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Etnopsichiatria Roberto Beneduce- Riassunto, Appunti di Antropologia

Riassunto dettagliato di Entopsichiatria. Sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura del professor Beneduce

Tipologia: Appunti

2019/2020
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Scarica Etnopsichiatria Roberto Beneduce- Riassunto e più Appunti in PDF di Antropologia solo su Docsity! ETNOPSICHIATRIA sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura R. Beneduce. I. POLITICHE DELLE CULTURA E DELLA SOCIETA’ Recentemente l’accusa verso l’etnopsichiatria clinica si è concentrata soprattutto sull’utilizzo di tecniche psicoterapeutiche ispirate al lavoro di guaritori e sulla valorizzazione di altri mondi della cura. Le questioni lasciate irrisolte dal colonialismo sono oggi delle ferite nell’immaginario africano, che riportano alla luce i temi del dominio, della dipendenza, dell’egemonia culturale. La memoria della colonizzazione e della schiavitù nutre le rappresentazioni contemporanee della stregoneria, di Mami Wata, della musica. L’etnopischiatria è dunque una questione postcoloniale. Sino angli anni 30 dell’Ottocento si sono accumulati dati e ricerche sui modelli interpretativi della malattia, sulle conoscenze relative alle piante medicinali, sulle complesse nozioni di persona. Tuttavia fino agli anni 60 del 900 la psichiatria praticata nei paesi colonizzati rimane saldamente ancorata agli stereotipi evoluzionistici e ai vecchi modelli interpretativi del rapporto fra cultura e malattia mentale: modelli caratterizzati da molti pregiudizi, da un uso discutibile della nozione di cultura e da un interesse prevalentemente classificatorio. La psichiatria non si curava delle contraddizioni economiche, dei rapporti di forza e conflitti morali, ma anche delle conseguenze della violenza quotidiana, sia materiale che simbolica; psichiatria e medicina coloniale continuavano a vedere l’altro come inferiore, estraneo. Bourdieu parla di violenza simbolica per definire alcuni aspetti della relazione del sessismo, del razzismo, del tipo di rapporti che si stabilirono in epoca coloniale e che conobbero proprio nelle scienze del corpo e nei discorsi sulla salute mentale espressioni esemplari. Il potere simbolico è il potere di agire sul mondo agendo sulla rappresentazione del mondo; attraverso l’imposizione di nuove regole di comportamento o di abbigliamento, con l’introduzione di un nuovo sistema educativo e un diverso ordine morale o religioso, si crea una forma di violenza invisibile ma non meno profonda. L’esperienza di arruolamento nelle armate coloniali costituisce un caso particolare delle complesse dinamiche psicologiche e sociali che scandirono l’epoca coloniale; coloro che si arruolavano si sentivano fortemente sostenuti e gratificati dalla loro nuova identità, potevano dimenticare o accantonare la condizione di alienazione sociale e politica di uomini colonizzati nel momento stesso in cui si percepivano superiori alla popolazione civile. Diventare soldato continua ad essere oggi per molti giovani la sola strada disponibile per asserire un potere, affermare la propria identità. Una forma particolare di violenza simbolica è quella che operava attraverso i dispositivi di cura e le strategie diagnostiche della psichiatria coloniale: che provava a spiegare, sulla base delle differenze culturali, comportamenti individuali e collettivi, sintomi o pratiche rituali senza troppa preoccupazioni nel distinguere gli uni dagli altri. La psichiatria tendenza a culturizzare e medicalizzare, nella forma di conflitti psicologici o di disturbi del comportamento, vicende dall’inequivocabile significato politico e sociale. Assumendo questa prospettiva, essi perpetuavano la lunga e oscura storia di giudizi che per secoli avevano definito i membri delle società non occidentali alla stregua di animali. Il confronto con l’altro si definisce generalmente sotto le forme di un rapporto perverso, dove le differenze finivano col legittimare atti di dominio, di genocidio. (esposizioni universali: zoo umani) Le immagini della follia, dell’alterità psichica e della devianza finiscono per denominare e spiegare l’altro culturale, la sua resistenza, la sua disobbedienza. Haiti, dopo la dipendenza del 1804, divenne un’entità politica isolata. Con l’abolizione della schiavitù essa rappresentava per molti repubblicani un’intollerabile provocazione. In questi anni, i giudizi sulla popolazione di haiti erano negativi: superstiziosa, dedita ad attività sessuali sregolate, influenzata dal vodu, ossessionata dalla stregoneria. In realta i simboli e la pratiche del vodu hanno molti termini e figure provenienti dalla chiesa cattolica. Anche per l’epidemia di AIDS si era attribuita la colpa e giudizi negativi sulle persone dell’isola. Cartwright, medico chirurgo ad haiti propone il termine drapetomania per spiegare il tentativo degli schiavi di fuggire dalle piantagioni; in questo caso egli consigliava di frustrare i fuggitivi e tagliare loro le dita dei piedi; gli Haitiani offrivano a suo giudizio anche una patologica indifferenza, siccome le ferite non impedivano loro di correre. Come in molti altri paesi, il sadismo dei dominatori e la violenza dei coloni sarebbero stati proiettati sugli schiavi e sui colonizzati attribuendo oro pratiche selvagge o immorali, o tratti patologici immaginari. Le categorie proposte per nominare l’altro, per diagnosticare il suo comportamento e giudicarlo dentro un registro clinico, esprimono anche un problema ulteriore: il potere viene usato anche in relazione all’ineguale accesso alla creatività semantica, inclusa la capacita di nominare gli altri come eguali o ineguali. L’effetto di questa strategia, rivolta a negare dignità politica a quegli atti di contestazione e di ribellione, sarebbe stato la distorsione del senso di vicende sociali ed esperienza individuali. Tali formule, impropriamente articolate con espressioni della sofferenza psichica, avrebbero contribuito a occultare la violenza e l’oppressione. Nella storia delle malattie in Africa, le ragioni delle epidemie sono attribuite alternativamente all’ambiente malsano o alle condizioni igieniche o alla variazioni introdotta dalla modernista e dall’evento della colonizzazione, allo stesso modo, i livelli di salute e l’attesa di vita media sarebbero drammaticamente migliorate con l’avvento della medicina occidentale o alternativamente, si sarebbero mantenuti costanti o peggiorati. (es Sifilide in Uganda, Lambkin) Quanto ai guaritori, essi sono stati descritti di volta in volta come saggi e coraggiosi o più spesso come maghi, ciarlatani, incapaci. II. PIONIERI DELLA PSICOLOGIA TRANSCULTURALE: DE LA TOURETTE E KRAEPELIN parlare delle origino dell’etnopsichiatria significa orientarsi nell’orizzonte coloniale e nelle sue particolari rappresentazioni dell’altro: qui, medici e psichiatrici parlano di singolari disturbi del comportamento di categorie diagnostiche esotiche, ma anche di popolazioni da correggere. La psichiatria transuculturale nasce prima dell’etnopsichiatria; l’espressione avrebbe indicato soprattutto lo studio comparativo di malattie, sindromi o strategia terapeutiche in culture diverse, ovviamente con il particolare ruolo di giudizio superiore rivestito dalla scienza occidentale, mai messa in discussione. Agli inizi del 900 K.studia a Giava (colonia olandese) con lo scopo di valutare incidenza e manifestazioni dell’affezione che egli stesso aveva chiamato dementia praecox. che avrebbe fornito le base di quella che poi sarebbe diventata la schizofrenia. La sua ricerca pone anche le premesse della contemporanea egemonia delle categorie e dei metodi della psichiatria occidentale. K propone interpretazioni delle differenze epidemiologiche registrate sulla base delle caratteristiche della cultura locale, egli spiega ad esempio la minore incidenza della depressione con la scarsa propensione di elaborazione di idee elaborate. Solo all’uomo di genio si riconosce la piena consapevolezza della finitudine dell’esistenza e della condizione umana, e la possibilita dunque di sviluppare a melanconia. K. non ha dubbi nel sostenere che la povertà delle ideazioni deliranti è da ricondurre al basso livello di sviluppo intellettuale, mentre la rarità delle allucinazioni uditive sarebbe da connettere al fatto che la parola non ha la stessa importanza che fa in Occidente. De la Tourette, famoso neurologo dal cui nome prende origine la sindrome, condusse il primo vero studio comparativo condotto in paesi diversi allo scopo di confrontare affezioni descritte con categorie differenti e differentemente interpretate dalla popolazione, ma caratterizzate da profili sintomatologici-comuni. Se la psicologia transuclturale si occupa essenzialmente di comparazioni, l’etnopsichiatria connette cultura, malattia e cura all’interno di un particolare contesto culturale, religioso, sociale con una scarsa comparazione per altri quadri. (con Deveraux) Il problema essenziale è quello di indagare l’intreccio delle idee e delle pratiche, l’uso sociale e politico delle categorie di volta in volta proposte, l’ideologia e le rappresentazioni dell’altro che esse contribuiscono a riprodurre. III. L’OCCULTAMENTO DELLA STORIA E L’ASSOGGETTAMNETO DELL’ALTRO NELLE COLONIE La psichiatria e la medicina coloniali si impegnarono a curare popolazioni percepite come espressione di una umanità sofferente, schiacciata dal peso congiunto dell’ignoranza e del pensiero magico oltre che da feroci condizioni ambientali, esse si sforzarono di introdurre forme più moderne di assistenza sanitaria, di cui i primi a beneficiare furono i coloni stessi. La regolazione parallela di corpo e mente assunse quasi ovunque un carattere politico offrendo al tempo stesso un asserii di categorie diagnostiche , di interpretazioni e di modelli volti sia a giustificare l’ordine coloniale sia a tradurre conflitti sociali o attitudini religiose in equivalenti psicopatologici. In epoca coloniale in europa fiorisce tutta una letteratura relativa ai rischi delle malattie tropicali, agli stili di vita o alle norme igieniche cui conviene atterrerei nelle colonie; l’industria farmaceutica e la moda riflettono questi interesse. Secondo De Boismont le preghiere collettive, le forme di esperienza religiosa diverse da quella occidentali favoriscono l’insorgenza di disturbi mentali; lo stato mentale della maggioranza dei musulmani è una mescolanza di follie. E’ sempre la religione dell’altro quella che rileva un nucleo psicopatologico minaccioso, i cui tratti sono descritti come maniacali, ossessivi o deliranti; vi è una forte tendenza di considerare complesse esperienze religiose come forma smascherata di follie., soprattutto per quanto riguarda la trance da possessione. In Africa è la scuola di Algeri, guidata da Porot a dominare il panorama della psichiatria coloniale. L’impossibilita di prendersi cura di un altro di cui si ignora tutto, che si considera rozzo, che diventa oggetto di disprezzo: non è possibile curare un altro a cui p negata l’umanità stessa. Porot costituisce la singolare fenomenologia del mondo musulmano, nella quale credulita, infantilismo e suggestionabili sono ripetutamente evocati per descrivere la presunta inclinazione di questi uomini a una condizione patologia o a una resistenza intellettuale. Le considerazioni dell’autore sono significative perche in esse, nono stante sia assente ogni seria indagine antropologia, si afferma tra le righe la pretesa di un discorso antropologico, volto cioè a descrivere e interpretare presunti tratti culturali o stili di pensiero. Alterità culturale e psicopatologica sono qui spesso sovrapposte sino a deformare l’altro, la sua realtà sociale la sua storia (esempio donna svizzera appunti). La diagnosi è soprattutto rivelatrice dei rapporti fra coloni e colonizzati e costituisce un espressione eloquente della facilita con la quale la naturalizzazione medica ridefiniva in termini diagnostici di segno morale comportamenti e scelte nei quali era riconoscibile un senso sociale e politico. La scuola di Algeri avrebbe lasciato una traccia profonda nella storia della psichiatria in Africa, l’immagine coloniale dell’uomo africano penetra cosi nelle rappresentazioni colte dell’altro. Sullo sfondo dai modelli diagnostici proposti da psichiatri come Porot prende rilievo un ulteriore profilo: il singolare intreccio tra dimensioni cliniche, assistenziali e igienistiche da un lato, il progetto dello stato coloniale dall’altro. L’intreccio tra questi ambiti ebbe tra i suoi effetti quello di creare il soggetto coloniale, ovvero l’assoggettamento degli uomini. Nel 1918, con la fine della schiavitù, nacque l’epoca moderna dell’imperialismo e della globalizzazione, e in questo scenario il ruolo di psicologie psichiatri occupa un posto particolare. La colonizzazione mentale dell’altro procederà attraverso un accurata classificazione delle differenze, la questione della stregoneria diventerà un avere e propria ossessione. Fondamentale è il caso delle sindromi legate alla cultura: L’amok (appunti) L’etnopischiatria in epoca coloniale aveva perpetuato un’interpretazione sostanzialistica della nozione di cultura: immaginata come un sistema coerente, condivido, essenzialmente chiuso, la cultura dell’altro era stata adottata come la variabile in grado di spiegare fenomeni di dipendenza, forme di sofferenza e modelli di comportamento. Essa si negava di fatto la possibilita di comprendere il significato di sintomi o rituali nelle cui pieghe erano spesso dissimulato altri conflitti. L’etnppsichiatria coloniale, oggi messa definitivamente in discussione dall’antropologia, non riconosce i motivi sociali e politici che operano sullo sfondo dei disturbi psichici, nelle nuove espressioni di religiosità o nelle lotte dei popoli colonizzati. In quell’epoca è difficile comprendere l’altro rimanendo fedeli ai presupposti politici, morali e culturali delle scienze coloniali. Non è un caso se soltanto dopo l’indipendenza dei paesi colonizzati si realizzano le condizioni minime perche possano vederla luce un’etnopsichiatria e una psichiatria transculturale metodologicamente più rigorose, attente ai saperi locali, in grado di prendere le distanze dalle ipocrisie e dalle contraddizioni dell’epoca coloniale. V. LE BASI DELL’ETNOPSICHIATRIA CONTEMPORANEA : GEORGES DEVEREUX L’etnopsichiatria di D. disegna un originale forma di interdisciplinarietà, dove i saperi chiamati ad interagire- l’antropologia, la psichiatria, la psicoanalisi, la storia delle religioni- dovranno pero operare una preliminare ridefinizione dei propri oggetti di studio: la malattia mentale, la norma, l’identità, l’adattamento, il sacro… D., Nato agli inizi del 900 in Transilvania come Dobo, ebreo, trasferitosi a Parigi si converte al cattolicesimo e cambia nome. Egli partecipa a un clima culturale dove si impone contro l’antropologia prevalentemente fisica dell’epoca, la nuova corrente di studi dell’etnologia francese. Diretta dal gruppo di Mauss, Rivet, l’etnologia intende definitivamente distanziarsi da un’antropologia volta a classificare l’umanitaria specie e razze. Nei paesi anglosassoni si usa il termine antropologia (sociale nel Regno unito e culturale negli Stati Uniti) a marcare questo nuovo percorso di studi. I Contrasti con la società psicoanalitica negli USA sono importanti non solo per la rilevanza che ebbero nella biografia di d., ma anche per il peso che eserciteranno sulle sue teorie, in particolare quelle concernenti le psicoterapie tradizionali, il ruolo dello sciamano e l’efficacia delle sue cure. La sua riflessione si focalizza sui modi in cui sono raccolti i dati dell’antropologia: sia i motivi alla base delle scelte metodologiche, sia il ruolo dell’inconscio nella selezione dei fatti e nella produzione delle teorie. Secondo l’autore, la personalità dell’etnografo determinerebbe la sua predilezione per alcune tribù. Egli ritiene che il ruolo della cultura esercita sulla struttura della personalista debba essere indagato nei suoi effetti soprattutto dopo il raggiungimento della fase edipica: prima di quest’ultima i suoi condizionamenti sarebbero irrilevanti. Devereux non perde occasione per definirsi anticulturalista, rifiutando di concepire la cultura come una realtà esterna e superiore. A determinare scelte, attitudini, profili di personalità non ce solo la cultura, ne è possibile condurre sempre a essa la totalità dei comportamenti individuali. Le critiche di D. erano dirette contro l’idea di un determinismo culturale inteso in senso meccanicistico, ma non intendevano negare certo il ruolo che esercita la cultura sulla personalità, sul comportamento o sulla costruzione di teorie scientifiche. D. non manca di sottolineare la necessita di congiungere psichiatria e antropologia, dal momento che solo all’interno di una particolare cultura il dato psichiatrico trova la sua totalità di significati. Un adeguato approccio etnopsichiatrico dovrebbe consentire, proprio a partire dall’analisi del modo in cui vengono trattati dagli individui i materiali culturali, di riconoscere se il paziente che abbiamo di fronte sia nevrotico, psicotico. Cio che rende davvero scientifica una teoria è in primo luogo la rinuncia a essere totalizzante nelle sue interpretazioni o spiegazioni delle cause di un fenomeno, e inoltre a testarda ricerca di complementi interpretativi in altri campi disciplinari. D. compie un passo ancora più coraggioso: non ci si può limitare a mettere in luce solo i motivi coscienti o quelli che, inconsapevolmente, possono orientare le scelte teoriche dell’osservatore: bisogna guardare a quelli propriamente inconsci quali solo la psicoanalisi riesce a rivelare. L’irriducibilita reciproca del sociologico allo sociologico e la loro mutua necesista costituiscono l’argomento con il quale D. critica quanti immaginano un’interdisciplinarieta banale. L’analisi dei nuclei inconsci presenti nello sperimentatore, nel clinico o nell’etnologo, rivela preziosa anche per comprendere il ruolo che l’ideologia esercita nella produzione delle teorie scientifiche. Lo scienziato, benché consapevole delle pressioni cui è sottoposto, generalmente non riconosce quanto esse possano contribuire a deformare la realtà osservata e la sua interpretazione. Da notare è anche la complicità che spesso si stabilisce tra etnologo e informatore, una complicità che spesso induce quest’ultimo ad aderire alle aspettative del primo riproducendo la realtà sociale solo o prevalentemente in quegli aspetti che interessano al ricercatore. Fra i passaggi più importanti della sua critica, vanno ricordati anche quelli sull’influenza che il ‘modello razziale del se’ esercita sull’operare del clinico, e quelli sulle conseguenze che può avere nella diagnosi clinica l’ingenua attesa che un paziente di etnia diversa debba necessariamente apparire diverso. Il Relativismo culturale è una modalità di confronto con la variabilità e la molteplicità di costumi, culture, lingue, società. Ogni società è diversa e unica dalle altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. La critica di d. indica in modo inequivocabile quanto fosse diffusa gia molti anni fa la consapevolezza dei limiti e dei rischi di un relativismo culturale ingenuo. D si volge a interrogare in modo sistematico le dinamiche inconsce, l’ansia o la reazione di angoscia che talvolta sperimentano gli psichiatri o, rispettivamente, gli etnologi di fronte al dato dell’alterità. L’autore vuole cogliere meno le ragioni politiche o economiche quanto piuttosto i presupposti psicologici , la loro natura di rimozioni individuali e collettive. L’influenza di Levis-Strauss è facilmente riconoscibile; l’antropologo francese scriveva del rischio che assedia costantemente l’etnografo: vittima, nel corso della sua ricerca, di fraintendimenti in virtu del fatto che nulla, all’infuori della ETNOPSICHIATRIA sofferenza mentale e alterità fra storia, dominio e cultura R. Beneduce. I. POLITICHE DELLE CULTURA E DELLA SOCIETA’ Recentemente l’accusa verso l’etnopsichiatria clinica si è concentrata soprattutto sull’utilizzo di tecniche psicoterapeutiche ispirate al lavoro di guaritori e sulla valorizzazione di altri mondi della cura. Le questioni lasciate irrisolte dal colonialismo sono oggi delle ferite nell’immaginario africano, che riportano alla luce i temi del dominio, della dipendenza, dell’egemonia culturale. La memoria della colonizzazione e della schiavitù nutre le rappresentazioni contemporanee della stregoneria, di Mami Wata, della musica. L’etnopischiatria è dunque una questione postcoloniale. Sino angli anni 30 dell’Ottocento si sono accumulati dati e ricerche sui modelli interpretativi della malattia, sulle conoscenze relative alle piante medicinali, sulle complesse nozioni di persona. Tuttavia fino agli anni 60 del 900 la psichiatria praticata nei paesi colonizzati rimane saldamente ancorata agli stereotipi evoluzionistici e ai vecchi modelli interpretativi del rapporto fra cultura e malattia mentale: modelli caratterizzati da molti pregiudizi, da un uso discutibile della nozione di cultura e da un interesse prevalentemente classificatorio. La psichiatria non si curava delle contraddizioni economiche, dei rapporti di forza e conflitti morali, ma anche delle conseguenze della violenza quotidiana, sia materiale che simbolica; psichiatria e medicina coloniale continuavano a vedere l’altro come inferiore, estraneo. Bourdieu parla di violenza simbolica per definire alcuni aspetti della relazione del sessismo, del razzismo, del tipo di rapporti che si stabilirono in epoca coloniale e che conobbero proprio nelle scienze del corpo e nei discorsi sulla salute mentale espressioni esemplari. Il potere simbolico è il potere di agire sul mondo agendo sulla rappresentazione del mondo; attraverso l’imposizione di nuove regole di comportamento o di abbigliamento, con l’introduzione di un nuovo sistema educativo e un diverso ordine morale o religioso, si crea una forma di violenza invisibile ma non meno profonda. L’esperienza di arruolamento nelle armate coloniali costituisce un caso particolare delle complesse dinamiche psicologiche e sociali che scandirono l’epoca coloniale; coloro che si arruolavano si sentivano fortemente sostenuti e gratificati dalla loro nuova identità, potevano dimenticare o accantonare la condizione di alienazione sociale e politica di uomini colonizzati nel momento stesso in cui si percepivano superiori alla popolazione civile. Diventare soldato continua ad essere oggi per molti giovani la sola strada disponibile per asserire un potere, affermare la propria identità. Una forma particolare di violenza simbolica è quella che operava attraverso i dispositivi di cura e le strategie diagnostiche della psichiatria coloniale: che provava a spiegare, sulla base delle differenze culturali, comportamenti individuali e collettivi, sintomi o pratiche rituali senza troppa preoccupazioni nel distinguere gli uni dagli altri. La psichiatria tendenza a culturizzare e medicalizzare, nella forma di conflitti psicologici o di disturbi del comportamento, vicende dall’inequivocabile significato politico e sociale. Assumendo questa prospettiva, essi perpetuavano la lunga e oscura storia di giudizi che per secoli avevano definito i membri delle società non occidentali alla stregua di animali. Il confronto con l’altro si definisce generalmente sotto le forme di un rapporto perverso, dove le differenze finivano col legittimare atti di dominio, di genocidio. (esposizioni universali: zoo umani) Le immagini della follia, dell’alterità psichica e della devianza finiscono per denominare e spiegare l’altro culturale, la sua resistenza, la sua disobbedienza. Haiti, dopo la dipendenza del 1804, divenne un’entità politica isolata. Con l’abolizione della schiavitù essa rappresentava per molti repubblicani un’intollerabile provocazione. In questi anni, i giudizi sulla popolazione di haiti erano negativi: superstiziosa, dedita ad attività sessuali sregolate, influenzata dal vodu, ossessionata dalla stregoneria. In realta i simboli e la pratiche del vodu hanno molti termini e figure provenienti dalla chiesa cattolica. Anche per l’epidemia di AIDS si era attribuita la colpa e giudizi negativi sulle persone dell’isola. Cartwright, medico chirurgo ad haiti propone il termine drapetomania per spiegare il tentativo degli schiavi di fuggire dalle piantagioni; in questo caso egli consigliava di frustrare i fuggitivi e tagliare loro le dita dei piedi; gli Haitiani offrivano a suo giudizio anche una patologica indifferenza, siccome le ferite non impedivano loro di correre. Come in molti altri paesi, il sadismo dei dominatori e la violenza dei coloni sarebbero stati proiettati sugli schiavi e sui colonizzati attribuendo oro pratiche selvagge o immorali, o tratti patologici immaginari. Le categorie proposte per nominare l’altro, per diagnosticare il suo comportamento e giudicarlo dentro un registro clinico, esprimono anche un problema ulteriore: il potere viene usato anche in relazione all’ineguale accesso alla creatività semantica, inclusa la capacita di nominare gli altri come eguali o ineguali. L’effetto di questa strategia, rivolta a negare dignità politica a quegli atti di contestazione e di ribellione, sarebbe stato la distorsione del senso di vicende sociali ed esperienza individuali. Tali formule, impropriamente articolate con espressioni della sofferenza psichica, avrebbero contribuito a occultare la violenza e l’oppressione. Nella storia delle malattie in Africa, le ragioni delle epidemie sono attribuite alternativamente all’ambiente malsano o alle condizioni igieniche o alla variazioni introdotta dalla modernista e dall’evento della colonizzazione, allo stesso modo, i livelli di salute e l’attesa di vita media sarebbero drammaticamente migliorate con l’avvento della medicina occidentale o alternativamente, si sarebbero mantenuti costanti o peggiorati. (es Sifilide in Uganda, Lambkin) Quanto ai guaritori, essi sono stati descritti di volta in volta come saggi e coraggiosi o più spesso come maghi, ciarlatani, incapaci. II. PIONIERI DELLA PSICOLOGIA TRANSCULTURALE: DE LA TOURETTE E KRAEPELIN parlare delle origino dell’etnopsichiatria significa orientarsi nell’orizzonte coloniale e nelle sue particolari rappresentazioni dell’altro: qui, medici e psichiatrici parlano di singolari disturbi del comportamento di categorie diagnostiche esotiche, ma anche di popolazioni da correggere. La psichiatria transuculturale nasce prima dell’etnopsichiatria; l’espressione avrebbe indicato soprattutto lo studio comparativo di malattie, sindromi o strategia terapeutiche in culture diverse, ovviamente con il particolare ruolo di giudizio superiore rivestito dalla scienza occidentale, mai messa in discussione. Agli inizi del 900 K.studia a Giava (colonia olandese) con lo scopo di valutare incidenza e manifestazioni dell’affezione che egli stesso aveva chiamato dementia praecox. che avrebbe fornito le base di quella che poi sarebbe diventata la schizofrenia. La sua ricerca pone anche le premesse della contemporanea egemonia delle categorie e dei metodi della psichiatria occidentale. K propone interpretazioni delle differenze epidemiologiche registrate sulla base delle caratteristiche della cultura locale, egli spiega ad esempio la minore incidenza della depressione con la scarsa propensione di elaborazione di idee elaborate. Solo all’uomo di genio si riconosce la piena consapevolezza della finitudine dell’esistenza e della condizione umana, e la possibilita dunque di sviluppare a melanconia. K. non ha dubbi nel sostenere che la povertà delle ideazioni deliranti è da ricondurre al basso livello di sviluppo intellettuale, mentre la rarità delle allucinazioni uditive sarebbe da connettere al fatto che la parola non ha la stessa importanza che fa in Occidente. De la Tourette, famoso neurologo dal cui nome prende origine la sindrome, condusse il primo vero studio comparativo condotto in paesi diversi allo scopo di confrontare affezioni descritte con categorie differenti e differentemente interpretate dalla popolazione, ma caratterizzate da profili sintomatologici-comuni. Se la psicologia transuclturale si occupa essenzialmente di comparazioni, l’etnopsichiatria connette cultura, malattia e cura all’interno di un particolare contesto culturale, religioso, sociale con una scarsa comparazione per altri quadri. (con Deveraux) Il problema essenziale è quello di indagare l’intreccio delle idee e delle pratiche, l’uso sociale e politico delle categorie di volta in volta proposte, l’ideologia e le rappresentazioni dell’altro che esse contribuiscono a riprodurre. III. L’OCCULTAMENTO DELLA STORIA E L’ASSOGGETTAMNETO DELL’ALTRO NELLE COLONIE La psichiatria e la medicina coloniali si impegnarono a curare popolazioni percepite come espressione di una umanità sofferente, schiacciata dal peso congiunto dell’ignoranza e del pensiero magico oltre che da feroci condizioni ambientali, esse si sforzarono di introdurre forme più moderne di assistenza sanitaria, di cui i primi a beneficiare furono i coloni stessi. La regolazione parallela di corpo e mente assunse quasi ovunque un carattere politico offrendo al tempo stesso un asserii di categorie diagnostiche , di interpretazioni e di modelli volti sia a giustificare l’ordine coloniale sia a tradurre conflitti sociali o attitudini religiose in equivalenti psicopatologici. In epoca coloniale in europa fiorisce tutta una letteratura relativa ai rischi delle malattie tropicali, agli stili di vita o alle norme igieniche cui conviene atterrerei nelle colonie; l’industria farmaceutica e la moda riflettono questi interesse. Secondo De Boismont le preghiere collettive, le forme di esperienza religiosa diverse da quella occidentali favoriscono l’insorgenza di disturbi mentali; lo stato mentale della maggioranza dei musulmani è una mescolanza di follie. E’ sempre la religione dell’altro quella che rileva un nucleo psicopatologico minaccioso, i cui tratti sono descritti come maniacali, ossessivi o deliranti; vi è una forte tendenza di considerare complesse esperienze religiose come forma smascherata di follie., soprattutto per quanto riguarda la trance da possessione. In Africa è la scuola di Algeri, guidata da Porot a dominare il panorama della psichiatria coloniale. L’impossibilita di prendersi cura di un altro di cui si ignora tutto, che si considera rozzo, che diventa oggetto di disprezzo: non è possibile curare un altro a cui p negata l’umanità stessa. Porot costituisce la singolare fenomenologia del mondo musulmano, nella quale credulita, infantilismo e suggestionabili sono ripetutamente evocati per descrivere la presunta inclinazione di questi uomini a una condizione patologia o a una resistenza intellettuale. Le considerazioni dell’autore sono significative perche in esse, nono stante sia assente ogni seria indagine antropologia, si afferma tra le righe la pretesa di un discorso antropologico, volto cioè a descrivere e interpretare presunti tratti culturali o stili di pensiero. Alterità culturale e psicopatologica sono qui spesso sovrapposte sino a deformare l’altro, la sua realtà sociale la sua storia (esempio donna svizzera appunti). La diagnosi è soprattutto rivelatrice dei rapporti fra coloni e colonizzati e costituisce un espressione eloquente della facilita con la quale la naturalizzazione medica ridefiniva in termini diagnostici di segno morale comportamenti e scelte nei quali era riconoscibile un senso sociale e politico. La scuola di Algeri avrebbe lasciato una traccia profonda nella storia della psichiatria in Africa, l’immagine coloniale dell’uomo africano penetra cosi nelle rappresentazioni colte dell’altro. Sullo sfondo dai modelli diagnostici proposti da psichiatri come Porot prende rilievo un ulteriore profilo: il singolare intreccio tra dimensioni cliniche, assistenziali e igienistiche da un lato, il progetto dello stato coloniale dall’altro. L’intreccio tra questi ambiti ebbe tra i suoi effetti quello di creare il soggetto coloniale, ovvero l’assoggettamento degli uomini. Nel 1918, con la fine della schiavitù, nacque l’epoca moderna dell’imperialismo e della globalizzazione, e in questo scenario il ruolo di psicologie psichiatri occupa un posto particolare. La colonizzazione mentale dell’altro procederà attraverso un accurata classificazione delle differenze, la questione della stregoneria diventerà un avere e propria ossessione. Fondamentale è il caso delle sindromi legate alla cultura: L’amok (appunti) L’etnopischiatria in epoca coloniale aveva perpetuato un’interpretazione sostanzialistica della nozione di cultura: immaginata come un sistema coerente, condivido, essenzialmente chiuso, la cultura dell’altro era stata adottata come la variabile in grado di spiegare fenomeni di dipendenza, forme di sofferenza e modelli di comportamento. Essa si negava di fatto la possibilita di comprendere il significato di sintomi o rituali nelle cui pieghe erano spesso dissimulato altri conflitti. L’etnppsichiatria coloniale, oggi messa definitivamente in discussione dall’antropologia, non riconosce i motivi sociali e politici che operano sullo sfondo dei disturbi psichici, nelle nuove espressioni di religiosità o nelle lotte dei popoli colonizzati. In quell’epoca è difficile comprendere l’altro rimanendo fedeli ai presupposti politici, morali e culturali delle scienze coloniali. Non è un caso se soltanto dopo l’indipendenza dei paesi colonizzati si realizzano le condizioni minime perche possano vederla luce un’etnopsichiatria e una psichiatria transculturale metodologicamente più rigorose, attente ai saperi locali, in grado di prendere le distanze dalle ipocrisie e dalle contraddizioni dell’epoca coloniale. V. LE BASI DELL’ETNOPSICHIATRIA CONTEMPORANEA : GEORGES DEVEREUX L’etnopsichiatria di D. disegna un originale forma di interdisciplinarietà, dove i saperi chiamati ad interagire- l’antropologia, la psichiatria, la psicoanalisi, la storia delle religioni- dovranno pero operare una preliminare ridefinizione dei propri oggetti di studio: la malattia mentale, la norma, l’identità, l’adattamento, il sacro… D., Nato agli inizi del 900 in Transilvania come Dobo, ebreo, trasferitosi a Parigi si converte al cattolicesimo e cambia nome. Egli partecipa a un clima culturale dove si impone contro l’antropologia prevalentemente fisica dell’epoca, la nuova corrente di studi dell’etnologia francese. Diretta dal gruppo di Mauss, Rivet, l’etnologia intende definitivamente distanziarsi da un’antropologia volta a classificare l’umanitaria specie e razze. Nei paesi anglosassoni si usa il termine antropologia (sociale nel Regno unito e culturale negli Stati Uniti) a marcare questo nuovo percorso di studi. I Contrasti con la società psicoanalitica negli USA sono importanti non solo per la rilevanza che ebbero nella biografia di d., ma anche per il peso che eserciteranno sulle sue teorie, in particolare quelle concernenti le psicoterapie tradizionali, il ruolo dello sciamano e l’efficacia delle sue cure. La sua riflessione si focalizza sui modi in cui sono raccolti i dati dell’antropologia: sia i motivi alla base delle scelte metodologiche, sia il ruolo dell’inconscio nella selezione dei fatti e nella produzione delle teorie. Secondo l’autore, la personalità dell’etnografo determinerebbe la sua predilezione per alcune tribù. Egli ritiene che il ruolo della cultura esercita sulla struttura della personalista debba essere indagato nei suoi effetti soprattutto dopo il raggiungimento della fase edipica: prima di quest’ultima i suoi condizionamenti sarebbero irrilevanti. Devereux non perde occasione per definirsi anticulturalista, rifiutando di concepire la cultura come una realtà esterna e superiore. A determinare scelte, attitudini, profili di personalità non ce solo la cultura, ne è possibile condurre sempre a essa la totalità dei comportamenti individuali. Le critiche di D. erano dirette contro l’idea di un determinismo culturale inteso in senso meccanicistico, ma non intendevano negare certo il ruolo che esercita la cultura sulla personalità, sul comportamento o sulla costruzione di teorie scientifiche. D. non manca di sottolineare la necessita di congiungere psichiatria e antropologia, dal momento che solo all’interno di una particolare cultura il dato psichiatrico trova la sua totalità di significati. Un adeguato approccio etnopsichiatrico dovrebbe consentire, proprio a partire dall’analisi del modo in cui vengono trattati dagli individui i materiali culturali, di riconoscere se il paziente che abbiamo di fronte sia nevrotico, psicotico. Cio che rende davvero scientifica una teoria è in primo luogo la rinuncia a essere totalizzante nelle sue interpretazioni o spiegazioni delle cause di un fenomeno, e inoltre a testarda ricerca di complementi interpretativi in altri campi disciplinari. D. compie un passo ancora più coraggioso: non ci si può limitare a mettere in luce solo i motivi coscienti o quelli che, inconsapevolmente, possono orientare le scelte teoriche dell’osservatore: bisogna guardare a quelli propriamente inconsci quali solo la psicoanalisi riesce a rivelare. L’irriducibilita reciproca del sociologico allo sociologico e la loro mutua necesista costituiscono l’argomento con il quale D. critica quanti immaginano un’interdisciplinarieta banale. L’analisi dei nuclei inconsci presenti nello sperimentatore, nel clinico o nell’etnologo, rivela preziosa anche per comprendere il ruolo che l’ideologia esercita nella produzione delle teorie scientifiche. Lo scienziato, benché consapevole delle pressioni cui è sottoposto, generalmente non riconosce quanto esse possano contribuire a deformare la realtà osservata e la sua interpretazione. Da notare è anche la complicità che spesso si stabilisce tra etnologo e informatore, una complicità che spesso induce quest’ultimo ad aderire alle aspettative del primo riproducendo la realtà sociale solo o prevalentemente in quegli aspetti che interessano al ricercatore. Fra i passaggi più importanti della sua critica, vanno ricordati anche quelli sull’influenza che il ‘modello razziale del se’ esercita sull’operare del clinico, e quelli sulle conseguenze che può avere nella diagnosi clinica l’ingenua attesa che un paziente di etnia diversa debba necessariamente apparire diverso. Il Relativismo culturale è una modalità di confronto con la variabilità e la molteplicità di costumi, culture, lingue, società. Ogni società è diversa e unica dalle altre, mentre i costumi hanno sempre una giustificazione nel loro contesto specifico. La critica di d. indica in modo inequivocabile quanto fosse diffusa gia molti anni fa la consapevolezza dei limiti e dei rischi di un relativismo culturale ingenuo. D si volge a interrogare in modo sistematico le dinamiche inconsce, l’ansia o la reazione di angoscia che talvolta sperimentano gli psichiatri o, rispettivamente, gli etnologi di fronte al dato dell’alterità. L’autore vuole cogliere meno le ragioni politiche o economiche quanto piuttosto i presupposti psicologici , la loro natura di rimozioni individuali e collettive. L’influenza di Levis-Strauss è facilmente riconoscibile; l’antropologo francese scriveva del rischio che assedia costantemente l’etnografo: vittima, nel corso della sua ricerca, di fraintendimenti in virtu del fatto che nulla, all’infuori della sua stessa soggettività, gli consentiva di entrare in contatto con l’indigeno. E’ l’inconscio il terreno d’incontro per eccellenza fra etnografo e indigeno, ed è proprio questo il luogo che consente di superare le difficolta perche è nell’inconscio che oggettivo e soggettivo si incontrano. LS pensa meno all’inconscio freudiano quanto a un inconscio strutturale: pura funzione al cui legge è quella del dispositivo simbolico. In virtù di questa capacita di intermediazione l’incoccio consente al ricercatore di porsi in relazione con forme di attività mentali che sono condivise da tutti gli uomini: di qualunque epoca e luogo. D. analizza profondamente il ruolo degli sciamani e delle medicine tradizionali, in cui sembra mostrare un’ambivalenza irriducibile: se da un lato riconosce il valore delle teorie tradizionali o la ricchezza dei locali sistemi di sapere, dall’altro esita ad attribuire un efficace ruolo terapeutico al guaritore e allo sciamano, cio per due motivi: - Il primo è la mancanza di una teorie scientifica del transfert e controtransfert nelle loro strategie di cura - Il secondo è il grado di sofferenza psichica dello sciamano stesso (non percepita come malattia dalla comunità e tuttavia inequivocabilmente tale agli occhi della etnopsichiatria) Il concetto criticato è ancora una volta quello di relativismo culturale, definito come ingenuo laddove si trasforma in nichilismo scientifico o incoraggia deliberatamente dei sistemi deliranti a farsi passare per teorie scientifiche. La psicoterapia metaculturale e metaetnografica deve adottare una neutralità culturale, analoga a quella affettiva dello psicoanalista, deve separarsi da ogni curiosità di natura etnologica che rischierebbe di distorcere profondamente lo scopo del lavoro clinico, che è e rimane sempre quello di curare il paziente. D. intende sottolineare che la psicoterapia transculturale non deve dimenticare di considerare l’individuo nella sua singolarità. Pur consapevole del peso delle dimensioni inconsce nella costruzione delle teorie, Devereux sembra però incapace di esaminare criticamente il loro ruolo e prendere le distanze dalle proprie vicende personali. L’argomento delle cure scismatiche viene ripreso nel suo scritto sulla normalità e anormalità del 1956, che di evolve attorno gli argomenti di inconscio etnico, dello statuto psichico dello sciamano e il valore delle sue cure e la definizione di trauma. 1) l’inconscio etnico è quella parte dell’inconscio comune alla maggior parte dei membri della sua cultura, esso si trasmette di generazione in generazione, e anch'esso è fatto di rimozioni. La sua ipotesi offre una prospettiva per comprendere perché in determinate society si siano sedimentate attitudini specifiche: ad esempio quella che attribuisce sempre all’altro la responsabilità del male e degli insuccessi, un vero e proprio habitus proiettivo. 2) Devereux sostiene che lo sciamano sia essenzialmente patologico, affetto da una specifica malattia, e sostiene queste ipotesi attraverso i seguenti argomenti: - Le società vedono senza difficolta nello sciamano un elemento perturbatore dell’ordine sociale , e riconoscono i suoi tratti sintomatologici - A differenza dell’isterico o dello psicotico , lo sciamano situa i propri confini nel segmento etnico, lo sciamano è psicologicamente ammalato per ragioni convenzionali e in maniera convenzionale, i suoi sintomi si rivelano nel corso del rituale - La condizione di sciamano non è sempre accolta con favore dell’eletto in ragione del prezzo psicologico che essa impone, il nuovo stato genera sofferenza - Le cure sciamaniche- non fanno che sostituire conflitti e difese con conflitti culturalmente convenzionali e sinonimi ritualizzati L’insistenza sulla condizione di anormalità psichica dell osciamano è nutrita dall’idea che sia possibile e necessario distinguere fra credenza tradizionale e esperienza soggettiva. D. interpreta in definitiva la psicologia dello sciamano come l’esito estremo di un’identificazione con le credenze del suo popolo, questa identificazione rivelerebbe in alcuni casi conflitti inconsci. Sebbene il campo dello sciamanismo sia affollato da impostori e menzogne, LS e altri autori concordano su un aspetto fondamentale: i veri sciamani esistono, sciamani in grado di curare, uomini che non sono ne impostori ne cacciatori di mere suggestioni, riconoscibili nel gesto sobrio che ne caratterizza l’agire. Come cura uno sciamano? lo sciamano è un abreattore professionale, che si incarica di articolare nella cura la parte mancante del malato, di un malato passivo, alienato mentre lo sciamano è l’opposto, è attivo. Pur utilizzando il concetto psicoanalitico di abreazione, LS insiste perché questo concetto veda riconosciuti glia lari significati che ricopre in terapie differenti dalla psicoanalisi. Il problema della verità della cura sciamani e quello della condizione psicologica che caratterizza i suoi protagonisti, ammettono forse una possibile soluzione quando si consideri la complessa natura della relazione triangolare fra i tre poli rappresentati ripetitivamente dallo sciamano , dal malato e dalla società: una relazione al cui interno, malato e sciamano non occupano lo stesso vertice sebbene il secondo mostri comportamenti simili al primo. In questo spazio si realizza un consenso collettivo e virtuoso, in grado di realizzare una complementarità fra pensiero normale pensiero patologico, che le società moderne si ostinano invece a pensare nei termini di un’opposizione. La collaborazione fra tradizione collettiva (cio che nutre una certa credenza) e invenzione individuale (quella dello sciamano) fa si che si produca una struttura di integrazione fra il deficit e l’aggiunta, correggendo il rischio di una deriva patologica e permettendo alla collettività di trarre vantaggi. E’ ancora al sociale che occorre rivolgersi per dire se quella dello stregone sia normalità o patologia, verità o impostura, cura efficace o ingannevole. Metraux, sulla logica della possessione critica indirettamente l’ipotesi di D: - I posseduti non solo i soli a incarnare certe rappresentazioni, c’è continuità tra la loro esperienza e la credenza condivisa, è il gruppo in definitiva a rendere possibili spiegazioni incompatibili - La minore o maggiore autenticità dell’esperienza della possessione non legittima il giudizio di impostura La trance può dunque essere un meccanismo psicologico utile alla salute mentale del gruppo e che gli evita la varietà e molteplicità degli aspetti che rivestono le nevrosi e lue psicosi occidentali. Inoltre, continua Metraux, lo sciamano non si discosta dal comportamento degli altri membri del gruppo perche si possa definirlo psicologicamente disturbato, la mimesi dei comportamenti patologici non autorizza a concludere che lo sciamano sia necessariamente uno psicotico o un nevrotico. L’insight e la riflessività che caratterizza la psicoanalisi costituiscono solo una possibile forma di coscienza di se, caratteristica di una particolare cultura: altre società hanno esplorato modi diversi di consapevolezza e un uso differente di simboli. Le ricerche e i resoconti di LS, Metraux e dopo di Nathan contraddicono in definitiva l’idea che gli sciamani o guaritori siano patologicamente disturbati e contraddicono inoltre l’asserzione secondo cui le loro cure siano sempre imposture e il loro effetti mera suggestione. Importante contributo di D. è l’analisi della schizofrenia nei termini di psicosi etnica, tipica della cultura occidentale (psicosi senza lacrime). D inaugura un approccio che si volge a considerare la psichiatria e la psicoterapia occidentali come un etnopsichiatria fra le altre, cio che per D p importante analizzare è il ruolo che, nella psichiatria occidentale e nelle sue categorie, esercitano i modelli culturali, le rappresentazioni della persona, i valori morali. Nel lavoro del 1965 la schizofrenia viene analizzata nei suoi profili fondamentali (distacco, frammentazione e irrealismo) descritti meno come sintomi e piuttosto come tratti rivelatori di un continuum con la nozione di persona e el ideologie che la governano nella nostra società. L’autore suggerisce un criterio per riconoscere la natura di un disturbo etnico in una particolare affezione: essa si rivelerebbe per intero quando si moltiplica il numero dei casi in cui viene utilizzata una certa diagnosi o aumenta la propensione a produrre diagnosi composite. La contemporanea proliferazione di categorie generiche come disturbo di personalità indicherebbero l’evoluzione allarmante di una psichiatria incapace di riconoscere la natura sociale culturale delle proprie categorie diagnostiche, ignara dei modelli di malattia che orientano e fabbricano l’espressione e il riconoscimento pubblico di sentimenti, malesseri o conflitti. Da queste premesse segue l’affermazione secondo cui la schizofrenia è praticamente incurabile: non in ragione di eziologia biologiche difficili da trattare, ma perche i suoi sintomi fondamentali sono come nutriti dai valori dominanti della società occidentale; se lo psichiatra accetta acriticamente i valori dominanti, se inconsapevolmente vi si identifica modellando al suo interno i criteri del giudizio clinico per affezione dall’evidente carattere etnico come la schizofrenia, non porta realizzare una cura efficace di questi disturbi. D. sottolinea dunque la necessita di indagare le matrici sociali della psichiatria e delle sue categorie, cosi come della malattia mentale in generale. VI. DA ABEOKUTA A DAKAR In Africa, gli anni della decolonizzazione e dell’indipendenza nazionale avevano preparato il terreno perche si affermasse un’ulteriore consapevolezza: negli ospedali, l’ascolto della sofferenza degli uomini e donne, la comprensione dei loro discorsi e dei loro gesti restavano ancora in buona parte da realizzare. E solo a partire dagli anni 50 e 60 che nacque una nuova consapevolezza metodologica, diretta non solo a studiare i sistemi medici tradizionali ma a integrarne conoscenze e pratiche nei sistemi sanitari nazionali. E’ in questo clima che ad Abeokuta (Nigeria) Thomas Lambo da inizio a un’esperienza originale, che sara replicata anche in altri paesi africani. Formatosi in Inghilterra, Lambo ritorna il Nigeria nel 50 con l’incarico dell’Aro Hospital for nervous distasse. Qui decide di avviare un’iniziativa sperimentale : usando il proprio denaro, convince alcuni guaritori a lavorare con lo staff dell’ospedale. Diede avvio ai villaggi terapeutici, dove i pazienti, anche quelli afflitti da gravi disturbi mentali, ritrovano in un contesto comunitario i riferimenti perduti e le premesse della reintegrazione sociale. Lambo vuole realizzare il sincretismo metodologico: la fusione di modelli derivanti dalla psichiatria occidentale con quelli della locale medicina yoruba, le cui complesse pratiche religiose, divinatorie e rituali possono finalmente essere comprese nel loro autentico valore terapeutico. Ciò che si vuole riparare è la frattura fra il folle e la società, fra l’esperienza privata e indicibile del primo e il discorso della comunità. Le idee dello psichiatra si nutrono degli studi di altri ricercatori, come Leighton, i cui studi sugli indiani Navajo e gli Eskimo rappresentano un contributo decisivo, soprattutto per quanto riguarda l’attenzione alle diversità intracultutali, al fatto che gli individui, nelle loro performance, improvvisano sempre. In un celebre studio comparativo sui disturbi mentali, nella cui realizzazione è rilevante l’impronta di Leighton, Lambo analizza gli effetti psicologici e sociali della modernizzazione e i diversi profili della schizofrenia all’interno di una ricerca sui disturbi mentali nella società yoruba; egli nota come al tipologia dei disturbi vari notevolmente in rapporto al grado di scolarizzazione e urbanizzazione degli individui: disturbi somatici e temi ipocondriaci prevalgono quando questi processi sono avanzati, mentre i sintomi derivanti sono più frequenti in un ambiente rurale. I villaggi terapeutici furono effettivi fino all’epoca delle droghe: i villaggi terapeutici non potevano fare molto per questi nuovi problemi, il rischio che i pazienti distruggessero con il loro comportamento era alto, e i guaritori avevano difficolta a governare questi nuovi atteggiamenti. L’espansione urbana finira co, cancellare i villaggi terapeutici. In Senegal, ispirandosi a Lambo, Collomb fu fra i primi a realizzare la consapevolezza che altri modelli di diagnosi e di cura si rendono necessari in Africa. Alla fine degli anni 50 egli è chiamato alla cattedra di psichiatria alla facoltà di medicina di Dakar, dove nel 66 crea un villaggio terapeutico, la cui filosofia è non isolare il malato dal suo ambiente familiare e sociale , lavorare perche egli partecipi alla vita ordinaria della sua comunità. Cio che fa realmente effetto è quella dinamica dei concetti di individuo, di persona e di legame sociale; una risposta esauriente diventa impossibile nel momento in cui si lascia da parte la storia, o non vengono considerate adeguatamente le diverse e mutevoli politiche del se. Della depressione e della colpa si può quantomeno dire che non sono ontologicamente impensabili nelle società africane. Esse si costruiscono all’interno di complesse dinamiche di ordine sociale, familiare, economico, dentro le congiunture che queste determinano nei rapporti interpersonali e nel modo interiore di ciascuno, costruendo la loro specifica forma fra le nuove egemonie che fabbricano i modi per esprimere pubblicamente il proprio malessere. Esse possono svilupparsi ovunque, anche in africa: ma cio non fa necessariamente identici la depressione in senso clinico e il senso di colpa nelle persone italiane o africane. Nei paesi come in Ghana e Costa d’avorio, l’evangelizzazione e il cristianesimo hanno prodotto in pochi decenni un’accelerazione drammatica dei processi di individualizzazione, lacerando la rete di riferimenti culturali e imponendo nuovi modo di sperimentare la propria identita sociale. Cio che l’etnopsichiatria e la psichiatria transuculturale sono invitate a riconoscere sono le nuove modalità di scrittura del se, favorite in epoca coloniale dall’evangelizzazione, e nella postocolonia dalla proliferazione di guerre precarieta, chiese indipendenti ineguaglianze sociali. L’emergere di un soggetto, il passaggio da personaggio a persona, l’affermarsi dell’idea di un uomo indipendente, autonomo sono alla base di quel sentimento di lacerando e e di colpa che invano cerchiamo nelle società asiatiche, medio-orientali o africane, dove l’essere non è pesarle se non in riferimento alla comunità e l’incontro con la divinità è sostanziante collettivo. Nessuna affezione è ontologicamente connessa a un solo contesto socioculturale e se si condividono le premesse secondo cui nessuna cultura è omogenea e impermeabile, e nessuna forma di sofferenza può essere immaginata indipendentemente dalle dinamiche sociali e simboliche che la costruiscono, la producono e la nominano. La prospettiva storica di impone anche il relazione all’emergere di nuovi disturbi, non connessi alle culture quanto piuttosto ai mutamenti sociali, alle nuove forme del religioso o ai nuovi contesti istituzionali nei quali si realizzano esperienze fondamentali come l’apprendimento e l’educazione. Le culture-bound syndrome Si intende un insieme di disturbi e comportamenti descritti all’interno di particolari contesti socioculturali, caratteristici di tali contesi e contraddistinti da una particolare fisionomia sintomatologia. L’espressione era stata proposta agli inizi degli anni 50da Pow Meng Yap, con l’intento di includere i termini di alcune affezioni all’interno del DSM. Yap cercava di sbarazzarsi della nozione di psicosi esotica o atipica, nella quale avvertiva la presenza di un pregiudizio etnocentrico. Esempi Amok Si intende in Malesia un’esplosione acuta di incontrollata violenza, espressa nella forma di una furia omicida senza apparente motivo. Yap e successivamente altri autori, la situarono all’interno delle CBS a carattere reattivo, definendola come un complesso pattern di comportamenti descritto come psicopatologia all’interno della cultura indigena. Cio che è significativo è pero l’atteggiamento sociale e l’interpretazione di un simile atto: descritto come uno strumento di protesta sociale contro le autorità quando abusano del proprio potere, in origine era oggetto di valorizzazione in una cultura dove il guerriero era una figura di spicco. L’amo secondo Carr costituirebbe una forma culturalmente prescritta di comportamento violento, approvata dalla tradizione come una risposta appropriata a un insieme specifico di condizioni socioculturali. L’ipotesi formulata da Carr si fonda sull’analisi del mondo e dei valori culturali malesi, in particolare delle norme che governano l’espressione pubblica delle emozioni e le condotte sociali. La dialettica fra il comportamento giudicato corretto, rispettoso e il comportamento inadeguato di colui che ignora le norme e i valori condividi attraversa la vita quotidiana di ogni membro della società malese. All’individuo che deve fronteggiare frustrazione economiche o incertezze, o che è sottoposto a umiliazioni quotidiane, è come se la tradizione suggerisse alcune strategie di fuga. Dall’analisi dell’amo Carr giunge a proporre una più generale interpretazione delle CBS, al cui interno il maggior rilievo è attribuito all’apprendimento dei valori dominanti, dei comportamenti codificati tipici di una particolare cultura. In Carr si avverte con forza quella distinzione fra illness (sofferenza o malattia in senso soggettivo) e disease (malattia nel senso della biomedicina) che nell’antropologia medica degli anni 80 insisteva sulla distinzione fra la natura culturalmente determinata della prima e la dimensione universale, biologicamente definita, della seconda. L’autore cerca di formulare un compromesso fra ragioni locali e premesse universali, riconoscendo che nell’amo i meccanismi che operano nell’acquisizione dei comportamenti e nella costruzione degli concetti sono quelli comuni a tutte le culture e a tutti gli esseri umani, mentre le categorie che etichettano il comportamento e l’interpretazione delle sue cause sono invece culturali. Il dibattito sull'amo mostra per intero le difficoltà concettuali e i limiti incontrati nelle CBS. Sono numerosi i problemi derivanti dall’uso di tale concetto: - l’analisi dei soli comportamenti manifesti, ritenuti caratteristici di una CBS, non permette di confinare entro il perimetro di una cultura il disturbo considerato - se c’è qualcosa dei connesso in modo caratteristico a una cultura, sono l’interpretazione offerta dalla popolazione, il nome per indicare una certa condizione, i riferimenti all’orizzonte storico-culturale dentro cui esperienze e significati vengono elaborati - la possibilita di introdurre una CBS all’interno di u sistema classificatorio come il DSM non è affatto semplice e urta con cio appena ricordato: il DSm fa riferimento a una prospettiva puramente descrittiva, mentre il valore di un’indagine etnopsichiatrica nasce dalla comprensione del senso che i comportamenti ed esperienza hanno dentro un particolare contesto sociale - le CBS rispondono in definitiva soprattutto ai bisogni comparativi della psichiatria transculturale; l’etnopsichiatria è invece scarsamente interessata alla diagnosi. L’ascolto dei pazienti e l’analisi delle metafore utilizzate costituiscono ancora la strategie più semplice ed efficace per giungere a una maggiore comprensione della sofferenza umana nella cura psichiatrica. Simons china ale CBS costruct-bound- syndromes e offre can tipologia organizzata secondo il ruolo di eventuali fattori neurofisiologici. Ma comunque, fondate su una diversa concezione del male e della cura e su una diversa epistemologia, le loro categorie rimangono scarsamente traducibili nelle categorie della biomedicina e della psichiatria. Tali categorie sono d’altronde impermeabili a vicende sociali ed eventi storici: tanto le prime quanto i secondi possono mutarne il senso individuale e il posto all’interno dell’immaginario collettivo. Successivamente si è andato affermando un approccio mitologicamente più adeguato alle CBS. Tale approccio ha rivolto un’attenzione crescente alle ermeneutiche locali e promosso un’accurata rivisitazione storica delle categorie considerate: come nel caso del windigo, caratterizzato dal presunto comportamento cannibali in chi ne sarebbe affetto. Anche in questo caso le variabili che si impongono al ricercatore trascendono il confine dell’indagine emdico-antropologoca. Windigo Marano ha suggerito che in condizioni di fame, le società nelle quali fu descritta il windigo attribuivano a un membro del loro gruppo, vero e proprio capro espiatorio, la possibilita di realizzare atti cannibali. L’ansia sociale, veniva dunque proiettata sui singoli individuo, denominati appunto windigo. Questa categoria si riferiva probabilmente a individui oppressi dalla rabbia e preoccupazione, che potevano perdere l’autocontrollo. L stessa espressione indicava pero anche il terrore di perdersi nella boscaglia. Questo ripiegarsi delle società su se stesse mostra come nei contesti di incertezza e di violenza generalizzata la sofferenza prodotta può generare modelli di violenza ed esprimersi in forme saldamente radicate a profili e modelli interpretativi culturali. Latah Viene interpretato da Simons come un disturbo avente precise ragioni neurofisiologiche (dunque universale). E’ stato osservato nel contesto asiatico; in queste aree i sintomi descritti come caratteristici di tale sindrome (mimetismo patologico, elevata suggestionabilità) hanno una comune proprietà: contraddicono il valore dominante, ovvero l’autocontrollo, l’ordine. All’interpretazione neurofisiologica proposta da Simons, Kenny oppone l’ipotesi che il disturbo, vera e propria performance sociale, tragga la sua coerente e piena significato e dal contesto culturale in cui è stato comunemente osservato; per Kenny le radici del lataH si trovano all’interno di un preciso orizzonte simbolico e culturale, nella concezione della persona e della psicologia di quelle società, dove è previsto che uno shock o uno stimolo particolare rendano possibile l’eruzione di forze estranee all’interno dell’individuo, generando cosi uno stato di trance. Come risulta evidente dagli esempi riportati, le critiche che hanno mostrato le debolezze delle classificazioni proposte e contribuito a mettere in discussione la legittimità delle CBS sono numerose, ma su tutte dominano due ordini di considerazione. Il primo è propriamente antropologico: solo recidendo interpretazioni locali, modelli di persona e significati, è possibile introdurre taluni comportamenti all’interno di uno schema classificatorio clinico. Dall’altro lato, le CBS, immaginate come tipiche di particolari culture e di definiti contesti geografici, ma atipiche rispetto a quelle della psichiatria occidentale, sottratte alla legge del tempo, queste sindromi sono state descritte in modo tale da farci considerare il lata e l’amo sinonimi di malesia ecc; con l’effetto di occultare i profili muetvoli. Il discorso vale anche per i disturbi classificati nei manuali diagnostici della psichiatria occidentale: la loro costruzione e la loro percezione, la loro esperienza soggettiva e la loro diagnosi riflettono, accanto all’affermarsi di nuovi modelli e conoscenze, anche processi sociali, umori, inquietudini. Anche qui è possibile misurare quanto sindromi e disturbi parlino dei modelli e dei valori dominanti, delle loro contraddizioni. VIII: ETNOPSICHIATRIA IN ITALIA Ernesto De Martino Egli sostiene che la psicoanalisi, pur con diverse sfumature e strategie, sembra non cogliere il valore delle strategiee culturali, la capacità che esse hanno di generare forme di riscatto e interventi efficaci di forte al rischio della crisi, all’evento della morte o della malattia. L’interesse nei confronti della psicologia, della psichiatria e della psicoanalisi ma anche della parapsicologia, permette a DM di addentrarsi all’interno dei campi dome il folklore, la magia o il rituale con una metodologia innovativa ed originale. Egli cerca di situare gli stessi giudizi di razionalità o irrazionalità all’interno di un definito orizzonte storico-culturale. La storia, la cultura vengono cosi opposte alla pretesa di giudizi assoluti sulla condizione umana; in quanto dinamica disintegrativa, il disordine psichico mette in discussione il distacco dalla natura operato da ogni cultura: la distinzione storicamente definita fra salute e malattia, fra ragione e follia, decide pertanto non solo del destino dell’uomo concreto, ma dell’intera comunità: che si trova ogni volta, in modi diversi, interrogata da quella distinzione. Cultura e malattia mentale sembrano costituirsi come l’una l’opposto dell’altra; DM affidaa alla cultura il compito di antagonizzare la disgregazione psicopatologica. Per l’autore una cultura è tale solo se offre l’opportunità di elevarsi al di sopra delle forze della natura, solo se è espressione di un sapere intersoggettivo che si contrappone a una minaccia che isola e separa. DM si oppone tanto al relativismo banale quanto alla presunzione di un sapere psicologico che intende sottrarsi ai vincoli della storia e dei contesti nell’esprimere i suoi giudizi sulla psiche normale o malata. Il tarantismo pugliese fu esaminato dall’autore nella consapevolezza della sua scomparsa; sesso ha subito molte mutazioni: da culto religioso precristiano a rito terapeutico, visto poi come una malattia neurologica, campo dunque della biomedicina per poi trasformarsi in una festa musicale di massa, in celebrazione di ritmi sofisticati. Nell’autore, l’analisi delle condizioni di vulnerabilità, di labilità procede parallelamente alla comprensione del dispositivo magico rituale e delle sue capacita di protezione. L’esplorazione dei modi e della logica che caratterizzano le procedure magico rituali mettono il luce due profili. La magia distingue due funzioni protettive: fonda un orizzonte stabile di rappresentazioni, al cui interno la varietà delle passate crisi individuali trova il suo momento di unificazione e reintegrazione, essa destorifica il divenire, nel senso che l’iterazione di modelli operativi permette di ridurre, di riassorbire la proliferazione storica dell’accadere. Il simbolo mitico-rituale non agisce solo a livello della sfera conscia ma anche a quello della sfera inconscia. Nelle esperienze a valore terapeutico l’alterati viene riconosciuta, nominata e inscritta nell’esistenza stessa dell’individuo. Per l’autore la ragione su cui si fonda l’efficacia tecnica dei riti terapeutici sta proprio in questa contemporaneità di registri: essi funzionano perche agiscono in uno stesso tempo sia sulla sfera dell’incoscio, sia su quella del presente. Gli atti magici, i riti possono indurre nuovi livelli di consapevolezza, guarire, proprio perché essi sono capace di operare anche a livello inconscio. L altro azione non si riduce solo alla pura suggestione, per DM fondamentale è la caratteristica della reiterazione: tanto della ripetizione mitico-rituale quanto di quella caratteristica del sintomo, in questo comune ritmo l’autore coglie la potenza reintegrative di un meccanismo che sta come sospeso tra natura e cultura. Alfonso Maria di Nola Partendo dall’ambito degli studi religiosi, intende indagare le radici e i significati di cerimonie religiose, i saperi medici popolari, la natura e il valore simbolico dei poteri magici, lo sviluppo di sincretismi. Investiga la genealogia di quel sentimento di impotenza e passività che nelle classi popolari contribuire a generare un immaginario subalterno a quello delle classi egemoni ed espressioni peculiari del sentimento religioso. L’esperienza religiosa popolare ha un duplice profilo: se da un lato di si coglie il pluralismo dei modi con i quali è possibile rapportarsi con il sacro, dall’altro si può riconoscere in quella esperienza come il contadino esci saldamente ancorato al suo universo mitico e rituale, proprio perché questo lo connette non a una dimensione di dipendenza generica, ma a una concretezza di esperienze economiche dirette. L’efficacia dei poteri esorcisti è messa in relazione non tanto con la persona che pronuncia la formula quanto con la formula in se, la sua strutturati significante. Importante è il suo contributo al significato di realtà culturale; il reale culturale opera come relata non perché misurabile nella sua essenza perché assunto, accettato e condiviso. Riconoscere che ci sono esperienze e modi di rapporto con il mondo, la malattia, il potere, che non sono sempre riconducibili al nostro reale culturale è un passo fondamentale per concepire altri universi simbolici. Le dicotomie centrali del discorso antropologico, come sacro-profano, riflettono in modo evidente l’orizzonte storico culturale occidentale e cristiano, ma poco sembrano applicabili a society ed epoche dove questa separazione è dotata di una scarsa pertinenza, dove il rapporto con il mondo dell’invisibile non è confinato spazi sacralizzati, dove non costituisce l’eccezione rituale ma investe la totalità dell’esistenza. Michele Risso Traduce gli interessi per la nuova psichiatria comunitaria nell’interrogazione critica delle categorie diagnostiche e dei modelli interpretativi dei disturbi mentali. Il lavoro a Berna con gli immigrati italiani, in larga parte provenienti dal sud, gli offre un campo di ricerca unico per rivisitare i modelli della psichiatria, la psicopatologia del delirio o i significati della cura. Il legame al mondo della tradizione, alla famiglia, appare a lui come vincolo e dilemma dai quali dipende la possibilità di un equilibrio psichico. In un modo ostile, caratterizzato da pregiudizi, quale quello sperimentato da tanti immigrati nella Svizzera degli anni 60, la comunità di origine rimane per essi un ancoraggio decisivo, ma quell’ancoraggio è inevitabilmente in conflitto con le nuove esperienze. I disturbi somatici hanno nell’esperienza dei loro pazienti non solo un particolare idioma della sofferenza, atto rendere comunicabile e condivisibile il proprio stato, ma una sorta di strategia, resa disponibile dalla cultura, che rende più agevole, più pensabile, l’uscita dalla condizione di malattia. In ospedale l’autore ha misurato i limiti dell’approccio diagnostico consueto; i sintomi osservati ( sentimento di ‘essere agiti da’, l’influenzamento della volontà)permettono di identificare una caratteristica sindrome psicopatologica . Ciononostante, l’inquadramento diagnostico presente una grande difficolta, perché gli schemi psichiatrici sembrano non riuscire ad accogliere quei casi e quei racconti di malattia. Altri autori hanno ripreso questo concetto; Kleinman parla di category fallacy, per sottolineare la rettificazione di categorie diagnostiche sviluppate in un particolare gruppo culturale, e successivamente applicate in modo improprio all’interno di ricerche transculturali condotte in altri contesti. Questo orizzonte di significati e di atti magici di protezione è in grado di influenzare positivamente l’evoluzione della malattia, ben più quanto avessero potuto fare le terapie ordinarie. La nozione demartiniana di destorificazione istituzionale, viene ripresa per spiegare come l’esperienza minacciosa sia stat domata e neutralizzata, ma a un prezzo elevato, separando cioè la persona dallo sviluppo storico; quanto è successo viene dimenticato, e i paziento guariscono come se nulla fosse accaduto; i conflitti non vengono integrati, i malati non hanno bisogno di prendere alcunadecisoone e possono preservare la loro passività. Sebbene l’autore riconosce l’efficacia del simbolismo terapeutico, tutto sembra ripetersi in un ciclo temporale, sottratto a ogni possibile trasformazione dell’esistente. IX: MIGRAZIONE, NOSTALGIA E DISAGIO PSICHICO Hofer fu il primo a coniare il termine nostalgia, e altri autori sulla base di questo concetto sottolineano la diversa propensione di alcuni individui o gruppi a sviluppare questo sentimento: coloro che vivono in luoghi isolati, con poche esperienze di viaggio e scarse opportunità di incontrare individui appartenenti ad altre culture, sembrano più vulnerabili al rischio di sviluppare la nostalgia di coloro che vivono in ambienti urbani, abituati all’incontro con gli stranieri. la nostalgia sara un tema ricorrente anche negli scritti della psichiatria coloniale (Porot) Nel corso del XX secolo la nostalgia è interpretata come l’espressione del desiderio inconscio di ritornare alla vita fetale, vi furono autori che non esitarono a etichettare la nostalgia come una forma di psicosi degli immigrati. Fondamentale è la dimensione di critica sociale che si esprime nel sintomo nostalgico. Con nostalgia non si parla solamente della partire dalle diverse forme di una diaspora generalizzata raccontano uno scenario complesso. Al suo interno l’ibridità può semttere di essere un luogo di creatività, di fusione e diventare essa stessa luogo di incertezza, ansia. La mediazione etnoclinica e il rito della traduzione Le esperienze accumulate da parte di diverse equipe in questi anni hanno condotto a valorizzare sempre più il dispositivo della mediazione linguistico-culturale e etnoclinica. A mano a mano che si passa da interazioni semplici a interazioni complesse, ossia a situazioni ricolte ad indurre cambiamenti e nuove consapevolezze, la mera traduzione non basta più, ne può essere un luogo sufficiente per strutturare il campo delle azioni. Il mediatore deve avere in questi casi non solo una competenza linguistica ma essere in grado di intervenire in un ambito assai più indefinito e ampio di relazioni, come sempre storicamente determinate, di vicende dolorose, di diffidenze o sintomi. In un territorio fatto di malintesi, rappresentare e tradurre culture costituisce una vera e propria sfida, e cio richiede necessariamente, sia da parte degli operatori che dei mediatori, disponibilità e competenza. Non ci si deve stupire se il mediatore culturale sia diventato spesso vittima di aspettative e malintesi che avrebbero a loro volta generato conflitti e frustrazioni. Egli deve promuovere o innescare riformulazioni di esperienze, negoziazioni di senso. L’etnopsichiatria della migrazione è per sua stessa natura un complesso dispositivo di mediazione, fra saperi e ,medicine, fra lingue esperienze; un dispositivo che a certe condizioni può essere realizzato con successo anche in assenza della figura fisica del mediatore, purché si sappia far risuonare in tutto il loro potere categorie, nomi, allusioni, purché cioè si abbia la capacita di istituire nel corso della cura il rito della traduzione. Se il dispositivo della mediazione è fondamentale, se esso può rivelarsi in se capace di attivare processi di trasformazione,e perché opera proprio intorno ai paradigmi della narrazione, della creazione di significati, della traduzione di esperienze, contribuisce a generare processi di riformulazione grazie alla costruzione di un altrove sottratto alle leggi discorsive dominanti. L’etnppsichiatria della migrazione non si accontenta di costruire un altro territorio di competenze, di saperi o di specialismi; questa concepire il suo territorio dazio e come luogo di critica della psichiatria e della psicologia occidentali: delle quali intende mettere in luce i limiti epistemologici quando si ostinano a riproporre le proprie procedure e le proprie categorie, anche quando si rivelano inadeguate o insufficienti. Le vicende dello sradicamento, delle esperienze traumatiche dei durissimi contesti ai quali era stato necessario adattarsi, con la consapevolezza di aver lasciato dietro di se solo devastazione e morte, offrivano un territorio privilegiato acne per interrogare il valore delle culture di appartenenza come possibile risorsa terapeutica in situazioni di deprivazione e vulnerabilità. Murphy e Devereux rappresentano con le loro ricerche casi esemplari nel quali l’approccio della psichiatria transculturale e della entopsichiatria si misurano proprio sul terreno delle vicende psicologiche di pazienti che avevano conosciuto i campi di concentramento, la guerra o l’esilio. I rifugiati hanno finito col rappresentare un territorio politicamente sempre più controverso. Le vite dei rifugiati infatti rivelano lo spettro delle contraddizioni politiche, culturali ed economiche, tanto nelle cpeieta d’emigrazione quanto in quelle di arrivo.Le loro esperienze illuminano la violenza della modernita, diventando il commentario corrosivo del nuovo ordine del mondo: il desiderio di essere altro, di essere altrove. Gli sforzi profuso a trasformare questo o quel rifugiato in un buon cittadino integrato, disposto a accettare i consigli degli operatori lasciando che in lui si compi la rapida metamorfosi in uomo economico, trova molti esempi. Gli eventi a favore dei rifugiati rivelano talvolta infatti una struttura analoga al filantropismo e al paternalismo dell’epoca coloniale, l’espressione di una sorta di dominio compassionevole, nel quale i diritti vengono talvolta stritolati in una rete ambivalente di burocrazie. La retorica dell’umanitario finisce allora col silenziare i rifugiati stessi, cancellando le loro differenze e destoricizzando la loro condizione e le oro esperienze. L’attenzione degli operatori sanitari preferisce rivolgersi agli enti che hanno preceduto l’arrivo del richiedente asilo: violenze, torture, traumi. I disturbi attuali sono ricondotti unicamente alle esperienze passate, forzati a trovare in quelle la loro unica genealogia: la categoria del PTSD. In ragione di quel ‘post’ che allontana lo sguardo dalle sfide del presente, dalla opprimente provvisorietà della loro condizione, si finisce cosi col trascurare la rilevanza e l’impatto dello stress nei paesi di arrivo. Shapiro: Eye Movement Desensitization Reprocessing (EMDR): in poche sedute promette di costruire una nuova architettura della memoria individuale grazie alla quale i ricordi traumatici saranno definitivamente dissolti. L tecnica è abbastanza semplice: si invita il paziente a ricordare alcuni aspetti dell’evento traumatico mentre allo stesso tempo egli segue con gli occhi i gesti della mano del terapeuta che la muove. Notando lo spettacolare miglioramento, Shapiro propose l’ipotesi che le memorie traumatiche non avevano potuto subire la normale rielaborazione e collocazione all’interno della memoria, ma erano rimaste come separate. Il movimento oculare o altri tipi di stimoli, associati alla rievocazione dell’esperienza traumatica, arrivavano, secondo l’autrice, nuove vie neuronali, che permettevano finalmente quella rielaborazione delle memorie traumatiche sino a quel momento impossibile. Sullo sfondo di queste strategie terapeutiche l posta in gioco concerne le particolari politiche della memoria e le diverse visioni della storia contenute in ogni modello psicoterapeutico, al comune obbiettivo di rielaborare e neutralizzare le memorie traumatiche, qual è quello perseguiti dall’EMDR ma anche dal alcune pratiche religiose africane. Nel caso di traumi connessi alle violenze hai conflitti evocati, le molteplici esperienze di umiliazione e di terrore alle quali si è stati esposti non ammettono pero un meccanismo di difesa quale quello della rimozione nel senso psicoanalitico del termine. La nozione di PTSD rimane un esemplare strategie di riuscita medicalizzazione della sofferenza, ciò che spiega il suo successo e la sua ormai radicata egemonia mondiale, alla quale si dee riconoscere almeno il merito di aver nuovamente messo in primo piano la realtà dell’evento traumatico. Il suo ingresso ufficiale nella psichiatria è nel 1980, nella terza versione del DSM. In essa confluiscono i sintomi dispersi precedentemente all’interno di altre sintomi o quadro clinici, che d’ora in avanti pero troveranno la loro unita e coerenza all’interno di una formula che en riconduce l’origine a un evento traumatico al di fuori dell’esperienza ordinaria. Nasce per spiegare la sofferenza dei veterani di guerra in Vietnam. Quello che è caratteristico è il ricorrente riemerger dei immagini e ricordi connessi all’evento: un ritorno intrusivo, che si manifesta spesso sotto forma fi flashback o incubi notturni. Il PTSD parla di un passato inquieto, di memorie che sembrano dominare il presente della vittima. SE tale categoria è utile nel descrivere alcune esperienze, essa è incapace di catturare la totalità di significati, inoltre è poco comprensibile quale sia il principio sul quale si possa definire ciò che costituisce o meno l’esperienza umana ordinaria. L’evento traumatico finisce cosi con l’essere a poco a poco naturalizzato, sottratto alla molteplici differenze sociali, culturali e storiche che le contraddistinguono, alle diverse strategie interpretative o terapeutiche messe in scena. Soprattutto, sempre più sfocata diventa la questione della responsabilità umana: eventi naturali, aggressioni, disastri ecologici di origine umana. La questione dell’impunita, di rado discussa nella letteratura sul trauma, è una questione cruciale ed irrisolta; essa, spesso nascosta sotto l’intollerabile formula del segreto di stato o riconciliazione, genera sofferenza, dolore psichico, oltre che impotenza. Curare è difficile se non ce giustizia. Ciò che rende la sofferenza connessa a questa variabile scarsamente rilevante per la clinica, la quale concentra prevalentemente sulla sola dimensione post traumatica la propria attenzione, è dunque una decisione tutta politica. Ancora una volta la cura della sofferenza sembra quasi ritirarsi da territorio della giustizia, preferendo farsi un discorso privato. Riconoscendo il sintomo e il diritto all’indennizzo, il PTSD diventava una potente strategia di depoliticizzazione e, a uno stesso tempo, di socializzazionee della sofferenza psichica connessa a esperienze traumatiche. Questa categoria sembra casi in grado di orientare l’attenzione della nostra sensibilità solo verso alcuni eventi passati, solo verso alcuni gruppi, distogliendo l’attenzione ad altre atrocità, altre vittime e dalla continua riproduzione di questi stessi enti traumatici. Tale categoria consente di nominare e riconoscere disturbi, ma a uno stesso tempo il PTSD privilegia i soli profili individuali della sofferenza, ne cancella gli interrogativi morali e politici e invita a concentrare l’attenzione sullo spazio privato della cura. IN questo senso, nel PTSD una peculiare politica del trauma concerne verso una precisa politica della memoria.
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