cui noi ne veniamo a conoscenza. Ed è la dottrina aristotelica dell’astrazione che ci permette di risolvere questo secondo problema. Cercare ciò che essi sono nell’intelletto è una ricerca utile e facile. Se infatti consideriamo la somiglianza sostanziale di individui numericamente differenti, otteniamo la specie; se poi consideriamo le somiglianze sussistenti tra differenti specie, abbiamo il genere. Raggiungiamo dunque gli universali spogliando col pensiero le sostanze delle forme e degli accidenti per i quali esse differiscono. Se il vero Dio, egli dice, è la vera sapienza degli uomini, allora l’amore di Dio è la vera filosofia. Completo filosofo è colui che vive la dottrina al tempo stesso che l’insegna; seguire i precetti veri che s’insegnano, questo è veramente filosofare. - Pietro Abelardo e i suoi avversario
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