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Europa e Stati Uniti dopo la guerra fredda, Sintesi del corso di Storia

L'ultimo quarto di secolo ha visto la scena mondiale percorsa da vicende fra le più intense e drammatiche dalla seconda guerra mondiale: i conflitti in Europa e in Medio Oriente, l'attacco alle Twin Towers, una crisi economica epocale, l'ingresso nell'area del benessere di nuovi paesi, il terrorismo islamista. Gli equilibri politici ed economici sono rimessi in gioco ridisegnando un nuovo scenario mondiale. Gli Stati Uniti come potenza egemone e l'Europa hanno vissuto e vivono una serie di cambi

Tipologia: Sintesi del corso

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Scarica Europa e Stati Uniti dopo la guerra fredda e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! EUROPA E STATI UNITI DOPO LA GUERRA FREDDA GIUSEPPE MAMMARELLA. CAPITOLO 1 ALL'INDOMANI DELLA GUERRA FREDDA. Stati uniti e Europa uscivano dalla guerra fredda in modo diversi da come vi erano entrati. Gli americani avevano vissuto il conflitto con l'unione sovietica più intensamente degli europei e avevano combattuto la guerra fredda come una crociata dove alle motivazioni politiche e ideologiche avevano finito per sovrapporsi quelle religiose e morali. L’Europa dopo la scomparsa di Stalin e l’inizio del disgelo aveva metabolizzato il pericolo sovietico e quello rappresentato dai partiti comunisti nazionali e sembrava essersi adattata all’esistenza di un confronto che andava giocato più su piano politico e diplomatico che sul piano militare. L’obiettivo dei governi gollisti di un accordo con la Russia e di un Europa dall'atlantico agli urali contributiva a smorzare la tensione e la politica distensiva che si affermava dopo lo scenario di una coesistenza indefinita. - La Francia era uscita dalla NATO e conduceva una politica a tutto campo - L’ Italia si muoveva sulla traccia del compromesso storico - La Germania assumeva dagli anni settanta durante i governi della Spd un atteggiamento più soft nei confronti dell’unione sovietica varando l’Ostpolitik è instaurando tra gli anni Settanta e Ottanta una serie di rapporti economici tra i quali il sistema dei gasdotti destinato a crescere finora creare l’attuale dipendenza dell’Europa dal gas russo. - Gli Stati Uniti fin dalle origini del conflitto si erano fortemente impegnati sul piano militare. Alle prime avvisaglie della guerra fredda ricostruivano una struttura militare smobilitata alla fine delle seconda guerra mondiale e che negli anni diventa sempre più potente, senza però riuscire a raggiungere una maggioranza definitiva sull’avversario. L’America oltre alle vittorie subisce anche alcune importanti sconfitte: - Guerra in Corea si concludeva con un compromesso (armistizio) dopo una difficile campagna durante la quale le forze americane avevano corso il rischio di dover abbandonare il paese. - Guerra in Vietnam accompagnata da una serie di critiche da parte degli alleati europei fu una guerra che oltre a segnare una sconfitta sul campo creò anche una profonda crisi nella società americana. - Guerra in Libano nel 1983 marines americani e soldati francesi vengono mandati in Libano per portare il paese alla pace e alla stabilità. La partecipazione europea alla costrizione della NATO non si svolgeva senza riserve o contrasti. Gli americano accuseranno gli europei di aver sfruttato l’ombrello americano senza condividere i costi e le esperienze della guerra fredda. L’Europa realizzerà la sua ricostruzione e il suo ritorno a una posizione di grande potenza economica mondiale anche grazie alla spesa militare contenuta. L’immenso sforzo bellico elle due superpotenze provocherà il crollo del sistema sovietico, ma indebolirà anche l’economia americana. La creazione di un complesso militare industriale contro il quale Eisenhower aveva messo in guardia il Paese alla fine del su mandato inciderà profondamente sul futuro economico dell’America. La decisione di spostare l’attenzione e gli investimenti dall’industria manifatturiera a una economica di servizi e tecnologie nel quadro di una società tecnotronica nasce anche dallo sforzo di ricerca richiesto e reso possibile dal complesso militare industriale. L’economia civile si avvarrà largamente della tecnologia di origine militare ma ciò non sarà sufficiente a sostenere durevolmente l’economia del paese Per la prima volta L’America diventa una grande potenza militare in un tempo di pace e ciò non sarà senza conseguenze sui suoi valori nazionali. Gli anni della guerra fredda sono anche quelli durante i quali il dollaro supplisce alla perdita di potere economica con la forza del potere politico. Mentre la società americana nel suo complesso si impoverisce e con la rivoluzione reaganiana crea nuove diseguaglianze e nuove povertà, L’Europa costruisce un generoso welfare e irrobustisce la propria finanza fino a rendere possibile L’adozione di quella moneta unica inevitabilmente nasce in concorrenza con quella americana. CAMBIANO I VALORI. Ancor più profondamente cambiano i valori delle due società: - America l’esasperazione dell’individualismo e l’indebolimento dello stato e dei suoi organi avvantaggiano i vertici della piramide sociale mentre la base perde reddito e protezione, la nascita della minaccia terroristica porterà una graduale radicalizzazione dei rapporti social umani e dell’adozione di nuove leggi che creeranno chiusure e restrizioni alla libertà degli individui. - Europa i governi al centro e in periferia assumono nuovi compiti e nuovi obblighi nei confronti dei cittadini. La società europea diventa più articolata, le regole sono applicate con maggiore flessibilità e maggiore rispetto delle esigenze individuali. Le vicende della guerra fredda hanno allontanato le due sponde dell’atlantico. Gli affari europei hanno perso importanza nell’economia globale americana, mentre per L’Europa L’America ha cessato di essere un modello come in passato. La nuova fase della storia mondiale apre con tutte le condizioni per una revisione dei rapporti e per la trasformazione di quella che era stata una partnership in una sempre Alleanza fondata sulla partecipazione ai processi decisionali e sulla condivisione delle responsabilità. Nel corso dei due mandati di Bush il gap tra gli obiettivi dell’America neoconservative e quelli di un’ Europa paralizzata dalle proprie crisi istituzionali si allargata fino a provocare quella rottura nell’unità del vecchio continente che si esprimeva nel conflitto tra le due Europe, quella vecchia e quella nuova. La sfida più decisiva per il futuro dell'occidente è quella che gli viene dal resto del mondo: quello in via di sviluppo che con un peso rapidamente crescente reclama di partecipare alle decisione di quello povero. A rischio di sopravvivenza è il mondo multipolare il cui avvento era stato annunciato quasi mezzo secolo prima e che sta moltiplicando i suoi attori nella scena politica mondiale, sconvolgendo cosi le alleanze e gli equilibri. I paesi che più contano non sono più quelli del G8 ma le nuove combinazioni come il G14, il G 20 e le nuove sigle Cindia, Eurussia ecc. Le nuove realtà economiche e politiche si succedono con una velocità mai vissuta dal nostro mondo e rendono difficile non solo previsioni ma anche analisi e valutazioni. CAPITOLO 2 LA GUERRA DEL GOLFO: UN’OCCASIONE PERDUTA. 1.1 DA DESERT SHIELD A DESERT STORM La Guerra del Golfo (1990 – 1991) è stata il risultato di una risultato di una serie di calcoli sbagliati che in prospettiva appaiono difficili da comprendere: 1. Kuwait e dei governi arabi per cui l’uso della forza armata da parte di Saddam Hussein contro un paese fratello appariva impensabile 2. Saddam Hussein illusione di poter impunemente aggredire il Kuwait senza suscitare la reazione dei paesi vicini e degli stati uniti e successivamente quello di poter trattare fino all’ultimo momento un compromesso che accogliesse almeno parte delle prese irachene quando ormai le truppe della coalizione erano schierate e pronte all’attacco. Le rivendicazioni di Saddam a carico del Kuwait risalivano agli anni Sessanta quando l’Iraq rifiutò di ratificare gli accordi con il Kuwait stipulati nel 1961 e poi sistematicamente contestati con la rivendicazione delle due isole Bubuyani e Warba che controllavano l’accesso al Golfo. Nel corso degli anni non mancano incidenti di frontiera provocati dall’Iraq tuttavia negli anni della guerra contro l’Iran il Kuwait, terrorizzato dalle conseguenze di una possibile vittoria dell’Iran Khmeinista, aiuterà finanziariamente l’Iraq. Nonostante ciò le pressione di Baghdad sul Kuwait continuarono e si allargarono fino a pretendere una parte del prodotto del campo petrolifero di Rumaila che dal territorio del Kuwait si estendeva in quello iracheno, Saddam pensava di poter convincere la dinastia regnante, i Sabath a cedere i territori rivendicato dall’Iraq, data la debolezza politica del Kuwait. Inoltre il Kuwait e la dinastia regnante non godevano nel mondo arabo di particolare considerazione dati gli eccessi dei membri del clan Sabath, noti per le loro stravaganze nelle capitali europee. Dopo altri inutili tentativi compiuti alla fine degli anni Ottanta per strappare le concessioni che stavano a cuore agli iracheni più che mai desideri di allargare l’accesso alle acque del Golfo, Saddam dovette convincersi che con il negozi non avrebbe mai ottenuto ciò che voleva. Dalle richieste Baghdad passava alle minacce e quasi parallelamente iniziava una campagna di propaganda antiamericana e anti israeliana che stranamente passò quasi inosservata a Washington. A questo punto le accuse del Kuwait diventavano più precise. Secondo Saddam l’eccesso di produzione del Kuwait sulle quote assente dall’Opac aveva creato forti perdite per l’Iraq e depresso il prezzo del petrolio. Successivamente, assieme alle minacce l’Iraq avanza la precisa richiesta di risarcimento per 27 miliardi di dollari, insieme all’accusa al governo del Kuwait di voler distruggere l’economia irachena. Il tono è quello di un ultimatum in preparazione di una dichiarazione di guerra. Anche l’Opec cercava di fare opera di pacificazione e nel luglio viene parzialmente incontra a Saddam aumentando il costo del barile a 21 dollari e non a 25 come voluto dall’Iraq. COLLOQUIO IMPORTANTE Colloquio che avvenne tra Saddam Hussein e l’ambasciatore americano April Glaspie. Durante il colloquio il dittatore iracheno Affermo che se non avesse ottenuto soddisfazioni per via diplomatica l’Iraq non avrebbe accettato di soccombere. Le affermazioni di Saddam sembrarono soddisfare l’ambasciatore che rispose con affermazioni di circostanza invitando anche Saddam a parlare alle televisioni americane per far conoscere le ragioni dell’Iraq all’America. Molto probabilmente il colloquio con la Glaspie lasciava a Saddam l’impressione che nella disputa con il Kuwait ‘America sarebbe stata imparziale. In realtà con quel colloquio si consumava la commedia degli equivoci. Ciascuna delle due parti ingannata l'altra. I partner europei dell’America che uniti nell’alleanza atlantica dal 1949 avevano partecipato alla crociata contro il comunismo furono colti di sorpresa dalla sua rapida ascesa e si trovarono impreparati a trarne i possibili vantaggi. Dalla fine degli anni settanta il rapporto con L’Europa aveva continuato a perdere importanza, una nuova classe politica meno legata all’Europa si era insediata a Washington e i rapporti tra le presidenze americane e i governi del vecchio continente e tra le rispettive opinione pubbliche non erano più quelli del decennio post bellico. I negoziati che avevano portato in meno di quindici anni alla fine della guerra fredda erano stati condotti dagli americani e i governi europei erano stati interpellati solo in rapporto alla rimozione dei missili americani nei loro territori. All’appuntamento storico dell’89 L’Europa si presentava senza strategia comune: - GB alleata alle politiche americane - FR ancora fuori dalla NATO - IT usciva dagli anni di piombo interpretava il legame con gli stati uniti solo in funzione dei problemi interni. - GE di Bonn sarà il paese che più indirettamente riuscirà a approfittare della situazione realizzando l’unificazione. UNIFICAZIONE DELLA GERMANIA. La riunificazione della Germania al centro dei rapporti Est – Ovest tra la fine dell’89 e i primi mesi del ’90 veniva condotta in stretta collaborazione tra il governo tedesco e quello americano. Il 28 novembre 1989 il cancelliere Kohl presentava al Bundestag un piano per a riunificazione tedesca che trovava l’accordo dell’unione sovietica di Gorbaciov che dopo qualche situazione arrivava ad accettare che la Germania riunificata restasse membro della NATO. La riunificazione tedesca avrà un prezzo: - membri della comunità europea richiederlo al governo la rinuncia al Marco per realizzare una moneta europea - Prestiti di 5 miliardi di marchi di cui Mosca aveva bisogno per far fronte alla crisi economica Il successo dell’unificazione della Germania chiudeva una fase della storia tedesca e ne apriva una nuova: comunità europea. 1.2 GLI ANNI DI ELTSIN La caduta di Gorbaciov è la conseguenza di due fallimenti: 1. Fallimento della Perestrojk ovvero la “ristrutturazione”, un complesso di riforme avviato dall’URSS a metà degli anni ’80 per riformare l'economia e la struttura politico – sociale del paese Transizione dall’impero sovietico creato dalla seconda guerra mondale al ritorno della russo in occidente come membro paritario della società democratica. La causa è da ricercare nella timidezza delle riforme che non incidono sulle strutture dell’economia socialista. Il tentativo di conciliare le leggi di mercato con il permanere di imprese dirette dal centro e di una programmazione nazionale non riuscì per la naturale contraddizione tra i due obiettivi e per la burocratizzazione e a scarsa flessibilità dell'amministrazione statale. La legge sulle cooperative che prevede la proprietà privata per le imprese ma non per gli individui, introdotta nel 1988 si stava orami esaurendo. Gorbaciov rimaneva legato a uno dei principi fondanti del socialismo quello della proprietà collettiva, voleva modernizzare l’economia del paese ma rifiutava di smanettare le strutture centraliste del vecchio continente. 2. Il secondo fallimento di Gorbaciov è quello di aver provocato la disintegrazione dell’impero sovietico e della stessa unione sovietica senza essere riuscito a precostituire per la Russia un ruolo e una posizione nel mondo democratico adeguata al suo stati di grande potenza. La caduta del sistema comunista aveva suscitato nel paese speranze di progresso e le aspettative per un ritorno alla “comune Europa”, aspettative ambedue deluse dopo lo scioglimento dell’unione sovietica e la perdita di sicurezza creata da Stalin. Lo smantellamento dell’impero in occidente faceva guadagnare a Gorbaciov un prestigio che lo aveva invece reso impopolare in Russia. L’emergere di Eltsin contribuiva a decretare la fine dell’esperimento giacobino. Eltsin già nel 1987 prendeva le distanze da Gorbaciov criticandone le riforme non audaci e accusandolo di culto della personalità. Nel 1990 dava le dimissioni dal Pcus e veniva eletto presidente del soviet supremo della Repubblica russa. Nel gennaio 1991, mentre Gorbaciov mandava le truppe del ministero degli interni a bloccare e tendenze indipendentiste dei paesi baltici, Eltsin vola a Tallin e per conto della Repubblica russa firma il trattarlo per riconoscere l’indipendenza delle tre repubbliche baltiche. Qualche giorno dopo si dissocia dalla politica di Gorbaciov e il 12 giugno 1991 viene eletto Presidente della Repubblica russa. Nell’agosto dello stesso anno i conservatori tentarono un colpo di stato, fu Eltsin a chiamare il popolo alla difesa e a scendere in piazza mentre Gorbaciov si trovava nella sua casa in Crimea. Il colpo falliva mentre Gorbaciov travolto dal disastro economico e dall’impopolarità si dimetteva. Il suo successore naturale fu Eltsin che con la sua azione appariva colui che aveva garantito la continuità della democratizzazione del paese. L’America e i suoi allearsi riconoscono il nuovo leader e lo sostengono. A dicembre 1991 l’unione delle repubbliche socialiste sovietiche cessa di esistere e nasce la CIS, comunità degli stati indipendenti. Due fatti intervengo a raffreddare le relazioni tra Mosca e Washington: 1. Scontro di Eltsin con il parlamento 2. Inizio della guerra in Cecenia Al tentativo di portalo sotto accusa da parte di una minoranza di deputati che si oppongono alle riforme direte alla privatizzazione giuridica e selvaggia dell’economia, Eltsin reagisce invocando la concessione di poteri speciali e il 21 settembre 1991 annuncia la sua decisione di voler sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni. A ottobre il presidente del Soviet Supremo accusa Eltsin di aver violato la costituzione, ne proclama la decadenza dalla carica di presidente e la sua sostituzione con Rutskoij. Eltsin si assicuro però l’aiuto e il sostegno dell’esercito, i carri armati entrano a Mosca e prendono a cannonate la sede del parlamento costringendo Rutskoij alla resa. Seguirono poi le elezioni de nuovo parlamento che registrava un risultato deludente per i riformisti e che riaccreditavano il partito comunista facendo emergere un nuovo partito di ultra nazionalisti. In contemporanea con le elezioni un referendum popolare approva va la nuova costituzione che dava nuovi poteri a Eltsin rendendolo arbitrio del governo e dei suoi ministri e in certi casi della vita del parlamento. Eltsin, debitore di una vittoria ai militari ne diventa l’ostaggio. In articolare l’accresciuta influenza delle gerarchie miliari si fa sentire nella politica estera: irrigidimento della politica occidentale ormai decisamente orientata all’ingresso nella NATO degli ex satelliti di Mosca. Nel dicembre del 1994 Eltsin ordinava l’invasione della Cecenia per riportare il paese che aveva dichiarato la sua indipendenza nel 1991 all’interno della federazione. Le truppe russe mal equipaggiate si trovarono in grossa difficoltà, in seguito all’occupazione di Gronzy e all’uccisone di Dudaev, presidente, l’esercito riusciva a riprendere l’iniziativa mail compito di riappacificazione appariva ancora lungo e difficile. Il fuoco cessò grazie ad un accordo di pace che concedeva alla Cecenia una parziale autonomia. Ambedue gli accorsi venivano raggiunti grazie alla mediazione del generale Lebed, popolarissimo nell’esercito e potenziale concorrente di Eltsin. 1.3 IL DECLINO DI ELTSIN Anche il clima dei rapporti con Clinton era cambiato. Da 1994 i due rami del congresso erano dominati dai repubblicani e nuovi leader conservatori non erano disposti a dare credito a un ex comunista. Lo stesso presidente si vedeva costretto ad adeguarsi al nuovo corso e a mettere a freno le sue simpatie personali. C’erano però anche voci che consigliavano coesione e che credevano ancora nella possibilità di un’intesa genuina. Era il caso di Jack Matkock ex ambasciatore americano a Mosca e uno dei maggiori esperti di affari sovietici il quale suggeriva di dar tempo al paese.. Gran parte degli irrigidimenti russi infatti si possono attribuire alla loro impressione di essere lasciati fuori dal sistema di sicurezza europeo. L’espansione della nuova NATO verso est può essere ritardata fino a quando non si trovi un modo per associare la Russia a una struttura di sicurezza europea o qualche altro meccanismo in cui farla entrare. Ora che l’ideologia non era più un elemento di divisione tra i due paesi i “loro interessi fondamentali erano compatibili”. Eltsin aveva annunciato l’intenzione di ripresentarsi per un nuovo mandato ma all’inizio della campagna le possibilità di rielezione erano scarse, favorito era invece il leader comunista Zjuganov. Ben presto la situazione si ribalto e con una campagna elettorale travolgente, con mezzi finanziari illimitati (sono stati stimati 50 milioni di dollari) e con promesse di ogni genere Eltsin rimonta. SECONDO MANDATO ELTSIN Sul piano delle riforme il secondo mandato fu ancora più rovinoso del primo. - Liberalizzato il commercio estero - Aumentato il costo del denaro per restringere il credito - Aboliti i sussidi alle industrie - Aumentate le tasse In poco tempo i già bassi livelli di vita della gente crollarono e l’inflazione aumentò notevolmente. PRIMA FASE Le opere di privatizzazioni vennero favorite in una prima fase dalla distribuzione di speciali certificati con valore nominale di 10.000 rubli per l’acquisto di azioni delle industrie di stato con L’obiettivo di creare un azionariato popolare ma l’’operazione falli. SECONDA FASE In una seconda fase si scelte di vendere a una classe di manager i pezzi più pregiati dell’industria statale, il governo poteva così pagarmi stipendi e pensioni da tempo arretrare ma al tempo stesso con le “privatizzazioni” si creavano grosse porzioni di potere industriale che costituivano una classe di nuovi manager, i cosiddetti oligarchi che giocheranno un ruolo decisivo nella rielezione di Eltsin creando un legame di reciproche convenienze tra vertici dello stato e privati, al di fuori di ogni reale interesse nazionale. A partire dal 1998 la situazione economica del paese e quella finanziaria del governo si deterioravano sempre più velocemente e a fine anno la crisi finanziaria raggiunse l’acme e lo stato si dichiarò insolvente su una emissione di titoli in scadenza. Era a fine della fase fallimentare della Russia post comunista di Eltsin. A lui succederà poi Putin con un preciso programma: all’interno la restaurazione del poter statale contro gli assalti degli oligarchi e all’estero quello del ritorno al ruolo della Russia come potenza. CAPITOLO 4 LA NATO DOPO LA GUERRA FREDDA 1.1 GLI INTERVENTI “OUT OF AREA” Nei mesi successivi ala caduta del muro di Berlino si era diffusa la previsione ce la NATO avrebbe seguito la sorte del muro. Sembrava che un alleanza militare, creata all’inizio della guerra fredda non avesse ragione di esistere alla vigilia di una fase della storia del mondo che si preannunciava come una nuova epoca d’oro di pace e di progresso economico. Ma apparve chiaro che la conclusione della guerra fredda non segnava la fine dei conflitti ma anzi annunciava l’inizio di una fase nuova diversamente pericolosa e più incerta. Alla conservazione della NATO contribuivano però altre ragioni: - Intenzioni degli stati uniti di mantenere le base europee da cui esercitare il controllo politico ed economico nell’area mediterranea e mediorientale - Impreparazione degli stati uniti a sostituire la protezione americana con quella di un esercito europeo - Interessi locali e nazionali che si erano creati attorno alla presenza americana nei vari paesi ospitanti - Realtà storiche e ideologie che da sempre erano alla base del rapporto euro – atlantico. Queste sono tutte ragioni più forti di quelle che potevano suggerire la fine dell’alleanza e lo smantellamento distruttore che per quasi mezzo secolo erano entrate a far parte del sistema di sicurezza europeo. La fine della guerra fredda poteva offrire l'occasione di una trattativa per adattare l’alleanza alle nuove sfide e a redistribuire competenze e responsabilità. Ai vertici di Londra, luglio 1990 e di Roma, novembre 1991, venivano decisi alcuni cambiamenti di strategia: da quella statica a forte concentrazione nell’Europa centrale che aveva caratterizzato gli anni della guerra fredda a una orientata a sud più flessibile e dinamica con la reazione di unità di impiego rapido. Erano cambiamenti suggeriti da ragioni tecniche. Poco nulla cambiava invece sul piano politico. L’occasione per una revisione degli obiettivi e dell’organizzazione dell’alleanza che desse agli europei maggiore responsabilità e una più diretta partecipazione alla Formulazione delle politiche, andava così perduta, non senza conseguenze per la coesione dell’alleanza quando essa si troverà ad affrontare prove più difficili. Nonostante il peso sempre maggiore dell’influenza americana gli alleati accettano l’allargamento dell’area territoriale dell’azione della NATO in contraddizione con l’articolo 6 del trattato di Washington, un allargamento che avevano rifiutato negli anni della guerra fredda. Si rendevano così possibili interventi cosiddetti out of area cioè fuori dai territori dei paesi membri in Europa e nord America. Alcuni parlamentari americani fecero una vera e propria campagna a sostegno dell’allargamento della NATO ad altre aree geografiche. Al vertice di Roma la questione sollevò le perplessità e le riserve di alcuni membri dell’alleanza, in particolare Dell Germania la cui costituzione proibiva l’impiego di truppe tedesche al di fuori del territorio nazionale, tuttavia l’impiego morale è poi politico a partecipare ai out of area finiva fu inevitabile. Alla guerra del Golfo la NATO non partecipò ufficialmente ma molti dei suoi membri raccolsero l’appello americano ed entrano nella coalizione. Sarà la guerra successiva alla disintegrazione della Jugoslavia che favorirà una prima partecipazione della Nato. Resta però il fatto che sull’allargamento delle operazioni NATO ad altri territori non previsti dall’articolo 6 non ci sarà quale dibattito che aveva accompagnato la Formulazione e L’adozione del trattato di Washington del 1949. I governi europei sottoscrivevano con una specie di silenzio assenso la nuova politica americana di intervento out of area ignorando la dimensione e le conseguenze politiche del nuovo impegno assunto dai propri leader e dai rispettivi governi e quando dopo l'attacco delle Torri Gemelle di new York dell’ 11 settembre 2001 gli americani portarono la guerra al terrorismo nell’area meridionale, il pericoloso gap esistente tra le scelte dei governi e la volontà delle popolazioni veniva clamorosamente alla luce.  È il caso della guerra in Iraq a cui la nato non partecipò ufficialmente ma a cui partecipavano molti dei sui membri e che vide la forte opposizione della maggioranza della gente in tutti i paesi europei. Sarà la vicenda in Jugoslavia a far emergere le insufficienze dei paesi europei a contenere e a risolvere il drammatico puzzle balcanico e a dimostrare la continua validità della presenza militare e politica americana in Europa. Nella storia della Nato l’altro tema importante è stato l’aumento nel numero di paesi membri. Due elementi significativi a tal punto da parlare di una profonda trasformazione nel carattere e nella natura della Nato da organismo limitato negli obiettivi e nella sfera d’intervento a una grande alleanza politico – militare aperta a nuove partecipazioni e a nuovi compiti secondo gli interessi e le politiche del paese leader. Il primo e più importante allargamento della anto fu nel 1990 quello alla Germania orientale che riunificatosi con la Germania occidentale entrò a far parte dell’alleanza. L’accordo tra Bush e il diplomatico tedesco Khol venne chiamato due più quattro ovvero i due governi tedeschi e le quattro potenze vincitrici della seconda guerra mondiale. L’accordo sembrò per qualche tempo garantire sicurezza e stabilità in tutta L’Europa orientale ma a partire dal 1994 per volontà degli stati uniti iniziava un processo di riavvicinamento e cooperazione regionale tra la nato e i paesi dell’est Europa a cui non era estraneo il clima creato dalla conquista dei due rami del congresso americano da pare della destra repubblicana nelle elezioni di metà mandato del 1994. I due leader conservatori prepararono un documento firmato La comunità europea aveva seguito il conflitto jugoslavo fin dall’inizio con una molteplicità di iniziative ma sempre di scarso successo. 1. Dalla metà del 1991 Bruxelles aveva inviato un gruppo di osservatori a monitorare la situazione e svolgeva un primo tentativo di mediazione con una conferenza sulla pace presieduta dall’ex ministro degli esteri britannico con esito fallimentare 2. Sanzioni economiche decretato contro la Serbia 3. Appello alle nazioni unite il cui consiglio di sicurezza, nel settembre 1991, adotta va all’unanimità la risoluzione 713 che riconferma va estendendo l’embargo di armi e equipaggiamenti militari a tutti gli stai in conflitto 4. Il segretario dell’ONU comincia una mediazione riuscendo a far accettare una serie di “cessate il fuoco” che tuttavia durano pochi giorni o poche ore. Da questi fallimenti nasce l’iniziativa di inviare un corpo di caschi blu incaricato dall’UNPROFOR (United Nation Protection Force) incaricato di far rispettare il cessate il fuoco con un’opera di interdizione che spesso lo porterà in contrasto con i combattenti delle varie del conflitto. Costituito nel 1992 L’UNPROFOR estendeva la sua azione dalla Croazia alla Bosnia concentrando i sui sforzi nel mantenere aperto l’aeroporto di Sarajevo, unico collegamento della città bosniaca con il mondo esterno. TENTATIVI DI MEDIAZIONE Nel frattempo l’unione europea continuava i tentativi di mediazione. Diverse proposte: - Europa: nel 1993 approda a un piano di divisione della Bosnia in 10 cantoni autonomi con un governo centrale a cui rimaneva solo la gestione della politica estera. Il piano era accettato dalla Serbia di Milosevic ma non dalla Serbia della repubblica di Pale che nel frattempo avevano conquistato quasi il 70% del territorio bosniaco. - Leader serbo e leader croato: i due leader presentarono un piano che prevedeva la divisione della Bosnia in 3 repubbliche ma questa volta furono i musulmani a respingerlo nel timore che esso preludesse alla divisione della Bosnia in serbi e croati, una soluzione auspicata da molti a Zagabria e a Belgrado. - Gruppo di contatto: organismo creato per monitorare la situazione Jugoslava e ricercare un accordo di pace che comprendeva stati uniti , Francia, Germania, Gran Bretagna e Russia. Il nuovo piano prevedeva l’assegnazione del 51% del territorio ad una federazione croato - musulmana che di era formata del 1994 e il 49% ai serbi bosniaci, ma ancora una volta saranno questi ultimi a respingere il piano . L’anno successivo le operazioni militari e con esse il negoziato diplomatico entrano in fase conclusiva con l’offensiva dell’aviazione della Nato e una iniziativa diretta dalla diplomazia americana. 1.2 INTERVIENE LA NATO Il presidente Clinton aveva seguito la situazione balcanica con grande prudenza onde evitare una partecipazione dirette delle truppe americane. Clinton aveva ereditato da Bush la patata bollente dell’operazione Restore Hope l’intervento con obiettivo militare nella Somalia in preda all’anarchia. Iniziato nel 1992 con lo sbarco a Mogadiscio di 18mila marines e continuato nel 1993 con l’uccisone di 18 militari americani i cui corpi trascinati nelle strade di Mogadiscio sotto L’obiettivo della tv avevano uscitati un forte shock nell’opinione pubblica d’oltreoceano. Pertanto il paese e il congresso erano apertamente contrari a intervenire in una situazione complessa come quella balcanica. Ma Clinton aveva delle buone ragioni per intervenire: 1. Pericolo he al guerra si estendesse e soprattutto che si cronicizzasse creando una situazione tipo vietnamita in sena all’Europa che, pur restando primariamente un problema europeo, non poteva non preoccupare gli stati uniti. 2. L’intervento della Nato in un area che era si europea ma fuori dai confini previsti dall’articolo 6 del patto atlantico avrebbe vincolato i membri europei dell’alleanza a future operazioni out of area secondo l’indirizzo romani prevalente nell’establishment politico ariano e soprattutto tra la destra repubblicana sostenitrice si una politica estera più vigorosa. Washington si limitò a favorire un miglior armamento dei musulmani bosniaci e nell’estate del 1993 il presidente Clinton decideva il ricorso ad attacchi aerei della Nato contro i serbi della Bosnia. I bombardamenti su Pale indurranno i serbi bosniaci a catturare 350 uomini dei caschi blu e a trattenerlo quali ostaggi per scoraggiare future incursioni. Ciò spingerà i governi francesi e inglesi a inviare una forza di rapido impiego per difendere ei caschi blu dai nazionalità britannica e inglese. CONFERENZA DI DAYTON L’ultimo atto vedrà la diplomazia americana impiegata in una iniziativa a tutto campo, il cui principale attore sarà Richard Holbrooke un alto funzionario del dipartimento di stato che dal 1995 inizia una serie di trattative con le parti in conflitto che approda vano nel novembre dello stesso anno nella conferenza di Dayton. Essa si svolgeva in una base aerea della cittadina dell’Ohio dove Holbrooke aveva convocato i capi delle parti in causa con l’intesa che sarebbero rimasti al tavolo del conferenza fino a quando non avessero raggiunto l’accordo. I due elementi decisivi erano stati: - Intervento dell’aviazione della Nato - Minaccia di inasprire gli attacchi - Azione diplomatica condotta con decisione al momento opportuno. A Dayton il 21 novembre veniva raggiunto l’accordo:  La Slovenia orientale veniva restituita ai croati che erano i maggiori beneficiari dell’intesa e venia tolto l’embargo alla Serbia.  La Bosnia conservava l’unità con un governo entrale, un parlamento, una capitale unica (Sarajevo) e confini riconosciuti e garantiti, ma suddivisa in due entità: la Federazione croato musulmana a cui veniva assegnato il 51% del territorio e la Repubblica serbo – croata con il 49%.  Alle centinaia di famiglie costrette a trasferirsi in conseguenza della pulizia etnica veniva riconosciuto il diritto al ritorno ai paesi di righine e alle proprie abitazioni, concessione destinata a rivelarsi alquanto simbolica date le distruzioni e le espropriazioni avvenute nel corso del conflitto. A garanzia del rispetto del trattato la nato si Imagna a mantenere una forza di 60mila uomini, L’IFOR (Implamentation Force) di cui facevano parte anche unità americane. Dopo un anno di vita L’IFOR si trasforma in SFOR (Stabilization force) e dal 2004 viene sostituito dal EUFOR una missione dell’unione europea. Si chiudeva così la vicenda Jugoslava. 1.3 LA GUERRA PER IL KOSOVO La crisi del Kosovo nel 1999 è L’onda lunga del sanguinoso processo che aveva disintegrato la federazione Jugoslava e scatenato la prima guerra sul suolo europeo dai tempi della IIWW. Regione della Serbia dal 1919 il Kosovo era abitato per il 90% da albanesi ed era la culla, nonché il cuore storico e religioso, dei serbi e per i nazionalisti di Belgrado la sua indipendenza era impensabile. Tito aveva dato al Kosovo ampia autonomia, aveva un paramento, un governo, una lega comunista e una bandiera propria. PRIMA FASE DEL CONFLITTO Dopo la morte di Tito e dopo che Milosevic in nome del nazionalismo serbo abolì lo statuto speciale del Kosovo del 1989 il movimento autonomista dei kosovari si trasformava in un movimento indipendentista con due correnti: - Moderata, rappresentata dalla Lega Democratica del Kosovo che arrivò a proclamare la repubblica e a indire elezioni - Militare, organizzata attorno all’UCK (Esercito Liberazione Kosovo) Alle azioni di guerriglia e terrorismo dell’Uck i serbi rispondevano con l’intervento dell’esercito e della milizia popolare provocando un conflitto aperto con pesanti perdite della popolazione albanese. Sotto la spinta dell’opinione pubblica intervengono ONU, OSCE e UE ma la mediazione tentata dall'ex primo ministro spagnolo Gonzales no ebbe alcun successo. Un nuovo tentativo di trovare un accordo veniva fatto da Holbrooke sula base di due principi: - Gli albanesi del Kosovo dovevano rinunciare a qualsiasi pretesa di indipendenza mantenendo le loro richieste sul piano dell’autonomia - I serbi a loro volta avrebbero dovuto concedere l’autonomia e rinunciare a qualsiasi azione di forza pena l’applicazione di sanzioni. Un primo accordo vene raggiunto il 13 ottobre 1998 quando la Serbia accetta di ritirare le truppe dal Kosovo. Un corpo OSCE avrebbe monitorato il ritorno alla normalità. Era la conclusione della prima fase del conflitto. SECONDA FASE DEL CONFLITTO La seconda fase inizia poco dopo quando gli accordi dell’ottobre venivano rimessi in discussione dal governo di Belgrado. Le truppe serbe rientravano nella provincia e vengono ripresi i tentativi di pacificazione da parte del gruppo di contatto. Vene convocata il 6 febbraio del 1999 una conferenza a Parigi. Il documento preparato alla fine dell’incontro garantiva l’autonomia ma non l’indipendenza del Kosovo e i rappresentati dell’Uck erano in un primo momento decisi a respingerlo. Lo accettarono alla fine sotto la pressione degli americani e dopo che il segretario di stato prometteva l’indipendenza nel giro di tre anni. In realtà un capitolo dell’accordo prevedeva che tre anni dopo la sua entrata in vigore sarebbe stata convocata una conferenza internazionale per definire una procedura per giungere a una soluzione definitiva per il Kosovo sulla base della volontà popolare. La formula sembrava preparare l’indipendenza del Kosovo in aperta contraddizione con l’impiego dello stesso trattato a garantire l’autonomia e non l’indipendenza. Inoltre un appendice al trattato prevedeva che le forze della Nato avessero facoltà di occupare il territorio serbo, inaccettabile per il governo di Belgrado. La prospettiva dell’indipendenza del Kosovo e l’occupazione temporanea del territorio nazionale da parte di truppe nato era più di quanto il governo serbo potesse accettare. A rendere inevitabile il ricorso alle armi aveva contribuito l’intransigenza del segretario di stato americano favorevole a sostenere i movimenti indipendentisti delle minoranze etniche e nazionali in funzione antirussa e anticinese. Non tutti gli americani però la pensavano così, l’amministrazione appariva divisa tra coloro che consideravano il Kosovo una questione europea e coloro che spingevano per un conflitto il cui risultato avrebbe potuto portare alla caduta di Milosevic e permettere la creazione di una base nato nei balcani. La maggioranza dei governi europei accettava con più di una riserva il corso alle armi, ormai inevitabile, ma no s poneva più il problema dell’indipendenza del Kosovo. Inoltre alcune forze politiche della sinistra europea giudicavano eccessive le pressioni a cui era sottoposta la Serbia e lo stesso Milosevic che aveva chiaramente dimostrato la sua disponibilità a trovare un qualche accordo onde evitare il conflitto. Sarà la volontà degli stati uniti a prevalere in un momento il cui presidente Clinton si trovava in difficoltà perché occupato ad difendersi dall’affare Lewinski. La guerra aerea iniziava il 24 marzo ed era una decisione della Nato assunta senza alcun pronunciamento da parte dell’onu. Russia e Cina contrari alla causa kosovara avrebbero bloccato con il loro veto ogni tentativo di legittimazione internazionale dell’attavvo. 1.4 LA PARTECIPAZIONE DELL’ITALIA Durante i mesi di bombardamento e da registrare la condotta dell’Italia che con le sue basi militari si venne a trovare in prima linea. Il governo D’Alema aveva deciso il conferimento alla nato di 50 aerei da combattimento, nucleo principale e più tecnologicamente preparato della forza aerea italiana e quando cominciò a profilarsi la necessità di un impiego di forze terrestri autorizzò la partecipazione dell’Italia alla costruzione di un corpo di invasione con un rilevante contributo d uomini e mezzi. C’è chi sostiene che il governo D’Alema succeduto da quello Prodi nell’ottobre del 1998 era stato Concepito come un governo di guerra. Era la prima volta dalla seconda guerra mondiale che l’Italia si trovava coinvolta in un conflitto offensivo contro lo spirito e la lettera di una costituzione che oltre ripudiare la guerra come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali ne rimetteva la dichiarazione al parlamento. Dopo undici settimane di offensiva aerea che aveva raggiunto gli obiettivi militari sul campo e che ora di spostava sulle infrastrutture del paese e sui centri urbani mettendo alle corde un economia già debole, i bombardamenti aerei si concludeva no in giungo con la capitolazione di Belgrado. L’esercito serbo si ritira dal Kosovo che viene diviso in 5 zone di occupazione USA, FR, GB, IT e GE. In attesa di una decisione definitiva sul futuro della regione l’amministrazione del paese veniva affidata alle nazioni unite. Gli avvenimenti successivi agli atti di violenza degli uomini dell’Uck riaccendevano la soluzione Moderata proposta dalla lega democratica del Kosovo che vince le elezioni del 2000. Nel marzo del 2000 viene eletto il presidente del Kosovo con L’obiettivo di portare il paese all’indipendenza piena ma con mezzi pacifici. Due anni dopo il presidente muore di cancro e l’iniziativa politica torna all’UCK che dopo la guerra del 1999 era trasformata in Kosovo Protection Corp. Gli sforzi degli uomini dell’Uck per assumere un immagine di rispettabilità tuttavia continuavano a coesistere con zioni di violenza e terrorismo. Uomini dell’Uck erano diventati i capi del governo kosovaro. La normalizzazione della vita politica arriva nel 2006 assieme all’indipendenza del Montenegro dopo un referendum popolare. I rapporti sempre più stretti con gli stati uniti aprivano la strada alla dichiarazione di indipendenza. Il leader partito democratico del Kosovo viene eletto presidente del consiglio e il 17 febbraio seguiva la dichiarazione di indipendenza. Nasceva così il settimo stato emerso dalla disintegrazione della Jugoslavia. A garantirne l’indipendenza restavano in Kosovo 17mila uomini della Nato. Ancora una volta era prevalsa la volontà degli stati uniti. Come era prevedibile la Serbia rifiutava di riconoscere l’indipendenza e accusava il vertice politico del Kosovo per illegale secessione di una parte di territorio serbo. Le prese di posizione serbe erano poco più che simboliche ma intanto la provincia settentrionale del Kosovo con abitanti di origine serba viveva indipendente ignorando le disposizioni del governo kosovaro. Il conflitto politico con Belgrado restava aperto e solo l’ingresso della Serbia nell’UE avrebbe potuto facilitare una soluzione definitiva. CAPITOLO 6 EUROPA E STATI UNITI ALLA PROVA DELL’EURO 1.1 EUROPA IN AIUTO AL DOLLARO Uno dei motivi di discussione e di contrasto tra americani e europei è sempre stata la questione della partecipazione finanziaria ai costi dell’alleanza, prima durante la guerra fredda e poi nell’epoca delle operazioni “out of area”. - Gli americani rimproverano agli a europei di approfittare della protezione militare americana per ridurre al minimo le spese della difesa al fine di finanziare programmi sociali eccessivamente generosi - Gli europei accusavano gli americani di voler vendere loro costosi armamenti per sostenere le commesse della loro industria bellica. Dopo i primi anni successivi alla seconda guerra mondiale in cui i bisogni della ricostruzione in Europa richiesero aiuti americani (piano Marshall) gli equilibri finanziari tra Europa e stati uniti si modificavano nel corso del tempo: ANNI CINQUANTA E SESSANTA. Nel corso degli anni cinquanta e sessanta, quando grazie anche al mercato comune riprendevano le esportazioni europee e conseguentemente le rispettive banche centrali vedevano crescere le proprie riserve in oro e in dollari. Corrispondentemente, in conseguenza alle spese per la guerra di Corea e per la politica espansionistica il dollaro si indeboliva. Il 4 giugno 1963 il presidente Kennedy firmava l’executive order che dava al dipartimento del tesoro il potere di emettere moneta, fino ad ora riservato alla Federal Reserve, che prestava a governo richiedendo un tasso di interesse. Era il ritorno a una prassi in vigore dalla guerra di successione fino agli anni trenta del XX secolo e che era stata interrotta negli anni della grande crisi del ’29 per limitare l’indebitamento del governo e del paese. La decisione di Kennedy segnava l’inizio di un deficit destinato a diventare endemico e che dopo il 1963 crescerà sempre più rapidamente per la guerra in Vietnam. Negli stati uniti l’ideologia conservatrice ha una lunga storia. È la storia del confronto tra conservatori e progressisti. Più di due secoli della storia americana vedono al potere i conservatori molto più dei progressisti. In particolare: - Fine guerra civile / inizio anni Trenta : presidenti Repubblicani conservatori - Roosevelt : Democratici progressisti - Anni Sessanta : Democratici progressisti - Reagan : Repubblicani Conservatori È negli anni di Reagan che il conservatorismo si divide e da quello più tradizionale nascono i neoconservatori. PUNTI IN COMUNE TRA CONSERVATORI E NEOCONSERVATORI. Gli uni e gli altri hanno in comune il ritorno ai valori che hanno fatto grande L’America come l’individualismo, il libero mercato e la guerra allo statalismo. DIFFERENZE TRA CONSERVATORI E NEOCONSERVATORI Le principali differenze sono sulla politica estera. I conservatori tradizionali sono patriottici e talvolta nazionalisti ma nel conservatorismo tradizionale c’è una forte vena isolazionista più culturale e religiosa che politica. Il conservatorismo delle origini non è pacifista ma vede nella pace le condizioni per la sua piena maturazione e per la sua diffusione nel mondo. Il neo conservatorismo si concentra sulla società americana ed ha come “bestia nera” il ’68 con la rivoluzione culturale, il liberalismo, il pacifismo programmatico, la cultura gay e gli eccessi della democrazia partecipata. Durante gli anni novanta i neoconservatori ridefiniranno molte loro teorie, in particolare quella sull’unilateralismo: la schiacciante superiorità militare dell’America le permetteva di condurre la sua missione senza ricorrere all’aiuto di nessuno e a ignorare le organizzazioni internazionali, in particolare l’Onu, nei confronti della quale si esprimono feroci critiche e l’accusa i impotenza. Quella delineata dai neoconservatori e una politica imperiale e il tema di un nascente impero americano sarà al centro del dibattito che si svolge tra la fine del XX secolo e l’inizio del nuovo secolo. BUSH E I NEOCONSERVATORI. Bush, 43esimo presidente degli stati uniti d’America non fa parte dei conservatori. Bush non è un intellettuale e le sue convinzioni sono più ispirate a principi religiosi che politici ma nei neoconservatori trova quella visione del mondo e del ruolo americano estremizzante e un po’ manichea che gli è congeniale. 1. Con i neoconservatori Bush ha in comune la preoccupazione del declino morale dell’America e nella reazione al relativismo ne apprezza le convinzioni forti e il desiderio di azione. Così dopo l’11 settembre la lotta tra il bene e il male si traduce per Bush in quella tra L’America e gli stati medio orientali. 2. Un altro elemento che spiega l’incontro tra Bush e i neoconservatori è l’assenza di seguito personale da cui poter arruolare candidati per le migliaia di posti di cui si compone il governo presidenziale. Saranno soprattutto i neoconservatori a ricoprire tali cariche nella nuova amministrazione. Inevitabilmente il neopresidente nei mesi successivi all’11 settembre verrà fortemente influenzato dalle idee e dai programmi dei neoconservatori. CAPITOLO 8 11 SETTEMBRE 2001: NULLA SARÀ PIÙ COME PRIMA 1.1 SIAMO TUTTI AMERICANI L’undici settembre non era la prima volta nella storia recente che gli stati uniti subivano un attacco proditorio ( Pearl Harbor) ma la distruzione delle due torri e del pentagono segnava la fine della invulnerabilità del paese e l’esistenza di un pericolo indefinibile. Quasi subito però si identifica in Bin Laden il responsabile dell’episodio. Per far fronte alle richieste di azione che vengono dal paese il governo americano ha bisogno di dare una risposta forte con due obiettivi: 1. Concedere una qualche soddisfazione alla rabbia della gente 2. Lanciare un avvertimento ai nemici dell’America che d’ora in poi che colpisce dovrà aspettarsi una forte reazione. Bush nei giorni successivi all’attacco parla per accreditare questi due obiettivi usano un linguaggio e dei concetti destinati a segnare la politica estera americana per tutti gli anni del suo mandato. L’atto del’11 settembre non è solo un atto criminale di eccezionale gravità ma è la guerra al terrorismo islamico contro gli Stati uniti e l’occident. A questa guerra L’America risponderà con un offensiva diretta a stare i terroristi dovunque essi siano. È una dichiarazione di guerra a una parte del mondo, una global war on terrorism che non ammette compromessi. Con la dichiarazione di guerra al terrorismo Bush impegna gli stati uniti a combattere senza distinzione non solo Al – Qaeda ma anche Hamas, Hezbollah e tutte le altre espressioni di violenza verso L’America e l’occidente. EUROPA In Europa L’attacco alle torri gemelle suscitava emozione e simpatia nei confronti dell’alleato . Ma ben presto tra le due sponde dell’atlantico si manifestava una evidente diversità di reazioni. Avendo subito per un ventennio aggressioni terroriste gli europei reagivano con maggiore controllo e assorbivano gli aspetti emotivi della vicenda più rapidamente. Molti pensarono che l’esperienza servisse a rafforzare l’alleanza, in relata L’America rifiutando l’applicazione dell’articolo 5 del patto atlantico che prevedeva azioni comuni in caso di aggressione di uno dei firmatari, dimostrava la volontà di fare da sola. Il ruolo che gli europei riservano al agli alleati e sol ausiliare. I paesi che vi parteciperanno avranno ruoli diversi vi contribuiranno in maniera diversa era l’orgogliosa rivendicazione di un ruolo di guida assoluto per gli stati uniti e l’espressione inequivocabile di quella politica imperiale di un America che presuppone lealtà acritica e incondizionata. Le risposte all’11 settembre non tarderanno ad arrivare. Esse presuppongono due tipi di azione: - Militare nei confronti del terrorismo - Provvedimenti per la sicurezza interna Nella riunione del 13 settembre del National Security Council si discutono le opzioni per una forte risposta militare. 1.2 ATTACCO ALL’AFGHANISTAN Bush decide per l’azione contro l’Afghanistan che si presenta di più rapida e di più facile esecuzione. La richiesta al governo talebano della consegna di Bin Laden che viene però respinta. PRIMA FASE Il 7 ottone inizia la guerra contro l’Afghanistan con massicci bombardamenti a l’azione di commando di unità di forze speciali. Rifornito di armi dalla Russia che collabora attivamente con l’azione americana l’alleanza del nord riesce a occupare gran parte del paese. Già a metà novembre la resistenza dei talebani crolla. La frontiera orientale dell’Afghanistan che confina con il Pakistan è permeabile per i talebani che attraverso di essa ricevono aiuti dagli elementi del radicalismo islamico e pachistano. La prima fase della vicenda si conclude con la promessa di aiuti per la ricostruzione dell’Afghanistan. In due conferenze che si svolgono prima a Bonn e poi a Tokyo La comunità internazionale si impegna a fornire 4,5 miliari per i successivi cinque anni. Gli aiuti tardano ad arrivare e quando arrivano sono in misura inferiore. - Nell’ottobre 2001 il congresso e chiamato a votare il Patriot Act una serie di misure che danno alla magistratura e agli organi di polizia ampi poteri di intervento nei confronti dei sospettati di terrorismo per aprire indagini segrete sui loro conti bancari e i loro computer. Nei confronti degli stranieri all’autorità giudiziaria viene concesso il potere di detenzione fino a un anno e di deportazione per coloro nei confronti dei quali esistano motivi ragionevoli per essere sospettati. - Nel 2002 le truppe americane operanti alla frontiera orientale del paese venivano rinforzato da quelle degli alleati della nato. Era il primo incarico affidato all’alleanza atlantica fuori dall’Europa e dell’America del nord. Il grosso delle unità americane schierate sulla frontiera con il Pakistan continuavano le operazioni contro i talebani mentre le forze nato si limiteranno a svolgere funzione di presidio. Sempre nello stesso anno il presidente americano istitutiva un nuovo dipartimento, l’Homeland Security Department risultante dall’accorpamento di una serie di uffici preposti alla sicurezza e all’ordine del paese. - Nel 2004 la sovranità del governo Afghano è puramente nominale e si limitava alla capitale kabul. Il resto del paese rimaneva sotto il controllo dei capi clan locali. Parallelamente alla guerra al territorio all’estero l’amministrazione americana adotta va una nutrita serie di provvedimenti per la sicurezza interna. 1.3 ATTACCO ALL’IRAQ La decisione presidenziale di attaccare l’Iraq risale per consenso generale della pubblicistica ai primi mesi del 2002. Il pretesto era che Saddam Hussein disponeva di armi di distruzione di massa e chimiche e che aveva rapporti di collaborazione con Bin Laden e Al Qaeda. Ma le ricerche degli osservatori mandati in Iraq dall’ONU per scoprire l’esistenza di armi di distruzione di massa non avevano dato alcun risultato. In quanto alé vere ragioni della guerra a l’Iraq sono state fatte delle ipotesi: 1. Convinzione che l’eliminazione del ditate fosse una delle condizioni necessarie per la realizzazione della democrazia in medio oriente 2. L’Iraq senza Saddam con la sua laicità, le sue riserve petrolifere e la sua posizione geografica appariva l’alternativa più naturale all’Arabia Saudita. 3. Bush vedeva in questa guerra il conflitto tra il bene e il male e la possibilità di completare l’opera iniziata dal padre con la guerra del Golfo. 1.4 LE DUE EUROPE A confermare la decisione di attaccare Saddam verranno anche i risultati positivi dell’elezione di mezzo mandato del 2002. A settembre Bush decide tuttavia di cautelari contro il probabile rifiuto del Consiglio di Sicurezza e fa votare a favore del Congresso l’autorizzazione a ricorrere alla forza contro Saddam Hussein. Dato l’impegno profuso del presidente durante la campagna elettorale quella vittoria appare anche merito suo. Come avevano previsto i falchi dell’amministrazione in Consiglio di Sicurezza gli stati uniti incontreranno la forte opposizione del governo francese e di quello russo, favorevoli alla continuazione del lavoro degli osservatori, ad essi si aggiunge anche il governo tedesco. Pur non avendo u seggio permanente la Germania ha il suo peso. L’ultimo atto della battaglia all’interno dell’Onu avviene su una nuova risoluzione americana che autorizza esplicitamente l’intervento armato. La minaccia del veto francese a cui si sarebbero quo russo e tedesco, indurrà il governo americano a ritirare la risoluzione. Gli americani si sentono traditi dall’alleato e reagiscono contro i simboli della francesità (champagne ecc). Ma la decisione americana di andare avanti in Iraq, e l’inizio di quel confronto che spaccherà L’Europa come mai prima. - Gran Bretagna, Spagna e Italia con tutti i paesi dell’est europeo favorevoli all’intervento americano. - Francia Belgio e Germania ostili all’iniziativa militare insistono perché continuino le ispezioni e la gestione della crisi nelle mani dell’Onu. Queste sono le due Europe. Questa volta L’America profonda non si muove e sostiene l’iniziativa del suo presidente. È L’Europa che fin dall’inizio assume e sostiene le ragioni della pace e del negoziato. Le ragioni della protesta sono molteplici: 1. Culturali quindi il disarmo militare e morale degli europei interessati a investire più nei problemi nei problemi sociali che nelle armi 2. Il pacifismo diffuso che denuncia l’inutilità della guerra e il suo prezzo in vite umane 3. Diverso atteggiamento del mondo nei confronti del mondo islamico con lui L’Europa ha convissuto per secoli 4. Minore drammatizzazione del pericolo terrorista 5. Divaricazione tra un America che a sempre acriticamente sostenuto la politica israeliana e un Europa in cui le simpatie per la causa palestinese e il dissenso per l a politica seguita da Israele rischia di alimentare le espressioni si un sorgente antisemitismo 6. Antiamericanismo antico, pseudo ideologico e irrazionale che riemerge nei momenti di maggiore tensione tra il nuovo e il vecchio continente Dopo settimane di un offensiva aerea che indebolisce le difese irachene e colpisce duramente le unità dell’esercito di Saddam ma anche la popolazione civile, nel marzo del 2003 le truppe americane ammassati nel Kuwait iniziano L’attacco terrestre. In poche settimane arriveranno a Baghdad incontrando una resistenza sporadica e di alcune unità scelte. Una parte della popolazione, quella sciita, accoglie gli americani come liberatori e si accanisce contro i simboli del regime. Il dittatore è in fuga e viene catturato a metà dicembre per poi essere condannato a morte dopo un processo turbolento. Intanto il presidente Bush celebra una troppo facile vittoria. Il 1 maggio dalla porta aerei annuncia al paese che la missione è compiuta. In realtà la guerra vera e più cruenta inizia subito dopo. CAPITOLO 9 IL DRAMMA IRACHENO 1.1 I PROBLEMI DELL’OCCUPAZIONE All’indomani dell’annuncio di una guerra che si reputa finita ancora che sia iniziata Bush si rivolge al sociale con una legge sul Medicare il programma di assistenza medica agli anziani creato dal presidente Jhonson, una legge che accresce i benefici del pano sanitario e che non piacerà alla destra. Bush è ben consigliato e ancora una volta la rielezione del 2004 vedrà il generale Karl Rove al suo fianco. L’economia non è brillante: dal 2001 i posti di lavoro perduti sono quasi un milione e la classe media continua a perdere potere d’acquisto. Le spese per l’Iraq cominciano a pesare. Il risultato elettorale del 2004 non sarà una landslides ma una vittoria modesta per un presidente in carica. Di tuta la vicenda irachena l’aspetto più illuminante sugli sviluppi successivi alla conquista del paese e il fatto che le autorità militari e civili coinvolte nella preparazione della guerra si siano poste il problema del “dopo” cioè dell’organizzazione e della gestione del paese a operazioni militari concluse. I militari non si preoccupano dei problemi dell'occupazione perché sanno che dopo la fase bellica prevarranno le preoccupazioni politiche e a quelle penserà il dipartimento di Stato. Ma il dipartimento di Stato non aveva piani in proposito e ripasserà la responsabilità del popolo al dipartimento della Difesa. A sottolineare la gravità dell’omissione era a particolare composizione etnica di cui il paese era composto. La struttura del paese era suddivisa in: - Sciiti (60%) sud. Sostenuti dall’Iran erano ansiosi di appropriarsi del potere e di vendicarsi dell’oppressione di cui erano stati vittima durante la dittatura di Saddam. considerano una minaccia contro il territorio. I negoziati per una diversa collocazione dei missili e una partecipazione della Russia alla loro gestione falliva no e ciò creava nuove tensioni e nuove polemiche. Su questi temi la UE non seguiva una politica univoca. GERMNIA, FRANCIA E ITALIA Avevano stipulato importanti accordi di collaborazione economica con Mosca e che dipendono dalle importazioni di Gass russo, si adoperano per ridurre il livello della polemica tra Mosca e Washington. POLONIA E PAESI BALTICI Assumo una posizione ostile nei confronti di Mosca. Ciò apparirà chiaro soprattutto in occasione della cosiddetta “rivoluzione arancione” che, nell’autunno del 2004, segna un cambiamento di regime a Kiev. Nel conflitto tra i partiti filo occidentali e filo russi, in cui è diviso geograficamente il paese, i polacchi e i baltici si schierano a favore dei primi contro la Russia. La tentazione degli USA di strumentalizzare quelle divisioni sembra essere rientrata, ma la calda accoglienza che il presidente americano trova nelle capitali dell’est europeo durante le sue visite è la testimonianza di un diverso sentire nelle due parti di Europa. D’altra parte sulle questioni che contano la voce dei maggiori governi europei si fa sentire chiara e forte. È il caso del vertice Nato del 2008 a Bucarest sull’ingresso dell’Ucraina e della Georgia. Alla concessione dello Status Map si oppongono sia la Francia che la Germania e il presidente Bush dovrà subite l’umiliazione del rifiuto di fronte ai paesi dell’Europa orientale che puntavano sull'influenza degli stati uniti per conseguire un nuovo successo nella politica di isolamento della Russia. Alla vigilia del vertice Putin aveva minacciato lo smembramento dell’Ucraina se essa fosse stata ammessa alla Nato per cui la decisione acquistava una valenza politica non secondaria. La presidenza Bush subiva un ulteriore insuccesso alcuni mesi dopo, nell’agosto del 2008, quando scoppiava la crisi tra Georgia e Russia. Erano state le forze Georgiane a lanciare il primo attacco contro una città russa. La pronta risposta dei russi faceva pensare che l'offensiva georgiana fosse attesa e sembravano confermarlo i numerosi incidenti che si erano svolti negli anni precedenti. Mosca riguardava, in un ottica di riassorbimento, le provincie confinanti con la Georgia e che essa rivendicava contro il governo russo. Nella vicenda giocava un ruolo di grande importanza politica e psicologica il presidente francese Sarkozy che nei mesi dal giugno al dicembre 2008 era anche presidente dell’UE. Sarkozy negoziata con il presidente russo Medvedev il ritiro delle truppe e una pacifica definizione della crisi. Difronte ai paesi della nuova Europa si mostrava una sconfitta dell’America e si confermava una vecchia prassi già emersa durante gli anni della guerra fredda: gli stati uniti incoraggiavano I proprio occasionali alleati ad assumere posizioni di contrasto contro i nemici dell’America per poi ritirarsi di fronte ai rischi di un confronto diretto. Tutta la vicenda apparve come un importante successo di Sarkozy e un priva di come l’UE potesse svolgere un importante ruolo sul piano internazionale se avesse agito con tempestività e decisione. 1.2 LA RAOA MAP DI ISRAELE. Un altro aspetto della politica di Bush per recuperare l’iniziativa nel corso del secondo mandato sarà il tentativo di rilancio della questione israeliana – palestinese. L’importanza che una soluzione del conflitto aveva ne quadro dei rapporti con il mondo arabo era emersa negli anni della guerra con l’Iraq e dai difficili rapporti con l’Iran di Ahmadinejad. Nel corso degli ultimi trent’anni la politica americana aveva sempre sostenuto le posizioni e le ragioni di Israele nel suo storico conflitto con il mondo arabo. Con qualche eccezione gli stati uniti erano sempre venuti in contro alle esigenze e spesso anche alle pretese di Tel Aviv che nei confronti dei vari governi americani non aveva mancato di esercitare forti pressioni. Dopo l’11 settembre Israele viene a trovarsi in una posizione di forza per la guerra al terrorismo poiché diventa il principale obiettivo della politica estera americana e sulla quale Israele era impegnato da sempre. L’esperienza di Israele in materia di guerra al terrorismo diventerà utile agli americani nelle settimane di fuoco successive all’11 settembre e più tardi anche in Iraq dove non mancherà la collaborazione tra servizi segreti americani e il mossad. In realtà, inizialmente, il presidente Bush tenterà di persuadere Sharon, al governo dal 2001, ad arrestare gli insediamenti dei coloni israeliani nei territori occupati e a portare avanti il dialogo per la creazione di un nuovo stato palestinese accanto a Israele. Era una linea he nasceva dalla convinzione che ciò avrebbe prodotto un miglioramento dei rapporti con il mondo arabo e sarebbe servito a isolare le posizioni più radicali da quelle più moderate. L’apertura del fronte iracheno spostava altrove le preoccupazioni americane. Almeno fino al 2005 la Casa Bianca eviterà di intervenire troppo direttamente nella politica dello stato di Israele anche dopo la decisione autonoma e unilaterale di Sharon di ritirarsi a Gaza. La scelta di Sharon era in contrasto con gli impegni presi con la Road Map che prevedeva La coesistenza dei due stati come frutto della trattativa da cui sarebbe sorto quello palestinese. Sharon rifiutava di negoziare con i palestinesi la creazione del nuovo stato, puntando a una riparazione dei territori occupati in Cisgiordania a vantaggio di Israele e lasciando il resto del territorio per la formazione di un mini stato palestinese. La linea americana cambiava durante il secondo mandato anche sotto la spinta dei paesi arabi e in particolare dei sauditi. Il segretario di stato americano intraprendeva il tentativo di riportare Israele sulle linee guida concordate della Road Map. Contemporaneamente la lega araba proponeva un nuovo piano di pace. In cambio del ritiro israeliano dai territori occupati dal ’67 la lega offriva pace e il riconoscimento dello stato di Israele e anche relazioni normali con tutti gli stati arabi. La proposta poteva offrire la base per una nuova fase negoziale. Il primo ministro israeliano conduceva una trattativa con il premier palestinese che approdava a risultati significativi, ma interrompeva il negoziato ben sapendo che per un capo di governo ad interim quale era lui, completare l’accordo sarebbe stato impossibile. QUESTIONE LIBANESE Nel frattempo con l’arrivo di Hamas a Gaza: - Nel gennaio del 2006 la situazione nel campo palestinese era cambiata. Hamas rifiutava ogni riconoscimento di Israele che dovrà affrontare una nuova Intifada, il lancio dei razzi da Gaza raggiungevano i paesi israeliani di frontiera e questo creava oltre a qualche vittima un elemento di instabilità e di tensione tra la popolazione che difficilmente Israele avrebbe potuto accettare a lungo. - Nell’estate del 2006 scoppia la guerra in libano tra le unità di Hezbollah, L’organizzazione integralista sostenuta e finanziata dall’Iran e fortissima in Libano e Israele. L’uccisone di otto soldati israeliani e la cattura di altri due da parte di Hezbollah induceva Israele a lanciare prima un attacco aereo e poi una massiccia offensiva terrestre. La forte risposta di Hezbollah e una serie di errori logistici da parte di Israele concludevano lo scontro senza apprezzabili risultati per entrambe le parti. Memori della sfavorevole conclusione del primo intervento americano in Libano nel 1982, gli stati uniti non si muoveranno. Sarà invece L’Europa a prendere iniziativa e a riaprire il vuoto politico creato dalla vicenda. Francia, Italia e Germania prendevano l’iniziativa della creazione di un corpo internazionale di pace ce come forza di interposizione separasse gli Hezbollah dall’esercito israeliano. L’Onu dava all’idea il suo sostegno e la sua copertura. Accettata dalle due parti in conflitto, la forza di pace si costituiva sotto comando francese e successivamente italiano e occupava i territori assegnati lasciando all’esercito libanese il delicato compito di prevenire il riarmo delle milizie di Hezbollah. - Novembre del 2007, ultimo tentativo di pace tra israeliani e palestinesi verrà fatto da un Bush alla fine del suo mandato e si concluderà con un nulla di fatto. La presidenza Bush verrà accusata di eccessiva timidezza nei confronti di Israele e di non voler ricorrere ai mezzi di pressione disponibili agli americani, essa infatti rifiuterà le proposte di Israele di un attacco aereo all’Iran per distruggere gli impianti nucleari. Si concluderà cosi il secondo mandato di George Bush, l’eredità che egli lascerà al suo paese e alla nuova amministrazione sarà pesante e difficile da riassorbire. Per quanto riguarda invece la politica estera la realtà delle situazioni create dalla politica di Bush è inequivoca: due guerre aperte di cui una, quella in Iraq, si può ben definire la “guerra del presidente”, le cui soluzioni al momento della sua uscita di scena apparivano lontane e problematiche, un immagine degli stati uniti degradata e macchiata da episodi incompatibili con la democrazia e i principi da sempre sostenuti in tutta la storia, un peso e una presenza politica ridotti e non facilmente recuperabili in aree di tradizionale influenza, i rapporti con gli alleati logorati. Ma il fallimento di Bush è anche il fallimento di una ideologia che forse ha informato e guidato una presidenza. Alla fine dei suoi mandati il paese era più diviso che mai: - Partito Repubblicano stava attraversando una crisi profonda, non solo una di quelle che inevitabilmente nascono all’indomani di una sconfitta elettorale, ma anche una crisi di orientamento e di direzione. È al momento difficile prevedere quale sarà l’evoluzione delle posizioni neo conservatrici che hanno fortemente influenzato la politica americana nell’ultimo trentennio e l’hanno dominata durante i due mandati di Bush. - Partito Democratico sulla spinta della vittoria elettorale stavano emergendo posizioni a sostegni di forti e profondi cambiamenti che riguardano non solo la politica estera ma anche quella sociale e finanziaria. CAPITOLO 11 UNNA CRISI EPOCALE 1.1 LE ORIGINI DELLA CRISI Nella storia del capitalismo americano ci sono state crisi di varia gravità: - 1929/1941 - Seconda guerra mondiale - 1948 - 1951 (guerra di Corea) Dopo il 1953 si ebbe però un lungo periodo di crescita senza crisi. È il periodo d’oro della classe media americana che si rafforza in termini di reddito e di influenza politica e culturale. In seguito il trend tra boom and bust (crisi e crescita) riprende. Più grave la crisi economica in seguito alla guerra del Vietnam quando il dollaro dovrà essere ripetutamente svalutato e l’inflazione toccherà picchi del 13%. - I primi due anni dell’amministrazione Reagan sono di forte recessione ma nel 1983 avviene una ripresa che diventa sostenuta fino alla fine del decennio lasciando però un forte deficit bancario e un debito crescente. - Il 2000 e nuovamente anno di crisi in cui esplode la bolla informatica - Fine del 2006 segna la fine del processo che porterà all’esplosione della bolla immobiliare - Nel 2007 la crisi dei subprime si inasprisce e sbocca nella crisi finanziari più acuta da quella degli anni trenta. - Nel 2009 avviene la crisi delle grandi banche e delle grandi industrie che crea milioni di disoccupati. La crisi attuale, come le precedenti, nasce dalle disfunzioni del mercato ma sono i leader politici e grandi gestori che spesso provano le disfunzioni con le loro scelte: eccessi di spesa da parte dello stato federale nonché degli stati dell’unione, deregulation selvaggia di tutti quei provvedimenti legislativi presi durante o dopo la crisi degli anni trenta che vincolavano le banche e i banchieri e che attraverso potenti lobby sono stati depotenziati o soppressi aprendo nuovi varchi alla speculazione. In seguito alla deregulation si sono sviluppate le operazioni più fantasiose sui prestiti immobiliari che combinati con altri hanno creato pacchetti ad alto rischio creditizio, ovvero i subprime cioè prodotto di qualità inferiore che non corrisponde ai prime standard e che pone il titolo nella categorie a rischio vendite nel mercato secondario. Nascono ne 1993 e vengono diffusi rima nel sistema bancario e poi in quello mondiale. Quando la bolla creditizia si è sgonfiata per la caduta dei valori mobiliari l’insolvenza del subprime ha investito gran parte del sistema finanziario internazionale. Dalla finanza la crisi si traferiva ben presto all’economia reale. Le difficoltà creditizie delle banche provocavano una improvvisa stretta del credito bancario che riduceva consumi e investimenti creando una spirale negativa che metteva in crisi aziende particolarmente fragili sul piano finanziario. Negli stati uniti la disoccupazione alla fine del 2009 superava il 10% della forza lavoro. La responsabilità primaria della crisi era indubbiamente dei governi e delle istituzioni americane, ma le conseguenze della crisi si allargavano al di là dei confini americani. Tra i paesi più colpiti ci sono la Gran Bretagna, l’Irlanda, Francia, Germania, Svizzera, est Europa. Alla crisi aveva contribuito ance la politica monetaria del governo americano che aveva approfittato del ruolo conquistato dal dollaro come principale mezzo di pagamento per gli scambi internazionali. I proventi delle esportazioni negli stati uniti la cui bilancia commerciale era in constante deficit permetteva ai paesi esportatori l’accumulo di surplus di moneta americana che veniva investiti in titoli di stato americani. Il caso più macroscopico era la Cina le cui esportazioni negli usa erano cresciute esponenzialmente del corso degli anni 90 e dopo il 2000. La Cina era diventata il maggior creditore degli stati uniti. Era evidente la forte dipendenza del dollaro dalle scelte del governo cinese che tuttavia aveva un duplice interesse che concordava con quello del governo americano: mantenere alto il cambio del dollaro e basso quello dello yen. La Cina voleva infatti continuare a esportare vantaggiosamente e non provocare la svalutazione della moneta americana detenuta nella banca nazionale di Pechino. Gli americani a loro volta avevano interesse a continuare le importazioni dalla Cina e da altri paesi emergenti i cui prodotti a costi inferiori avvantaggiano il consumatore americano. Il tesoro americano così si indebitava fortemente con l’estero e di anno in anno il debito cresceva fino a raggiungere livelli alla lunga insostenibili. L’esplosione della crisi metteva fine a questo meccanismo che aveva avvantaggiato un po’ tutti tenendo bassa l’inflazione. La caduta dei consumi americani dopo la bolla dei subprime dovuta all’aumento della disoccupazione riduceva in modo consistente le esportazioni cinesi e in un economia come quella cinese, dipendente dalle esportazioni, creava a sua volta una crisi economica e nuova disoccupazione. Per evitare gli squilibri provocati dal dollaro sorgeva una forte tendenza a una riforma della finanza internazionale, in particolare del Fondo Monetario internazionale che aveva posto il dollaro al centro del sistema finanziario mondiale. Questa esigenza avvertita in tutti i paesi a economia avanzata si esprimeva in una forte iniziativa europea condivisa dalla Cina per una profonda riforma delle regole stabilite nella conferenza di Bretton Woods e consisteva nel sostituire il dollaro con altri mezzi di pagamento. I principali paesi sembravano concordare ma i paesi europei come la Francia e la Germania insistevano perché il problema venisse affrontato come parte della soluzione della crisi mondiale in contrasto con gli americani e i britannici che sostenevano l’opportunità di rinviarlo a dopo la soluzione della crisi. 1.2 BARACK HUSSEIN OBAMA La crisi finanziaria era iniziata nel 2007 e durante tutto il 2008 i segni della tempesta che si stava avvicinando erano diventati sempre più inequivocabili. La campagna elettorale era stata una delle più lunghe della storia politica americana e si giocava tra Hillary Clinton e Barack Obama. Era la prima volta di una candidatura presidenziale per una donna e per un esponente della minoranza Afro americana. La carta vincente di Obama fu l’opposizione alla guerra in Iraq. Dopo la vittoria sulla Clinton, Obama conduceva a fase decisiva contro il candidato repubblicano John McCain, senatore già eroe della guerra in Vietnam. Nelle settimane precedenti l’elezione la crisi economica raggiungeva le sue manifestazioni più dirompenti imponendo in a una paese che nella sua maggioranza l’aveva ignorata. Quella delle elezioni di un Afro americano alla casa bianca era un fatto rivoluzionario. Da Obama il paese si aspettava la soluzione della crisi ma anche il recupero del prestigio e dell’immagine dell’America che si erano logorati con Bush. ECONOMIA Obiettivi: 1. Eliminare dai bilanci delle banche le forti passività costituite dai titoli spazzatura (subprime) e metter le banche in grado di riprendere il loro ruolo normale di erogatori di credito. 2. Proteggere le attività economiche e produttive dalle conseguenze della crisi bancaria che rischiava di far mancare i crediti necessari al funzionamento dell’economia 3. Presentare un bilancio per il 2010 che prevedeva spese dirette alla costruzione di infrastrutture nazionali e locali e a tutte quelle iniziative che potevano contribuire a ristabilire la crescita economica del paese .  Il bilancio prevedeva: trovare Teheran favorevole era che l’arricchimento dell’uranio iraniano venisse realizzato da altri paesi. Inoltre il governo iraniano si dichiarava disposto a ricevere gli ispettori della Iaea per l’ispezione dell’impianto di Quom. Tuttavia il mancato accordo con l’Iran e la prospettiva della nascita di una nuova potenza nucleare in medio oriente avrebbe indotto altri paesi della stessa area a ricorrere al nucleare. Ciò avrebbe annullato non solo ogni sforzo verso il disarmo nucleare generalizzato ma avrebbe creato il rischio di uno scontro. Un accordo con Teheran non poteva essere raggiunto senza contropartita che oltre a dare delle compensazioni in materia di tecnologie e materiale per la produzione di energia a scopi di pace offrisse all’Iran e agli altri paesi dell’area garanzie di sicurezza. 1.3 DA KYOTO A COPENHAGEN (DIBATTITO CLIMA – AMBIETNE) Una delle questioni che negli anni hanno più durevolmente e nettamente diviso Europa e stati uniti e quella del clima. 1. Protocollo di Kyoto: varato nel 1997; mentre L’Europa lo ha sempre sostenuto, fino a farne una vera e propria bibbia della sua politica ecologista, gli stati uniti lo hanno sistematicamente respinto nel corso di tutto il decennio, dal momento della sua formazione fino alla fine del secondo mandato Bush, con qualche modesta concessione più di forma che di sostanza a partire da 2007. Il protocollo di Kyoto nasce al fine di stabilizzare la concentrazione dei gas serra nell’atmosfera a un livello tale da prevenire pericolose conseguenze sul sistema climatico. L’accordo prevede le percentuali di riduzione per ciascuno dei grandi gruppi di economie industriali: l’8% per L’Europa, il 7% per gli stati uniti e il 6% per il Giappone. Nessuna limitazione era prevista per paesi emergenti come Cina e India, nonostante esse già al momento della firma del protocollo presentassero un livello di inquinamento alto. Il protocollo entra in vigore nel febbraio del 2005, in seguito alla ratifica della Russia che permetteva di raggiungere il 55% delle adesioni previste per rendere operante il trattato. Manca la ratifica degli stati uniti che per molti anni sono stati responsabili del più alto livello di inquinamento, quasi un quarto del totale. Washington firma il protocollo nel 1998 durante la presidenza Clinton ma la ratifica del congresso tardava poiché nel luglio del 1997 il senato americano aveva votato la rivoluzione Byrd – Hagel che impegnava gli stati uniti a non firmare il protocollo nel marzo del 2001 poche settimane dopo l’insediamento il presidente George Bush in una lettera dichiarava la netta opposizione al protocollo e giustificava il suo rifiuto per il fatto che alcuni paesi come India e Cina, che nel 2008 arriva a superare gli stati uniti come potenza inquinatrice, erano esenti dalle limitazioni. Nel 2007 viene così stipulato L’America Climate Security Act che fissava i limiti delle emissioni permesse a ciascun settore e prevedeva la possibilità di acquisire quote di inquinamento da quelle aziende che riuscissero a mantenersi al di sotto dei livelli massimi di inquinamento a esse attribuito. L’elezione di Barack Obama mutava radicalmente le prospettive di un accordo sul riscaldamento globale e sulle emissioni inquinanti, riaprendo un dibattito che proponeva nuove idee e nuovi programmi. Obama dichiarerà più volte la sua intenzione di far recuperare agli stati uniti un ruolo di punta nelle [politiche ambientaliste e una volta eletto confermava ripetutamente questa intenzione. 2. Congresso di Copenaghen: fissato a dicembre 2009 poneva sul tavolo nuovi problemi e nuove soluzioni. Si concluderà però con un nulla di fatto. La conferenza a Copenaghen aveva il compito di fare il punto sulla situazione creatasi negli ultimi dodici anni dalla firma del protocollo di Kyoto, valutare i successi e gli insuccessi e indicare i nuovi traguardi. Era prevedibile che i tre principali protagonisti del confronto ecologico mondiale, Usa, Ue, Cina, India, Brasile si sarebbero presentati a Copenaghen con posizioni diverse e parzialmente conflittuali. CAPITOLO TREDICESIMO L’UNIONE EUROPEA PRIMA E DOPO LISBONA 1.1 L’ALLARGAMENTO Nella storia del l’integrazione europea I periodo di immobilismo si sono alternati a fasi di improvvisa e intensa ripresa. Alla nascita dell’euro che, secondo gli ottimisti, avrebbe dovuto aprire a serie di importanti sviluppi previsti dal trattato di Maastricht, in primi quello di una politica estera comune e di un autonoma politica di difesa, è seguito invece un lungo periodo distasi degenerata in una vera e propria crisi. L’ultimo episodio importante è stato il 1 maggio 2004 ovvero l’ingresso nell’unione europea dei 10 paesi dell’Europa centro – orientale e mediterranea. Diventavano così membri dell’unione europea: Polonia, repubblica ceca, Slovacchia, Lituania, Lettonia, Estonia, Ungheria, Slovenia, Cipro e Malta. Quell’avvenimento veniva definito da alcuni come il pagamento di un debito storico, per aver lasciato durante gli anni della guerra fredda molti di quei paesi sotto il dominio sovietico, da altri invece viene considerato come il completamento dell’unità europea sul piano geopolitico. Fu presto chiaro L’errore di non aver proceduto al rafforzamento istituzionale e politico del nucleo originario dell’unione prima di aprirla alla partecipazione di chi, come i nuovi membri, proveniva da esperienze politiche diverse rispetto a quelle dei membri originari. Sul piano economico emergeva fin dall’inizio la forte disparità di condizioni tra i nuovi membri e i vecchi membri, un dato previsto che da una parte incentivata gli investimenti dei membri economicamente più forti dell’unione europea che attratti da condizioni favorevoli contribuivano alla crescita economica e all’aumento degli standard di vita dei nuovi venuti, dall’altra incoraggiava le insistenti richieste di aiuti di quei governi non sempre saggiamente impiegati. Allo scoppio della crisi finanziaria mondiale il gap tra le due Europe rivelava i suoi potenziali pericoli per l’economia e la moneta dell’unione. Il forte deficit di bilancio e le difficoltà del sistema bancario dei paesi dell’Europa centrorientale rischiavano di pesare non poco sulla stabilità finanziaria dell’intera unione. Le posizioni di indifferenza e a volte aperta opposizione da parte di alcuni dei paesi dell’est nei confronti di ulteriori progressi verso l’integrazione europea ritarderanno il cammino dell’unione, sarà soprattutto la bocciatura del progetto di costituzione europea da parte dei paesi francesi e olandesi a bloccare la realizzazione di ogni progetto sul piano istituzionale. Il progetto rifiutato tramite referendum prevedeva un progetto sul piano istituzionale comprendente: - Introduzione di un presidente del Consiglio con un mandato di due anni e mezzo rieleggibile. - Designazione di un ministro degli esteri dell’unione che sarebbe stato anche vicepresidente della commissione - Snellimento della stessa commissione in cui ogni paese non poteva avere più di due commissari - Estensione del voto a maggioranza ad altre 34 materie - Ampliamento dei poteri del parlamento ridotto nel numero di seggi - Creazione di un agenzia degli armamenti con una possibilità di maggiore cooperazione tra Stati desiderosi di dar vita alle cosiddette cooperazioni rafforzate - Maggior coordinamento in materia di politiche economiche Si trattava di un complesso di misure che avrebbero trasformato il profilo dell’unione creando le condizioni per i nuovi passi avanti nel processo di integrazione. Sui risultati dei due referendum pensarono altri fattori oltre a quelli di natura europeista. L’eccesiva complessità del testo del trattato, composto da 48 articoli e la scarsa popolarità dei governi che avevano indetto il referendum furono i maggiori responsabili della bocciatura. Nel frattempo il trattato costituzionale era stato approvato da ben undici parlamentari ma i risultati dei referendum nei due paesi fondatori ne decretavano l’inesorabile e inglorioso decesso. Iniziava un complesso negoziato per rimettere in moto il processo istituzionale che approdava il 18 ottobre 2007 al trattato di Lisbona. Polonia e regno unito furono paesi con le quali le trattative dovettero superare i maggiori ostacoli. - La Polonia era contraria al principio di maggioranza qualificata in seno al consiglio europeo. - Il regno unito in omaggio alla Common Law rifiutava di attribuire valore giuridico alla carta dei diritti fondamentali che insieme al Trattato sul finanziamento dell’unione europea entrava a far parte della struttura istituzionale prevista dal trattato di Lisbona. - Su richiesta di altri paesi il ministro degli esteri del trattato costituzionale cambiava denominazione in alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune - Venivano confermate le figure di presidenza e rafforzate le competenze del parlamento europeo ma anche quelle dei parlamenti nazionali a cui veniva concesso più tempo per decidere sulle delibere della commissione Il trattato di Lisbona ricalcava le linee fondamentali del trattato istituzionale rendendolo più flessibile e più facilmente consultabile. Pur così riformato il trattato di Lisbona incontrava nuove difficolta e nuovi ostacoli. - Bocciatura al referendum irlandese - Rifiuto dei presidenti di Polonia e Repubblica Ceca di controfirmare il trattato già approvato dai rispettivi parlamenti. Il trattato di Lisbona offre però strumenti e poteri per aprire una fase nuova della storia dell’unità europea, che pur allontanandosi ulteriormente dal programma federalista delle origini potrà segnalare un nuovo passo irreversibile e forse decisivo verso una politica diretta a far conservare all’Europa la capacità di operare al livello dei maggiori protagonisti della politica mondiale. È tuttavia possibile che un processo di allargamento assuma per il futuro nuove caratteristiche e adotti nuove figure istituzionali. Abbandonato oramai il modello federalista pensato alle origini de processo unitario, in futuro l’azione dell’UE potrebbe svolgersi secondo modalità diverse e prevedere obblighi diversi per quelli dei suoi membri che vorranno raggiungere nuovi obiettivi e rendere il processo di integrazione più e più rapido. Ne risulterebbe quell’Europa alla carta o a due velocità secondo modelli che negli anni settanta e ottanta pur godettero di qualche attenzione sul futuro della comincia e che sembrerebbe opportuno riproporre oggi con l’esperienza acquisita con i successivi allargamenti e disponendo di strumenti come le cooperazioni rafforzate per realizzarli. 1.2 IL RAPPORTO EUROPA – RUSSIA La crisi americana, non solo quella economica e finanziaria ma anche quella politica e militare ha bloccato il progetto di un America come superpotenza imperiale che una classe politica fortemente nazionalista ha perseguito per quasi un trentennio. Le conseguenze geopolitiche relative alla redistribuzione del potere sul piano mondiale sono ancora imprevedibili e sarà la storia dei prossimi anni a deciderle, ma ragionevoli ipotesi su come nel prossimo ventennio si svolgeranno le dinamiche internazionali sono un qualche misura possibili. L’America potrà tornare grande ma il percorso non sarà né facile né breve. Lo impedisce la diminuita disponibilità di risorse che da ora in poi il paese dovrà investire soprattutto nel processo di trasformazione economico e sociale e lo impediscono soprattutto l’arrivo sullo scenario di nuovi protagonisti. Più realistico per l’America di oggi e di domani un ruolo primus Inter pares nel quadro di un concerto mondiale creato sul modello europeo di due secoli fa, di cui facciano parte un certo numero di paesi che accettano le responsabilità del nuovo ruolo e abbiano la capacità di esercitarlo. Il G8 è ormai da confinare nei ricordi storici, il G 20 e però forse troppo affollato. Una decina di paesi potranno costruire il nuovo gruppo di testa con un certo numero di altri in secondo piano. - L’unione europea ha bisogno di nuovi spazi economici quali sbocco alle sue industrie in una fase storica che si preannuncia caratterizzata da forti competitività, soprattutto nella ricerca di fonti di materie prime. È a est che L’Europa può trovare gli uni e le altre nel quadro di una convivenza reciproca. Va riconosciuto che il processo è in corso da tempo e i rapporti economici con la Russia si avviano ormai a diventare strategici. L’Europa per conservare la sua potenza industriale ha bisogno di esportare per continuare a crescere, ma anche per riequilibrare e pareggiare le sue importazioni di petrolio e gas di cui la Russia è fornitrice storica. - La Russia dopo una fase storica che l’ha vista grande potenza militare ma che l’ha lasciata indietro decenni nei confronti dell’occidente, sul piano di un economia civile e pacifica e di un organizzazione sociale progressista, ha urgente bisogno di un rapido processo di modernizzazione senza il quale l’attuale divario con il resto dell’occidente rischia di diventare incolmabile. Oggi la Russia difronte alle pressioni cinesi e obbligata alla scelta europea e occidentale. 1.3 EUROPA CASA COMUNE?
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