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F. Haskell, La nascita delle mostre , Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Riassunto libro Haskell per il corso di Curatela

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016

Caricato il 19/11/2016

cinecristy
cinecristy 🇮🇹

4.4

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Scarica F. Haskell, La nascita delle mostre e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! Francis Haskell LA NASCITA DELLE MOSTRE PREFAZIONE Il primo libro di Francis Haskell (morto nel 2000) è uscito nel 1962. Almeno una parte del testo “nascita delle mostre” scaturisce da un libro precedente pubblicato nel 1993. Haskell per molto tempo cercò di chiarire come in passato le circostanze delle esposizioni d’arte riflettessero la considerazione che si aveva delle opere, influenzandone la comprensione. Nel 1994 comparve una raccolta di saggi dedicati a Michel Laclotte, alla quale Haskell contribuì con Old Master Exhibition and The Second Rediscovery of the Primitives (1993). Haskell non nascose di nutrire serie preoccupazioni circa la crescente frequenza con cui si concedevano in prestito i grandi capolavori, nonché su molti effetti collaterali delle mostre basate sui prestiti internazionali. Manifestò per la prima volta le sue preoccupazioni nel 1990 in una recensione della mostra dedicata a Tiziano al Palazzo Ducale di Venezia per poi essere trasferita alla National Gallery of Art di Washington. Ci sono molti buoni motivi, scriveva, per provare apprensione davanti allo spostamento di opere d’arte. Quando la decisione di concedere in prestito dei dipinti deriva da considerazioni di politica internazionale o di diplomazia artistica, la preoccupazione deve trasformarsi in indignazione. Continuava sostenendo che le mostre crescono a spese dei musei così come i musei crescono a spese delle collezioni private. Nella seconda metà del Novecento i musei erano stati coinvolti in modo regolare nelle mostre di opere concesse in prestito, ospitandole o collaborando alla loro organizzazione. La linea di pensiero ufficiale era sempre stata che le esposizioni di questo genere giovassero ai musei stessi. Faceva anche notare che gli studi di settore avevano forzatamente cambiato rotta; spostandosi dai cataloghi delle collezioni permanenti verso quelli delle mostre. I musei avevano la necessità di impegnarsi sempre più nel business delle esposizioni temporanee per garantirsi quella pubblicità. La sua recensione incontrò molte opposizioni e Haskell fu accusato di ipocrisia per il fatto che sedeva nei comitati di diverse mostre. Egli non si oppose nettamente a tutte le mostre, ma si rifiutò sempre di partecipare alle pressioni esercitate su quei direttori che si mostravano riluttanti all’idea di concedere dei prestiti. Anche Ernst Gombrich espresse delle perplessità circa il trasferimento di grnadi capolavori. Haskell comincia a raccogliere materiale per la realizzazione di questo libro nel 1997. Egli considerava un ostacolo per la comprensione del passato la tendenza di Longhi e i suoi seguaci a elogiare quei maestri antichi che avevano anticipato Courbet o Manet. Il suo primo libro, Patrons and Painters, sosteneva che i più alti contributi dati dall’Italia all’arte di Sei e Settecento furono realizzati per dare fondamento alle illusioni di potenza di monarchi assoluti, aristocratici oligarchi e pontefici. INTRODUZIONE Le mostre di antichi maestri sono ormai una regola presso le istituzioni del mondo artistico occidentale, non meno di quanto lo siano i musei pubblici e le monografie illustrate, la cui sopravvivenza nel tempo sembra anzi dipendere a volte dalla popolarità delle mostre stesse che pure nel settore sono al confronto una novità recente. Di fatto, la commemorazione del centenario della nascita o della morte di un artista attraverso una mostra è diventata un imperativo morale, non rispettarlo significa incorrere nella deplorazione degli studiosi e del pubblico. Ma molto più significativi dell’impatto economico e politico sono i vari cambiamenti che le esposizioni hanno prodotto nel nostro modo di guardare all’arte. Riunire, da collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, un gran numero di opere dipinte da un artista nel corso della sua carriera ci permette di esaminare il suo sviluppo (o l’assenza di questo) con un’accuratezza che né lui né i suoi mecenati potevano permettersi, neanche quando disponevano di stampe tratte dalle sue creazioni principali. Oggi gli studi e gli schizzi sommari vengono esposti accanto ai dipinti finiti e alle sculture, per svelare l’evoluzione del percorso creativo di un artista e si possono dimostrare le profonde differenze tra la mano inarrivabile del maestro e quella di un seguace o di un anonimo apprendista di bottega. Inoltre, si possono presentare al pubblico artisti o scuole finora poco conosciuti. Si può illustrare un complesso tema iconografico attraverso esempi scelti dalla produzione di pittori che furono fra loro lontanissimi nel tempo e nello spazio. L’esposizione temporanea può mutare in modo radicale la nostra percezione persino delle ortodossie più consolidate. Inoltre, si può conferire una parvenza di perennità ai fatti temporanei realizzado superbi ma fuorvianti cataloghi. Fuorvianti perché devono necessariamente limitarsi ai prestiti concessi per l’occasione, e allo stesso tempo non possono neppure far tesoro di informazioni nuove e rilevanti che emergono dalla mostra stessa o dalle relazioni persentate per a un eventuale convegno a essa collegato. Perciò possono offrire soltanto un panorama completo e sbilanciato di quegli argomenti promessi dai loro titoli. In ogni caso, occorse un tempo molto lungo prima che persino coloro che erano direttamente coinvolti nell’organizzazione delle mostre di antichi maestri cominciassero ad apprezzare alcune delle straordinarie potenzialità di questa nuova invenzione, che cominciò ad assumere una certa regolarità nel corso del secondo decennio dell’Ottocento in Inghilterra. Assai prima di allora, comunque, le esposizioni d’arte contemporanea erano divenute un’istituzione in svariate città d’Italia. A partire dal Settecento, esposizioni di questo genere dominarono la vita degli artisti e svolsero un ruolo epocale nello sviluppo dell’arte moderna. Tutto cominciò forse dalla presentazione del Giuramento degli Orazi di David al salon parigino del 1785. Il concetto di Antico Maestro risale all’Italia del tardo Cinquecento, quando maturò la convinzione che non sarebbero mai state offuscate le conquiste di quegli artisti che avevano animato l’età dell’oro conclusasi con la morte di Leonardo, Raffaello e Michelangelo e neppure di quelli che avevano esemplificato la “terza maniera” di Vasari. Questo stato di cose fu ufficialmente sancito nel 1602 con un decreto che proibiva di rimuovere da Firenze le opere dei pittori di quell’età dell’oro, benché non tutti riconducibili alla scuola toscana. Ai pionieri toscani di ‘200-’300, considerati gli antenati di questi grandi maestri veniva accordato un mero interesse storico e, nonostante riconoscesse il grande merito delle loro imprese non si prendeva nessuna misura per trattenerne le opere a Firenze. Alla fine del Seicento i Carracci e seguaci vennero inclusi tra gli Antichi e Stimati Maestri. L’importanza delle mostre di antichi maestri si deve soprattutto al fatto che sono in grado di riunire in uno spazio limitato opere d’arte originariamente concepite per essere viste in luoghi completamente differenti. È a partire dal Cinquecento che si può cominciare a seguire questo processo della nascita delle mostre nel dettaglio. Ma è soltanto nel Seicento che l’aspetto delle gallerie formatesi grazie a questo genere, di trasferimenti, divenuti ormai comuni, viene registrato per i contemporanei e i posteri. Le collezioni principesche erano oggetto di una profonda ammirazione fra ‘500-’700, durante secoli in cui la classificazione gerarchica delle arti in base al soggetto era un fatto assodato e l’ortodossia delle immagini religiose era trattata con la massima serietà. Sembra che allora nessuno abbia deplorato l’uso di porre i ritratti sullo stesso piano dei dipinti di storia né quello di appendere pale d’altare accanto a affrontò costanti difficoltà finanziarie. In teoria era sovvenzionato da quaranta protecteurs, ma non puntuali nei pagamenti. Nel luglio del 1782, Pahin espose insieme a un gran numero di opere di artisti contemporanei un grande Ercole e Onofale di Noël Halle, morto l’anno precedente ma il cui dipinto risaliva al 1744. Vi affiancò inoltre una modesta reazione di quadri di altri prodotti scomparsi, tutti appartenenti o comunque imparentati alla dinastia Halle. Pahin aveva anche intenzione di esporre l’anno seguente la prima esposizione su larga scala dedicata principalmente ai maestri antichi. Prima che questa prendesse corpo, ideò un’altra pioneristica innovazione, le cui conseguenze ebbero pressoché pari importanza: la retrospettiva dedicata a un solo artista vivente e interamente basata su opere prestate da collezioni private. Joseph Vernet era stato uno dei pittori più ammirati d’Europa. Dal 1777 in poi i suoi committenti più assidui furono un ricco banchiere e un mercante di seta dalle cui collezioni Pahin prese a prestito per la sua mostra al Salon de la Corrispondance quarantanove dipinti e una serie di disegni. L’esposizione fu inaugurata dal fratello del re, il conte di Artois, ma l’evento non ebbe molta risonanza. Nel 1783 Pahin annunciò che le esposizioni organizzate finora non erano state che un preambolo al monumento che intendeva erigere a maggior gloria dell’arte francese nel suo complesso. Il successo delle mostre e la disponibilità dei proprietari a prestare le opere in loro possesso lo avevano convinto del fatto che era giusto portare avanti quel progetto. Per questa esposizione di circa 3 settimane non venne realizzato un catalogo. Dopo molti ritardi, pubblicò un elenco di circa 200 opere in cui figuravano solo artisti della scuola francese. Nel suo catalogo, Pahin vi incluse anche alcuni artisti di cui avrebbe voluto esporre delle opere che non aveva però ottenuto in prestito, segnalandoli con l’aggiunta di un asterisco. Pahin fece molte innovazioni che erano dirette in apparenza a spezzare l’egemonia dell’Accademia nel campo delle arti. Ma lui, a differenza degli amministratori di quella gelosa istituzione, non ha correttamente valutato le più vaste implicazioni di quello che era stato solo un insieme di provvedimenti pratici volti a coinvolgere dei brillanti impulsi. Verso la fine del secolo, Pahin perse tutte le sue speranze e si trasferì a Londra dove morì nel 1811. Il suo ruolo pionieristico merita certamente un riconoscimento. I suoi salons furono però un’eccezione alla regola: per tutto il Settecento la stragrande maggioranza delle opere di antichi maestri conservate nelle collezioni private, vennero valorizzate e portate nelle gallerie grazie a mercanti e case d’asta. LONDRA Un anno prima della presa della Bastiglia, il duca d’Orleans, in forte crisi economica, decise di far vedere tutta la sua collezione d’arte al battitore d’aste James Cristie, che con l’agente del duca trovò un accordo e stipulò un contratto che permetteva la vendita della collezione in due tranches. Vennero ammesse varie opere di diversa provenienza. I primi ad arrivare a Londra furono le opere di artisti nordici, acquisto di una collezione del collezionista Thomas M. Slade. Nel 1793 Slade prese accordi per esporre la sua collezione di artisti fiamminghi a Pall Mall, antica sede della Royal Academy, dove giunsero grandi folle di visitatori. L’organizzatrice della mostra, la galleria European Museum, tramite Mr.Wilson aggiunse alla collezione alcune opere provenienti dalla raccolta del duca d’Orleans. Forse fu proprio Wilson a chiedere ai compratori delle opere di lasciarle esposte per tutta la durata della mostra prima di portarsele. La lunga durata della mostra fu determinante per le successive esposizioni degli antichi maestri. La porzione senza dubbio più bella e preziosa della collezione del duca d’Orleans era quella dei maestri italiani e francesi. Nel luglio 1792 venne acquistata dal facoltoso Francois Laborde e portata in Inghilterra poco prima della rivoluzione francese. La collezione suscitò a Londra le visite entusiastiche di artisti rinomati e amatori. Dopo il colpo di stato del 1797 in francia, Laborde vendette la sua collezione al duca di Bridgewater, al Lord Carlisle e al Lord Gower. La vendita delle opere venne gestita dal mercante Michael Bryan che, prima della cessione ai rispettivi acquirenti, decise di creare un’esposizione di circa 7 mesi con le opere del duca, durante la quale i proprietari non poterono toccare le opere in mostra. Siccome la sua galleria aveva spazio solo per 198 opere delle 296 della collezione, Bryan affittò uno edificio progettato da James Paine per fini espositivi. Ciascuna delle due mostre diede luogo alla pubblicazione di un catalogo, costituito però da semplici elenchi in cui comparivano i pittori, l’indicazione dei soggetti e non si assumeva la responsabilità di erronee attribuzioni. CAPITOLO 2 TRIBUTO E TRIONFO Quasi in contemporanea con le esposizioni di Pall Mall e nello Strand delle opere appartenute al duca d’Orleans, gli amministratori del Musée Central des Arts inauguravano una serie di mostre ancor più sorprendenti nell’ex palazzo reale del Louvre. Nel 1793, un anno dopo il crollo della monarchia, era stato riaperto come museo. Questi eventi resero visibili al pubblico opere d’arte che sarebbero altrimenti rimaste inaccessibili. Di conseguenza, nel 1797 venne inaugurata la Galerie d’Apollon, I cui responsabili furono l’architetto Leon Dufourny e il suo assistente. Dufourny aveva collaborato a Roma con Seroux d’Angincourt ai grandi volumi dedicati alla decadenza dell’arte nella tarda antichità e alla sua rinascita nel Quattrocento, e aveva grande familiarità con l’arte e le antichità italiane. Seroux credeva fermamente nel potere pedagogico dell’arte. Il catalogo pubblicato da Dufourny riportava I nomi degli autori, i soggetti, le tecniche e occasionali indicazioni di provenienza. Si ammetteva che il catalogo era stato preparato in gran fretta e che inevitabilmente conteneva molti errori: la speranza era che il pubblico li segnalasse, così da correggerli nelle edizioni successive e da stabilire un esempio per future esposizioni dello stesso genere. Il posto d’onore era assegnato ai maggiori maestri italiani del Cinquecento e del Seicento, seguiti dai Francesi e dai fiamminghi. (denominazione della scuola tedesca e olandese). Non sorprende che le attribuzioni fossero ottimistiche rispetto agli standard odierni. Considerata la natura dell’esposizione (la prima di questo genere) e la sua estensione (andava da Masaccio a Bouchardon), l’esistenza stessa di un simile catalogo rappresenta, tuttavia, un traguardo notevole destinato a essere superato da quelli pubblicati negli anni seguenti. Tra 1796 e 1799 Bonaparte aveva razziato famosissime opere d’arte da molte città italiane. Un primo convoglio di dipinti arrivò a Parigi nel 1796. Nel 1798 una selezione di circa 86 opere fu esposta al Salon Carré, a cui si aggiunsero altri 56 dipinti italiani, rimossi dell’ex collezione reale di Versailles. La mostra del 1798 era assimilabile allo spirito di numerose iniziative precedenti (come quelle di Roma nel ‘600) che miravano a glorificare i collezionisti più che le opere collezionate. Gli organizzatori sottolineavano che il valore dell’esposizione derivava soprattutto dal rappresentare celebri maestri con un notevole numero di opere riunite una accanto all’altra. Gli accostamenti erano concepiti per far risaltare le differenze stilistiche e, per mancanza di spazio, si era stabilito di mutarne la disposizione nel corso della mostra. Il posto d’onore fu assegnato alla scuola bolognese che contribuì con oltre la metà delle opere esposte e, nonostante la mostra comprendesse anche alcuni straordinari dipinti di altri maestri, fu l’inarrivabile raccolta di dipinti bolognesi a darle effettivamente coerenza e importanza. Vi erano Annibale Carracci, Abani, Domenichino, Guercino. Le quattro grandi fatiche di Ercole di Guercino non comparivano nell’esposizione forse a causa delle loro dimensioni. Era Guercino a fare la parte del leone, con venti opere prelevate in tutta Italia. Nel complesso si poneva una grande attenzione agli insegnamenti che si potevano trarre dai dipinti selezionati, ma per nessun artista l’intento didattico era sottolineato con altrettanta enfasi come per Guercino. In un sintetico compendio della sua carriera, il catalogo osservava che la mostra comprendeva l’intera carriera del pittore. Le opere sono descritte in ordine cronologico per permettere ai conoscitori di seguire lo sviluppo, la fioritura e la decadenza di questo grande maestro. Non vi era alcuna critica esplicita ai dipinti scelti. La mostra doveva offrire uno spettacolo stupefacente. Appena quattro anni prima il governo francese aveva proibito la creazione di arte devozionale e ne aveva limitato la fruizione, confinando le opere delle collezioni nazionali che potevano eccitare il fanatismo religioso in sale riservate ai soli artisti: eppure il pubblico veniva invitato ad ammirare i numerosi capolavori, quasi tutti di tipo religioso. Ciò non piacque a tutti, ma nonostante questo genere di obiezioni e che i maestri bolognesi del Seicento fossero già stati oggetto di una certa denigrazione, sembra che nessuno abbia espresso nient’altro che entusiasmo per i loro risultati e per l’ispirazione che potevano offrire anche ai migliori artisti francesi contemporanei. La mostra al Salon Carré riscosse unanime consenso. L’esposizione comprendeva un certo numero di opere di fama addirittura superiore a quella dei bolognesi. Le più celebrate erano indubbiamente la madonna di San Gerolamo di Correggio, proveniente da Parma, e la Santa Cecilia di Raffaello da Bologna. Anche Raffaello aveva goduto dell’inusuale distinzione di essere segnalato da Napoleone. L’unico punto critico relativo alla Santa Cecilia era peraltro l’entità del danno che si riteneva avesse sofferto in conseguenza del restauro preliminare. Solo quando alcuni anni più tardi, passarono nella grande Galerie questi capolavori divennero oggetto di significativa attenzione da parte tanto degli scrittori che degli artisti. Nel 1815 le opere esposte al Salon Carré sarebbero state restituite per la maggior parte all’Italia, ma il catalogo ci testimonia l’elevato livello di conoscenza raggiunto dalla Francia nel ‘700. Per i dipinti provenienti da Versailles, i compilatori potevano fare affidamento sul catalogo delle collezioni reali di Lépicié, datato al 1752. Non esisteva invece alcun serio testo di riferimento sulle opere razziate in Italia. Molto fu fatto esclusivamente in base alla scrupolosa osservazione dei dipinti stessi. Per ogni opera erano indicate le misure, la natura del supporto (tela, tavola ecc) ed eventuali iscrizioni. Erano sempre riportati i nomi delle chiese o delle gallerie dalle quali i dipinti erano stati prelevati e, dove possibile, si fornivano dettagli sulla commisione e le vicende successive. Ogni commento era introdotto da alcune righe con data, luogo di nascita dell’artista, breve descrizione della sua carriera. In qualche caso venivano inseriti disegni preparatori e versioni correlate così come riprouzioni a stampa. Forti indizi suggeriscono che a orientare gli studi verso un simile livello di perfezione sia stato in origine Bernard -Jacques Foubert, che tra 1795 e 1802 rivestì numerosi ruoli di primo piano nell’ammministrazione del museo, trovandosi strettamente coinvolto nella produzione e nella vendita dei cataloghi. Sin dall’inizio sottolineò che il suo obiettivo era quello di includere nel testo informazioni che vincessero per quanto possibile l’abituale aridità dei cataloghi, e insisté sulla necessità di indicare la provenienza delle opere prese in Italia. I cataloghi realizzati collezioni private inglesi di molti superbi dipinti. Ben presto furono messe in atto le prime iniziative per rendere accessibili queste gloriose ma nascoste meraviglie. Nel 1804 il collezionista Thomas Hope aprì al pubblico la sua dimora. Il suo esempio fu seguito nel 1806 dal marchese di Stafford, proprietario di importantissimi dipinti di Tiziano, Raffaello, Poussin. A ruota seguirono altri collezionisti. Nonostante questi gesti d’apertura, le opportunità di studiare le opere con clama e attenzione erano limitate. L’ammissione tendeva a essere ristretta a chi era conosciuto da qualche membro della famiglia o, altrimenti, produrre una raccomandazione di alto livello, fosse da parte di una famiglia nobile o di qualcuno che possedeva un comprovato gusto per le arti. Il permesso di eseguire copie non era assicurato. Nel 1805, con la costituzione della British Institution for the Fine Arts in the united Kingdom, la quale acquisì tre grandi sale a Pall Mall. La politica del nuovo ente fu stabilita da un comitato di direttori scelti tra I sottoscrittori; e I sottoscrittori che contribuivano con 50 o più sterline l’anno ricevavano il titolo di governatore, che comportava alcuni privilegi. I direttori fecero di tutto per non dre l’impressione che la British Institution intendesse porsi quale rivale della Royal Academy. L’Academy subì comunque un duro colpo vedendo rompere il monopolio che fino ad allora aveva esercitato. Gli obiettivi erano simili, ma la British Institution introdusse due importanti novità: 1) non era amministrata da artisti ma da una ristretta cerchia di collezionisti e conoscitori; 2) al termine di ogni mostra di pittori contemporanei le gallerie venivano chiuse al pubblico e I direttori della British Institution prendevano in prestito una selezione di opere di maestri antichi con l’espresso proposito di metterle a disposizione di amatori e studenti d’arte perché potessero studiarle e prenderle a modello. Il tutto avveniva sotto un rigido controllo, così da evitare rischi di contraffazione. Per questo motivo si concedeva di riprodurre le opere solo parzialmente. Anche quando il proprietario concedeva un permesso speciale per riprodurre l’intero quadro, la dimensione della copia doveva essere ridotta rispetto all’originale. Sembra che da principio la scelta dei dipinti per queste embrionali esposizioni di antichi maestri fu assai più casuale di quanto si potesse auspicare a fronte dell’enfasi posta sull’importanza esemplare che rivestivano per I giovani artisti inglesi. Nel 1806 l’esposizione che annoverava 23 opere, ne includeva solo 4 di artisti italiani e di queste almeno una era certo un errore di attribuzione. Potevano avere solo un limitato valore educativo per I giovani artisti. Le opere olandesi e fiamminghe erano in gran parte assai superiori per importanza e qualità; difficilmente però avrebbero potuto soddisfare le idee correnti circa I fondamenti che dovevano sottostare alla creazione di una scuola autoctona di pittura di storia. Negli anni successivi la scelta dei quadri per le esposizioni annuali rivolte agli studenti mostra un maggiore intento selettivo. Nel 1807, per esempio, il comitato selezionatore specificò ogni dipinto desiderato per la mostra, invece di demandare la decisione ai collezionisti stessi. A Lord Carlsle fu richiesto il prestito delle Marie al Sepolcro di Annibale Carracci. Nel 1857, per la mostra “Art Treasures” di Manchester a Lord Kinnard fu chiesto il Trionfo di Bacco e Arianna di Tiziano. Nessuno dei due collezionisti poté alla fine soddisfare queste richieste, ma le altre furono per la maggior parte accolte e l’anno seguente il re acconsentì a concedere il prestito dei dipinti. Nel giro di due o tre anni dalla fondazione il British Institution, con la politica di rendere accessibili agli studenti “opere d’arte sublimi” si era rivelata talmente salutare che I pregiudizi contro I meriti degli artisti viventi e autoctoni si sono già dissipati. Non era però destinata a durare. Oltre alla esposizione e vendita della produzione degli artisti inglesi, anche l’esposizione dei dipinti di Antichi Maestri era stata fin dall’inizio una delle finalità dichiarate dalla British Institution. Non è chiaro peraltro se I fondatori avessero previsto di realizzare per il pubblico mostre di antichi maestri molto più ampie. Fu forse l’associazione con la nuova schiera di tanti nobili a suggerire di imbarcarsi in un’impresa più ambiziosa di quanto fosse stato fino ad allora pensato. La Royal Academy e alcuni fra i massimi artisti dell’epoca espressero una forte ostilità nei confronti della British Institution e dei suoi progetti. A proporre la soluzione ideale fu uno dei direttori e fondatori della British Institution: il collezionista George Beaumont. Si decise per una mostra inaugurale su vasta scala da realizzare nel 1813. Sarebbe stata dedicata al pittore che, per quanto scomparso da tempo, restava molto ammirato come artista: Joshua Reynolds. Mai prima di allora aveva proposto di celebrare con simili modalità l’oprera di un maestro del passato. Payne Knight, sottolineando che l’esposizione era un omaggio alla arte inglese, rimarcava così che l’onore tributato a Reynolds poteva dimostrare alla nuova generazione quanto il duro lavoro e il talento potessero essere ricompensati. I progetti per l’esposizione discussi nel 1812 vi prese parte anche il reverend Williamo Holwell Carr. La metà circa dei dipinti inclusi nel suo elenco trovò di fatto un posto nella mostra. Lo spazio sulle pareti risultò inadeguato e alcuni quadri dovettero essere restituiti ai proprietari. LA necessità di richiedere ai prestatori il permesso speciale di provvedere alla riverniciatura delle loro opere, laddove ritenuta necessaria dal comitato organizzatore, causò ulteriore ritardi; con il risultato che una serie di opere dovette rimanere in deposito fino a quando, a metà giugno, fu aperta una seconda versione della mostra. La maggior parte delle richieste fu prontamente accolta, la Royal Academy rifiutò invece di prestare qualsiasi dipinto in suo possesso, ritenendo ingiusto nei confronti degli artisti attuali il progetto di esporre una collezione di opere di Sir J. Reynolds alla British Intitution durante la mostra della royal Academy. Vennero infine esposti 141 dipinti. Con considerevoli costi era stata installata un’illuminazione speciale. Dopo quasi due ore, camminando al riparo di una tenda il principe si diresse con la sua scorta ai limitrofi saloni Willi’s (già Almack’s), dove, sul sottofondo delle arie leggere suonate dall’orchestra del duca di Cumberland, presiedette a un banchetto: la cerimonia era stata accuratamente organizzata nel corso dell’anno precedente, spaziando dall’invio degli inviti al calcolo dei costi dello champagne per “sette persone a bottiglia”. Vi parteciparono circa 200 tra i migliori spiriti del Paese, alcuni per 2 ghinee a biglietto, altri come membri della British Institution. 30 di questi erano membri della Royal Academy ed ebbero la soddisfazione di assistere a un brindisi proposto in onore dell’Academy stessa e di ascoltare il discorso di risposta tenuto dal loro presidente Banjamin West (successore di Reynolds). Tra questi, vi era Mrs. Siddons, che poté contempleare il proprio ritratto in veste di musa tragica dipinto da Reynolds circa 30 anni prima. Questa giornata fu un preludio essenziale al primo catpitolo della storia delle esposizionidi antichi maestri. Fu tuttavia solo un preludio, perché difficilmente si potrebbe indicare come un vero e proprio maestro antico un artista la cui mostra postuma fu ammirata da molti suoi amici come anche dalla “maggior parte degli spettatori che conoscevano, anche se in maniera imperfetta, la sua arte”. Costoro ebbero un’opportunità irripetibile per confrontare le fattezze dei modelli con le raffigurazioni che Reynolds ne aveva dato e che erano appese sulle pareti soprastanti: un po’ più giovani, ovviamente, e privi come sempre erano stati, di qualsiasi segno di “affettazione” per non dire di “deformità”. La stragrande maggioranza dei dipinti in mostra apparteneva agli ultimi due decenni della vita di Reynolds. Un tratto che distingue questa mostra da quasi tutte quelle che la seguirono per quasi un secolo fu il semplice fatto che la maggior parte dei dipinti elencati nel catalogo fosse datata. Questo fu possibile perché quasi tutti i quadri di Reynolds erano stati registrati nei cataloghi delle esposizioni della Royal Academy in cui avevano fatto la loro prima apparizione e perché appartenevano ancora alle famiglie dei modelli per i quali erano stati eseguiti. La maggior parte dei suoi dipinti, inoltre, era stata riprodotta in incisioni, circostanza che aveva facilitato la selezione. Nella mostra della British Institution le opere non furono esposte in ordine cronologico. Le tre sale espositive erano situate al primo piano e si potevano raggiungere per mezzo di una scalinata che conduceva nel salone centrale di una suite intercomunicante. Entrando e girando a sinistra per cominciare il proprio giro nella sala nord il visitatore avrebbe immediatamente visto due ritratti dominare la parete di fronte: quello di Giorgio III e quello di Mrs. Siddons, in posa come il profeta Isaia della Cappella Sistina. A tale contrasto, gli organizzatori avevano appeso sulla stretta parete 3 dipinti molto più piccoli, ognuno dei quali raffigurava un adolescente. Le pareti est e ovest erano coperte da ritratti, ma al centro della sala si trovavano, uno di fronte all’altro, due dipinti di Reynolds: la morte del cardinale Beaufort e Il conte Ugolino con i figli. In aggiunta a questi vi erano anche opere più convenzionali, opere mitologiche e fantasie pittoriche, quali la Morte di Didone, Venere e Cupido e La buona Ventura. Come fu sottolineato anche all’epoca, risulta spesso impossibile operare una chiara distinzione tra la ritrattistica di Reynolds e i suoi dipinti allegorici e di storia, ma tornando nella sala centrale e in quella Sud, il visitatore poteva rendersi conto di come nessuno tra i quadri di figura di fronte a lui veicolasse le grandi aspirazioni del Cardinale Beaufort o dell’Ugolino. Non è sopravvissuta a quanto sembra alcuna registrazione complessiva, visiva o scritta, della disposizione delle opere sulle pareti; è possibile tuttavia immaginare una ricostruzione basandosi sulle informazioni fornite nel catalogo e sulla nostra conoscenza delle misure dei dipinti. Tutto suggerisce che la collocazione dei quadri rispecchiasse il protocollo sociale, combinato con la ricerca di simmetria e di un piacevole effetto d’insieme. In ogni caso, un esperto del 1813 avrebbe avuto la possibilità, forse per la prima volta nella storia, di seguire con reale attenzione lo sviluppo dello stile di un pittore. Che qualcuno fosse interessato a cogliere una simile opportunità, però, appare alquanto dubbio. In questa occasione, inoltre, per nessuna delle opere in mostra si presentavano seri problemi di autenticità. L’Observer affermò che la mostra l’avrebbe “messa a tacere per sempre” e che non poteva esserci dubbio sull’eccellenza da lui raggiunta nel più elevato settore dell’arte. Robert Hunt, che scriveva sull’Examiner, nutriva una considerazione altrettanto alta dei suoi quadri di storia e delle fantasie pittoriche perché trovava che i personaggi erano molto espressivi; sosteneva però che quei quadri, e persino i ritratti, avevano difetti cospicui tanto quanto i meriti. Charles Lamb scrivendo in forma anonima sullo stesso giornale, era assai meno entusiasta: le grandi composizioni storiche “non hanno lasciato nel mio spirito alcun senso di elevazione” e anche i ritratti sono interessanti solo per il loro fascino. Benjamin Robert haydon – la cui prima impressione della mostra “fu certamente di inconsistenza” e che una seconda visita risultò “meno soddisfatto” – colse nel suo diario un aspetto da cui furono colpiti anche altri visitatori, e cioè l’impressione che “quanto a immaginazione, non era in grado di fare nulla, e i suoi personaggi hanno un aspetto più volgare dei suoi ritratti. I suoi Ritratti hanno l’elevazione della Poesia e i suoi Personaggi la mediocrità dell’individualità. Il suo Ugolino è un povero mendicante affamato; il suo Beaufort un miserabile rejetto sogghignante. “Ma nella bellezza femminile, come sono incantevoli i suoi ritratti, la loro semplicità priva di artifici, la loro grazia spontanea, la loro casta dignità, il loro pudico sentimento si impadroniscono di noi, ci incantano, ci sottomettono, e i suoi bambini sono inavvicinabili!”. Haydon concluse la sua prima visita dell’esposizione con la conclusione che Reynolds fosse una persona desiderio troppo costante di piacere conduce quasi necessariamente all’affettazione e all’effeminatezza”. Alcuni visitatori mostrarono maggiore entusiasmo: Wilkie scrisse che “risulta mirabile e pare elevarsi al di sopra di se stesso”. Ma nel complesso né Gainsborough né Zoffany erano causa di grande esaltazione. Le immagini satiriche di Hogarth erano di gran lunga le più note fra tutte le opere dell’esposizione, poiché naturalmente erano state realizzate per l’incisione. Hogarth era, ripeteva Hazlitt, un genio comico dotato di una insuperata conoscenza della vita e degli usi umani; era inoltre un maestro della composizione, con una straordinaria capacità di inventare, narrare e caratterizzare; la sua sfera espressiva si estendeva ben oltre la comicità volgare a cui veniva tanto spesso associato. Nel dipinto Marriage a la mode, invece, Hazlitt scoprì in Hogarth quella delicatezza di tocco che poteva essere ottenuta soltanto tramite il mezzo pittorico – un mezzo di cui comprendeva bene la natura grazie al proprio tirocinio d’artista. Hazlitt osservò, per esempio, che nel risveglio Hogarth ha “contrapposto con grande abilità il pallore del marito e il colore giallo-biancastro del camino marmoreo alle sue spalle, in modo da preservare il tono carnoso del primo. L’arioso splendore della veduta di interni di quest’opera non è forse superato da alcun prodotto ell’arte fiamminga”. È difficile determinare fino a che punto tali sottigliezze potessero essere apprezzate da un pubblico più vasto. Certo, l’esposizione del 1814 rivestì un ruolo importante nell’aggiungere alla reputazione dell’hogarth moralista e narratore, che era sempre stato apprezzato anche quella dell’artista. Fu così riconosciuto come uno dei più grandi artisti inglesi, ammirato ferventemente da Wilkie, dai Preraffaelliti e da molti altri importanti pittori inglesi dell’’800. Elementi sparsi e indiretti suggeriscono, tuttavia, che i direttori della British Institution furono probabilmente delusi dalle reazioni a un’esposizione che, come dichiarava con enfasi il catalogo, intendeva glorificare la vecchia scuola inglese e incoraggiare i giovani artisti. Era opinione diffusa che fossero state accattate troppe opere mediocri di Gainsborough e di richard Wilson e che questa condotta avesse compromesso la reputazione di entrambi gli artisti. Deve essere stato perciò con grande soddisfazione che i nove direttori della British Institution intervenuti alla riunione del 16/06/1814 “decisero che l’esposizione dell’anno seguente sarebbe stata dedicata alle opere migliori degli antichi maestri fiamminghi e olandesi e che i direttori presenti, unitamente al conte di Ashburnham e a sir George Beaumont, dovevano costituire un comitato selezionatore che preparasse un elenco di dipinti da valutare”. Con questa decisione, nove studiosi introdussero in Inghilterra la radicale esposizione degli antichi maestri. CAPITOLO 4 NASCITA DELLA “MOSTRA DI ANTICHI MAESTRI” PALL MALL La “magnifica” mostra di “dipinti di Rubens, Rembrandt, Van Dyke e altri maestri delle scuole fiamminga e olandese” aprì al pubblico nelle sale della British Institution a Pall Mall nel 1815. La politica prudente dell’Istituzione si era dimostrata in tutta la sua efficacia e ora fra i suoi mecenati figurava virtualmente l’intera famiglia reale. Quasi tutti quelli che erano stati contattati accettarono di concedere i prestiti. Il problema era costituito dalla disponibilità di troppi quadri importanti. Fu necessario quindi operare alcune scelte difficili, rifacendosi in parte ai suggerimenti di William Seguier, mercante e restauratore esperto di puliture e in questa veste lavorò per la British Institution. L’autore della prefazione al catalogo sottolineò il valore che l’esposizione rivestiva per gli artisti inglesi e nel lanciò elevati appelli al patriottismo. L’autore sottolinea ripetutamente la necessità di “regole e autorità” anche per un genio come Rubens, poiché “nessuna opinione può essere più fallace e, per l’Artista, nessun errore più fatale” dell’idea che “molte delle grandi opere che ci stanno davanti possano sembrare frutto del genio senza aiuto dello studio”. I ritratti di Van Dyck, continuava, erano superiori a quelli di Rubens. Quanto ai pittori di paesaggio e di genere, “esibiscono generalmente la più fedele imitazione della natura: mostrano tutti ciò che l’assiduità può conseguire; e alcuni fra loro uniscono alla dedizione e all’industriosità le più alte qualità dell’Arte”. Dipinti superbi, sentimenti edificanti. Da qualche tempo, però, c’erano dei segnali percettibili da cui si poteva intuire che l’idillio tra maestri antichi e arte moderna inglese non sarebbe durato a lungo – malgrado l’elettrizzante incoraggiamento che constable, “il più inglese dei pittori”, dovette ricevere dall’opportunità di vedere così tanti quadri di rubens appesi alle pareti della British Intitution nel periodo in cui stava lavorando al Carro di fieno. Erano in gioco importanti questioni politiche. Benché il suo “obbiettivo dichiarato” fosse “incoraggiare gli Artisti inglesi”, la società acquistò per la nazione costose opere di maestri antichi, tra cui per esempio la grande pala d’altare di Parmigianino della National Gallery; così la proposta di offrire 4000 ghinee per un dipinto di Raffaello suscitò grande indignazione nei circoli della Royal Academy. Il 24/10/1816 Thomas Lawrence da una conversazione privata capì che i direttori principali della British Institution erano ostili alla Royal Academy. All’epoca, però, era già stato sferrato un colpo devastante. All’inizio del mese di giugno 1815 Sir George Beaumont aveva ricevuto un catalogo ragionato del Pictures now exhibiting at the British Institution, che non includeva alcuna indicazione sul nome dell’autore e nemmeno sullo stampatore. Il pamphlet gli sembrò così denigratorio sul suo conto e su quello dei suoi più stretti colleghi che curavano l’esposizione da ritenerlo passibile di denuncia. Il nome dell’autore del pamphlet fu un punto costante di discussione nei mesi e negli anni successivi, ma non si trovò nessuna risposta certa; né ve ne è alcuna comunemente accettata dagli studiosi moderni, anche se la maggior parte dei lettori del tempo ritenne che doveva essere stato scritto, o quanto meno inspirato, da qualche membro della Royal academy. L’autore dichiarava a chiare lettere che la sua polemica era rivolta al nuovo costume di esporre opere di antichi maestri, sostenendo che arrecava danno agli interessi dei pittori inglesi viventi, il cui sostegno costituiva l’obiettivo originale della british Institution. Qualcuno sostenne che la conoscenza dimostrata in relazione ad aspetti tecnici provava che l’autore doveva essere un artista; altri trovavano il testo mal scritto, anche se invece Thomas Lawrence ne ammirava molto lo stile. Un’altra scuola di pensiero affermò che “è ingiurioso nei confronti dell’Arte in generale perché erode la fiducia nell’indiscusso valore imperituro delle opere d’Arte”. Questo catalogo ragionato diede inizio alla pratica di mettere in discussione l’autorevolezza delle attribuzioni che sono offerte in maniera tanto fiduciosa dai cataloghi delle esposizioni di antichi maestri (e che abitualmente sono formulate dai prestatori delle opere). Le mostre di antichi maestri continuano a fare da sfondo a controversie che solo raramente hanno un corrispettivo nei musei; e questa preziosa tradizione risale, in buona parte, agli ingiuriosi, velenosi, maldestri e arguti pamphlets anonimi del 1815-16. Ciò che l’autore del Catalogo ragionato aveva in mente era ovviamente screditare gli antichi maestri e i loro collezionisti a beneficio dell’arte moderna; anche sotto questo aspetto ebbe un certo successo – ma per un periodo di tempo minore. Dagli anni ’30 dell’’800 circa, i paladini della pittura contemporanea misero in campo qualsiasi tattica per scoraggiare i conoscitori dall’acquistare opere di antichi maestri, così da tenere alto il mercato dell’arte moderna: quei quadri, si sosteneva apertamente o si lasciava intendere cupamente, potevano essere falsi, o copie, o scarti. Sembra che i nuovi collezionisti fossero impressionati da simili argomenti e, per una generazione o due, gli artisti moderni godettero di un’adulazione e di una fortuna senza precendenti. Per diversi anni le esposizioni di arte contemporanea allestite dalla Raoyal Academy e dalla British Institution attrassero molto più pubblico rispetto a quelle della British Institution e altre organizzazioni concorrenti dedicarono agli antichi maestri: “La tradizione del nuovo” aveva una genealogia assai più remota. Nel frattempo, a Londra si allestì una splendida sequenza di mostre dedicate agli antichi maestri: la città non aveva rivali in questo campo e il motivo era semplice. La Dulwich Picture Gallery, lontana dal centro della capitale inglese, era divenuta accessibile al pubblico dal 1814 e, soprattutto, dal 1824 era stata creata una galleria nazionale; ma ciononostante sarebbe trascorso almeno mezzo secolo prima che la somma delle opere delle collezioni pubbliche inglesi potesse reggere il confronto con ciò che si poteva ammirare al Louvre, al Prado, all’Ermitage, a Brera, agli Uffizi, o nei musei di Dresda, Berlino, Monaco e altre città europee. Tuttavia, molti dipinti come quelli presenti ni maggiori musei abbellivano le dimore di ricchi collezionisti britannici e i loro eredi. Il desiderio di farne sfoggio concorse con intenti generosi o addirittura pedagogici (o li usò come pretesto) a rendere possibili quelle esposizioni annuali, che certo ebbero un ruolo nel promuovere l’autostima nazionale. Le mostre univano in sé allestimenti ricchi di ostentazione e una genuina magnanimità, solidamente sorretta da prudenza commerciale. Le aperture serali del martedì, con le sale splendidamente illuminate dalle lampade a gas a partire dal 1819, erano frequentate da soci speciali, fra i quali figuravano esponenti di punta della nobiltà e spesso della famiglia reale, e da chiunque avesse la fortuna di ottenere un biglietto per queste sfavillanti occasioni. Il pubblico meno privilegiato pagava uno scellino per l’ammisione diurna e un altro per il catalogo e poiché le esposizioni restavano aperte per oltre due mesi ogni estate, i costi venivano rapidamente coperti e se ne traevano discreti profitti. Nessun museo odierno è stato in grado di attirare altrettanta attenzione prima che negli ultimi due o tre decenni si cominciassero a organizzare raffinate soirées e cene mondane per la raccolta di fondi – e quell’attenzione era certamente necessaria perché le esposizioni di antichi maestri potessero competere con il glamour che da sempre accompagnava le mostre di arte contemporanea. L’esposizione di 125 dipinti della “Scuola Italiana e Spagnola”, aperta per 3 mesi alla metà del maggio 1816, era dominata dai cartoni di Raffaello con la pesca miracolosa e la predica di Atene, prestati dal principe reggente per conto del re. I cartoni non erano facilmente visibili per gli artisti e fecero sensazione. Benjamin Robert Haydon, che spese molte ore studiandoli, riteneva che bastasse la loro presenza a giustificare la realizzazione della mostra. Si potevano comunque ammirare una serie di altri capolavori, come quelli di Tiziano, Veronese, murillo, Raffaello, Poussin. Benché molto bella, la mostra non poteva essere paragonata per coerenza a quella dedicata l’anno precedente agli artisti nordici, e, forse per questa ragione, il catalogo non contenva l’abituale prefazione didattica. Agli incontri annuali dei governatori, il marchese di Stafford e i suoi colleghi espressero la loro soddisfazione per i benefici arrecati al “gusto nazionale” e alla causa dell’arte moderna inglese dalla contemplazione dei maestri antichi che la British Institution era riuscita a mettere in mostra. Non è affatto chiaro però se anche gli artisti moderni ne fossero così entusiasti: il numero di quelli che chiedeva di esporre alla British Gallery decrebbe in maniera significativa. Si rese necessario pertanto fare concessioni sempre più ampie al sentimento patriottico. Si decise così di dedicare l’esposizione del 1817 agli “Artisti inglesi non più viventi”; poi, sempre più spesso, una delle tre sale fu riservata a stragrande maggioranza dei dipinti da esporre; tuttavia non erano più i proprietari a decidere cosa sarebbe stato esposto in mostra, poiché se ne occupava un ristretto comitato di accademici, stilando gli elenchi delle opere che si sperava di ottenere in prestito. E gli accademici non erano interessati alla promozione di speciali temi o artisti: il loro unico obbiettivo era che l’avvenimento ottenesse il maggior successo possibile grazie alla presenza di un gruppo di capolavori scelti in modo equilibrato o provenienti da un’ampia gamma di fonti. I contenuti delle collezioni private eminenti erano abbastanza noti; il comitato selezionava alcune fra le opere più desiderabili; e, sei settimane circa prima dell’inaugurazione, ai loro possessori veniva inviata una lettera di richiesta a firma del presidente della Royal Academy. Non tutti i proprietari, però, furono solleciti. Ad esempio, il duca di Marlborough non voleva lasciare spazi vuoti sulle proprie pareti; il duca d’Orléans non poteva concedere prestiti perché i suoi dipinti erano in fase di pulitura sotto la sua stessa supervisione. Il duca di rutland “rifiutò sempre di prestare alcuna opera alle esposizioni pubbliche per paura di danni” e, in ogni caso, i suoi dipinti erano sempre accessibili al pubblico. Tuttavia, furono gli entusiasti piuttosto che gli oppositori a causare i maggiori problemi. Non appena le intenzioni dell’Academy divennero note, il comitato fu sommerso di missive da tutto il Paese, inviate da persone desiderose di partecipare. In alcuni casi particolari, come questo, gli organizzatori rispoero con la convincente scusa che i preparativi erano in fase talmente avanzata che era troppo tardi per accettare altre proposte. Questa tecnica, però, purtroppo non eliminava il problema poiché la stessa identica situazione si ripresentava l’anno successivo. Quando le offerte non sollecitate sembravano plausibili, due membri del comitato si recavano di persona a esaminare le opere di interesse e stilavano un rapporto. Ovviamente, allora come adesso, molti vedevano nelle esposizioni di antichi maestri un mezzo conveniente per fare pubblicità alle opere che intendevano vendere. I mercanti erano sempre pronti a farsi coinvolgere e almeno un proprietario ottimista sperò che sarebbe stata l’Academy stessa ad acquistare una sua opera, troppo grande per trovare la giusta collocazione in casa sua. Aneddoti di questo genere, apparentemente insignificanti, rivestono nei fatti reale importanza. Ogni esposizione di opere antiche è il risultato di una serie di compromessi non previsti, di cui i visitatori restano di solito completamente all’oscuro. Si corre il rischio, perciò, di credere che la selezione delle opere esposte sia frutto di un’accurata pianificazione, anche se in realtà regna sempre l’imprevisto. Le intenzioni di ogni organizzatore di mostra sono sviate da gesti imprevisti di capricciosa vanità, acuta avidità e inflessibile cautela. Nonostante simili problemi, l’esposizione del 1870 si rivelò un successo di critica. L’anno seguente, il numero dei dipinti selezionati, in seguito a procedure del tutto simili a quelle descritte, aumentò di circa il doppio rispetto a quella dell’anno precedente. Fu ben presto chiaro che esponendo ogni anno un così ampio numero di opere di maestri antichi sarebbe stato impossibile sostenere gli standard delle mostre della Royal Academy. Di fatto, quando le collezioni inglesi cominciarono a essere disperse in Germania e negli Stati Uniti, la qualità cominciò a declinare e le esposizioni cambiarono carattere, assegnando uno spazio sempre crescente all’arte inglese. Nello stesso tempo, peraltro, si fecero timidi tentativi di migliorare i cataloghi. Inoltre, fatto assai più interessante, l’aumento in tutta Europa del numero di riviste di storia dell’arte condusse in Germania, Francia e altrove a un’accresciuta attenzione nei confronti di questo genere di mostre; si susseguirono così i tentativi di riproporre il modello che esse avevano stabilito. Al contempo, dal 1877, Henry James cominciò a scrivere articoli elegiaci per registrare il graduale declino di quelle che erano state le più spettacolari esposizioni di antichi maestri mai tenute. Nei fatti, le mostre basate sui prestiti di opere antiche continuarono a rappresentare un tratto costitutivo della vita londinese. L’accademia continuò ad allestire le proprie esposizioni invernali, che nell’ultimo decennio del secolo furono accompagnate da altre più piccole in gallerie commerciali, come la mostra veneziana del 1895 alla New Gallery. Malgrado la continuità tra la British Institution e la Royal Academy, molto era cambiato. Si era smussato il pronunciato antagonismo tra artisti moderni e collezionisti e conoscitori di antichi maestri – di fatto si era trattato di una condizione necessaria per permettere il trasferimento dall’organizzazione all’Academy. Inoltre, era scomparsa la generazione dei conoscitori influenti: all’altezza degli anni ’50 dell’’800, gli artisti esercitavano un’influenza pari a quella dei collezionisti sulle commissioni reali costituite per approfondire questioni di pubblico interesse riguardanti le belle arti. Inoltre, non si usava quasi più prendere i maestri antichi come metro di giudizio per valutare i pittori moderni; e in ogni caso prevalse una definizione meno ristretta dei meriti canonici dei primi. Paradossalmente, l’influenza delle esposizioni dei maestri antichi sui pittori moderni fu più forte quando i membri della royal Academy decisero di non allestire più mostre a beneficio dell’arte inglese. Si può misurare con precisione l’impatto che le opere attribuite a Botticelli e Giorgione esposte in quel periodo dall’Accademia ebbero non solo sull’erudizione e sulla critica ma anche sulla produzione di molti dei più grandi artisti, come rossetti, Burne-Jones, Leighton e Albert Moore. Un altro mutamento interessò il pubblico al quale queste esposizioni si rivolgevano. Il Daily Telegraph dando nel 1870 il benvenuto alla prima mostra di antichi maestri della Royal Academy alla vigilia della sua inaugurazione, osservava che adesso c’era un vasto pubblico educato che abitava tutto l’anno a Londra, spostandosi solo per una vacanza annuale. Era chiaro, inoltre, che gli studiosi avrebbero desiderato una maggiore sistematicità nell’allestimento delle mostre: si riteneva che dovessero avere un effetto più educativo sul nuovo pubblico. Nel frattempo a Manchester aveva preso forma un modello copletamente diverso per le esposizioni di antichi maestri, e un altro veniva fornito a Dresda nel 1871. CAPITOLO 5 STUDI TEDESCHI A MANCHESTER E DRESDA MANCHESTER La mostra intitolata “Art Treasures of United Kingdom”, inaugurata a Old Trafford a Manchester nel 1857 presentava parecchi elementi di novità. Era in parte debitrice dell’esempio delle esposizioni della British Institution, ma al contempo era più erudita e didattica. Fornì inoltre la più possente rappresentazione di un museo effimero che si fosse vista fino ad allora. Poco dopo la sua apertura, il critico francese Théophile Thoré annunciò ai propri compatrioti che la collezione riunitavi era quasi al livello del Louvre. Le scuole spagnola, tedesca, fiamminga, olandese sono addirittura più ricche e splendide. La scuola inglese può essere vista unicamente là. Se lord ellesmere, rappresentante della Regina Vittoria nel Lancashire, presidente del consiglio generale della mostra e principale sostenitore locale dell’impresa, non fosse morto inaspettatamente qualche mese prima dell’apertura, probabilmente avrebbe acconsentito a prestare qualcosa della sua stupefacente raccolta di opere di Raffaello e Tiziano provenienti dalla collezione d’Orleans e giunte a lui in via ereditaria. In tal caso, Manchester avrebbe probabilmente rivaleggiato con il Louvre anche nel campo dei grandi italiani del rinascimento. Tra i “tesori d’arte” figuravano fotografie e arazzi, armature e avori, ritratti storici e quadri inglesi moderni, così come dipinti di maestri antichi. Nel corso di 4 mesi un grande pubblico visitò Old Tafford. A distinguere in modo peculiare i prestiti delle collezioni inglesi riuniti alla periferia della più celebre città inglese moderna era il fatto che questa fosse una mostra tedesca. L’iniziativa per l’esposizione a manchester era sorta da un gruppo di industriali e uomini d’affari locali che guardavano con una certa invidia alla prosperità e alla considerazione sociale ottenuta da Londra, Parigi e altre città europee che, all’inizio del decennio, avevano ospitato esposizioni internazionali dedicate in primo luogo all’industria. L’idea di concentrarsi sulle arti era stata ispirata (come loro stessi spiegarono) dall’audace affermazione che “i tesori d’arte del Regno Unito potevano surclassare, per quantità e interesse, quelli conservati nelle collezioni del continente”. Gustav Waggen, direttore della Pinacoteca reale di Berlino e autore del volume “Treasures of art in Great Berlin”, nel suo libro aveva fatto un magistrale resoconto sulle opere d’arte reperibili nelle collezioni pubbliche e private disseminate nelle isole britanniche, il quale fu la pietra fondante su cui venne eretta l’esposizione di Manchester. Wagen stesso offrì frequenti consigli su quali opere chiedere in prestito, anche se ciò non impedì che criticasse alcune delle attribuzioni assegnate nel catalogo. Si raccolse localmente una notevole somma di denaro; si elaborarono piani per fronteggiare i problemi di trasporto, sicurezza, inquinamento e così via e, il 2/07/1856 una delegazione giunse da Manchester a Londra per propugnare il sostegno della Corona, senza il quale sarebbe stato impossibile ottenere i più importanti prestiti richiesti all’aristocrazia. La regina nutriva precise convinzioni sull’allestimento delle opere e disse che “l’unità nazionale va rintracciata nella finalità educativa che si intende imprimere all’intero piano. Nessun Paese investe in Opere d’Arte di ogni genere un capitale maggiore dell’Inghilterra”. Le sue parole non convinsero tutti i principali collezionisti dell’aristocrazia, che difficilmente ritenevano priprio dovere l’educazione del pubblico. Esse, però, indubbiamente conquistarono gli organizzatori, i quali poco tempo dopo incaricarono George Scharf di selezionare e classificare le opere di antichi maestri destinate all’esposizione. Contemporaneamente iniziò la costruzione dell’edificio che avrebbe dovuto ospitarle. Scharf, londinese ma di origini tedesche, aveva viaggiato in Italia e in Asia Minore in qualità di disegnatore degli scavi archeologici. Aveva acquisito una conoscenza approfondita della storia dell’arte e all’epoca in cui gli fu offerto il lavoro a Manchester gli era appena sfuggito per un soffio l’incarico di conservatore della National Gallery; e quando quel lavoro si concluse divenne responsabile della neonata National Potrait Gallery. Sebbene l’esposizione di Manchester sia principalmente ricordata come uno fra i più spettacolari raggruppamenti di dipinti importanti mai riuniti sotto uno stesso tetto, merita un posto nella storia anche in quanto prima mostra di antichi maestri a essere stata diretta da esperti qualificati, aperti all’influenza dell’erudizione e della conoisseurship tedesca. L’impatto più ovvio si ebbe sulla scelta dei dipinti, che assegnò all’arte italiana del Medioevo e del primo Rinascimento uno spazio senza precedenti e che mise in luce alcune opere importanti ma poco note del periodo successivo. Fu in questa occasione, per esempio, che il pubblico potè vedere per la prima volta la Natività mistica di Botticelli e La Madonna col bambino, san Giovannino e i quattro angeli di Michelangelo. Furono probabilmente queste le opere che attrassero maggiore attenzione da parte dei conoscitori e la seconda, da allora, è nota come “la madonnina di Manchester”. Un altro meraviglioso dipinto scelto da Scharf fu “L’estasi di San Francesco” di Bellini, che egli aveva scoperto nel febbraio 1857 (tre mesi prima dell’inaugurazione della mostra); prima di scomparire per oltre mezzo secolo, il quadro era stato accuratamente studiato dal grande conoscitore italiano cavalcaselle. alla figlia come regalo di nozze in occasione del suo matrimonio con il principe di Darmstadt e nel 1852 il dipinto raggiunse la collezione di famiglia dei granduchi di Hesse. Era inaccessibile al grande pubblico, ma la principessa permetteva a quegli amatori d’arte che ne fossero all’altezza di recarsi a vederla quotidianamente tra mezzogiorno e le 3 del pomeriggio; sembra che un numero crescente di eruditi e conoscitori concordasse nel ritenere il dipinto uno splendido originale, probabilmente superiore al venerato capolavoro di Dresda. Questa opinione risultava inaccettabile per un ampio numero di amatori d’arte: vi fu una controversia molto aspra. La situazione era complicata dal fatto che l’evidenza documentaria riguardante la provenienza dei due dipinti era inadeguata. Nel 1869 al pubblico fu offerta per la prima volta la possibilità di vedere dal vivo il dipinto di Darmstadt a una mostra di antichi maestri ospitata a Monaco: gli organizzatori gli sistemarono accanto la litografia per mezzo della quale l’omologo di Dresda era diventato noto in tutto il mondo e inoltre una sua fotografia, anche in questo caso presa non dall’originale ma da una copia disegnata. Tutto ciò stimolò ulteriormente i molti conoscitori che volevano vedere le due versioni della Madonna Meyer una accanto all’altra. Dopo qualche ritardo e un ultimo rinvio causato dallo scoppio della guerra franco-prussiana, la mostra fu inaugurata a Dresda il 15/08/1871 e i dipinti restarono esposti fino al 15/10. Questa fu forse la prima mostra ispirata non da un re o da un gruppo di nobili con la passione del collezionismo, non da un governo o da un’associazione di artisti, bensì da studiosi di storia dell’arte – e per questa ragione poteva aver luogo solo in Germania. I conoscitori avevano imparato molto dalle esposizioni della British Institution e della Royal Academy, ma esse non erano concepire con l’intenzione di ingaggiare dispute sull’autenticità. La mostra di Dresda presentava numerosi altri aspetti innovativi. Traendo vantaggio dall’euforia sollevata dal progetto, il comitato decise di richiedere prestiti importanti da varie collezioni private, così da poter esporre un numero significativo di dipinti, disegni e incisioni di Holbein stesso, di suo padre Holbein il Vecchio e di artisti a loro correlati. Il catalogo incluse circa 440 pezzi. L’esposizione costituiva dunque la prima seria mostra monografica di un maestro antico dai tempi di quella, assai più limitata, dedicata a Reynolds a Londra quasi 60 anni prima. Era di certo la più grande mostra realizzata fino ad allora di opere di un maestro antico. Nell’anno di fondazione dell’Impero tedesco, Dresda stava realizzando la più importante mostra di arte tedesca mai vista in nessuna città. Per renderla possibile, furono richiesti prestiti in diverse parti d’Europa. La regina d’Inghilterra inviò due quadri e una serie di disegni e moltre altre nobili famiglie inglesi prestarono opere dalle proprie collezioni. Questa fu la prima prima volta in cui i dipinti antichi transitarono attraverso le frontiere con lo scopo di essere esposti. Segna, quindi, un punto nodale nella vicenda delle mostre. Non era ovviamente possibile ottenere 440 Holbein originali e quindi la maggior parte dei dipinti e dei disegni suoi e dei membri della sua famiglia furono mostrati sotto forma di fotografie. Questa fu di per sé un’innovazione della massima importanza, poiché permise al visitatore non solo di vedere alcune opere di qualità eccezionale, ma anche di disporre di una visione panoramica sulla produzione di un artista sino ad allora inimmaginabile. Per le Madonne rivali, esposte affiancate, la controversia proseguì. L’accostamento giocava però gradualmente a favore di quella di Darmstadt. I sostenitori di Dresda non erano certo intenzionati ad arrendersi senza ingaggiare battaglia e proposero dei compromessi: il dipinto di darmstadt poteva essere accettato come autentico, ma così pure quello di Dresda. Era una replica, con alcune varianti realizzate dall’artista stesso, forse con un piccolo contributo della bottega. Alla fine, però, divenne chiaro che la guerra era persa e dopo il 1871 le rivendicazioni a favore di quello che, fino a poco tempo prima, era stato uno dei dipinti più celebrati in Germania furono ben poche, se mai ve ne furono di serie. Ci si trova così di fronte alla bizzarra situazione di un numero sempre crescente di collezionisti privati che pretendono di possedere la vera Gioconda o la vera Madonna Sistina, insinuando che le versioni di quei capolavori ospitati al Louvre, nella pinacoteca di Dresda e altrove non sarebbero altro che copie. In ogni caso, l’esposizione di Holbein non ebbe, se non in qualche caso, seguito diretto. Le mostre di antichi maestri con prestito internazionale sono faccende dispendiose e complicate – troppo per essere affidate ai suoi conoscitori. Il profitto e la politica sono necessari per la promozione di questo genere di mostre tanto quanto gli studi e la generosità, e del resto anche l’esposizione di Holbein non fu estranea né al profitto né alla politica. LONDRA Il Burlington Fine Arts Club fu costituito a Londra nel 1866. Il suo obiettivo originario era l’organizzazione di incontri informali in cui i collezionisti, riunendosi nelle loro dimore, potessero osservare e discutere le opere di loro proprietà. Ben presto, però, affittò una sede speciale in Savile Row, proprio alle spalle della Royal Academy, allo scopo di realizzarvi mostre aperte al pubblico, regolari ma relativamente piccole. Dopo un inizio piuttosto esitante, si stabilì che le opere dovevano essere accuratamente selezionate e catalogate da esperti qualificati e che ogni mostra doveva essere dedicata a un tema particolare – un artista o un periodo, o un’arte applicata come per esempio l’argenteria o la porcellana. Il Burlingotn Fine Arts Club beneficiava anche del supporto dell’aristocrazia, ma la stragrande maggioranza dei membri era scelta all’interno di una nuova generazione di ricchi collezionisti borghesi e anche gli artisti vi erano ben rappresentati. Il Burlington Fine Arts Club sopravvisse fino al 1951, ma sono le esposizioni che organizzò nel tardo ‘800 a meritare attenzione in questo contesto. La mostra del 1894 fu specialmente ragguardevole. Era dedicata a un ambito dell’arte rinascimentale italiana che aveva sollevato soltanto di recente un interesse da parte degli studiosi e che apparirebbe oggi pericolosamente avventuroso fuori da Ferrara stessa. Fu organizzata dallo storico dell’arte italiana Adolfo Venturi e venne descritta dal giovane Bernard Berenson come “una delle migliori esposizioni retrospettive che si siano mai viste a Londra”. Le sole vere caratteristiche sopravvissute dal passato consistevano nel fatto che pressoché tutti i pezzi esposti erano stati prestati da collezioni private inglesi e, malgrado Venturi avesse praticamente svolto tutto il lavoro, furono i proprietari di tali collezioni a ricevere gran parte dell’onore. Così Robert Benson, ricco e raffinato banchiere non solo prestò cinque sue opere alla mostra, ma fornì anche un saggio ben informato sebbene distintamente antiquato nel tono, dichiarava di rifiutare il il metodo di attribuzione dei cosiddetti “conoscitori”, basato sul confronto delle caratteristiche anatomiche. Fu solo con l’entrata in scena del Burlington Fine Arts Club che gli organizzatori cominciarono a dar conto di simili dubbi nei cataloghi che loro stessi pubblicavano. Quello in oggetto, per esempio, è disseminato di didascalie quali “Scuola Ferrarese”, “Ascritto a Ercole Roberti”, “Ignoto”, “Scuola di Costa” e così via – a volte addirittura con una cautela superiore a quella che appare necessaria ai conoscitori della nostra epoca, cento anni dopo. L’innovazione più significativa dell’esposizione, comunque, risiede nell’attenzione tributata alla documentazione erudita. È possibile ancora oggi constatare quanta ragione avesse Berenson quando affermava che la versione del catalogo stampata per i soli sottoscrittori, corredata da 22 illustrazioni di grande formato, era “magnifica”. Solo alla mostra però si potevano vedere le oltre 250 fotografie di dipinti che risultavano importanti ai fini della comprensione di quelli appesi alle pareti. Molte di queste erano state realizzate appositamente per l’occasione a Berlino, Venezia, Vienna, Bologna, Parigi, Milano e ancora altrove e riproducevano non solo dipinti di artisti celebri, ma anche di altri che solo gli specialisti più esperti potevano aver sentito nominare. Queste fotografie erano sistemate in ordine cronologico e potevano essere consultate da chiunque fosse interessato nel Catalogue Raisonné of Works by Masters of School of Ferrara- Bologna incluso nel catalogo. Nella mostra di Holbein del 1871 e in quella di rubens del 1877 le fotografie dovevano fungere da succedanei delle opere d’arte che non erano state concesse in prestito; ma questo particolare modo di utilizzarle fu il contributo più ambizioso alla storia dell’arte specialistica mai presentato ovunque. La mostra ferrarese, comunque, aperta da maggio a luglio 1894, fu visitata solo da 2400 persone, eccetuati i 378 membri del club: sotto questo aspetto si distingueva dall’esposizione di Manchester di 40 anni prima, che aveva attirato oltre un milione di visitatori. Restò un’istituzione privata e i suoi prestiti furono limitati alle collezioni inglesi. Come si era da tempo compreso, anche il più entusiastico ricorso alle fotografie costituiva spesso un goffo strumento per risolvere problemi primari: di fatto Benson nel suo saggio introduttivo aveva sollevato cautele sull’eccessiva fede riposta nel loro valore. I movimenti del club paraltro non erano quasi per niente contaminati dai sentimenti politici e nazionalistici che si possono rintracciare nell’esposizione di Dresda. Le mostre di Manchester e Dresda furono eventi popolari animati dall’erudizione; quelle del Burlingotn Fine Arts Club furono imprese erudite la cui eredità è stata raccolta dalle piccole mostre “dossier” allestite oggi nei musei più importanti. L’esposizione “Art Treasures” di Manchester non fu solo un mero spettacolo popolare: raggruppava infatti al suo interno numerose sezioni che potrebbero essere descritte come mostre specialistiche, come per esempio quella che ospitava il materiale relativo alla preistoria e ai primi utilizzatori dell’acquerello e quella dedicata allo sviluppo della tecnica incisoria del mezzotinto; e ancora la mostra di disegni antichi, che può essere considerata una delle prime esposizioni pubbliche del genere, anche se anticipata dalla rassegna semi- commerciale di Samuel Woodburn negli anni ’30 dell’ ‘800 e prima ancora, naturalmente, dalla mostra del 1797 nella Galerie d’Apollon al Louvre. CAPITOLO 6 NAZIONALISMO ED ESPOSIZIONI La grnade mostra di Holbein a Dresda fu realizzata nell’anno della fondazione dell’Impero Germanico. Forti sentimenti nazionalistici si individuano facilmente nei movimenti della rassegna di reynolds alla British Institution di Londra del 1813, benché in tal caso l’obiettivo principale fosse quello di placare la gelosa Academy, di cui Reynolds era stato il primo presidente. Il fatto che sul finire dell’’800 il nazionalismo sia diventato una componente sempre più palese delle mostre allestite in Europa non dovrebbe sorprendere nessuno studioso di storia europea. Le imponenti celebrazioni del 1828 per dare risalto al terzo centenario della morte di Durer non implicarono l’esposizione di alcuna sua opera. Nella città natale di Norimberga si diede inizio alla realizzazione di un monumento in bronzo che tuttavia non fu completato per tempo. Dodici anni dopo, furono ancora più spettacolari le cerimonie tenute nella città di parete opere più piccole ne fiancheggiavano una grande e importante. La mostra ebbe un enorme impatto, come si può desumere dalla serie di riferimenti che si registrarono negli anni immediatamente successivi, quando altre nazioni organizzarono mostre ambiziose dedicate alle rispettive glorie del passato. Il problema che dovettero affrotnare era complesso. Rembrandt era gradualmente arrivato a essere considerato un artista eccezionalemente “nazionale”. Nonostante ad anversa nel 1899 si tenesse una mostra un po’ raffazzonata su Van Dyck, e malgrado Madrid celebrasse i raggiungimenti di Velázquez, Goya ed El Greco rispettivamente nel 1899, 1900 e 1902, in Francia come nelle Fiandre, in Germania come in Italia, si aveva la sensazione diffusa che solo i Primitivi potessero eguagliare Rembrandt nella capacità di associare l’aspetto nazionale e quello morale. Era, però, alquanto difficile trovare tra loro un singolo maestro noto e produttivo al punto da garantire una mostra monografica. Le splendide esposizioni che sul finire del secolo proliferano in tutta Europa erano di solito dedicate a gruppi di artisti. È pur vero che la prima esposizione importante che seguì la consacrazione di Rembrandt non fu deputata a una scuola, ma a un altro artista individuale, Cranach, e che il suo organizzatore, il direttore della pinacoteca di Dresda, era animato da un genuino interesse per gli studi. Affermò anche che artisti, conoscitorie pubblico profano riconoscevano concordemente che la mostra, tenuta a Dresda nel 1899 , aveva permesso alla Germania di recuperare un vero artista. Nel 1900 uno scrittore ‘darte belga suggerì di organizzare a Bruxelles una rassegna per celebrare l’operato dei Primitivi fiamminghi e citò quali precedenti per ciò che aveva in mente le mostre tenute a Amsterdam, Dresda, Anversa e Madrid in onore di Rembrandt, Cranach, Van Dyck e Velázquez. Dopo numerose vicissitudini l’esposizione che aveva concepito si tenne a Bruges nel 1902 e rivestì grande importanza. Gli organizzatori erano ansiosi soprattutto di dimostrare che era esistita una scuola di pittori fiamminghi vigorosa ed essenzialmente autonoma. A tal fine, i curatori conclusero l’esposizione con tre opere di Pieter Brueghel, tra cui la grande Adorazione dei Magi (oggi alla National Galley di Londra), omettendo invece deliberatamente qualsiasi dipinto del suo contemporaneo Franz Floris, considerato un “traditore” per aver cercato ispirazione nell’arte italiana, abbandonando così la tradizione nativa. “La scuola fiamminga ha rilevato se stessa con un potere e una ricchezza quasi insospettati. Mostrare la passata ricchezza e il passato potere delle Fiandre non stimola forse il sentimento nazionale? Il nostro legittimo orgoglio ci ha reso più fieri del nostro nome di belgi”. Nel 1904 i francesi decisero di dover a loro volta dimostrare al mondo che avevano avuto una grande scuola di pittori antichi e organizzarono un’enorme mostra a Parigi, riuscendo a riunire alcuni dipinti meravigliosi che erano dispersi in luoghi anche lontani. Il catalogo fu scritto da Henri Bouchot, un veterano della guerra franco-prussiana. In maniera persino più assurda schernì la scuola fiamminga, che doveva ogni suo possibile merito all’esempio francese. Non era nemmeno chiaro, asserì, se i fratelli Van Eyck fossero davvero esistiti! Sempre nel 1904 furono dedicate due esposizioni all’arte senese. La prima di esse, organizzata da Corrado Ricci, si tenne nella splendida cornice del Palazzo Pubblico di Siena e fu probabilmente la più importante mostra di arte antica mai realizzata in Italia. La seconda ebbe luogo al Burlingotn Fine Arts Club di Londra e deve aver sorpreso i visitatori rivelando quanto le collezioni inglesi fossero già ricche in questo campo all’epoca ancora poco esplorato. Oltre a portare a un ampio incremento degli studi su Siena, le due rassegne attrassero ulteriormente l’attenzione sul prestigio della pittura “primitiva”. I tedeschi non intendevano restare in disparte e, sempre nel 1904, allestirono un’importante esposizione di opere di pittori della scuola di Colonia, della Westfalia e di altre regioni. Questi eventi erano diventati competitivi. CAPITOLO 7 BOTTICELLI AL SERVIZIO DEL FASCISMO Le esposizioni di impronta fortemente nazionalista discusse finora avevano due tratti in comune. Ognuna fu dedicata a un singolo maestro (Reynolds, Rembrandt, Van Dyck, Cranach, Velázquez) o a singole scuole e periodi (i Primitivi fiamminghi, la Catalogna, Siena e così via). E ognuna ebbe luogo in una città con la quale aveva un’ovvia relazione: Londra per Reynolds, Madrid per Velázquez, Bruges per i fiamminghi. Dopo la Prima guerra Mondiale, però, svariate mostre di più ampia portata ma dal pronunciato carattere nazionale vennero esportate in altri Paesi. Una mostra fra le più notevoli del genere fu consacrata all’arte italiana allestita a Londra nel 1930. Le esposizioni invernali, tenute nella sede della Royal Academy, giunsero a termine nel 1914, ma dopo la guerra sorse un forte desiderio di ripristinarle e addirittura di superarle includendovi prestiti all’estero. La prima fu la mostra di dipinti spagnoli svoltasi tra il novembre 1920 e il gennaio 1921. Regnava in quel periodo un particolare entusiasmo per gli antichi maestri spagnoli. La mostra fu possibile solo grazie al supporto di un comitato spagnolo, presieduto dal duce d’Alba, che assicurò prestiti non solo da molti privati, ma anche da qualche collezione pubblica spagnola. I musei di Valencia e Siviglia inviarono dipinti importanti, così come l’Accademia di San Fernando, e anche la corona spagnola fece numerosi prestiti tra cui un notevole El Greco dall’Escorial. La mostra aprì il 4 novembre e fu un successo popolare. L’Autoritratto al cavalletto di Goya fu prestato dal conte di Villagonzalo, la sua Altalena dal duca di Montellano, il suo ritratto del duca di San Carlos dal marchese de la Torricella. L’esposizione suscitò altresì qualche controversia: i critici spagnoli furono scioccati dal colore “sangue di toro” della tappezzeria punteggiata dai molti buchi rimasti dalle mostre precedenti; inoltre trovarono che il principio della numerazione fosse poco chiaro. Il problema maggiore per i critici, sia spagnoli che inglesi, fu però l’enfasi posta sull’arte spagnola moderna. La monotonia dei soggetti – contadino dopo contadino “appartenente alla stessa famiglia”, con “lo stesso sorriso inespressivo” – suscitava scoramento; ecosì anche il semplice numero delle opere moderne – “così tante e tante cose simili, eppure quasi tutte cercano imperiosamente la nostra attenzione”. In alcuni ambienti, peraltro, la mostra fu dipinta semplicemente come un grande trionfo per la Spagna. Il critico e giornalista italiano Ugo Ojetti, personalità alquanto influente, scrivendo su “Dedalo” la descrisse senza mezzi termini come “mostra ufficiale, mostra di governo, atto di propaganda nazionale”. L’Italia, esortò, dovrebbe seguire l’esempio spagnolo. La bellezza non governa il mondo, ma aiuta. Per la Royal Academy divenne impossibile continuare a promuovere mostre con prestiti internazionali; quelle successive dovevano essere organizzate con il consenso degli accademici piuttosto che su loro suggerimento. La rassegna di artisti svedesi del tardo ‘800 inaugurata all’inizio del 1924 fu organizzata dalla AngloSwedish Society e la più ambiziosa “Flemish and Belgian Art 1300-1900” di tre anni dopo dalla Anglo-Belgian Union. Questa fu realmente una “mostra di governo”. Non solo godeva del patrocinio reale, come l’esposizione spagnola, ma venne organizzata “con la cooperazione del governo belga”. L’Unione intendeva “promuovere rapporti amichevoli tra queste due grandi nazioni da poco prive di legame” – in altre parole mantenere viva l’alleanza della Prima Guerra Mondiale. L’esposizione si annunciò come la prima “importante mostra internazionale d’arte antica” visibile a Londra dopo quella spagnola. Stimolò immediatamente una rassegna olandese di impatto ancora maggiore organizzata dalla Anglo-Bavarian society, che includeva spettacolari prestiti da collezioni pubbliche. E ispirò altresì Lady Ivy Chamberlain, moglie di Sir Austin Chamberlain, ministro degli esteri del governo conservatore, a promuovere l’idea di una mostra d’arte italiana. Era una donnna potente e aveva un progetto che si concretizzò il 20 dicembre 1929 quando la nave italiana “Leonardo Da Vinci” attraccò all’East India Dock nel porto di Londra e cominciò a sbarcare quello che era forse il carico più straordinario mai condotto in Inghilterra. Ne facevano parte dagli Uffizi La Nascita di Venere di Botticelli e il dittico di Montefeltro di Piero della Francesca, dal Bargello il David di Donatello, la Tempesta di Giorgione dalla collezione del principe Giovannelli, La Bella e il giovane inglese di Tiziano da Palazzo Pitti , La Crocifissione di Masaccio da Napoli, la Flagellazione di Piero da Urbino, le Cortigiane di Carpaccio dalle Gallerie dell’Accademia di Venezia. Responsabile di queste, e di svariate altre centinaia di opere d’arte, era il direttore di Brera e soprintendente delle Belle Arti della Lombardia, Ettore Modigliani. Naturalmente, solo il supporto del governo aveva potuto garantire la possibilità di riunire opere di questa importanza. Non sorprende quindi che il primo passo compiuto da modigliani una volta completato lo scaricamento fu quello di inviare un telegramma indirizzato a “Sua Eccellenza Benito Mussolini, Roma”: “Lieto tranquillarLa comunicandoLe che, aperte tutte 500 casse, ogni cosa fu trovata assolutamente intatta”. Poco tempo prima, Lady Chamberlain e Sir Robert Witt avevano chiesto in prestito delle sale alla Royal Academy, ma non ricevettero risposta poiché l’Academy si sentì offesa da tanta disinvoltura nella richiesta. Lady Chamberlain scoprì presto che ad opporsi alle sue azioni erano Piccadilly e Trafalgar Square. Alienandosi le simpatie di molti con le sue continue ingerenze in un equilibrio di potere già pericolosamente instabile, Mussolini era ansioso di conservare il sostegno del segretario agli Affari Esteri inglesi, che era un suo amico: compiacerne la moglie con il prestito di un numero qualsiasi di capolavori italiani (verso i quali non nutriva personalmente alcun interesse) deve essergli sembrato un prezzo meravigliosamente insignificante da pagare. Inoltre, il suo prestigio personale non si era ancora completamente riaffermato in Inghilterra da quando tre anni prima Mussolini aveva quasi perso il potere in seguito al delitto Matteotti – come dimostra il comportamento assillante di Lady Chamberlain nei confronti della Royal Academy, dettato dal timore di quello che descriveva con ritegno come un “cambio di personale nel governo italiano”. La preparazione e lo svolgimento della mostra coincisero con l’apoteosi della popolarità, addirittura dell’adulazione, che il duce riscosse in quel Paese. In definitiva, fu Mussolini a scegliere come commissario generale dell’esposizione Ettore Modigliani, che già da molto tempo aveva cominciato a svolgere in maniera ufficiosa ogni mansione dell’incarico. Non fu probabilmente solo perché era stato direttore di Brera per 20 anni nell’organizzazione di mostre in patria e all’estero. Contava ancor di più il fatto che avesse giocato un ruolo chiave nella salvaguardia dei monumenti italiani durante la guerra e e che fosse stato inviato alla conferenza di Pace di Parigi del 1919 in veste di rappresentante culturale del governo, con l’incarico di reclamare “i tesori d’arte rapitici dall’Austria negli ultimi due secoli – un compito che condusse con successo nelle circostanze più melodrammatiche, trovandosi addirittura costretto a un certo punto a nascondersi in un’automobile e viaggiare sotto travestimento. Svariati mesi prima che Lady Chamberlain contattasse l’Academy e convocasse la prima riunione del suo comitato, Modigliani e convocasse la prima riunione del suo comitato, proposta alternativa dicendo che se il Vaticano prestasse la predella alla National Gallery, tantissimi visitatori potrebbero vederla. Alla National Gallery era presente la parte centrale della Pala di Cossa. Le due ali laterali si trovavano presso collezioni private e la predella alla pinacoteca vaticana. Lady Chamberalin, quindi, sperava che il papa le prestasse la predella per mostrare la pala in modo completo. All’epoca, il dipinto che era custodito alla National Gallery, con san Vincenzo Ferrer, si riteneva fosse il pannello centrale di un trittico le cui ali erano custodite sin dal 1893 alla Pinacoteca di Brera, dove il direttore era Modigliani. Il Vticano non voleva concedere il prestito, ma per non deludere il comitato inglese venne realizzata una copia della predella, donandola al museo. Modigliani si arrabbiò e minacciò di non prestare i due pannelli laterali poiché secondo lui non si armonizzavano con la moderna copia della predella. Constable fu incaricato di ringraziare il Vaticano, ma di non spiegare per nessuna ragione perché la loro copia non sarebbe stata esposta al Burlington House e Lady Chamberlain fece informare il Vaticano che la national Gallery avrebbe rifiutato il dono dell copia, mossa escogitata per non offendere il Papa. Ma il progetto comunque naufragò a causa di Modigliani e Cossa venne rappresentato a Burlington House solo da due disegni di bottega. In Italia erano naturalmente i collezionisti privati a trovarsi nella posizione più forte per rifiutare i prestiti. Il comitato era particolarmente desideroso di ottenere un dipinto (tutt’oggi problematico) attribuito a Piero della Francesca, attualmente nella collezione Cini a Venezia ma all’epoca di proprietà del marchese di Villamarina a roma. Questi inizialmente rifiutò sulla base del fatto che le condizioni dell’opera rendevano sconsigliabile il viaggio, ma grazie al diretto intervento del governo italiano, il quadro giunse a Burlington House. Un caso esattamente opposto a questo fu quello di Tiepolo Papadopoli di Venezia. Il comitato inglese desiderava in particolare due scene di genere, il minuetto e il ciarlatano, oggi entrambe al museo di Barcellona. La famiglia ne aveva offerto il prestito e aveva il sostegno del governo, ma le fu impedito di inviarle dal soprintendente locale, il quale temeva , a ragione come risultò, che avesse intenzione di venderle all’estero. Anche Vittorio Emanuele, in realtà, era molto contrario ai prestiti in massa di opere all’Inghilterra. Modigliani indirizzò una lettera al prefetto di Torino spiegando che in realtà, vista la grande generosità e disponibilità del governo inglese per i prestiti, era dovere dell’Italia inviare a sua volta delle opere. A questo proposito, quindi, propose quello che gli sembrava il danno “meno peggiore”, ovvero il prestito di un dipinto di Pannini presente nel Palazzo del Quirinale. Il re disse che era impossibilitato a concedere quel prestito. Comunque, nonostante le insistenze di Modigliani, il Pannini non arrivò mai e il re prestò una legatura e tre disegni (di cui due di Leonardo) che appartenevano alla Biblioteca Reale di Torino. Mussolini, ad un certo punto però, non sopportando più queste storie infinite sui prestiti e ebbe uno scontro con l’ambasciatore britannico a Roma poiché non riusciva a convincere tutti sui prestiti richiesti da Lady Chamberlain, la quale ci restò molto male quando Mussolini inviò un telegramma non a lei ma alla Royal Academy, che aveva fatto di tutto per mettergli i bastoni fra le ruote. L’esposizione di Londra aperta il 1 gennaio 1930, vennevisitata da circa 540 mila persone e la data di chiusura fu prorogata di 2 settimane. Degli oltre 600 dipinti esposti, ben più della metà erano stati prestati da collezioni italiane pubbliche o private. Un quarto dei quadri proveniva da collezioni del Regno Unito, una trentina dagli Stati Uniti e il resto da Francia, Germania, Austria e altre parti d’Europa. L’allestimento era essenzialmente cronologico, ma i capolavori più spettacolari del ‘400 e del ‘500 erano esposti insieme nel salone centrale. Il titolo della rassegna, “Italian Art 1200-1900”, dà un’impressione fuorviante sia dei suoi contenuti, sia delle sue conseguenze. Sin dall’inizio il comitato italiano era stato alquanto interessato all’idea di dedicare spazio alle tele dell’ ‘800 e una sala venne debitamente riservata a esse; quasi nessuno, però, pare avervi perso tempo. Assai più sorprendente è l’indifferenza dimostrata verso dipinti del ‘600 e del ‘700. Anche se la royal Library prestò molti disegni magnifici, non ve n’era escluso nessuno di Guercino. Da tutti i punti di vista la mostra era dominata dalla visione di Berenson di un Rinascimento che si era concluso con la morte di Michelangelo, ma che aveva conosciuto una breve seconda vita nella Venezia del ‘700. Naturalmente, pur entro i limiti convenzionali, non era possibile ottenere una rappresentazione equilibrata del Rinascimento. Vi fu anche un momento di tensione quando, nella fase in cui il progetto era alle battute conclusive, una serie di dinieghi rese evidente che praticamente Palma il Vecchio non sarebbe stato rappresentato: Lord Lansdowne infatti rifutava di prestare il proprio Concerto se non fosse stato catalogato come Giorgione – e Modigliani si rifiutò di farlo. Le debolezze degli studi apparvero con grande evidenza nel catalogo (del quale vennero vendute oltre 151 mila copie): Kenneth Clark, il suo autore principale, lo descrisse come “il catalogo di gran lunga peggiore che sia mai stato stampato per una grande mostra”. Clark nella sua autobiografia, si pente di aver contribuito sostanzialmente a un pezzo della propaganza fascista. In Inghilterra fu la reputazione di Roger Fry, dopo quella di Lady Chamberlain, a essere maggiormente accresciuta dall’esposizione. Gli articoli di Fry dimostrano che la grande esposizione ne conteneva al suo interno alcune più piccole, che risultavano attraenti per un pubblico più ristretto – proprio com’era accaduto nella mostra “Art treasures” del 1857 a Manchester. Una parte significativa degli articoli di Fry era dedicata alla metà di una sala consacrata ai primi maestri italiani e in particolare alla scuola di Rimini, che fiorì in maniera brillante alla prima metà del ‘300 per poi scomparire completamente. Il movente del sostegno di Mussolini alla mostra di Lady Chamberlain era chiaramente politico: la promozione non tanto del fascismo in se stesso, quanto della stretta alleata del fascismo, l’italianità – parola che utilizzò costantemente per costringere i proprietari riluttanti a prestare i loro dipinti. L’allestimento di mostre per ostentate il prestigio nazionale era già una consuetudine ben radicata – a Londra, Parigi, Amsterdam, Anversa, Bruges, Dresda – ma era meno abituale promuoverne in nazioni straniere. Nel 1932 Dino Grandi, che in qualità di ministro degli esteri era stato profondamente coinvolto nell’organizzazione della mostra e aveva ricevuto la sua buona parte di lettere da Lady Chamberlain, fu designato ambasciatore italiano a Londra. All’arrivo inorridì nel trovare le sale ufficiali dell’ambasciata nello stato di un piroscafo di seconda classe, e fu Modigliani che ricevette il compito di trasformarle in qualcosa di “degno dell’Italia fascista nella capitale dell’Impero britannico, secondo il desiderio e il volere del duce. Furono stanziati fondi speciali e si presero in prestito dipinti ottimisticamente attribuiti ai più grandi maestri. CAPITOLO 8 NUOVI ORIENTAMENTI DEL GUSTO A FIRENZE E PARIGI FIRENZE, 1922 Nel 1900 ebbe luogo un mutamento radicale nel rapporto tra collezionisti privati, musei ed esposizioni. Le mostre di antichi maestri erano state inaugurate in Inghilterra nel 1815 per permettere al pubblico di vedere dipinti che sarebbero altrimenti rimasti inaccessibilinelle dimore di città e di campagna. Questa situazione, però, restò immutata per quasi un secolo. La national Gallery di Londra stava peraltro scremando i grandi tesori che ancora si trovavano nelle mani dell’aristocrzia, sempre più gravata dalle tasse di successione e dal collasso delle rendite agricole: per legge, poteva prestare opere solo ai musei pubblici del regno Unito. La Royal Academy e altre sedi espositive erano private. Un processo simile stava avendo luogo in tutta europa, ma risultava meno evidente perché molti dei musei che oggi annoveriamo tra gli enti pubblici di fatto appartenevano ancora ai regnanti. Nel 1900, ad esempio, la Royal Academy allestì una grande esposizione su Van Dyck. Quasi tutti i dipinti provenivano dalle collezioni inglesi, inclusa quella della Regina, ma il ritratto di Lord Wharton, oggi alla National Gallery arrivò dall’Ermitage di San Pietroburgociò fu possibile perché il proprietario nominale dei dipinti di quel museo era l’imperatore russo. Nel 1902 i musei di Anversa e Bruxelles concessero con riluttanza alcuni dei loro tesori alla mostra fiamminga di Bruges, ma fu solo dopo enormi difficoltà che i curatori di quella esposizione riuscirono ad avere un Memling dal Musée des Beaux Arts di Rouen. Nel 1910 vi fu un tumulto quando, dopo aver rifiutato 5 richieste, acconsentì infine a prestare a una mostra di Bruxelles un dipinto di un artista fiammingo minore. Fu solo dopo il 1918 che i musei cominciarono a prestare regolarmente opere per le mostre internazionali, anche se la National Gallery resistette alle pressioni fino agli anni ’50 e per altri tre decenni fu sensibilmente parca nel permettere i viaggi. Se non ci fossero stati questi cambiamenti di rotta, le esposizioni di antichi maestri non sarebbero sopravvissute nel XX secolo. Non c’è forse un dipinto che illustri tale mutamento in modo più spettacolare dell’enorme Morte della Vergine di Caravaggio che, in modo abbastanza sorprendente, il Louvre acconsentì a prestare alla prima rassegna internazionale importante tenuta dopo la Prima guerra mondiale: La mostra della pittura italiana del Sei e Settecento, svoltasi a firenze a Palazzo Pitti nel 1922. Questa esposizione può essere considerata la più importante di tutto il ‘900 poiché mutò permanentemente la percezione della storia dell’arte europea da parte del pubblico. La presuntuosa rivendicazione del volume commemorativo ufficiale, pubblicato due anni dopo la chiusura della rassegna, era del tutto giustificata. È pur vero che, per almeno una generazione, prima del 1922, erano in molti a essere consci che lo splendore dell’arte italiana non fosse giunto a un termine improvviso e definitivo con la morte di Tintoretto del 1594; è vero altresì che le epoche successive erano già state oggetto di ricerche assai importanti. Nei circa dieci anni precedenti, inoltre, i dipinti italiani del Sei e Settecento avevano ottenuto buoni posizionamenti sul mercato e ricevuto notevoli apprezzamenti nelle riviste in voga. Un numero notevole di essi proveniva da chiese e musei visto che gli italiani “non si presuadono facilmente a svelare” i tesori delle loro collezioni private. A risultare subito così stupefacente fu essenzialmente l’effetto d’insieme suscitato da alcuni tra i massimi capolavori della pittura italiana del Barocco e del Rococò; ed è l’orientamento per un verso sorprendente impresso all’esposizione a renderla così affascinante sotto il profilo storico. L’idea di una rassegna di pittura italiana del Seicento da allestire a palazzo Pitti era stata suggerita alle autorità municipali di Firenze nel 1919, poco dopo che il sovrano aveva offerto alla nazione questa dimora reale e otto anni dopo che questa era stata la cornice di una celebre esposizione ritrattistica italiana. In seguito, Ugo Ojetti spiegò che al momento in cui lui e i suoi colleghi avevano cominciato a lavorare sul progetto erano giunti alla conclusione che fosse necessario estenderlo al Settecento, in parte perché sarebbe mancato altrimenti un naturale punto di approdo. L’esposizione intendeva celebrare la recente vittoria che l’Italia, combattendo accanto agli alleati occidentali, aveva conseguito sull’Austria. Il suo obiettivo principale era la Roberto Longhi e Ojetti esaltarono ‘600 e ‘700 per aver anticipato non solo Corot e Constable, ma anche Courbet e Manet; e questa è una tendenza che secondo Haskell non è ancora scomparsa. PARIGI, 1934 Parigi, nel 1934 fu la sede di un’altra esposizione d’arte seicentesca, i cui obiettivi erano per un verso opposti a quelli della mostra di Firenze. “Les Peintres de la réalité” aprì al Musée de L’Orangerie dal 24/11/1934 al 15/03/1935 (prorogata per 1 mese). Benché solo poche settimane prima dell’inaugurazione gli organizatori non conoscessero ancora alcuni dei dipinti che vennero infine inclusi (o esclusi) nell’ee, questa mostra è sempre stata considerata una fra le più importanti mai tenute in Francia e gode tuttora di una notevole reputazione. Viene forse ricordata soprattutto per aver presentato al pubblico un influente gruppo di circa 12 dipinti, o attribuiti a, Georges de La Tour, la cui opera era fino ad allora conosciuta da pochissimi specialisti. La lettera introduttiva del direttore dei musei francesi, che apriva il volume, usa delle parole che ricordano molto espressioni analoghe apparse nel catalogo di palazzo Pitti del 1922: sottolinea che “il suo scopo è di gettare luce su un capitolo della storia dell’arte troppo a lungo negletto e di restituire il loro vero rango ad artisti di grande originalità che sono stati dimenticati, ignorati e incompresi”. Era un periodo difficile. In quell’epoca i termini “realtà” e “realismo” applicati all’arte suscitavano nuovamente forti emozioni, e sebbene fosse la pittura contemporanea a essere prevalentemente coinvolta nella cosiddetta querelle, l’arte antica non sfuggiva completamente alla controversia. Così i fratelli Le Nain, che al momento della loro riscoperta nella metà dell’ ‘800 erano stati acclamati quali supposti dissidenti sociali, in tempi più recenti gli era stata tolta gradualmente la connotazione sovversiva. Dall’inizio degli anni ’30 furono celebrati in particolare per la loro “francesità” ed erano estensivamente rappresentati in questa mostra così come in altre due organizzate lo stesso anno. La loro inclusione nel cuore della tradizione nazionale, insieme a Corot e ad alcuni altri artisti, tra cui Courbet, risultava accettabile sia per la destra che per la sinistra. Fu giusto in quest’epoca, però, che alla nozione di realismo vennero ancora una volta attribuite specifiche connotazioni politiche, benché non sussistessero tra i partiti dispute sostanziali circa il fatto che esso fosse intrinsecamente auspicabile. Fu nel 1934, per esempio, che si formularono in Unione sovietica i principi del realismo socialista. Il giornale comunista, la Commune, sollevò ad esempio la questione in relazione a Jean Michelin, sottolineando l’efficace contrasto tra il Carretto del fornaio di Michelin e La ragazza con falcone di Philippe de Champaigne, esposti uno accanto all’altro: la triste, autentica realtà del “grande siècle” si trova nella miseria rappezzata dei poveri, illustrata dal primo, mentre la giovane donna del secondo vivrà sulle fatiche di quegli sventurati disgraziati che la Chiesa lascia nell’ignoranza affinché possano più facilmente essere asserviti alla volontà dei grandi e dei potenti. Gli organizzatori non avevano in mente questo tipo di interpretazione ed erano impegnati a convincere il pubblico della francesità dell’arte realista francese. Charles Sterling spiegò in seguito che l’obiettivo era stato quello di “realizzare un’esposizione su un movimento della cui esistenza mi ero reso conto in Francia, un movimento realista che corrispondeva al movimento barocco in Italia”. L’unico problema era l’impossibilità di ignorare che a condurre a questa francesità era stato un italiano. E questo causò molte difficoltà. La prefazione fu scritta da Paul Jamor, da poco nominato direttore del dipartimento al Louvre . All’epoca, aveva riunito una notevole collezione privata, che lasciò in gran parte al museo. Riconobbe il ruolo essenziale svolto da Caravaggio, “la cui influenza si estendeva ovunque”, ma lo sminuì poi il più possibile. I francesi erano stati naturalmente influenzati dall’illustre italiano, ma la sua arte non era mai penetrata nel profondo dei loro cuori e, se necessario, se la sarebbero cavata senza di lui. Charles Sterling, polacco ma di cittadinanza francese, scrisse l’introduzione al catalogo così come le singole schede. Anch’egli era desideroso di sottolineare l’essenziale francesità dei pittori esposti e ritenne necessario concludere la sua introduzione affermando che “se un giorno a questa esposizione sarà concesso l’onore di essere raffrontta a quella dei Primitivi francesi del 1904, il suo scopo sarà raggiunto”. Il suo approccio, tuttavia, era molto più internazionale di quello del direttore Jamot. La mostra presentava importanti novità in campo artistico ed è rimasta famosa per l’originalità delle ricerche e dell’approccio scientifico; tuttavia, come il suo catalogo, presenta alcune anomalie di un genere abbastanza disturbante. A essere fonte di disagio era il fatto che in una serie di casi, dipinti ben poco distinti dello stile o dei soggetti dei loro artisti siano riuniti per trarre una particolare conclusione sullo spirito dell’arte francese in generale. È forse ancora più difficile capire perché avrebbe dovuto essere inclusa una scena semimiitologica di quell’affascinante pittura che è Vignon se, come sosteneva Jamot, il realismo francese non dipendeva da Caravaggio, ma necessitava solo di “quell’amore profondo per la natura, la verità, la vita e l’umanità che, dall’alba della storia sino a oggi, non ha mai smesso di ispirare l’anima della Francia”. Sembra tuttavia probabile che non sia stato un mero senso di vanità nazionale a sollecitare il rinnovato culto della francesità che risulta tanto evidente in “Le Peintres de la réalité”. Probabilmente, Jamot e i suoi colleghi e sostenitori auspicavano che la loro mostra potesse suggerire in modo diretto agli artisti viventi di riportare l’arte francese alle sue glorie passate, rigettando il Surrealismo e le ultime cadenti rovine del modernismo e ritornando alle tradizionali virtù nazionali. E ben presto risultò che non si trattava di una speranza vana. Un contemporaneo ci informa che l’esposizione ebbe particolare imptto sui giovani pittori dell’ Ecole de Paris. Questi artisti rinnegarono l’impressionismo e il disegno industriale , invitando a un ritorno alla tradizione. Essi chiarirono che era stata la mostra “Les Peintres de la réalité” a infondere in loro nuova forza. Forces Nouvelles ottenne notevoli consensi e molti vi scorsero la possibilità di una resurrezione per l’arte francese; alla luce di ciò che accadde in seguito, però, il movimento ci colpisce piuttosto come un ritorno al passato piuttosto che come un nuovo decollo. Le esposizioni di Firenze e Parigi rivestirono entrambe grande valore e importanza. Questo valore non deriva solo dai loro meriti intrinseci, ma anche dall’impulso che trasmisero ad altri. Il traguardo raggiunto da Palazzo Pitti nel 1922 rese possibile le mostre innovatrici dedicate all’arte italiana del ‘600 e ‘700 in moltissime città italiane prima e dopo la guerra. Nel dopoguerra Milano e Bologna aprirono la strada con una serie di esposizioni che sfidarono quasi tutte le affermazioni di Ojetti e che non solo influirono sullo spostamento del gusto del pubblico, ma fissarono altresì degli standard che non sono ancora stati sorpassati. La mostra del 1934-35 dell’Orangerie fu seguita due anni dopo dall’Esposizione Universale del 1937, che includeva, all’interno del Musée d’Art Moderne la più vasta rassegna d’arte francese mai allestita; successivamente, dopo la guerra si registrò una sequenza importante di esposizioni monografiche, che comprendevano i fratelli Le Nain, Georges de la Tour, Poussin e molti altri maestri. I prestiti furono molto ampi. Le grandi esposizioni basate su prestiti della seconda metà dell’ ‘800hanno reso possibile lo sviluppo della storia dell’arte e, in un senso più vasto, hanno contribuito a maturare la nostra comprensione dello sviluppo storico dell’arte. Ciò che è straordinario delle mostre di palazzo Pitti e dell’Orangerie non è il modo in cui mutarono in Italia e in Francia la comprensione da parte del pubblico dei maestri antichi, ma l’impatto che questo processo ebbe sull’arte contemporanea e su ampie cerchie intellettuali. Altrettanto non si può dire per le mostre monografiche che da esse furono favorite. CAPITOLO 9 EREDITÀ DURATURE Le esposizioni di antichi maestri nutrono altre esposizioni di antichi maestri; ogni volta che ne viene organizzata una particolarmente spettacolare la stampa e i bene informati si associano nella predizione che non sarà mai più possibile vedere nulla di simile. Il 9 settembre 1898 il Times scrisse a proposito della mostra di Rembrandt ad Amsterdam: “dubitiamo che questa mostra, o qualcosa di simile a questa, possa mai essere replicata”. Meno di quattro mesi dopo lo stesso giornale commentava una rassegna di dipinti dello stesso maestro allestita alla Royal Academy di Londra: “È come se avessimo considerato l’esposizione di Amsterdam una sfida e le avessimo risposto che è ottima anche se in Inghilterra possiamo fare di meglio”. Haskell ha segnalato che la mostra italiana del 1930 fu per certi versi replicata a Parigi poco dopo. Non si è più visto niente del genere da allora, ma il numero di esposizioni basate su prestiti è cresciuto sempre più a grandissima velocità. Dopo il 1900, i musei pubblici che si opponevano ai prestiti e in modo particolare ai prestiti all’estero hanno cominciato gradualmente a mutare la propria linea di condotta; solo per questa ragione furono possibili le grandi mostre: quella di Palazzo Pitti del 1922, quella della Royal Academy del 1930 e quella dell’Orangerie del 1934. Si poteva percepire comunque una buona dose di riluttanza. Nessuno avrebbe potuto prevedere il mutamento che ebbe luogo nella seconda metà del ‘900, quando tutti i grandi musei e le grandi gallerie del mondo hanno organizzato e ospitato mostre basate sui prestiti. Oggi queste istituzioni si associano sovente nei pensieri dei loro visitatori tanto con gli allestimenti effimeri quanto con le collezioni “permanenti”. Roberto Longhi, intervenendo a un convegno sulle esposizioni d’arte tenuto a Milano il 12 Novembre 1959, si disse molto favorevole alle mostre, soprattutto a quelle piccole rassegne monografiche che erano state nel Novecento una specialità italiana; ma tremava di fronte ai tremendi rischi comportati dall’esposizione di Londra del 1930 e metteva bene in evidenza la minaccia che quelle mostre internazionali, ammalianti e mal organizzate, costituivano nei confronti del benessere dei musei. Egli si augurava anche il ripristino di un senso di responsabilità nei confronti di ciò che è insostituibile e prezioso. Longhi concludeva il proprio intervento notando che un nuovo museo italiano si era dotato di un proprio spazio espositivo; in tempi recenti diversi musei italiani ne hanno creato uno, anche se in numero minore rispetto ad altri stati europei. Sviluppi di questo tipo contribuiscono a garantire il prestito di capolavori. Sarebbe errato sostenere che nell’ ‘800 sia sempre sussistita una divisione tra le mostre basate su prestiti e i musei o le gallerie pubbliche. Alcuni di essi furono fondati sulla scia delle esposizioni e nei luoghi adattati o creati per queste. Il Bargello a Firenze ne è un esempio – aprì come sede delle celebrazioni nazionali dantesche del 1865 e l’idea fu quella di realizzare su quella rassegna temporanea i fondamenti di “un museo permanente sullo stile di quelli di Cluny e Kensington”. Durante i primi 50 anni della sua esistenza, il South Kensington Museum (oggi Victoria and Albert Museum) incluse regolarmente sale interamente dedicate a opere prestate, ivi comprese cospicue collezioni di pittura antica; e se qui le opere prevaleva nell’ ‘800, è progressivamente decaduta. L’esposizione spagnola del 1920 alla Royal Academy rappresentò un delicato compromesso. La prefazione avvertiva che “nelle didascalie si è dato il dovuto riguardo ai meriti attribuiti ai dipinti dai relativi proprietari. In moltissimi casi, peraltro, sono state introdotte correzioni nel testo”. Gli studiosi non sono comunque del tutto liberi e nie cataloghi moderni di esposizioni di antichi maestri vige il divieto di inserire alcuna osservazione che possa offendere il prestatore. Per tali ragioni i giudizi critici essenziali al progredire delle ricerche sono soffocati dal mezzo stesso. Bisogna ammettere che quando vengono recensite le pubblicazioni ispirate da un’esposizione o a essa associate, le recensioni indipendenti rivestono spesso un interesse superiore a quello dei cataloghi ufficiali. Alcuni tra i più importanti scritti dedicati all’arte moderna del Settecento e Ottocento sono nati in risposta a mostra. Le rassegne di antichi maestri ne attirarono molti meno che avessero un reale valore letterario, ma si deve riconoscere che un pamphlet da esse ispirato occupò un significato cruciale della connoisseurship. Nell’inverno del 1894 la New Gallery organizzò una mostra di arte veneziana basata sul prestito di circa 300 opere, catalogate secondo i nomi indicati dai proprietari escludendo il comitato da resposabilità di attribuzioni. Questo atteggiamento dovette recare loro un gran sollievo quando lessero un pamphlet intitolato Venetian Painting, chiefly before Titian, at the Exhibition of Venetian Art. The New Gallery, 1895. By Bernhard Berenson. Berenson all’epoca aveva 30 anni ed era estremamente ansioso di farsi un nome come conoscitore infallibile: malgrado da poco avesse cominciato a pubblicare qualche articolo, era scarsamente noto al grande pubblico e perfino ai raffinati collezionisti che avevano prestato le proprie opere alla National Gallery. Era però amico di Herbert Cook, un facoltoso membro del comitato dell’esposizione che sponsorizzò la pubblicazione del pamphlet e fece addirittura in modo che fosse messo in vendita nella sede della galleria. Berenson ammetteva che le attribuzioni non erano esatte e la colpa non era del comitato, che si era semplicemente limitato a riportare le informazioni presenti, ma dei proprietari irresponsabili che le avevano fornite. L’esposizione veneziana della New Gallery del 1894 -1895 è una fra le poche mostre di antichi maestri dell’epoca a essere ancora ricordata. E questo a causa dello scherno sprezzante di cui fu oggetto da parte di un giovane ambizioso che fu il più brillante conoscitore del suo tempo. Berenson, però, non si limitò a irridere le pretese dei prestatori della mostra. Escogitò a più riprese soluzioni ingegnose per alcuni degli enigmi presentati dai dipinti troppo ambiziosamente attribuiti che poté esaminare. Di fatto, utilizzò la mostra come strumento per avanzare una ricostruzione ipotetica. Una generazione dopo, il suo esempio sarebbe stato seguito con ostentazione e fantasia ben maggiori da un conoscitore che intendeva inizialmente essere suo allievo, ma che sarebbe poi diventato il suo rivale e più acerrimo nemico. Officina ferrarese di Roberto Longhi, oggi ampiamente considerato un classico della storia dell’arte del ‘900, fu pubblicato nel 1934 come una sorta di cronaca in presa diretta della grande mostra di pittura ferrarese del Rinascimento tenuta a Ferrara l’anno precedente – cronaca in presa diretta piuttosto che “recensione approfondita”, perché Longhi utilizzò l’esposizione come trampolino per una panoramica dell’arte ferrarese e non si limitò a scrivere di ciò che era stato esposto. Il saggio di Longhi dimostra che le esposizioni potevano finalmente prendere posto accanto ai musei in qualità di strumenti di ricerca creativa. Nel 1945, Longhi si comportò nuovamente in questo modo. L’esposizione “Cinque secoli di pittura veneta”, che consisteva di circa 200 opere che non si erano viste per cinque anni e che, subito dopo la fine della guerra furono recuperate da vari depositi segreti per essere esposte per un breve periodo nelle Procuratie Nuove, si è assicurata una perente nota storico artistica a piè pagina. E questo solo perché diede origine al Viatico per cinque secoli di pittura veneziana – un saggio che, tra molto altro, cercò di assolvere l’arte veneziana da ogni sorta di relazione con l’opportunismo fascista di cui Longhi stesso si era giovato. Di qui la sua denigrazione di Tiepolo, il quale aveva esaltato i principotti del suo tempo, influenzato gli artisti moderni propagandisti ed eccitato l’approvazione della “critica ufficiosa” del cinquantennio precedente. Tiepolo aveva anticipato l’opera romantica e Cecil B. De Mille, mentre Rosalba Carriera, avvicinandosi a Watteau e realizzando ritratti gravi quanto quelli di Chardin, avva presagito l’opera di Renoir. Fortunatamente non sono solo gli storici dell’arte a trovarsi nella posizione di assicurare in qualche modo una seconda via alle esposizioni di opere antiche. Il potere di farlo appartiene anche agli storici della cultura e agli scrittori. Il contesto fortemente nazionalistico che aveva fatto da cornice alla mostra sui Primitivi fiamminghi organizzata a Bruges nel 1902 aveva originato per un verso una lettura fuorviante delle testimonianze presentate al pubblico. Gli organizzatori volevano innanzitutto dimostrare che la profonda religiosità e la sincerità dei dipinti di Van Eyck, Memling, gerard David e di altri maestri del Quattrocento non contrastava in alcun modo con l’interesse dominante per un vigoroso realismo. Sotto questo punto di vista, dunque, il genio dell’arte fiamminga dell’epoca poteva essere considerato tanto progressista quanto responsabile di aver radicalmente alterato il corso di tutta la pittura europea: L’Eva di Van Eyck, per esempio, veniva confrontata con opere di Courbet. L’effetto sul trentenne Johan Huizinga fu però del tutto diverso poiché egli non condivideva nessuna delle preoccupazioni nazionalistiche degli studiosi fiamminghi. Osservando i dipinti esposti a Bruges, Huizinga vi scorse in primo luogo non il vero realismo ma il suo opposto. Il corpo di Eva, ad esempio, era distorto per conferirgli un elemento conferirgli un elemento di erotismo: i suoi seni erano troppo piccoli e posizionati troppo i alto, le sue braccia erano troppo lunghe e sottili e la pancia prominente, in accordo al gusto vigente al tempo di Van Eyck a proposito di bellezze femminile. Huizinga, a proposito di questo artista, confermò la sua opinione sulla natura essenzialmente artificiale del suo cosiddetto “realismo”. Huizinga parlò delle “pesanti vesti di broccato rosso e dorato, cariche di pietre preziose, di quelle smorfie troppo espressive, della decorazione troppo puerile del leggio”. Questa analisi di quella che secondo Huizinga è la principale caratteristica della pittura fiamminga del ‘400 in generale può essere in gran parte messa in discussione: egli fu selettivo nei dipinti che scelse di commentare tanto quanto il comitato della mostra era stato influenzato nella scelta di quelli da esporre. Huizinga nel 1910, otto anni dopo aver visitato la mostra, iniziò a leggere tutto ciò che poteva degli storici borgognoni e fiamminghi del tempo e fu sulla base di questa e altre ricerche che creò il libro che aveva inizialmente progettato di intitolare Nello specchio di Van Eyck. Bisogna comunque riconoscere che la tesi di huizinga è stata ripetutamente confutata dagli studiosi sia italiani che francesi. Recentemente due storici inglesi hanno fatto di tutto per contestare l’affermazione dello storico olandese che nel ‘400 la cavalleria, con il suo insuperabile entusiasmo per i tornei e le manifestazioni dalla natura più stravagante e ritualizzata, avesse perso il suo scopo originale di addestrare guerrieri virtuosi per difendere la cristianità e fosse sprofondata in una prodigalità senza scopo e in una sognante evasione della realtà. Al contrario, si sostiene oggi, i tornei mantenevano il loro valore di preparazione per la vera guerra. La critica più devastante spetta forse alle due pagine in cui il grande storico Lucien Febvre attacca il principio stesso di scegliere un sentimento particolare – l’oscillazione violenta, per esempio, tra crudeltà e tenerezza, odio estremo ed estrema bontà, che emana “un odore misto di sangue e rose” – come caratteristico del declino del Medioevo. E benché gli storici dell’arte non abbiano mai apertamente accettato la validità delle sue tesi, esso ebbe certamente un effetto cruciale su uno dei più grandi storici dell’arte del nostro tempo. Panofsky sostenne che la conquista naturalistica della resa di Van Eyck e di alcuni suoi contemporanei fu così efficace che la conquista della resa naturalistica da parte di Van Eyck e di alcuni suoi contemporanei fu così efficace da recare con se un rischio supremo: quello di distruggere ciò che era stato fino ad allora lo scopo principale di un dipinto, “insegnare, suscitare emozioni pie e mantenere viva la memoria”. L’effetto delle osservazioni di Panofsky riguardo Van Eyck è quello di neutralizzare l’impatto della novità e far apparire la sua pittura assai più “medievale” di quanto sembri a prima vista. Di fatto, Panofsky osserva che Van Eyck fa ancora uso dello stesso tipo di simbolismo che Broederlam aveva utilizzato in precedenza nella sua Annunciazione dove per esempio le tre finestre sulla cornice alludono alla Trinità L’affermazione di Panofsky su Van Eyck progressista sembra essere stata ispirata dall’Autunno del Medioevo di Huizinga. L’ultimo esempio dell’influenza duratura che una mostra di opere antiche può esercitare riguarda l’ispirazione che essa è in grado di offrire. Memorabile in questo senso sarà sempre il caso legato a un’esposizione tenuta nel 1921 al Jeu de Paume di Parigi. In un momento precedente di quell’anno l’ambasciatore olandese in Francia aveva riunito una collezione di opere d’arte olandesi da inviare in Francia. Di queste, un centinaio erano dipinti e disegni di maestri antichi; circa 60 erano di pittori della scuola dell’AIA e circa 40 erano opere moderne di altri artisti, suddivise tra il “periodo di transizione” e l’arte contemporanea; in questo ambito, le opere più straordinarie erano di gran lunga otto tele di Van Gogh. Scopo della mostra era raccogliere fondi da devolvere alla Francia orientale devastata dalla Prima Guerra Mondiale, che si era da poco conclusa. La maggior parte dei dipinti proveniva da collezioni pubbliche e private olandesi, ma alcuni erano stati prestati da raccolte private inglesi, francesi e di altri stati. I musei olandesi non erano del tutto entusiasti. Van Riemsdijk, direttore generale del Rijksmuseum, temeva i pericoli legati a questa iniziativa, soprattutto quelli che i dipinti avrebbero incontrato al momento di essere nuovamente imballati per la restituzione. Nel 1909 un’esposizione di opere antiche svoltasi a New York aveva attirato l’attenzione pubblica sulla ricchezza dell’arte olandese in America. Questa, che fu la prima mostra del genere dotata di importanza e coerenza a essere organizzata negli Stati Uniti, era stata allestita al Metropolitan Museum per commemorare “il terzo centenario della scoperta del fiume Hudson da parte di Henry Hudson nel 1609 e il primo centenario dell’utilizzo del vapore nella navigazione del detto fiume da parte di Robert Fulton nel 1807. Consisteva di due sezioni: una dedicata all’arte americana e l’altra a circa 150 dipinti olandesi del ‘600. Alcuni di questi erano di proprietà di un museo, ma la maggior parte dei dipinti fu prestata da collezionisti privati molti di questi erano di grandissima qualità, come Autoritratto di Rembrandt, e alcuni dipinti di Vermeer. Il fatto che tra tutti i facoltosi collezionisti americani uno solo fosse pronto a inviare un quadro alla mostra di Parigi suggerisce che i prestiti internazionali fossero ancora inusuali; l’assenza di collaborazione sul versante americano comunque fu più che compensata altrove. In Inghilterra, Lord Iveagh concesse il magnifico autoritratto di Rembrandt che si trova ancora a Kenwood House, e in Francia il pittore e collezionista Léon Bonnat inviò una notevole e insolita selezione di disegni dello stesso artista. Le opere più straordinarie però furono quelle provenienti dai musei olandesi. Può l’illuminazione concessa a Bergotte e, forse, in altre forme, a innumerevoli visitatori in innumerevoli altre esposizioni in varie parti del mondo, giustificare la crescita
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