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Faoro - L'amministrazione dell'Italia romana, Sintesi del corso di Storia Romana

riassunto del libro completo Università degli Studi di Milano

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 26/03/2021

fabrizio.fabusini
fabrizio.fabusini 🇮🇹

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Scarica Faoro - L'amministrazione dell'Italia romana e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Davide Faoro L'AMMINISTRAZIONE DELL'ITALIA ROMANA Dal I secolo a.C. al III secolo d.C. Parte prima – Roma Capitolo 1 – Il principe e Roma 1.1 I Cesari e l'Urbe A Roma, l’imperatore risiedeva normalmente in città in tempo di pace, dove gestiva gli affari dello stato contornato dai suoi collaboratori e con il supporto del Senato e dei più alti funzionari dell’ordine equestre; il princeps entrava regolarmente in contatto con il popolo in numerose occasioni. L'imperatore romano riprendeva molti aspetti del magistrato di epoca repubblicana, rappresentante del popolo che esercitava le sue funzioni di fronte al popolo negli spazi pubblici. Si può dire che la figura dell'imperatore permeasse l'intero spazio pubblico e istituzionale della città. L'edilizia pubblica divenne fin dall'epoca Augustea ambito di esclusivo intervento Imperiale. Ovunque si volgeva lo sguardo, e soprattutto negli spazi pubblici, gli abitanti di Roma vedevano statue dell’imperatore, offerte votive per la sua salute, celebrazioni delle sue vittorie. La situazione non cambiava sul piano istituzionale e politico: tutti i magistrati, e soprattutto quelli di rango più elevato, sapevano che la loro elezione era dovuta all’assenso dell’imperatore. Nessuna riforma amministrativa era promulgata senza prima essere passata al vaglio Imperiale e il principe era stesso all'origine dei provvedimenti. Roma fu il luogo dove più di ogni altro fu visibile il particolare assetto costituzionale del Principato augusteo, in cui i tradizionali attori istituzionali continuavano a svolgere le loro funzioni in apparente autonomia, ma in realtà sotto il controllo politico dell'imperatore. Coerentemente con il suo proposito di restaurazione della res publica, Augusto fu colui che, più di tutti, volle implicarsi personalmente nell’amministrazione cittadina; già verso la fine del suo principato è sempre più spesso sotto i suoi successori, l’imperatore usò delegare ad altri le sue competenze, giocando più spesso il ruolo di arbitro che quello di amministratore. 1.1.1 Le riforme amministrative di Augusto Augusto fu responsabile di riforme profonde che posero le basi di quella che sarebbe diventata l’amministrazione della Roma imperiale. Considerando gli interventi di Augusto è necessario prestare attenzione a due aspetti: l’organicità dei provvedimenti e la loro cronologia. In effetti, il lungo principato dell'erede di Cesare non può essere considerato come un blocco uniforme e le trasformazioni istituzionali e amministrative di quest'epoca non hanno seguito un disegno preciso, ma hanno risposto a esigenze in parte circostanziali, non senza mostrare, in certi casi, dei significativi cambiamenti di direzione. La Roma repubblicana possedeva un personale amministrativo permanente limitato è composto sostanzialmente di schiavi pubblici impiegati negli archivi o nella vigilanza degli incendi; altri servizi erano invece appaltati a imprenditori privati. Altro personale dipendeva direttamente dal magistrato in carica in quel momento ed era costituito dai suoi schiavi, conoscenti e parenti. La durata annuale delle magistrature implicava una rotazione continua di una parte del personale amministrativo, che non poteva dunque giungere a un alto grado di specializzazione. Oltre a questo l'amministrazione di Roma mancava anche di una vera e propria gerarchizzazione e di una chiara divisione delle competenze. Augusto volle in principio ristabilire l’autorità dei diversi magistrati attivi nella città di Roma. Non c’è dunque da stupirsi se le riforme amministrative dei primi anni del principato non modificarono le caratteristiche fondamentali in quel momento in vigore. È solo nel corso dell’ultimo decennio dell’epoca Augustea, che è possibile constatare una tendenza alla razionalizzazione e alla gerarchizzazione. Le riforme dell’epoca Augustea si concentrarono su tre ambiti principali: la gestione degli acquedotti, la prevenzione degli incendi e l’annona, l’approvvigionamento granario della città. Tali ambiti ricadevano tradizionalmente sotto la vigilanza degli edili e non di rado, infatti, giovani e ambiziosi senatori avevano utilizzato i propri schiavi o altre risorse personali per sovvenire alle oggettive carenze di personale e di organizzazione. Fu in effetti durante la sua edilità del 33 a.C. che Agrippa, allo scopo di guadagnare per Ottaviano il consenso della plebe romana, fece riparare a sue spese vari acquedotti, ma soprattutto decise di impiegare 240 dei propri schiavi per assicurare il mantenimento della rete idrica della città. Con l’avallo di Ottaviano, dopo la fuga degli antoniani del 32, Agrippa poté mantenere fino alla sua morte nel 12 a.C. una competenza informale sugli acquedotti della capitale. Al decesso dell’amico, Augusto ereditò gli schiavi addetti al servizio idrico; tuttavia il Principe preferì trasformarli in servi publici ed affidare il comando a una nuova figura pubblica, quella del curator aquarum. Più circostanziale e graduale fu la riforma della prevenzione degli incendi. Un primo provvedimento fu preso nel 22 a.C. in risposta alle iniziative personali di un ambizioso senatore, Egnatius Rufus che aveva impiegato alcune centinaia dei propri schiavi come forza di pronto intervento in caso di incendio è tale misura gli aveva permesso di guadagnare un consenso sufficiente per farsi eleggere alla pretura l’anno successivo. Augusto, che non vedeva di buon occhio la rapida ascesa politica di un personaggio non proveniente dal proprio entourage, decise allora di istituire, sotto il controllo degli edili, una squadra di 600 schiavi pubblici. Nel 7 a.C., un violento incendio spinse all’introduzione di alcuni cambiamenti. i vigili vennero ripartiti tra i 14 distretti (regiones) e messi sotto la diretta responsabilità dei vari capi quartiere, i vicomagistri; la supervisione del servizio sudata ha 14 magistrati scelti tra gli edili, i tribuni della plebe e i pretori. Questo sistema complesso e poco gerarchizzato fu mantenuto fino al 6 d.C., quando, Augusto decise di togliere questa competenza ai magistrati tradizionali e di affidarla a un prefetto di sua nomina, il prefetto dei vigili. Anche le riforme dell’annona furono introdotte principalmente come risposte empiriche a particolari momenti di crisi. Di tradizionale competenza degli edili, l’approvvigionamento di Roma era un servizio complesso che comprendeva sostanzialmente quattro aspetti: il procacciamento delle derrate, la gestione delle riserve granarie della città, la distribuzione delle razioni gratuite alla plebe, la supervisione dei mercati pubblici. I tradizionali compiti degli edili erano limitati ai tre ultimi aspetti e le prime riforme di Augusto non modificarono questa schema generale. L’introduzione, nel 22 a.C., di due praefecti di rango pretorio aveva lo scopo di alleggerire il carico di lavoro degli edili nella distribuzione delle razioni gratuite. la nomina di una commissione formata da due ex consoli e dotata di ampi poteri negli anni 5-7 d.C. fu una misura d’emergenza, causata dalla disastrosa crisi annonaria di quegli anni. è probabile che le competenze di questa commissione fossero analoghe a quelle degli edili, tuttavia i due consolari disponevano di un'autorità coercitiva superiore. Il perdurare della crisi spinse Augusto ad assumere, nell’8 d.C., una responsabilità diretta attraverso la nomina di un nuovo incaricato Imperiale, il praefectus annonae. Oscure sono anche le motivazioni che spinsero Augusto a introdurre la carica di praefectus urbi. Tacito fa risalire la sua istituzione agli ultimi anni della guerra civile, quando Ottaviano lasciò a Mecenate il controllo della città durante la sua guerra contro Antonio e Cleopatra del 31-32 a.C. È solo con Tiberio che abbiamo la certezza della stabilizzazione della prefettura che fu probabilmente in quell’occasione legata al comando delle coorti urbane. l'equivalente di un corpo di polizia, ma ogni magistrato disponeva di un numero più o meno elevato di uomini di diverse condizioni che si occupava della ricerca dei sospetti e della custodia dei prigionieri. Le cose cambiarono in modo significativo a partire dall’epoca delle ultime guerre civili, in quanto i triumviri erano accompagnati da una coorte pretoria. Questa forza militare fungeva da forza di dissuasione e poteva intervenire per sedare disordini a motivazione politica, anche se le fonti non menzionano un tale utilizzo. Le fonti restano mute anche per quanto riguarda il principato di Augusto: anche se non possiamo escludere un qualche coinvolgimento, nessun intervento dei pretoriani è chiaramente attestato durante I disordini politici degli anni 22-19 a.C. o durante il periodo 5-9 d.C., in cui carestie, incendi e guerre esterne avevano messo in subbuglio la popolazione romana. Nonostante questa scarsa implicazione la presenza continua di un’unità militare presso la capitale sancì il tramonto della tradizione repubblicana che voleva l’Italia e Roma come un territorio smilitarizzato e aprì la porta alla creazione di altre unità. L’esistenza delle tre coorti urbane è attestata da un passaggio di Cassio Dione relativo alla dislocazione delle truppe nell’impero nel 5 d.C., da Svetonio per la fine dell'epoca augustea e poi da Tacito per l'inizio dell'epoca tiberiana. La loro denominazione e il ruolo che esse assunsero sotto gli imperatori successivi mostrano che la loro funzione dovette essere fin da subito quella della protezione e del controllo della città. Come le coorti pretorie, anche quelle urbane non erano concentrate in un’unica caserma, ma erano ripartite in vari luoghi della città al fine di evitare di dare l’impressione di uno stretto controllo militare della capitale. Solo sotto Tiberio le coorti urbane furono riunite insieme alle coorti pretoriane in un solo accampamento, i castra praetoria, ma continuarono a obbedire al prefetto urbano. È molto probabile che anche i vigiles, il terzo corpo militare presenti a Roma, abbia avuto un ruolo nel mantenimento dell'ordine, ma il loro comando spettava al prefetto dei vigili. I magistrati tradizionali non persero tutte le loro competenze, ma sono anzi spesso attestati per la prima epoca imperiale. Le attestazioni diminuiscono però bruscamente nel corso dell’epoca giulio-claudia e con l’affermarsi delle autorità del prefetto urbano. Se l’imperatore era indubbiamente il comandante in Capo di buona parte o di tutte le truppe installate nella capitale, il suo coinvolgimento diretto nella gestione ordinaria era molto basso e i suoi interventi si limitavano ai casi più gravi. Normalmente, L'imperatore si limitava a impartire – da solo o con il Senato, - istruzioni generali sulla sicurezza di Roma, lasciando ai magistrati o ai suoi prefetti di metterle in opera. In epoca più tarda, l'imperatore si occupava della sicurezza di Roma soprattutto nella sua veste di legislatore, definendo così in maniera più precisa le competenze di ciascuno degli attori coinvolti nella gestione dell’ordine. 1.1.3 Edilizia e urbanistica L'epoca augustea sancì l’affermazione di un monopolio quasi totale del principe sui nuovi progetti di edilizia pubblica a Roma, ma sicuramente non sulle procedure amministrative legate a questo ambito, che non variarono molto rispetto all’epoca repubblicana. Tradizionalmente, la costruzione pubblica veniva finanziata sotto il controllo del Senato e con i fondi dell'aerarium, tesoro del popolo romano. il denaro era poi gestito dai censori, che appaltavano la costruzione vera e propria a imprenditori privati. Una volta terminata la costruzione, gli edili verificavano che tutto fosse stato eseguito secondo quanto stabilito nel contratto e potevano procedere alla dedica della costruzione. L'iniziativa della costruzione poteva ricadere sui consoli o sui pretori, in particolare quando concerneva dei templi che erano stati solennemente promessi durante una campagna militare guidata da questi magistrati. La loro realizzazione era finanziata con fondi pubblici o con il ricavato della vendita del bottino di guerra. L'epoca tardorepubblicana e imperiale videro il rapido tramonto della censura come magistratura a sé stante. Le sue competenze in ambito di costruzione pubblica furono dunque ripartite tra altri attori istituzionali della città, tra cui il principe stesso. L’edilizia era stato uno dei principali terreni della competizione aristocratica durante la Repubblica e i più importanti personaggi politici avevano gareggiato per poter legare al proprio nome l’erezione di edifici pubblici sempre più splendidi. L’installazione del principato segnò la fine di questo fenomeno e nel giro di pochi anni gli attori attivi nell’ambito della costruzione pubblica si ridussero al solo imperatore e ai membri della sua famiglia. L’iniziativa privata non scomparve del tutto, ma fu limitata ai lavori di ristrutturazione o a nuove costruzioni di minore importanza. Comportamenti simili furono incoraggiati da Claudio, e agli inizi del III secolo la legge permetteva ai privati di indicare il proprio nome sugli edifici riparati a loro spese. Nonostante non sia da escludere che Augusto e i suoi immediati successori abbiano personalmente sovrinteso all’appalto dei lavori di costruzione o di restauro, tali compiti erano generalmente lasciati, a seconda dei casi e delle epoche, a procuratori, a commissioni di curatori di rango equestre o a liberti imperiali. il finanziamento delle opere rimaneva pubblico per quelle decretate dal Senato, ma l'edilizia imperiale fu generalmente pagata dal principe in persona con i proventi del fisco, con il bottino di guerra o con i propri fondi patrimoniali. 1.1.4 Le finanze cittadine Dal punto di vista amministrativo, Roma non costituiva un’entità divisibile dalla res publica, cioè dallo Stato. Le finanze della città erano gestite dai medesimi attori istituzionali che avevano competenze sulle finanze statali e non abbiamo prove nemmeno di una contabilità separata o di un bilancio proprio al solo ambito urbano. La cassa della città di Roma era l’aerarium, la cassa dello Stato, ma in epoca imperiale il fiscus principis si impose come seconda cassa pubblica e divenne gradualmente la cassa principale dello Stato. L’aerarium finì col tempo per finanziare quasi esclusivamente le spese concernenti la città di Roma e l’Italia che il Senato aveva ancora diritto di decidere in autonomia. Il fisco imperiale, invece, ebbe fin da Augusto un ruolo fondamentale per le finanze statali, poiché raccoglieva le entrate derivate dallo sfruttamento delle numerose province direttamente amministrate dal principe. Il fisco includeva dunque le somme delle imposte percepite dalle città, i proventi delle miniere e delle cave presente nei medesimi territori, ma anche quelli delle proprietà private dell'imperatore. La gestione di questa cassa fu inizialmente data a liberti del principe successivamente liberti e schiavi furono sostituiti da personale di ordine equestre sotto i Flavi. Il fisco era strutturato in maniera complessa e numerosi dei dettagli concernenti questa organizzazione interna ci sono ancora sconosciuti. Esso finanziava numerose spese concernenti la città di Roma che nati come servizi pubblici, e quindi finanziati dall’aerarium, finirono probabilmente per essere finanziati dal fisco nel corso del tempo. L’annona della capitale era sicuramente finanziata dal fisco, poiché la sua gestione implicava l'acquisto e il trasporto delle derrate da un certo numero di province, alcune delle quali erano sotto il controllo dell'imperatore o contenevano numerose proprietà imperiali. All’interno del fisco dovevano certamente esistere vari conti legati al finanziamento degli spettacoli offerti dall’imperatore e per l’addestramento dei gladiatori poiché queste responsabilità erano affidate a incaricati imperiali. 1.2 Le grandi prefetture 1.2.1 La praefectura urbi a) I prefetti dell'Urbe La storia della carica affonda le sue radici tra l’epoca monarchica e la prima età repubblicana, quando il praefectus urbi veniva creato dal re o dai consoli in caso di loro assenza dal territorio della città. come d'istituzione della figura del pretore urbano, si ricorse solo raramente alla creazione di un praefectus urbi. Per tale motivo durante la Repubblica l'incarico mantenne un carattere straordinario e una durata temporanea. Questa prassi non mutò con l’avvio del Principato. I primi prefetti urbani nominati da Augusto furono nominati per supplire la sua assenza dalla capitale. Fu tra la tarda epoca augustea e il principato di Tiberio che la prefettura urbana assunse connotati permanenti, divenendo, di fatto, vitalizia. Da allora, la prefettura urbana rappresentò il vertice assoluto della carriera senatoria. Al suo titolare, come nel caso di tutti i detentori di responsabilità pubbliche, spettava l’attribuzione di emblemi, che ne marcavano il rango e il potere, retaggio della tradizione politica repubblicana. Da un punto di vista socio politico, il candidato ideale alla carica era un consolare, membro di una famiglia appartenente all’alta nobilitas di Roma, che aveva al proprio attivo lo svolgimento di almeno un consolato, più spesso due. di regola, tra il primo consolato e la nomina alla prefettura urbana correvano tra i venti e i venticinque anni, circostanza che vide solitamente adire alla carica anziani senatori dal passato politico lungo e prestigioso. Sul piano delle funzioni, il prefetto urbano vide nel tempo accrescere in modo esponenziale le proprie prerogative. Inizialmente ebbe il compito di assicurare l’ordine pubblico a Roma nelle ore diurne e sin dall’età giulio-claudia la prefettura urbana detenne poteri coercitivi, ai quali corrispose una serie di incombenze giudiziarie parimenti concesse tramite delega imperiale. Quantomeno a partire dei principati di Adriano o di Marco Aurelio, pur senza mai lasciare la città, il prefetto urbano esercitò la propria giurisdizione civile e penale entro le 100 miglia intorno alla capitale. In ambito civile, il prefetto urbano giudicava intorno a questione relative ai servi e ai liberti; egli ebbe inoltre un potere di controllo su pesi e misure, di sorveglianza del mercato, di repressione contro le associazioni o le corporazioni di commercianti o artigiani costituiti illegalmente. In ambito penale, invece, era deputato a garantire l’ordine pubblico, in particolare durante gli spettacoli o le celebrazioni pubbliche, e quindi a pulire gli eventuali crimini dovuti a disordini occorsi nel territorio di Roma. Dall’inizio del III secolo d.C. la prefettura urbana divenne la maggiore sede giudiziaria dell’Urbe. A tale circostanza corrispose tanto un progressivo declino delle magistrature di più consolidata tradizione, quanto di alcune prefetture istituite da Augusto. Ne risultano penalizzati soprattutto i pretori, presidenti dei tribunali penali permanenti, che finirono per occuparsi solo di cause giudiziarie minori, scomparendo del tutto nella prima metà del secolo, nonché il prefetto dell’annona, che si vide erodere parti sempre più considerevoli delle proprie prerogative frumentarie e di controllo sul mercato annonario. L'assenza sempre più frequente da Roma degli imperatori e, con essi, dei prefetti del pretorio, consegnò di fatto la cita al potere del prefetto urbano. Questi assurse al ruolo di primo e più alto rappresentante dell’imperatore nell’Urbe, una posizione che venne ulteriormente consolidata alla fine del III secolo d.C., quando la riforma tetrarchica escluse in modo definitivo Roma dalle sedi imperiali. La prima sede della prefettura urbana, nota attraverso varie denominazioni fu al tempo di Augusto una basilica, forse la Basilica Giulia. in seguito, probabilmente a partire dall'epoca traianea, la sede trasloco in un vasto complesso monumentale situato nell'area fra il Palatino e l'Esquilino. b) Le coorti urbane Compito originario dei praefecti pretorio era quello di comandare invece del principe le coorti pretorie, sulle quali i prefetti esercitavano un potere di disciplina militare, di giurisdizione sui soldati semplici e di nomina degli ufficiali a posti subalterni al grado di centurione. La sfera di competenza dei praefecti pretorio non era vincolata Roma e alla sua amministrazione, bensì e in modo deciso alla figura del principe, alla sua tutela e alla sua protezione. Tale circostanza, che presuppone va un rapporto altamente fiduciario tra le parti in causa, portò in un tempo relativamente breve i prefetti del pretorio a divenire i funzionari più vicini all’imperatore. Divenuta al debutto dell’epoca flavia l’apice della carriera equestre, la prefettura del pretorio continuò fino alla fine del III secolo d.C. a costituirne il vertice. nel II secolo d.C. i prefetti del pretorio furono gli unici, salvo rare eccezioni, a fregiarsi del titolo di viri eminentissimi. Nei tre secoli successivi, molti furono i praefecti praetorio che accedettero al Senato e ancora più numerosi furono i prefetti a cui fu permesso di portare gli ornamenti propri dei magistrati senatorii, senza essere nominati tali. Nei primi due secoli del principato i prefetti del pretorio furono in massima parte cavalieri italici. Nel corso del III secolo d.C., e in particolare nel corso del cosiddetto periodo dell’anarchia militare, diversi furono invece i prefetti di origine provinciale, alla stregua di molti tra gli imperatori che si susseguirono in quei decenni. Quanto alla carriera pregressa, quella dei prefetti del pretorio fu per lo più caratterizzata da una solida esperienza militare, seguita da un cursus nel novero delle procuratele equestri. Non mancarono civili, in particolar modo giuristi; piuttosto rari nel I secolo d.C., aumentarono nel corso del II e III secolo d.C. parallelamente all'incremento delle prerogative civili, che furono concesse ai prefetti del pretorio a partire dall'epoca di Adriano e di Marco Aurelio. È da questo periodo, infatti, che i prefetti del pretorio compaiono regolarmente nel consilium principis, un consiglio composto da senatori e cavalieri, all'interno del quale erano giudicate le cause che l'imperatore aveva avocato a sé. Al suo interno adempivano di regola a un ruolo di consulenza per il principe, il quale poteva in ogni caso affidare loro la responsabilità di giudicare in sua vece, ossia senza appello. Le originarie Prerogative militari concesse ai prefetti del pretorio non vennero meno ed anzi si accrebbero di pari passo con quelle civili. Passarono così sotto l’autorità dei due prefetti altre unità di stanza nella capitale: nel secondo secolo d.C. e sino alla Riforma di Settimio Severo, le cohortes urbanae; quindi gli equites singulares Augusti, “i cavalieri personali dell’Augusto”, un'unità costituita sotto i Flavi, o al più tardi da Traiano. Fuori dalla città, i prefetti accompagnavano l'imperatore alla guerra, solitamente, ma non necessariamente, uno alla volta, così da lasciare un prefetto a Roma al comando delle coorti pretorie che rimanevano di presidio nella capitale. Dalla seconda metà del II secolo d.C. alcuni prefetti del pretorio furono chiamati in prima persona nella conduzione di singole battaglie o di intere campagne militari. Questo ruolo si acrebbe nel secolo successivo, quando i prefetti del pretorio giunsero ad indirizzare in maniera significativa la strategia complessiva degli eserciti, divenendo i primi luogotenenti degli Augusti impegnati in difesa dei confini dell’impero. Il periodo compreso tra la morte di Alessandro Severo e l’affermazione di Diocleziano segnò sotto questo aspetto il culmine dell’ascesa dei prefetti del pretorio, divenuti oramai a tutti gli effetti dei viceimperatori. Le ripetute usurpazioni, mai così numerose, promosse o attuate da parte dei prefetti del pretorio dell'epoca, ne costituirono un'immediata conseguenza. Al secolo III d.C. si debbono altresì alcune decisive innovazioni in materia. Sino all’inizio del secolo, la prefettura del pretorio si era infatti caratterizzata come una carica collegiale riservata a due esponenti dell’ordine equestre, che rimanevano in carica per un tempo indefinito e a discrezione del principe. Questa regola fu seguita lungo tutto il I e II secolo d.C. Sotto i Severi si registra per la prima volta l’introduzione dell'agens vice praefectorum praetorio, una figura supplente, atta a soddisfare le incombenze dei prefetti del pretorio nei momenti in cui quest'ultimi si trovavano entrambi fuori Roma: prassi che andò affermandosi parallelamente alla crescente instabilità politico-militare che caratterizzò l'epoca. Dopo la metà del secolo, con gli imperatori quasi perennemente lontani da Roma, l’assenza dalla capitale dei prefetti del pretorio divenne una condizione costante. Scemava così, lentamente sino a scomparire, l’originario legame biunivoco che intercorreva tra i prefetti del pretorio e le corti pretorie rimaste di stanza a Roma. Con la riforma dell’organizzazione provinciale promossa da Diocleziano del 293 d.C., l’intero impero fu diviso in quattro prefetture del pretorio, fatto che mutò in maniera definitiva la natura della prefettura del pretorio da istituto con poteri sostanzialmente universali a carica su base territoriale. Fu Costantino, infine, che dopo aver sciolto a Roma le coorti pretorie, privò i prefetti del pretorio di ogni rimanente responsabilità militare, trasformandoli in amministratori da ambito prettamente civile. 1.2.3 Il prefetto dell'annona L'annona urbana costituiva propriamente l'approvvigionamento di grano della città di Roma. Si trattava di un servizio indispensabile, senza il quale non sarebbe stato possibile effettuare le distribuzioni di grado a prezzo ridotto o gratuito, date a beneficio di una determinata categoria di cittadini romani maschi residenti nell’Urbe. Nei primi secoli della Repubblica, queste distribuzioni costituivano degli interventi occasionali; soltanto nel 123 a.C., il tribuno della plebe Gaio Gracco emanò una legge frumentaria che inaugurò una assunzione regolare di responsabilità da parte dello stato Romano, relativamente al trasporto, allo stoccaggio e alla distribuzione del grano destinato alle frumentationes urbane. Con l'affermazione del principato, questa responsabilità passò agli imperatori. Nel corso della prima metà del I secolo a.C. il compito dell’approvvigionamento annonario della città di Roma era ricaduto sugli edili, collegio composto da quattro magistrati rinnovati annualmente, coadiuvati in quell’ambito dal quaestor Ostiensis, un magistrato incaricato dei rapporti tra Roma e il porto della colonia di Ostia. Cesare creò altri due di li, detti ceriales, espressamente competenti per le questioni frumentarie, ma ciò non valse a garantire il regolare afflusso dell’annona urbana, complici le guerre civili e l’instabilità politica. Dopo la morte del dittatore, il rifornimento annonario di Roma piombo nel caos a causa del blocco navale imposto all'Italia da Sesto Pompeo. Severe carestie afflissero la città, causando non pochi problemi a Marco Antonio e Ottaviano. Terminate la stagione delle guerre civili, Augusto ereditò la macchina organizzativa tardo repubblicana senza apporvi nessuna assistenziale miglioria. Nel 22 a.C., al ripresentarsi di una nuova emergenza, il principe fu così ha costretto ad assumere a sua volta la cura annonae. In tale occasione si provvide ad istituire un nuovo collegio di senatori, con il compito di garantire il corretto svolgimento delle frumentationes, mentre agli edili ceriales rimaneva la competenza sull’afflusso di granaglie in città. Tale rimase la situazione finché nel biennio 6-8 d.C. una serie di calamità naturali e di rivolte in provincia causarono una nuova, importante carestia a Roma. Di sua iniziativa Augusto indicò allora una commissione di ex consoli, nominata al fine di riportare il rifornimento frumentario di Roma a livelli accettabili. Archiviata l’ennesima emergenza il principe decise di interrompere la politica adottata fino a quel momento e di nominare un cavaliere, espressamente incaricato di gestire in sua vece la cura annonae; nacque così, intorno all’anno 8 d.C., la prefettura dell’annona. Il prefetto dell'annona era un funzionario di rango equestre nominato per un tempo indeterminato dal principe, al quale solo rispondeva e dal quale traeva fondamento ai propri poteri. Quest’ultimi riguardavano le prerogative degli edili ceriales è più in generale, tutto ciò che concerneva la cura annonae. Compito precipuo del prefetto dell’annona concerneva il trasporto e lo stoccaggio del grano consumato a Roma. Il prefetto non aveva pertanto responsabilità della distribuzione gratuite di grano, le quali continuarono ad essere curate dai praefecti frumenti dandi. Beneficiari delle distribuzioni erano i componenti della plebs urbana, una folta schiera di cittadini romani con domicilio stabile nella capitale. Il grano da cui venivano trattate le frumentationes era costituito per la maggior parte del grano dovuto a Roma da alcune province come tributo. In quanto responsabile del trasporto dell’annona nella capitale, il prefetto curava il buon esito dell’operazione in tutti i suoi aspetti, a iniziare dalla stipula di contratti con gli armatori privati, ai quali era affidato in concreto la spedizione delle granaglie, tanto dalla provincia verso i porti, quanto dai porti fino ai magazzini (horrea) siti a Roma. Nel territorio di Roma e negli accenti porti di Pozzuoli e Ostia la sorveglianza del prefetto Era rivolta agli horrea presenti nelle aree di stoccaggio, nonché alle zone commerciali dell’emporio urbano. Era preoccupazione del prefetto evitare frodi, stabilendo con certezza le misure ponderali e volumetriche che venivano utilizzate nei mercati di Roma e di Ostia, a maggior ragione da quando, a partire dal principato di Adriano o di Antonino Pio, il prefetto dell'annona ebbe la responsabilità sull'importazione nella capitale dell'olio. Dal momento che l’annona urbana non si esauriva nelle distribuzioni, ma era destinata in una certa dote ad altri scopi, il prefetto doveva anche vigilare che ogni derrata raggiungesse le finalità per le quali era stata stoccata: una parte, dalla metà del I secolo d.C., andava al vettovagliamento delle truppe di stanza nella capitale, pretoriani e urbanicensi; una parte era data all’immagazzinamento come riserva per il periodo invernale o per far fronte a eventuali, improvvise emergenze; una parte, infine, era lasciata alle necessità dell’impero, e poteva essere dirottata verso altre destinazioni, fuori da Roma o dall’Italia e la dove si fosse presentata una carestia. Queste incombenze ponevano il prefetto dell’annona al vertice di un imponente macchina organizzativa, la quale contava nonostante tutto su di un limitato numero di subalterni. Presso i porti di Pozzuoli e di Ostia erano dislocati alcuni funzionari imperiali alle dipendenze del prefetto dell’annona, deputati al controllo delle derrate in arrivo nei due bacini artificiali, ha prestati prima da Claudio e quindi da Traiano, allo scopo di agevolare l’ancoraggio delle navi annonarie e di facilitare il trasbordo delle derrate negli horrea adiacenti. Tra questi agenti, il più importante era il procurator annonae et in portu. Si trattava di un procuratore di rango equestre che dall’inizio del II secolo d.C. sostituì nelle funzioni il precedente procurator portus Ostiensis, introdotto a seguito della soppressione da parte di Claudio del quaestor Ostiensis. Un funzionario dalle mansioni uguali era quindi attivo presso il porto di Pozzuoli. A questi procuratori si aggiunse nel II secolo d.C., in concomitanza con l’assegnazione al prefetto dell’annona dell’ importazione di olio nella capitale, un agente assegnato specificatamente all’olio sbarcato presso il porto di Ostia. lungo tutto il Principato, la prefettura dell'annona fu appannaggio esclusivo di cavalieri finché l'ordine equestre cessò di esistere solo sotto Costantino; di lì in poi, la prefettura dell'annona fu detenuta da membri del Senato romano, almeno fino alla metà del VI secolo d.C. 1.2.4 Il prefetto dei vigili e il servizio antincendio Benché il rischio di incendio costituisse un evenienza tutt’altro che improbabile tra i caseggiati di Roma, durante la Repubblica non fu mai creato alcun Istituto espressamente dedicato alla prevenzione e alla lotta agli incendi. al pari di molte altre curatele nei riguardi della città, delle sue infrastrutture e dei servizi ad esse connesse, il servizio antincendio ricadeva tra le competenze degli edili, che le ho delle gravavano perlopiù a magistrati minori che dipendevano da essi. Visto che non esisteva un corpo di “vigili del fuoco”, e verosimile che per adempiere a questo ruolo gli edili e quindi i triumviri disponessero di un gruppo, composto da servi publici, dirottati all’occorrenza allo spegnimento delle fiamme. Questo sistema siri però in varie circostanze inefficace. avveniva soprattutto negli ultimi decenni della Repubblica, che la mancanza di un adeguato servizio antincendio venisse supplita da iniziative personali, promosse con fondi privati da parte di personalità più o meno celebri dello scenario politico Romano, le Durante la tarda Repubblica l’età minima per rivestire questa magistratura era stata fissata a 30 anni. Augusto la abbassò al venticinquesimo anno di età. Il numero complessivo dei senatori, che in epoca triumvirale era lievitato sino ad oltre un migliaio, fu ridotto da Augusto a 600 effettivi, cifra che rimase sostanzialmente inalterata fino alla fine del III secolo d.C. Questo numero fu gradualmente raggiunto a seguito delle revisioni della lista dei senatori ( lectio senatus) che Augusto compì in tre occasioni. La lectio senatus consisteva nell’aggiornare l'albo senatorio depennando i nomi dei deceduti e di quanti erano stati giudicati indegni. Veniva parallelamente rinnovata la lista dei membri correnti, costituita secondo una gerarchia decrescente, composta da ex consoli, ex pretori, ex edili e da ex questori. La lectio senatus nel corso della Repubblica poteva essere svolta da diversi magistrati superiori, sebbene solitamente fosse compiuta dai censori, almeno sinché la carica non cadde in disuso alla fine del II secolo a.C. Augusto portò a termine la prima lectio come console e le rimanenti detenendo l’imperium consulare di cui era in possesso. Da allora, la facoltà di rivedere la composizione del Senato fu riservata in maniera esclusiva ai principi. A partire da Claudio, oltre alla lectio, si affermò una nuova forma di immissione di senatori nel Senato, detta adlectio, che non prevedeva l'ottenimento di una magistratura da parte dei beneficiari del provvedimento: quest'ultimi entravano nella curia a un livello misurato sulla base del prestigio e dei meriti personali che l'imperatore gli riconosceva. Le adlectiones, così come la concessione del latus clavus a soggetti non già appartenenti a famiglie senatorie, rispondevano tanto e ragioni politiche quanto ha motivazioni pratiche, che riguardavano il necessario del rinnovamento dell’assemblea. In epoca Augustea, il Senato era composto per la maggior parte da membri di famiglie provenienti dall'Italia tirrenica e appenninica, secondo una forma di integrazione delle classi dirigenti italiche che aveva preso avvio all'indomani del bellum sociale. Non mancavano senatori originari dal nord Italia, sebbene sia necessario attendere i principati di Nerone e dei Flavi per vedere membri di famiglie originarie della transpadana assurgere al consolato. In generale, alla fine del I secolo d.C., non c'era regione d'Italia che non avesse fornito senatori a Roma. Più modesto, sebbene non trascurabile, fu l'apporto di senatori di origine provinciale, almeno per i primi due secoli del principato. b) Prerogative Il Senato fu un organo di natura essenzialmente consultiva; anche durante l’epoca Imperiale, i patres continuarono a deliberare su tutte le questioni che venivano loro sottoposte. Il fondamento del potere dell’assemblea non risiedeva infatti in una potestas o in un imperium. Interpellata, l’aula offriva i propri pareri che tuttavia divenivano vincolanti, anche in forza all’auctoritas espressa dai senatori (auctoritas patrum). lo strumento attraverso cui il Senato faceva sapere la propria volontà, era costituito dal senatus consultum, un atto votato dai senatori grazie al quale l'assemblea rendeva nota la sua posizione le sue decisioni rispetto a un determinato argomento o materia. Il senatus consultum era un documento che prevedeva tre distinte sezioni: la praescriptio nel quale si rende noto il magistrato o i magistrati, tra cui il principe, che hanno convocato l’assemblea, seguito dalla data e dal luogo di riunione del Senato; la relatio, una breve esposizione dell’argomento su quale al Senato e chiamato a pronunciarsi; il decretum ovvero l’esposizione delle decisioni prese dal Senato. Sin dal debutto del principato il Senato fu l'interlocutore naturale dei Cesari. Da un certo momento in poi anche l'unico, se si esclude la plebs urbana. A partire della cremazione a Cesare di Caligola, il Senato accoglieva con atto formale l’arrivo al potere di un nuovo principe, esprimendo il suo consensus. Quest’atto sanciva l'acclamazione delle truppe e avviava il processo formale che avrebbe portato, nel giro di alcune settimane, alla concessione al Principe di tutti i poteri, le cariche e titoli consueti. Sin dalla concessione del titolo di Augustus a Ottaviano, il Senato fu responsabile dell'assegnazione di ogni nuovo titolo assunto dagli imperatori, sia per meriti militari, sia per virtù proprie. Alla morte di un principe o di un suo familiare, il cui principato fosse stato considerato meritevole dal Senato, quest’ultimo si prodigava per la divinizzazione del defunto imperatore stabilendo, eventualmente, anche un periodo di lutto pubblico a Roma. Da un punto di vista legiferativo, il Senato assunse un’importanza crescente e decisiva già all’inizio del I secolo d.C. Una delle prime misure adottate da Tiberio nel 14 d.C. fu quella di un maggiore controllo del Senato sui candidati alle magistrature; ma solo i senatori approvati dall'Assemblea potevano presentarsi. Con il tramonto delle assemblee il potere legislativo, con poche eccezioni, fu trasferito dai comizi al Senato. Il senatus consultum otteneva così il valore legale di una lex. L'ambito in cui si concentrò maggiormente l’attività del Senato il diritto privato ( ius civile). Questo genere di senatus consulta prevedeva solitamente una iniziale proposta da parte del principe che veniva quindi dibattuta e che, almeno inizialmente, poteva essere modificata al termine della discussione che si era sviluppata; tuttavia, con l’andare del tempo, a partire dal II secolo d.C. le proposte imperiali difficilmente subivano delle modifiche e venivano accettate dal Senato per acclamazione. Tra il I e il III secolo d.C. il Senato continua a occuparsi in modo costante di un'ampia serie di cause giudiziarie, tra cui spiccavano i processi de maiestate, che vertevano su accuse di lesa maestà contro l'imperatore e la casa imperiale, e i processi de repetundis, che riguardavano reati di concussione. Il Senato era il luogo in cui normalmente venivano emanati decreti di applicazione generale validi per Roma e per l'Italia. In casi simili il Senato dava istruzioni ai consoli per Roma e ai magistrati locali per le città italiche, affinché vigilassero sul rispetto delle disposizioni emanate. Il Senato si occupava di determinati aspetti dell'amministrazione della città di Roma. 2.2 I magistrati Nella città antica, le magistrature sono per principio delle cariche elettive e il loro ruolo è politico prima che amministrativo. Sotto la Repubblica, il rivestimento delle magistrature annuali non rispondeva a criteri di competenza, ma rispecchiava il diritto/dovere dell'élite di partecipare al governo della città-stato nei suoi differenti aspetti. Tutti i magistrati erano rinnovati di anno in anno per permettere una regolare rotazione del potere. Inoltre, le magistrature erano organizzate secondo il principio di collegialità, che implicava che le decisioni prese anche da uno solo dei magistrati fossero considerate come emesse dell’intero collegio; in caso di disaccordo, un magistrato aveva teoricamente sempre la possibilità di opporsi alla decisione di un collega ponendo il proprio veto. Questi principi non vennero toccati da Augusto né dai suoi successori, tuttavia l'epoca imperiale segnò un inesorabile declino dell'importanza delle magistrature nel governo dell'impero e anche della città. La ragione principale fu politica: il controllo esercitato dall'imperatore sulla concorrenza aristocratica per il potere circoscrisse fortemente il campo di azione politica dei magistrati, in particolare degli edili e dei tribuni della plebe. Le magistrature rimasero sempre incarichi elettivi, tuttavia il principe poteva influire sulla decisione popolare raccomandando apertamente un candidato particolare. Augusto ridefinì globalmente i limiti di età previsti per l’accesso alle magistrature, fissando a non prima dei 25 anni il rivestimento della questura, a 30 quello della pretura e a 43 quello del consolato. La pretura e il consolato rimasero carichi importanti, tuttavia il loro prestigio fu legato sempre più al fatto che esse aprivano la possibilità di ricoprire incarichi al servizio dell’imperatore a Roma o nelle province. Il Principato portò infatti alla creazione di una serie di posti amministrativi riservati a ex pretori e ex consoli. La creazione di questi nova officia ebbe anche come conseguenza una graduale erosione delle competenze delle magistrature minori, in particolare dell'edilità. SarebbeSarebbe sbagliato pensare a un totale svuotamento delle loro prerogative. Numerosi indizi confermano non solo la loro continua esistenza per tutta l'epoca alto imperiale, ma indicano anche che il processo di trasformazione non andò solo nel senso della riduzione del loro campo di azione e alcune nuove competenze furono aggiunte nel corso del tempo. 2.2.1. I consoli Il consolato era stato per secoli la più importante carica politica di Roma. i consoli fungevano da presidenti del Senato e guidavano i dibattiti dell'assemblea sia per la politica interna che per quella estera; essi esercitavano anche un potere legislativo, poiché si prendevano spesso carico dell’approvazione di fronte ai comizi delle proposte di legge elaborate dal Senato. In caso di guerra, essi guidavano le armate romane ed erano a capo delle campagne militari più importanti. I consoli rivestivano da sempre anche il ruolo di supremi rappresentanti religiosi dello Stato ea loro incombeva dunque la presidenza dei ludi circensi e la celebrazione di importanti e riti religiosi. L'instaurazione del principato mise in atto un processo di trasformazione delle competenze di questa magistratura; per molti aspetti, tuttavia, tale cambiamento era già in atto il nuovo regime non fece altro che proseguire nella direzione già tracciata. Già partire dalle riforme di Silla, infatti, i consoli ebbero la tendenza a passare una buona parte dell’anno di carica a Roma per controllare la vita politica della capitale; il governo delle province consolari iniziava dunque solo verso la fine dell’anno e veniva regolarmente prolungato a quello successivo, quando gli ex magistrati erano ormai dei proconsoli. Tale tendenza venne istituzionalizzata dalla riforma di Pompeo, che nel 52 a.C. affidò il comando ordinario delle province a ex magistrati, confinando di farti i consoli a Roma durante l’anno di carica. Augusto ripristinò l'annualità e le funzioni del consolato, che ricoprì ininterrottamente dal 31 al 23 a.C. La ritrovata centralità politica dei Consoli fu tuttavia una finzione che durò finché Augusto continuo a rivestire la magistratura. L’abdicazione di Augusto e la successiva concessione della potestà tribunizia, seguita dalla attribuzione delle insegne consolari al principe misero definitivamente i consoli in una posizione politicamente inferiore. Un ulteriore indebolimento della magistratura si ebbe a partire dalle 5 d.C., quando venne reintrodotta la pratica dei consolati e suffetti al fine di far fronte all'aumento progressivo dei pretori. I consoli continuavano a compiere numerose attività di grande importanza, ormai residenti a Roma durante tutto il loro periodo in carica, i consoli convocava ne presiedevano regolarmente il Senato. In assenza del principe, essi accoglievano Le ambasciate straniere il Senato e dei lavoravano i decreti senatori in risposta alle loro petizioni. In quanto presidenti del Senato, i consoli trattavano numerose questioni relative alla città di Roma. Se spesso le fonti parlano di semplici decisioni Imperiali, certi episodi meglio documentati mostrano che erano i consoli che, all'interno del Senato, provvedevano a far approvare le misure. Sebbene la tribunicia potestas garantisse al principe il potere di presentare delle leggi davanti al popolo, Augusto si avvalse apparentemente di tale diritto solo per far approvare una serie di riforme negli anni 18- 17 a.., forse, per la lex de senatu habendo del 9 a.C. Le altre leggi comiziali attestate durante il resto del suo principato furono invece presentate al popolo dai consoli. Sotto la tarda Repubblica, la legislazione consolare era stata lo strumento principale dell’approvazione di riforme elaborate consensualmente all’interno del Senato. La ripresa di questa tradizione da parte di Augusto aveva dunque l'intento di dimostrare il carattere non autocratico del suo governo. Gli ultimi riferimenti a delle leggi comiziali datano all’epoca di Nerva. Il ruolo dei Consoli nella produzione normativa andava oltre le sole leggi. Possiamo ipotizzare con sicurezza che i consoli intervenissero in Senato e davanti ai comizi per fare approvare tutte le misure necessarie per il conferimento della tribunicia potestas e, eventualmente, del consolato al nuovo imperatore al momento della sua accessione al potere. Si può dire che i consoli ritornassero alla testa dello Stato nei momenti di transizione tra i due principi o durante i vuoti di potere. continuità di gestione. Al termine di questo prestigioso incarico, gli ex prefetti dell’erario accedevano immediatamente al consolato. I beni dei condannati, l'eredità vacanti o destinate a persone incapace di poter ricevere che venivano destinate normalmente alla cassa del popolo romano, furono progressivamente attribuite alla cassa imperiale. La tendenza iniziò già sotto Augusto, ma l’erario rimase ancora per molto tempo destinatario di almeno una parte di questi beni. La creazione di un praetore fiscalis sotto Nerva servì a instaurare un organo centrale per le controversie con il fisco a Roma e in Italia, prima probabilmente gestite in maniera decentrata dai procuratori imperiali. Funzione riservata fin da subito a ex pretori fu invece la responsabilità dell’aerarium militare, cassa istituita da Augusto nel 5 d.C. per pagare i premi di congedo ai legionari. I praefecti aerarii militaris erano tre e restavano in carica tre anni e probabilmente esercitarono fin da subito una certa giurisdizione per tutti i contenziosi concernenti questa cassa. Tra le altre responsabilità amministrative dei pretori vi era la certificazione dei requisiti per l’accesso dei così detti Latini Iuniani alla piena cittadinanza romana. questi individui potevano diventare cittadini Romani se avevano dei figli di almeno un anno nati da un matrimonio legittimo. I Latini Iuniani in possesso dei requisiti dovevano prima di tutto ottenere un decreto favorevole da parte dei decurioni del proprio municipio; il documento era poi esaminato dal pretore che poi, se tutto era in regola, emetteva un editto con il quale concedeva la cittadinanza romana. Tale procedura nelle province era di competenza del governatore. In epoca imperiale, i pretori assumevano al posto degli edili la responsabilità dell'organizzazione dei ludi pubblici. Tale decisione fu presa da Augusto nel 22 a.C., la responsabilità dei giochi era affidata ai pretori in quanto collegio; tuttavia i magistrati usavano il metodo del sorteggio per ripartirsi l'organizzazione dei differenti giochi. 2.2.3 Gli edili È difficile seguire l’evoluzione dell'edilità in epoca imperiale. Le prerogative di questa magistratura vennero gradualmente ridotte a vantaggio delle magistrature superiori e delle nuove curatele e prefetture istituite a partire dall’epoca augustea. La carica figura nei cursus senatori almeno fino a Severo Alessandro, tuttavia le fonti sono molto avanti a vare di testimonianze relative alle attività di questi magistrati. il collegio degli edili si suddivide va in tre coppie di magistrati: gli edili curuli, gli edili plebei e gli edili ceriali. Inizialmente riservata ai soli patrizi dopo la sua creazione nel 367 a.C., l'edilità curule fu aperta anche ai plebei già pochi anni dopo. Come i tribuni della plebe, gli edili plebei non avevano inizialmente diritto alla porpora, anche se Cicerone lascia intendere che nella tarda Repubblica anch’essi avevano ormai il permesso di portare la praetexta. Gli edili ceriali, introdotti da Cesare nel 44 a.C., erano anch’essi edili plebei e le loro attività erano esclusivamente legate all’approvvigionamento e alla distribuzione di grano. Gli edili non erano coinvolti nelle decisioni politiche prese dal Senato; il loro dovere era piuttosto quello di mettere in pratica le direttive provenienti dall' assemblea ed ai magistrati superiori. Tuttavia, la loro implicazione in ambiti strategici per la gestione della città necessitava una certa esperienza. Augusto abbassò drasticamente il limite di età relegando l’esercizio della magistratura nei pochi anni che separavano la questura e la pretura. questa mossa non fu senza conseguenza nei rapporti con i titolari dei cosiddetti nova officia: i giovani edili si trovavano ormai in condizione di inferiorità rispetto ai senatori di rango pretorio o consolare. I curatores aquarum rimpiazzarono gli edili nella manutenzione degli acquedotti e della rete idrica. I curatores aedium sacrarum et operum publicorum assunsero molte delle prerogative in ambito di manutenzione e ispezione degli edifici sacri e pubblici. Negli anni tra il 7 a.C. e il 6 d.C., a una commissione annuale formata per sorteggio da edili, pretori e tribuni della plebe fu affidata la responsabilità dei vigiles di Roma. Tale comando venne meno con l’istituzione del prefetto dei vigili, ma questi magistrati mantennero ancora per un certo periodo la supervisione sulla manutenzione e la pulizia di strade e spazi pubblici. Anche la tranquillità delle terme e dei bagni pubblici ricadeva sotto la tutela degli edili in epoca repubblicana, ma probabilmente anche nel primo Principato. Anche per tali ambiti, i curatores delle regioni e poi il prefetto dell'Urbe subentrarono agli edili tra II e III secolo d.C. Gli edili vigilavano anche sulle aree sepolcrali e badavano a che non venissero accesi fuochi né scaricate immondizie all’interno del perimetro sacro, dettavano anche regole di comportamento da tenere ai funerali. Nonostante la presenza del prefetto dell’annona, gli edili ceriali conservarono verosimilmente la loro responsabilità per la distribuzione delle derrate e l’approvvigionamento dei mercati. Uno dei principali compiti che gli edili dovettero continuare a eseguire in epoca imperiale era la sorveglianza dei mercati, per i quali dovevano garantire l’approvvigionamento, garantivano l'esattezza di pesi e misure, verificavano lo stato della merce venduta e potevano far ritirare alimenti deteriorati, preservando così la salute pubblica. L'edilità cessò probabilmente di esistere alla fine del III secolo d.C. e tutte le sue competenze furono trasferite al prefetto dell’Urbe. 2.2.4 Gli altri magistrati Un tempo protagonisti della vita politica e dell'attività legislativa della Repubblica, i tribuni della plebe sono poco attestati nella documentazione di epoca imperiale. Il collegio rimase sempre composto di 10 membri ma il controllo politico esercitato dal princeps aveva di fatto tolto ogni libertà di azione ai tribuni fin dall'epoca augustea; il loro tradizionale diritto di veto era stato reso inoffensivo dalla tribunicia potestas del principe. L’iniziativa legislativa divenne rapidamente un’esclusiva del principe e soprattutto dei consoli. In alcune occasioni i tribuni poterono ancora convocare il Senato ma si trattò di casi eccezionali. Fino all’epoca di Traiano o di Adriano, i tribuni parteciparono, insieme a edili e pretori, al collegio magistrati incaricato di sovrintendere alle XIV regiones di Roma, assicurando la vigilanza contro gli incendi, la manutenzione e la pulizia di strade, spazi pubblici e religiosi. In epoca repubblicana, i tribuni della plebe potevano intervenire collegialmente insieme al pretore per nominare un tutore, ma non sappiamo se questa competenza sia sopravvissuta in epoca imperiale o meno. I questori, eletti nel numero di 20 per anno tra i senatori conservarono in buona parte le loro mansioni abituali. Queste consistevano principalmente nell'assistere nella maniera più varia i magistrati superiori, i governatori provinciali e l'imperatore. In seno al Senato, essi erano coinvolti nella pubblicazione e nella archiviazione dei documenti. Persero sotto Augusto la tradizionale responsabilità della gestione della cassa pubblica mentre la gestione quotidiana dell'archivio passò sotto Tiberio a dei curatores tabularum publicarum. In epoca repubblicana essi erano stati spesso coinvolti nella redazione dei contratti di appalto legati alle costruzioni pubbliche ed è probabile che essi abbiano continuato per un certo periodo la loro attività in questo ambito. Non è molto chiaro se i questori avessero delle competenze amministrative permanenti in città. Un questore speciale era inviato ogni anno a Ostia ma dopo che Claudio fece ristrutturare e ampliare il porto di Ostia, il questore fu sostituito da due agenti Imperiali sottoposti al prefetto dell’annona. 2.3 I collegia dei XXviri In anni compresi tra il 20 e il 13 a.C. fu dato avvio al rinnovamento di una sede di magistrature collegiali minori, di tradizione repubblicana, che nel loro insieme formavano il cosiddetto vigentisevirato. Augusto provvide a una riduzione delle originarie sei magistrature comprese nel vigentisevirato, che passarono a quattro; si arriva così a un totale di venti incaricati, donde la consuetudine di chiamarli vigentiviri. La partecipazione a una delle magistrature era riservata uomini giovani che rimanevano in carica per la durata di un anno, dietro indicazione imperiale e ratifica del Senato. Nel novero dei vigentviri, era possibile essere ammessi a più collegia consecutivamente oppure a uno solo fra i quattro possibili. Rivestire almeno uno di questi incarichi costituiva una condizione indispensabile per l’accesso alla questura e quindi al Senato a meno di una dispensa da parte dell’imperatore. Le magistrature vigintivirali non furono ricoperte solamente da figli di senatori, ma anche da membri dell'ordine equestre. Nel 18 a.C. il limite patrimoniale minimo per godere della dignità senatoria fu portato a una soglia più elevata, che portò a un depauperamento improvviso del naturale bacino di arruolamento dei XXviri. Per sopperire a tale mancanza, il Senato decretò nel 13 a.C. la possibilità d’accesso al vigintivirato anche da parte di giovani appartenenti all’ordine equestre, la cui base patrimoniale era nettamente inferiore a quella richiesta ai senatori. L’accesso al vigintivirato aperto ai cavalieri offri un canale privilegiato di ascesa socio-politica per le famiglie equestri emergenti. A partire dal principato di Caligola, all’ammissione dei cavalieri al vigintivirato si aggiunse la possibilità da parte di quest’ultimi di ottenere la toga che tradizionalmente contraddistingueva l’appartenenza all’assemblea senatoria. Nell’età di Claudio, la concessione del laticlavio venne estesa a quanti non erano nemmeno di rango equestre, dai notabili municipali ai figli di liberti. 2.3.1 Triumviri monetales I triumviri monetales occupavano il gradino più alto nella gerarchia dei vigintiviri. Vi accedevano in special modo i giovani membri del patriziato e in epoca giulio-claudia, molti fra i detentori della magistratura furono figli di consoli e quindi consoli a loro volta. I triumviri monetales formavano un collegio composto da tre membri fra i quali uno, a turno, assumeva la funzione di presidente. Compito dei triumviri era la sovrintendenza alla coniazione delle monete. In età tardo repubblicana il collegio fu oggetto di uno degli ultimi provvedimenti di riforma attuati da Giulio Cesare, che aumentò i componenti a quattro. Augusto ne ripristinò l'antica collegialità ternaria, limitando nel contempo ruolo e funzioni, lasciando ai triumviri e al Senato la competenza per la battitura dei soli nominali bronzei. Per questa ragione, dal 12 a.C. cessò ogni riferimento ai triumviri monetales nelle monete d’oro e d’argento e successivamente dal 4 a.C. in quelle bronzee. Il quartier generale dei triumviri monetales fu a lungo collocato, durante la Repubblica e fino alla seconda metà del I secolo d.C., presso il tempio di Giunone Moneta eretto sul Campidoglio, dove aveva sede anche la zecca di Roma. Forse a partire dal principato di Vespasiano esso venne trasferito, insieme alla zecca, nella regio III di Roma. Secondo un'altra ipotesi, il trasferimento avvenne più tardi, al tempo di Domiziano, dopo che un vasto incendio interessò nell'80 d.C. la zona del Campidoglio, investendo appieno anche il tempio di Giunone Moneta. La carica di triumvir monetalis continua a sussistere fino al III secolo d.C. inoltrato, il collegio potrebbe essere stato soppresso al tempo di Aureliano. 2.3.2 Decemviri stlitibus iudicandis I decemviri stlitibus iudicandis occupavano la seconda posizione della gerarchia del vigintivirato. In epoca repubblicana, erano membri di un collegio di dieci uomini specificamente incaricato di dirimere in ambito civile le controversie giudiziarie in materia di libertà individuale. Con la riforma operata da Augusto la Tevere fino a Ostia ma anche verosimilmente, quello superiore. La curatela conservò integre tali mansioni fino alla fine del III secolo d.C., come assicura l’operazione di ripristino di una sponda del Tevere collassata in epoca dioclezianea. Fondamentale importanza rivestirono inoltre la pulizia e lo sgombero delle rive, come pure la regolare manutenzione delle banchine, che assicuravano il regolare svolgimento delle attività di trasporto e commercio. al pari del praefectus annonae, Il curator alvei intratteneva stretti rapporti con le corporazioni dei trasporti fluviali; era peraltro prerogativa del curatore accordare a privati l'occupazione di suolo pubblico sulle sponde del Tevere. Dall'inizio del II secolo d.C. il curator consolare poteva essere coadiuvato nell'espletamento del proprio ufficio da un adiutor di rango equestre. Sembra lecito supporre che la curatela annoverasse una forte schiera di manovali e tecnici di varia estrazione sociale. La curatela aveva almeno due sedi una a Roma lungo il Tevere e un’altra ad Ostia. La cura riparum et alvei Tiberis godette di un prestigio di poco inferiore a quello del curator aquarum, ma del tutto analogo a quello riconosciuto ai curatores aedium sacrarum et operum locorumque publicorum. Alla pari di quest’ultima, essa veniva di regola assunta tra le funzioni che seguivano immediatamente il consolato. Essendo una curatela non fu vincolata ad una durata annuale variando da 1 a 3 anni di mandato. 2.4.3 La cura locorum publicorum iudicandorum e la cura aedium sacrarum et operum locorumque publicorum I curatores locorum publicorum iudicandorum componevano un collegio di cinque senatori, costituito da un consolare e da quattro senatori di rango inferiore. Non è possibile stabilire se questi curatores fossero indicati tra i senatori dal principe, alla stregua degli assegnatari della cura aquarum o se invece fossero estratti a sorte, come inizialmente previsto per gli incaricati della cura alvei Tiberis. La definizione generica di loca non chiarisce in alcun modo le modalità di occupazione; ciò nonostante, dal momento che la commissione era guidata da un consolare e agiva su mandato del Senato, è plausibile supporre che le restituzioni alla pertinenza pubblica di luoghi o spazi divenuti in modo illecito privati, riguardassero occupazioni stabili e rilevanti di suolo pubblico. I curatores locorum publicorum iudicandorum furono sostituiti nelle funzioni dopo la metà del I secolo d.C. dai curatores aedium sacrarum et operum locorumque publicorum. A differenza dei primi venivano regolarmente nominati del numero di due, con pari dignità e competenze operative, benché tra i soli senatori di rango consolare. La curatela godette perciò di un prestigio elevato, uguale a quello riconosciuto alla cura alvei Tiberis. Erano responsabili oltre che dei loca publica, ovvero della pertinenza giuridica del suolo, anche dei templi e delle strutture pubbliche in genere ubicati sul territorio urbano di Roma. Nel corso del principato, con l’accrescersi del patrimonio pubblico della capitale, i curatores aelium videro aumentare progressivamente gli edifici e gli impianti monumentali di cui sorvegliavano la costruzione e il mantenimento. Loro era la sovrintendenza dei fora imperiali, dei circhi e degli stati, così come delle terme pubbliche e delle decine di templi e santuari presenti in città. Per attendere al loro ministero, i curatores disponevano di un apparato di supporto, al cui vertice erano posti gli adiutores o subcuratores. Quest’ultimi si occupavano degli aspetti esecutivi dei lavori gestiti dai curatores, che di sceglievano sulla base delle esigenze contingenti. È noto l’impiego di funzionari di rango equestre specificamente scelti dal princeps per lo svolgimento di opere di manutenzione circoscritte. In particolare, allorché eventi inattesi esigevano opere di intervento urgente il principe poteva nominare un procurator operum publicorum, il quale attingeva ai finanziamenti garantiti dalla cassa imperiale secondo le necessità. Per procedere alla costruzione o al restauro di immobili pubblici, entrambi i curatores si avvalevano di operai in servizio presso la loro amministrazione, di condizione sia libera che servile. All’occorrenza i curatores affidavano l’intero complesso dei lavori ad appaltatori, a seguito di gare nelle quali vincevano le proposte che presentavano il rapporto qualità/prezzo più vantaggioso. Le funzioni di entrambi curatores continuarono ad essere strettamente legate alla destinazione e alla gestione del suolo pubblico a Roma, la concessione del quale era valutata di volta in volta, a seconda dei richiedenti e delle finalità per le quali il terreno era richiesto. 2.4.4 La cura tabularum publicarum I curatores tabularum publicarum furono istituiti da Tiberio nel 16 d.C. con il compito di attendere alla gestione dell’archivio del Senato. A questo archivio faceva da contraltare sin dall'epoca giulio-claudia il tabularium principis curato da personale dell'imperatore. I curatores tabularum publicarum facevano parte di un collegio composto da tre senatori, costituito allo scopo di restaurare, ripristinare e salvaguardare i documenti che risultavano ormai in rovina o illeggibili. Al servizio dei curatores tabularum publicarum operavano figure specializzate che dovevano garantire l’aggiornamento, la conservazione e la consultazione dell’archivio. Il collegio venne sostituito al tempo di Nerone da due praefecti di rango pretorio nominati dall’imperatore. Capitolo 3 – L'amministrazione di quartiere 3.1 La riforma del 7 a.C. e la divisione dello spazio urbano Il programma augusteo incise in modo profondo nell’amministrazione minore del territorio di Roma. Nel 7 a.C., a seguito di un disastroso incendio che colpì la città, il principe promosse una ripartizione territoriale che portò Roma a essere divisa in quattordici distinte regioni (regiones), ognuna delle quali suddivisa in unità minori, i vici. Alla gestione delle nuove regiones e dei vici furono quindi preposti specifici magistrati e funzionari, che operavano in modo complementare, sebbene nel rispetto di una gerarchia che si subordinava il vicus alla regio. Da un punto di vista amministrativo, regiones e vici, adempirono nel corso del principato a ruoli diversi. Sin dal debutto del principato, strettamente connessi alla ripartizione regionale e vicana erano la cura viarum, la cura aquarum e soprattutto il servizio antincendio. L'impegno per una distribuzione territoriale dei servizi non venne meno in epoche più avanzate. A differenza del censimento per tribù, il quale permetteva di distinguere solamente tra cittadini ascritti alle tribù urbane e cittadini ascritti alle tribù rustiche, il censimento per singolo vicus consentiva di discernere con precisione i cives domiciliati a Roma da quelli che non lo erano. Secondo un principio giuridico romano, tutto ciò che veniva costruito su una parcella di suolo apparteneva al proprietario di quel suolo. Le dichiarazioni di proprietà immobiliare corrispondevano quindi, sempre, a una determinata parcella di terreno, della quale veniva prodotta una raffigurazione planimetrica a uso amministrativo. Tali prospetti planimetrici condussero allo sviluppo di un catasto urbano nel quale venivano distinte in modo preciso le pertinenze di suolo pubblico da quelle di suolo privato. 3.2 Le regiones Inizialmente, a ciascuna regio venne assegnato un numero. Otto di queste si trovavano entro il perimetro definito delle antiche mura serviane, mentre le restanti sei ne erano al di fuori. Ben presto, tuttavia, le regiones iniziarono a essere note, oltre che per il numerali ai quali erano associate, anche attraverso toponimi riferibili a luoghi significativi situati al loro interno. Dall'epoca di Augusto e fino al principato di Adriano a presiedere ogni regio venne posto un senatore estratto a sorte da un collegio composto di pretori, edili e tribuni della plebe. Da queste magistrature maggiori dipendeva l’attività dei vicomagistri, ossia dei magistrati responsabili dei vici. Fino al 6 d.C., tali magistrature coordinarono anche il servizio antincendio nella regio di competenza mediante l'impiego di personale gestito dai vicomagistri e composto, verosimilmente, da servi publici. Con Adriano, l’imperatore assunse di persona le competenze precedentemente detenute dalla commissione senatoria, delegando le in parte al praefectus vigilum. Contestualmente furono creati dei curatores regionis, che erano coadiuvati nel ruolo da un denuntiator, una sorta di araldo deputato a proclamare pubblicamente l'indizione delle festività celebrate all'interno di ogni regio. I curatori introdotti da Adriano godettero di una sfera d'azione limitata; Alessandro Severo promosse un cospicuo intervento di riforma nella gestione delle regiones urbane. I curatores regionis di estrazione libertina cedettero il passo a dei curatores urbi, scelti fra senatori di rango consolare e posti alle dirette dipendenze del prefetto urbano. 3.3 I vici I vici erano le unità territoriali minori di cui si componevano le quattordici regiones di Roma. Gli abitanti del vicus erano i vicani, l’insieme dei quali costituiva la vicinitas. Ogni vicus si fondava sull’esistenza di un compitum, ovverosia un crocicchio dove era posto un altare (ara). A differenza delle regiones, i vici non seguivano alcuna numerazione, ma si contraddistinguevano unicamente per una denominazione derivata nella maggior parte dei casi da specifici mestieri che si praticavano al loro interno o da gentilizi plebei o ancora da particolarità topografiche ed etniche. Ciascun vicus era amministrato da un collegio di quattro vicomagistri in carica per un anno. Da un punto di vista sociopolitico, i vicomagistri erano uomini di estrazione modesta, per lo più liberti, scelti ed eletti fra i residenti nello stesso vicus di cui erano posti a capo. In una prima fase i vicomagistri furono direttamente preposti a sorvegliare ed eventualmente sedare gli incendi che scoppiavano nei quartieri di loro competenza. La costituzione della prefettura dei vigili nel 6 d.C. li sollevò da tale responsabilità, orientando in modo stabile il loro operato alla sorveglianza della vita diurna dei singoli vici. Maggior compito dei vicomagistri era l’organizzazione dei Compitalia, una festa pubblica che si celebrava d’inverno, e dei ludi Compitales, giochi che si svolgevano due volte all’anno, la prima in occasione dei Compitalia, la seconda in occasione dell’entrata in carica dei vicomagistri. Nell’amministrazione dei riti, i vicomagistri sia valevano di addetti di rango servile. L’evoluzione della carica fa III e IV secolo è assai poco nota, anche se appare certo che i vicomagistri rimasero attivi ancora in epoca costantiniana, nella quale il loro numero risulta considerevolmente ridotto, fissandosi a 48 per singola regione, indipendentemente dal numero di vici presenti. Capitolo 4 – I sacerdozi pubblici e il culto imperiale a Roma Dal punto di vista formale, erano i detentori di magistrature pubbliche a trarre le interpretazioni degli auspicia; gli àuguri intervenivano a coadiuvare il rito. Affinché le procedure fossero eseguite correttamente, i sacerdoti si avvalevano a loro volta di personale ausiliario altamente specializzato: gli arùspici pubblici. Costoro erano depositari del sapere tecnico necessario alle azioni interpretative; le interpretazioni concernevano cinque categorie di auspicia connessi alle condizioni atmosferiche e al comportamento degli animali: i segni potevano essere ex caelo (fulmini e tuoni), ex avibus (volo degli uccelli), ex quadrupedibus (movimenti di quadrupedi e rettili), ex tripudiis (modo vorace di mangiare da parte del pollame sacro), ex diris (segni fortuiti). Gli àuguri sovraintendevano anche alle inaugurationes, cerimonie che servivano a conferire uno statuto superiore a una persona o a un luogo, sempre a fronte dell’approvazione divina: ciò avveniva, In particolare, quando occorreva individuare coloro ai quali si volevano affidare incarichi religiosi a vita. 4.4 I quindecemviri sacris faciundis Il collegio dei quindecemviri sacris faciundis era legato al culto di Apollo, che dall’epoca augustea acquisì essenziale importanza nel rapporto fra il sistema religioso e l’apparato statale. I quindecimviri venivano tradizionalmente incaricati dal Senato di consultare i Libri Sibillini, una collezione di versi poetici greci cui veniva attribuito valore profetico, che Augusto fece conservare all’interno del tempio di Apollo sul colle Palatino. l'intervento sacerdotale si rendeva necessario in seguito al riscontro di prodigi ritenuti in Fausti o al verificarsi di eventi di portata catastrofica, naturali o antropici, al punto da condizionare pesantemente le scelte che il princeps e il Senato dovevano operare a livello politico. Il collegio era composto di esponenti dell'ordine senatorio; il princeps ne faceva parte d'ufficio. La carica era compatibile con il rivestimento di altre funzioni sacerdotali. A presiedere il collegio era chiamato, in qualità di magister, uno dei suoi membri. All'inizio del Principato, nel corso di uno stesso anno poteva venire una turnazione tra diversi magistri, fino a cinque sotto Augusto. Progressivamente la presidenza divenne unica. Il collegio quindecimvirale doveva occuparsi di eseguire cerimonie Graeco ritu, che cioè richiedevano di applicare usanze greche nella venerazione degli dei della religione romana. Erano poi incaricati di attendere all'organizzazione delle attività rituali collegate ai giochi indetti dal princeps. 4.5 I septemviri epulones I septemviri epulones costituivano l’ultimo e il più recente dei sacerdoti maggiori, assurto a tale dignità per iniziativa di Augusto che ne divenne membro. sovrintendevano l'organizzazione dei pubblici banchetti, che caratterizzavano la gran parte delle pubbliche feste celebrate dai Romani e che avevano sempre connotazione sacra. In origine composto di tre sacerdoti, aumentati temporaneamente a sette e saliti a dieci in età cesariana, con il Principato in collegio constò nuovamente e stabilmente di sette membri, scelti all’interno dell’ordine senatorio. L'operato degli epulones era sottoposto al controllo del collegio pontificale. Tra i momenti conviviali in cui era richiesto il loro intervento spiccava l'epulum Iovis, che era tenuto in onore delle tre principali divinità del pantheon romano (Giove, Giunone e Minerva). Alla rinnovata importanza del collegio in età augustea si accompagnò un ulteriore innovazione, dal momento che il septemvirato, assunse elementi rituali tipici: in particolare, gli epulones si contraddistinguevano per l’uso della pàtera, il piatto sul quale venivano offerti cibi solidi in onore delle divinità nel corso dei riti sacri. 4.6 I sodales de culto imperiale La diffusione del culto imperiale procedette di pari passo con il consolidamento del principato ed ebbe nel corso del I secolo d.C. il suo fondamentale sviluppo. La figura del princeps iniziò a essere venerata in modo indiretto già al tempo di Augusto, quando l’imperatore era vivente. Dopo la morte di Augusto, nel 14 d.C., Tiberio, d’accordo con il Senato, divinizzò la memoria del vincitore di Azio, inaugurando il culto pubblico del divus Augustus. A Roma venne così costituito un collegio di ventuno Augustali preposti alle funzioni liturgiche collegate al nuovo culto. I sodales Augustales nella gerarchia dei sacerdoti capitolini furono equiparati ai colleghi maggiori. L'istituzione di un sacerdozio per il culto di un personaggio divinizzato non era inedita; dopo la morte di Giulio Cesare, il Senato aveva infatti approvato la creazione di un flamen divi Iulii, atto al culto del divo Giulio Cesare. La sodalitas degli Augustali era composta di uomini di rango elevato, spesso già detentori di magistrature pubbliche, eletti mediante sorteggio. A presiedere il collegio erano chiamati due suoi sacerdoti in qualità di magistri, che celebravano i riti presso il tempio di Augusto inaugurato da Caligola nel 38 d.C. 4.7 i collegi minori a) l fratres Arvales Tra i sacerdozi minori riservati agli esponenti dell'ordine senatorio si annoverava l'antico collegio dei fratelli Arvali. Questi sacerdoti erano preposti a officiare verso la fine di maggio il culto silvestre della dea Dia uno tra le più antiche divinità del Pantheon Romano. Il culto era legato alla sfera agricola. Il collegio nel corso del principato si compose di dodici sacerdoti. La carica era vitalizia e, di regola, i suoi detentori venivano eletti per cooptazione tra gli esponenti dell’alta nobilitas senatoria; dalla fine del I secolo d.C. si registra tuttavia un certo abbassamento del rango sociale dei reclutati. Annualmente veniva eletto fra gli Arvali un presidente che guidava i confratelli con il titolo di magister. Ogni Arvale ricopriva questi ruoli a turno secondo un principio di anzianità e comunque sempre dopo aver rivestito la pretura. c) I Fetiales Un altro sacerdozio di antica costituzione romana era quello dei Feziali: il collegio era costituito da venti sacerdoti, eletti per cooptazione fra i patrizi e incaricati di coadiuvare sul piano religioso le trattative internazionali e le procedure di dichiarazione di guerra e di resa. Caduti in desuetudine nel corso della tarda epoca repubblicana, vennero ripristinati da Augusto, che fu membro del collegio e che aprì l’incarico a uomini di origine plebea. Se al tempo della Repubblica i Feziali operavano soprattutto fuori della capitale, nel Principato rimasero stabilmente a Roma. Praticavano riti che prevedevano, di volta in volta, l’azione di almeno due sacerdoti appartenenti al collegio, scelti allo scopo. d) I Luperci Il collegio dei Luperci era costituito da giovani eletti fra i membri della nobilitas, suddivisi in tre gruppi di officianti, di cui due originari, i Quinctiale e i Fabiani, cui si aggiunsero sotto Cesare, e in suo onore, un terzo gruppo, gli Iulii. I Luperci operavano sotto l'autorità del collegio pontificale e la durata del loro sacerdozio è sconosciuta. Alle Idi di febbraio essi celebravano il complesso rito arcaico dei Lupercalia, che si dimostrarono uno dei riti più longevi della religione romana e per durarono fino al bando a cui furono sottoposti da papa Gelasio I alla fine del V secolo d.C. e) I Salii Il collegio dei Salii si componeva di due gruppi di dodici sacerdoti ciascuno: i Palatini, connessi al culto di Marte, e i Collini, collegati a quelli di Quirino. Essi operavano in particolare nel corso di due mesi dell’anno, marzo e ottobre, quando cadevano le celebrazioni del Quinquatrus e dell'Armilustrum che segnavano, rispettivamente, l'inizio e la conclusione del periodo è messo per l'intrapresa delle campagne belliche. Scelti fra i membri del patriziato, i Salii dovevano avere entrambi i genitori viventi. Il sacerdozio era vitalizio ma talora era possibile esserne liberati, giacché era incompatibile con altri incarichi sacerdotali o con le magistrature cum imperio. Nei giorni consacrati al culto, e in altri che durante marzo e ottobre li precedevano e li seguivano, i sacerdoti compivano danze rituali che mi mimavano gli scontri bellici. Capitolo 5 – Il personale ausiliario al servizio dei magistrati e dei sacerdoti a Roma 5.1 Apparitores A Roma erano definiti apparitores gli impiegati subalterni al servizio dei magistrati superiori e inferiori, di alcuni tra i curatores, ma anche di imperatori e sacerdoti pubblici. In base all'importanza dell'incarico ricoperto, è possibile stabilire una sorta di gerarchia tra i vari apparitori. I più importanti erano senza dubbio gli scribae, detti talvolta anche scribae librarii (scribi, segretari con funzioni legate alla tenuta dei documenti); seguivano poi i lictores (littori, portatori delle insegne pubbliche, ma anche guardie del corpo), i viatores (viatóri, messi) e i praecones (precóni, araldi, banditori). a) Status giuridico degli apparitores Nella maggior parte dei casi, gli apparitori erano individui di condizione libera. Era tuttavia molto diffusa anche la presenza di liberti: talvolta, si trattava di ex schiavi degli stessi magistrati al servizio dei quali erano assegnati. Requisito essenziale per i viatóri e i precóni dei questori era il possesso del diritto di cittadinanza romana. Ancora nella tarda età repubblicana, tra gli apparitori dovevano figurare anche alcuni – seppur pochi – individui di condizione servile dal momento che, nel 38 a.C., venne proibito per legge agli schiavi di prestare servizio come littori. b) Selezione degli apparitores , organizzazione e durata del loro impiego I viatóri e i precóni a disposizione dei questori venivano nominati annualmente entro il primo giorno di dicembre da parte dei consoli dell’anno, al fine di assegnarli a ciascun questore dei successivi tre anni. Evitando che viatóri e precóni fossero nominati non dal magistrato annuale sotto il cui controllo essi avrebbero servito, ma addirittura da uno che aveva ricoperto la carica tre anni prima si mirava a prevenire la formazione di relazioni clientelari tra apparitori e magistrati, ritenute potenzialmente pericolose. La pratica di designare in anticipo gli apparitori tu forse solo straordinaria è legata al nuovo ordinamento sillano. La norma in uso in epoca posteriore fu più probabilmente quella di nominare gli apparitori annualmente, inserendoli comunque in decurie legate a uno specifico collegio di magistrati. Per gli scribi che dovevano assistere i questori in servizio nelle province esisteva una procedura di sorteggio tra i membri delle decurie questori e, che doveva aver luogo il 5 dicembre, data delle entrata in carica dei magistrati. Non è chiaro quale fosse l’effettiva durata dell’impiego degli apparitori. In alcuni casi, essa era probabilmente annuale, pari cioè al periodo in cui restavano in carica i magistrati. Doveva insistere comunque la possibilità di ottenere un rinnovo dell’impiego, forse con un sistema di rotazione tra i diversi magistrati, circostanza che poteva portare gli apparitori a restare in una decuria apparitoria anche a vita. c) Diritti e privilegi degli apparitores diritti politici, appannaggio dei soli cittadini romani, gli italici beneficiarono dell’espansione dell’impero. Italici erano, infatti, molti dei negotiatores che, a partire dalla seconda metà del II secolo a.C., cominciarono a fare affari nelle province transmarine in particolare in Grecia, a Delo e in Asia. Le fonti di epoca repubblicana mostrano che il Senato e i magistrati di Roma avevano ampi poteri di intervento in Italia non solo per regolare conflitti tra città diverse, ma anche per questioni interne alle singole civitates. Il Senato esercitava la propria giurisdizione in Italia per crimini particolarmente gravi; l'assemblea era interpellata anche per rendere arbitrati e per rispondere a richieste di protezione o di risarcimento, qualora una comunità alleata fosse stata vittima di un abuso di potere da parte di un magistrato romano. Queste prerogative senatorie erano ovviamente messe in pratica dai magistrati, in particolare dai consoli, i quali potevano ricevere dal assemblea il compito di svolgere indagini e reprimere crimini d’Italia. L’estensione della cittadinanza romana a tutta la penisola negli anni successivi alla guerra sociale (91-88 a.C.) permise una maggiore integrazione dei ceti dirigenti della penisola nella res publica romana e portò, durante la seconda metà del I secolo, a una vera e propria ascesa degli Italici nei ranghi del Senato e dell’ordine equestre. Il sistema dei foedera non venne meno, tuttavia l’estensione massiccia del diritto di cittadinanza rafforzò il ruolo dei magistrati della capitale, e in particolare dei pretori. I confini dell'Italia romana variarono nelle differenti epoche: da prima coincidente grossomodo con il versante tirrenico dell'Appennino Centrale, il concetto di Italia fu gradualmente esteso prima a tutta la zona appenninica (dall'Emilia Romagna e dalla Liguria fino alla Calabria) e infine anche alla Pianura Padana. Gli abitanti di questa regione, chi aveva lungo costituito la provincia della Gallia Cisalpina, ricevettero la cittadinanza romana da Cesare nel 49 a.C. e divennero parte integrante dell’Italia al momento della riorganizzazione territoriale augustea. All’inizio dell’epoca Imperiale, dunque, i confini dell’Italia ricalcavano già grosso modo quelli dello Stato attuale, con l’esclusione dell’arco alpino, ancora non formalmente sottomesso, e delle isole, che invece costituivano delle province. Ormai abitata in larga maggioranza da cittadini romani, l'Italia continuava a essere sottomessa al governo di Roma, ma in una forma diversa. L'obbedienza che gli Italici dovevano ai magistrati romani era più simile a quella del corpo civico verso le proprie istituzioni. L’Italia godeva di uno status privilegiato rispetto alle province in quanto non era sottomessa all'autorità di un governatore, ma era considerata legata direttamente a Roma. L'integrazione politica fu promossa da Augusto, il quale, con un provvedimento del 25 a.C., permise ai decurioni delle colonie da lui fondate in Italia di votare a distanza per le elezioni magistratuali della capitale. L’Italia non era soggetta al controllo diretto del principe e, almeno in teoria, continuava ad essere ambito di competenza unicamente del Senato e dei magistrati urbani. Le fonti rivelano, però, che l'amministrazione dell'Italia era oggetto di attenzione non solo da parte del Senato, ma anche del Principe. L’organizzazione territoriale della penisola era sicuramente uno degli ambiti dove l’imperatore agiva di maniera più frequente. Sotto Augusto, la fondazione di numerose colonie, l’estensione del dominio romano sull’arco alpino e la creazione delle regiones portarono il principe a intervenire frequentemente sui territori cittadini. Tra gli altri ambiti di esclusiva competenza Imperiale vi era la dislocazione delle truppe punto a differenza delle province, in Italia, come a Roma, non era previsto lo stazionamento permanente di truppe legionarie. L’epoca augustea ha profondamente alterato questo principio repubblicano e ha introdotto numerose unità militari per il controllo della capitale. Sotto Augusto, una parte dei pretoriani era ancora dislocata in varie caserme, ma Tiberio riunì l’intero corpo nei castra praetoria presso Roma. I pretoriani potevano comunque essere utilizzati come forza di intervento nel resto della penisola. Se dunque l’imperatore interveniva negli affari italici insieme o al posto del Senato già nel I secolo, fu a partire dal II secolo che il suo ruolo divenne preponderante e si sostituì in certi casi a quello dell’assemblea. Un passo di Modestino, vissuto nella prima metà del III secolo d.C., attribuisce al principe la concessione dello ius nundinarum, il diritto di organizzare un mercato periodico nelle zone rurali. questa autorizzazione era lungo stata di competenza del Senato per l'Italia, ma passo all'imperatore in un momento purtroppo non specificato. A causa della forte integrazione istituzionale della penisola nello stato romano, tutte le norme indirizzate ai cittadini romani che il Senato e il principe promulgavano ogni anno si applicavano anche e soprattutto in Italia. 1.2 La giurisdizione La forte diffusione della cittadinanza e del diritto romano nell’Italia romana di epoca imperiale comportava che la giurisdizione fosse sostanzialmente ripartita tra due livelli: quello locale, appannaggio dei magistrati di colonie e municipi, e quello centrale, riservato principalmente ai pretori, ma anche ad altre stanze presenti nella capitale. Un terzo livello era rappresentato dai curatores delle strade italiche e, a partire dal II secolo d.C., dai legati pro praetore e quindi dagli iuridici di nomina imperiale. In linea generale, ai magistrati cittadini spettava la giurisdizione su tutte le materie concernenti l’amministrazione e la fiscalità locale; alcuni contenziosi di diritto privato ricadevano tra le competenze dei magistrati locali. Al tribunale pretorio spettavano invece tutte le cause concernenti le condizioni personali in senso lato e tutti i provvedimenti che, nelle nostre fonti, sono chiamati magis imperii quam iurisdictionis. Anche i contenziosi relativi ai testamenti venivano risolti a Roma, non sempre davanti ai pretori però. Relativamente meno attestati, rispetto alle province, sono interventi personali dell’imperatore. Questo è dovuto principalmente al fatto che l'Italia, non essendo una provincia, non ricadeva nella sfera di governo diretto del principe. Ciò nonostante, alcune iscrizioni provano, in particolare per l'epoca flavia, l'esercizio di un'attività giurisdizionale da parte dell'imperatore. All'inizio dell'epoca imperiale, tutte le controversie relative alla percezione di imposte dirette e indirette erano teoricamente concentrate a Roma di fronte ai pretori/prefetti dell’erario pubblico e dell’ erario militare. Alcuni accenni nelle fonti letterarie fanno intendere che, laddove presenti, i procuratori patrimoniali dell’imperatore avevano di fatto assunto un importante ruolo giurisdizionale. Tuttavia, non sembra che tale carica abbia sussistito a lungo e le cause fiscali vennero probabilmente trasferiti ai prefetti dell'erario. 1.3 L'organizzazione amministrativa del territorio La città era l’unità amministrativa principale dell’Italia Romana, la municipalizzazione della penisola avviata lentamente dopo la guerra sociale in epoca repubblicana, aveva ricevuto un grande slancio da Cesare e può essere considerata compiuta sotto Augusto. Numerose città esistenti ottennero lo status di municipia romani; altre furono trasformate in colonie dopo l’installazione di veterani. L’ampia diffusione del diritto romano rendeva ormai minima la differenza tra le diverse categorie di città, tuttavia una grande varietà sussisteva nella nomenclatura delle magistrature locali, che non vennero mai volutamente uniformate da Roma. Dal punto di vista amministrativo l'Italia era costituita dalla somma dei territori delle città che la componevano. I territori cittadini non formavano un’unità amministrativa uniforme. Il nucleo principale era costituito dall’area urbana della civitas, dove si ritrovavano gli spazi della vita pubblica (foro, curia, teatro, templi) e dove i membri dell’ordine decurionale avevano l’obbligo di possedere una residenza. Il centro della civitas non era l’unico centro abitato del territorio: villaggi e paesi più o meno popolati occupavano immagini del territorio cittadino e possedevano i propri magistrati locali e anche un proprio ordo. La giurisdizione dei magistrati della civitas si applicava a tutto il territorio, ma era esercitata in maniera diretta nella fascia territoriale più prossima al centro, mentre le zone più periferiche potevano essere lasciate alla responsabilità di prefetti delegati. Augusto aveva ufficialmente ingrandito i confini dell’Italia, inglobando il territorio dell’antica provincia della Gallia Cisalpina, ai cui abitanti Cesare aveva concesso la cittadinanza romana nel 49 a.C. Anche una parte dell' arco alpino fu annessa amministrativamente all’Italia dopo le guerre di conquista condotte da Tiberio e Druso nel 15 a.C. Innovazione augustea fu anche la ripartizione delle città italiche in undici regioni, numerate progressivamente. Tale riforma rimane ancora oscura per molti aspetti, in primis quello cronologico. L’unica fonte che permette di stabilire la paternità augustea di questa divisione è un passo di Plinio il Vecchio. Tra le varie ragioni che i moderni hanno supposto essere alla base dell'introduzione delle regiones, la più plausibile è che questi raggruppamenti di città servissero inizialmente come semplice criterio di ordinamento delle numerose comunità italiche nei documenti d'archivio. Tale criterio sarebbe risultato utile in particolare per i dati censitari. Inizialmente, le regioni non avevano un nome, ma erano identificate semplicemente da un numero, come le regioni urbane istituite dallo stesso Augusto nel 7 a.C. Tuttavia, nel corso del tempo una denominazione di tipo etnico geografico venne di affiancarsi al numero ordinale. Augusto non volle, ideando le regioni, creare un livello amministrativo territoriale intermedio tra Roma e le città. Le regiones non erano analoghe alle province e nessuna categoria di funzionari esercitò mai competenze a questo livello. A partire dal II secolo d.C., tuttavia, la suddivisione regionale servì da base per la delimitazione del campo d’azione di nuovi funzionari imperiali, senza però mai ricalcare esattamente le suddivisioni augustee. 1.4 Interventi in ambito economico e sociale L’amministrazione fiscale romana fin da Augusto fu capace di gestire la contabilità generale dello Stato e di provvedere alla preparazione di un budget dell’impero. Fu sicuramente sulla base di dati contabili concreti che Augusto decise di istituire la nuova tassa sull'eredità per finanziare le crescenti spese militari. Si discute se è in che misura i Romani sapessero condurre una vera e propria politica economica, programmando incentivi e norme in modo da stimolare certi settori considerati strategici. È sicuramente possibile parlare di politica economica per alcuni imperatori, tuttavia l’organicità e la sofisticazione di tali politiche rimangono ben diverse da quelle degli stati moderni. L’azione di Augusto fu fondamentale nel rilancio dell’economia dopo i lunghi anni di guerra civili. Nella prima parte del suo principato, degli provvide a una risistemazione delle infrastrutture, in particolare della rete stradale. Numerose imposte create sotto il triumvirato e che gravavano soprattutto sui cittadini romani furono abolite; tuttavia alcune di esse furono introdotte nell'ultimo decennio del suo regno. Il ristabilimento della solidità finanziaria delle città italiche fu una delle linee guide della politica augustea. Non bisogna poi dimenticare la riorganizzazione dell’annona di Roma e, nell’ultimo decennio del suo principato, il consolidamento finanziario dello Stato attraverso l’istituzione di nuove tasse pensate appositamente per pagare i premi per i legionari e le coorti dei vigili. confini dei distretti non seguivano limiti politici prestabiliti, ma erano determinati in maniera pratica sulla base dell’estensione della sostanza patrimoniale in una determinata area. Sotto Adriano un conto speciale del fisco fu creato per gestire le spese imperiali a carattere privato. Tale conto, detto ratio privata, era gestito da un procuratores rationis privata liberto. In epoca severiana, una parte della sostanza patrimoniale fu separata dal resto dei beni del fisco e andò a creare la res privata. Nonostante il nome, i beni afferenti alla res privata non erano giuridicamente differenti dagli altri beni nel patrimonio del fisco e non avevano carattere privato. 1.6 La cura viarum Nel corso della Repubblica, le viae pubbliche che attraversavano la penisola furono costruite su iniziativa di magistrati, segnatamente di consoli e di censori. Con l’avvento del principato, la realizzazione di nuove strade venne a ricadere interamente nelle mani dei principi. La prima via del nuovo corso fu nel 13-12 a.C. la via Iulia Augusta, che collegava Placentia (Piacenza) a Nemausus (Nizza). Dopo di essa, molte altre furono le vie del settentrione come nel meridione d'Italia, che vennero costruite per volontà imperiale. Per il mantenimento delle vie su richiesta sin da subito la partecipazione dell’aristocrazia senatoria e in particolar modo dei senatori più facoltosi. all'indomani delle guerre civili, la rete viaria composta dalle grandi vie che percorrevano la penisola italica risultava pesantemente trascurata. Il principe fece restaurare la via Flaminia e i suoi ponti da Roma sino a Rimini e ugualmente fece con alcune altre celeberrime vie d’Italia. L’intera opera di restauro venne compiute da Augusto di sua iniziativa e con fondi propri. Nel 20 a.C., venne istituita la cura viarium; l’istituzione fu verosimilmente sancita da un senatus consultum, attraverso il quale furono definiti i compiti dei curatores viarum. Al principe tocco la nomina di un numero ignoto di curatores viarum scelti tra i senatori di rango pretorio, mentre allo stesso Augusto fu assegnata la responsabilità delle strade che si dipartivano da Roma. Già in epoca repubblicana, erano state occasionalmente nominati dei curatores viarum responsabili per le vie in Italia o per le strade della capitale. Dall’anno 20 a.C. fino al tempo di Vespasiano, le fonti attestano solamente quattro curatores viarum. A partire dall'età Flavia (69-96 d.C.), il numero di attestazioni si alza esponenzialmente, così come l'indicazione della via di competenza, la quale viene pressoché sempre ricordata nelle iscrizioni. Per spiegare questa discrasia nella documentazione, si è supposto che nei primi tempi della sua istituzione la cura viarum fosse organizzata in un collegio ristretto, i cui membri portavano uguale titolo poiché tutti ugualmente responsabili delle strade uscenti da Roma; è parimenti plausibile, tuttavia, che la questione sia interamente riconducibile alle diverse consuetudini epigrafiche che caratterizzarono l’alto impero e che, per l’epoca giulio-claudia, prevedevano una redazione meno dettagliata delle carriere senatorie. A un curator veniva assegnata una sola strada di competenza o un gruppo di strade minori o ancora una strada con importanti diramazioni. Oltre a queste vie, gestite da senatori, esistevano altre importanti strade, per le quali non è conosciuto nessun curatore. Nel territorio a nord del Po non è attestato alcun curator viarum, nonostante il passaggio di fondamentali assi stradali. Lo stesso dicasi per le strade nelle immediate vicinanze di Roma; questi ultimi erano collegamenti che dalla capitale portavano a centri non troppo lontani e che mai furono prolungati. Per queste strade conosciamo alcuni curatores di rango equestre, scelti probabilmente ad hoc per risolvere problemi contingenti. Sporadiche sono le attestazioni di personale subalterno ai curatores viarum; si tratta di tre subcuratores di rango equestre, che furono nominati con molta probabilità direttamente dall’imperatore. Dal nome della carica emerge che i curatores viarum erano responsabili della o delle vie di comunicazione che ricadevano nella loro sfera di competenza. Nell’anno in cui erano in carica, essi dovevano controllare personalmente, per conto dell’imperatore o del senato, che le strade fossero percorribili. Gli eventuali lavori di manutenzione potevano venir finanziati dall’erario, dal fisco imperiale, dalle città che usufruivano del collegamento interessato, se non da queste componenti insieme. I documenti di epoca adrianea attestano che la via Appia fu per lungo tempo trascurata, forse perché i curatores responsabili non se ne occuparono. La negligenza dei magistrati addetti alle strade e le frodi degli appaltatori ai danni dell’erario pubblico furono oggetto nel 21 d.C. e nel 39 d.C. di aspre critiche da parte di due senatori. Dalla vicenda prendiamo che i curatores viarum erano responsabili del conferimento dell’appalto per i lavori di manutenzione delle strade a società specializzate e che quindi ricadeva su di loro la responsabilità di verificare che le opere fossero eseguite in modo corretto. I curatores viarum potevano sovrintendere alla costruzione di nuove strade volute dall’imperatore. È probabile che in casi simili i curatores viarum ricevessero per delega dall’imperatore il potere di esproprio dei terreni, sia di città che di privati, sui quali insisteva il tracciato della nuova via. La flessibilità dell’amministrazione romana comportò infine che i curatores viarum, in qualità di unici rappresentanti del Senato e dell’ imperatore in determinate zone dell’Italia, ottenessero incarichi che esulavano da quella che per definizione era la loro sfera di competenza. 1.7 Il sistema di informazione e trasporto con il termine cursus publicus si intende il servizio che nel corso del principato garantiva il trasporto di persone di cose che viaggiavano nell'interesse dello stato romano. Svetonio ne attribuisce l’istituzione ad Augusto; secondo il biografo Augusto dispose che il servizio fosse inizialmente affidato a delle staffette a cavallo disseminato lungo le vie; successivamente dispose che fossero allestiti anche dei veicoli (vehicula), al fine che i messaggeri potessero essere disponibili anche per comunicazioni a voce. È verosimile che la nascita del cursus publicus sia da considerare coeva e concorsuale all’istituzione della cura viarum. Nel primo secolo di vita, il cursus publicus fu organizzato in Italia su obbligazioni imposte alle comunità cittadine che già erano responsabili del mantenimento dei tratti di viae publicae che attraversavano il territorio di ciascuna comunità. Furono pertanto richiesti alle amministrazioni cittadine la costruzione e il mantenimento delle stazioni di sosta del cursus, che sorgevano lungo il tracciato delle principali viae publicae. Queste strutture erano finalizzate ad assicurare il pernottamento dei messaggeri e il cambio delle bestie da tiro; le città erano tenute a fornire i veicoli e gli animali utilizzate dal cursus, sempre limitatamente al segmento di competenza territoriale di ogni singola colonia o municipio. Nerva dispensò le città d’Italia dalla contribuzione per il cursus publicus. Al posto loro, il mantenimento e la gestione delle stazioni fu affidato a società di appaltatori privati, detti mancipes. Lo stesso Nerva o Traiano avocarono quindi al fiscus imperiale l’intera spesa del cursus publicus per l’Italia, provvedimento poi esteso da Adriano alle province. La facoltà che permetteva di utilizzare il cursus, detta evectio, era propria dei soli possessori di lasciapassare (diplomata) concessi direttamente dall’imperatore: questi documenti di viaggio erano rilasciati ai governatori provinciali e a un ristretto numero di afferenti agli uffici centrali. Le persone che usufruivanp del cursus, anche quando autorizzate, erano tenuti a pagare alcune prestazioni, tranne l'alloggio, al rimborso delle quali interveniva l’erario e quindi la cassa imperiale o fiscus. Inizialmente, il neonato a cursus publicus faceva riferimento diretto all’imperatore. Il controllo del servizio fu delegato in un secondo momento ad un cavaliere, che assunse il titolo di praefectus vehiculorum. Il praefectus vehiculorum ebbe inizialmente la responsabilità di assegnare alle diverse comunità cittadine le incombenze in ordine alla gestione delle stationes e della vehiculatio; dopo la concessione ai mancipes della cura delle stesse, il prefetto detenne la supervisione sugli appalti. Il prefetto non intratteneva alcuna diretta relazione con i messaggeri che trasportavano le informazioni per conto del cursus, non essendo nella sua disponibilità il rilascio dei diplomata. Più probabile un suo coinvolgimento nell’opera prestata dai carrettieri che venivano impiegati per carichi pesanti. Il cursus publicus non era d’altra parte finalizzato solo all’inoltro di messaggi al trasporto dei funzionari. Già nel I secolo d.C. e ancora nel II e II secolo d.C., il praefectus vehiculorum fu responsabile degli approvvigionamenti per l’imperatore, nei casi in cui quest’ultimo fosse partito alla volta di una campagna militare nelle province renane o danubiane. In questo caso il prefetto non era responsabile dei rifornimenti per l’intero esercito, ma soltanto per lo stretto seguito dell’imperatore. Nel I secolo d.C. il praefectus vehiculorum fu una figura unica, direttamente dipendente dall’imperatore. La sua posizione era assolutamente minore rispetto alle grandi prefetture equestri di Roma. A partire dalla seconda metà del II secolo d.C. si registra la prolificazione di più praefecti vehiculorum contemporaneamente, tutti di rango equestre, dediti al controllo di una singola via publica oppure all’insieme delle viae publicae di una determinata regione o settore d’Italia. Questo sistema fu pienamente operativo lungo tutto il corso del III secolo d.C. 1.8 La riscossione delle imposte Nel corso del Principato per i cittadini Romani in Italia non era previsto alcun tipo di pagamento regolare di tributi sulla persona o sulla proprietà. Questa condizione si realizzava dall’unione di due fattori: essere cives Romani e essere domiciliate a Roma, in una colonia o in un municipio in Italia. La libertà dai pagamenti non era infatti un vantaggio accordato indistintamente a tutti i cittadini romani, essa valeva per la terra Italia ma non per le province, il cui territorio era considerato di proprietà del popolo romano e dunque suscettibile al pagamento di un canone da parte di chi ne avesse avuto una parte in concessione. Un'imposta simile valeva anche per i terreni afferenti in Italia all’ager populi Romani, la cui occupazione prevedeva ugualmente il pagamento di un canone. Il beneficio dell’immunità tributaria venne concesso nel 167 a.C., quando, a seguito della seconda guerra macedonica, la liquidità acquisita dalla Repubblica tramite le conquiste orientali rese superflua la richiesta di un tributum da parte dei cives Romani. L’immunità tributaria dell’Italia fu considerata dai cittadini romani un elemento fondamentale della propria libertà, un concreto privilegio che distingueva la penisola e i suoi abitanti dalle popolazioni provinciali sottomesse. Con l’avvento del principato, questa condizione non venne scalfita né da Augusto né dai principi che lo seguirono. Anche dopo la concessione della cittadinanza romana a tutti i cittadini liberi dell'impero ad opera di Caracalla, la terra Italia mantenne integra sotto questo punto di vista la sua unicità. La fine di questo status intervenne solo molti decenni dopo, nel 293 d.C., allorché Diocleziano parificò da un punto di vista tributario il territorio d’Italia a quello del resto dell’impero. La particolare condizione tributaria dell’Italia detenne inevitabilmente un certo peso nell’organizzazione delle strutture censitarie. Diversamente che in provincia in Italia rilevazioni di questo tipo, estese a tutta la terra Italia, non furono mai promosse poiché sostanzialmente inutili. L’Italia fu interessata dai censimenti generali condotti durante l’alto principato, ma essi cessarono molto presto, già sotto il Vespasiano, e in ogni caso non perseguirono mai gli stessi scopi che in provincia. L'obiettivo dei census generali condotti in Italia per conto di Roma sembra infatti essersi limitato alla sola registrazione dei cittadini romani. Esistevano di contro, a Roma quanto nei municipia che nelle coloniae d’Italia, i census locali, effettuati ogni cinque anni. Il census locale serviva in prima istanza a quantificare le obbligazioni e le prestazioni che i coloni, i municipes e gli incolae dovevano alla città in cui erano domiciliati; in seconda battuta, le risultanze operandi perseguito dagli iuridici, ma è plausibile che la loro fosse un’attività itinerante: ogni iuridicus, al momento dell’insediamento, promulgava verosimilmente un editto, tramite il quale precisa va il territorio di competenza e i giorni e le sedi nelle quali si tenevano le udienze. La durata del mandato era variabile e dovette assestarsi intorno ai tre anni di durata. Complessivamente, valutando la suddivisione territoriale, dovettero essere nominati all’incirca 200 iuridici tra l'epoca di Antonino Pio e quella di Diocleziano. Capitolo 2 – Le città 2.1 Gli statuti cittadini 2.1.1 Colonie e municipi Con l’abolizione della provincia Gallia Cisalpina dopo la seconda battaglia di Filippi del 42 a.C. e la promulgazione della lex de Gallia Cisalpina, l’intera penisola venne organizzata in unità amministrative autonome di cittadini romani. Le colonie e i municipi italici non differivano le une degli altri nella prassi amministrativa ed erano equiparate nei loro rapporti con Roma. Entrambi godevano della più ampia autonomia amministrativa, limitata naturalmente dell’impossibilità di condurre una politica essere autonoma, dunque di possedere milizie proprie, e dall’obbligo di sottostare alle leggi di Roma. La differenza tra le due forme di autogoverno, municipale coloniale, era circoscritta al nome e al rango. In via generale, è lecito affermare che la maggior parte dei municipi erano governati da quatorviri, mentre quelli creati ex novo sull’ager populi Romani erano retti da duoviri. Le colonie mantennero in epoca imperiale l'organizzazione tradizionale con a capo una coppia di duoviri. Dopo il 25 a.C., anno della deduzione di Augusta Praetoria (Aosta) e possibilmente alla vicina Augusta Taurinorum (Torino), dedotta dopo il 27 a.C., non furono più fondate le colonie ex novo sul territorio italico. Le colonie istituite di lì in poi riguardarono deduzioni di veterani in colonie e municipi già esistenti – soprattutto in epoca augustea – oppure concessioni onorifiche del titolo di colonia. Dalla fine del I secolo d.C. le fondazioni coloniali in Italia furono esclusivamente di tipo onorifico. In altre parole, l’atto si limitava alla concessione del titolo di colonia ad una comunità cittadina già in essere, senza che ciò implicasse alcuna riforma istituzionale né alcuna deduzione di veterani. Se nelle province il conferimento del titolo di colonia poteva rappresentare il primo passo verso l’immunità e il diritto italico, in Italia esso si limitava ad un onore senza alcun apparente valore. Politicamente, l'autonomia cittadina si fondava su tre elementi imprescindibili: il corpo civico, ossia il populus dimorante all'interno dei confini della città, i magistrati, eletti annualmente, e il Senato locale, vero fulcro politico di ogni singola comunità. La dialettica tra questi tre ordini cadenzò il ritmo della vita cittadina in Italia, almeno sin quando le assemblee rimasero attive e i magistrati non vennero nominati in modo coatto. Il loro bilanciamento era precisato nel documento che rappresentava il fondamento giuridico di ogni città, la lex. Con questo termine (lex municipii o lex coloniae) si intende nei fatti la legge istitutiva che Roma forniva al momento del sorgere di una nuova realtà cittadina. Delle leggi che regolavano le colonie e municipi d’Italia, purtroppo, non ne possediamo nessuna in modo completo e solo alcune in modo parziale. In Italia, allo stato attuale delle conoscenze, sono stati rinvenuti quattro esempi, tutti afferenti al primo secolo a.C.:  La lex de Gallia Cisalpina, rinvenuta Veleia nel 1760, che contiene regolamentazioni relative al diritto civile nei municipi cisalpini.  La lex Tarentina (legge di Taranto), rinvenuta a Taranto nel 1894, si data probabilmente nella prima decade dopo la guerra sociale. Il frammento contiene provvedimenti riguardanti il denaro pubblico, le magistrature e la gestione delle infrastrutture nella città.  Il fragmentum Atestinum (frammento di Este) rinvenuto a Este nel 1880. La datazione è il 44-43 a.C, contiene due capitoli relativi alla giurisdizione nell’ambito delle colonie, dei municipi e delle prefetture.  La tabula Heracleensis (tavola di Eraclea), rinvenuta nel territorio dell’antica Heraclea (oggi Policoro) negli anni 1732 è 1735, si può datare tra l’età di Silla e quella di Cesare. Si tratta di un centone costituito da leggi riguardanti la città di Roma e da norme di applicazione municipale, inviate nel centro lucano. Di notevole interesse per lo studio dell’amministrazione dell’Italia è in epoca tardorepubblicana e imperiale sono le leggi coloniali e municipali rinvenute nella provincia della Baetica (attuale Andalusia) e in Moesia Inferior (attuale Romania), per le quali si può parlare di un diretto rapporto con leggi municipali e/o coloniali italiche. 2.1.2 Il corpo civico Gli abitanti delle colonie e dei municipi d’Italia che godevano della cittadinanza romana erano in epoca imperiale la stragrande maggioranza. Alla cittadinanza romana i cives d'Italia e di qualsiasi altra comunità, colonia municipio dell'impero beneficiato del plenum ius, assommavano l'origo, la quale costituiva propriamente una seconda cittadinanza. L’origo non era necessariamente il luogo di nascita né il luogo di residenza, ma uno status, stabilito unicamente in base all’ascendenza in linea maschile, che garantiva per ogni cittadino l’appartenenza ad una determinata comunità di cittadini romani. La trasmissione tanto della cittadinanza romana quanto del l'origo seguiva dettami ben precisi. I figli di un cittadino e di una cittadina romana, uniti da un legittimo vincolo matrimoniale erano a loro volta cittadini romani ed ereditavano l’origo del padre. Nel caso in cui i coniugi non fossero stati uniti da nozze legittime, il figlio nato dalla loro unione, fino all'epoca di Adriano, era cittadino romano solo nel caso in cui lo fosse stata anche la madre. Oltre ai figli naturali, vi erano i figli adottati, spesso anche dopo la maggiore età. Questa pratica, piuttosto diffusa tra i ceti abbienti, garantiva la trasmissione dei requisiti paterni. I figli, nati da matrimoni legittimi, venivano denunziati entro 30 giorni dalla nascita ai magistrati cittadini. L'iscrizione di un individuo tra i cittadini romani era assicurata dai tria nomina (praenomen + nomen + cognomen), dal nome del padre (patronimico o filiazione) e dalla menzione della tribù di appartenenza. Questa serie di elementi costituiva il sistema onomastico romano in uso nell’alto impero: praenomen + nomen + filiazione + tribù + cognomen. Diversamente dagli uomini, le donne portavano solo il gentilizio (nomen), il cognome (cognomen) e il patronimico. Da un punto di vista politico, un colonus o un municeps poteva votare ed essere votato nella comunità di origine. Godeva del ius conubii, del ius commercii e del diritto di proprietà di beni immobili e mobili, che lo esentava dal pagamento di tributi sulla proprietà. Nelle città romane risiedevano anche gli incolae. Questi ultimi venivano sempre distinti dai coloni e municeps. In epoca imperiale, in Italia, con incola si indicava per lo più un cittadino romano che deteneva il domicilio entro i confini del territorio di una città, di cui non possedeva l' origo. Si parla in questi casi di incolae trasferiti. Mantenendo la cittadinanza nella comunità di origine, gli incolae trasferiti erano legati a due città: quella dei padri e quella in cui avevano il domicilio. Ciò implicava che essi fossero tenuti a svolgere le obbligazioni in entrambi le comunità. Il rapporto di incolato tra un soggetto e una comunità si scioglieva nel momento in cui il primo, dopo aver espletato i munera che su di lui ancora incombevano, mutava domicilio. Non è chiaro se nel corso dei primi decenni del principato gli incolae trasferiti potessero candidarsi alle magistrature della città che li ospitava, di certo essi potevano votare. Gli incolae avevano facoltà, in ogni caso, di richiedere e, in caso di esito positivo, di ottenere la cittadinanza della comunità nella quale erano domiciliati, circostanza che avveniva per decreto decurionale e consentiva la candidatura ad una magistratura cittadina. Nella prima metà del II secolo d.C., la crisi economica e sociale che investì i ceti dirigenti municipali in Italia, provocò la richiesta di una estensione del ius honoris agli incolae, richiesta che venne più volte soddisfatta dai principi sia per quanto riguarda l’ammissione all’ordine decurionale degli incolae domiciliati, sia in merito all’eleggibilità di incolae neppure cittadini, che ottenevano la cittadinanza nel momento in cui rivestivano una carica pubblica. Una seconda categoria di incolae, minore nei numeri, era costituita da incolae peregrini, ovverosia da domiciliati nel territorio di un municipio o di una colonia non muniti della cittadinanza romana. A questa categoria afferivano singoli peregrini, ma anche interi gruppi etnici, soprattutto tra gli abitatori delle Valli Alpine meridionali che, a seguito della conquista delle Alpi con Augusto, videro i territori di loro frequentazione annessi all’ager di una colonia o di un municipio limitrofo. In quanto vinti o sottomessi, tali soggetti erano tenuti a spettare le obbligazioni che gli venivano richieste, oltre a versare un tributum. In quanto peregrini, non godevano della proprietà privata immune propria dei cittadini. Un'altra categoria di persone che si poteva incontrare in una città dell'Italia imperiale era costituita da semplici peregrini forestieri, viaggiatori e commercianti o semplici persone legate alla città dal vincolo dell'ospitalità, che si trattenevano per un periodo più o meno lungo. Gli schiavi affrancati (liberti), divenuti cittadini romani grazie all'iscrizione in una delle quattro tribù urbane, acquisivano il diritto di voto, ma non quello di essere candidabile ad una magistratura né di essere ammesso all’ordo decurionale. Ciò non valeva per i figli di liberti, i quali, nati liberi e cittadini, godevano dei medesimi diritti di un colonus o di un municeps. Gli schiavi, non detenevano alcun potere politico passivo o attivo. Uguale sorte toccava alle donne, indipendentemente dallo status detenuto. La popolazione cittadina libera era suddivisa in curiae o tribus; non sappiamo in che modo esatto avvenisse la ripartizione in curiae, ma è probabile che essa prevedesse un numero variabile di cittadini da curia a curia e non fosse rappresentativa di un uguaglianza aritmetica. La popolazione cittadina, così ripartita, si riuniva nei comitia, le cui principali competenze erano di carattere elettorale. Almeno fino a tutto il I secolo d.C. il popolo delle colonie e dei municipi fu difatti coinvolto nell’elezione dei magistrati cittadini. Durante il I secolo d.C. le lezioni continuarono a svolgersi con viva partecipazione, suscitando anche lotte accanite, circostanza confermata dalle pene previste per l’ambitus (la corruzione) e il broglio elettorale. L’elezione avveniva una volta e la procedura elettorale era esemplata sul modello dei comizi tributi romani. Le elezioni dei magistrati si svolgevano per curiae o per tribù ed erano precedute dal duoviro più anziano. Le elezioni erano organizzate in tre fasi: la prima concerneva la dichiarazione di candidatura; la seconda riguardava la campagna elettorale; la terza consisteva nella votazione con la successiva proclamazione degli eletti. Gli aspiranti a una magistratura potevano presentare la loro candidatura alla commissione elettorale fino a una certa data stabilita. Il presidente doveva controllare che non ci fossero impedimenti alla loro candidatura e poi affiggere i nomi dei candidati in un luogo pubblico. Dopo la campagna elettorale, giunto il giorno delle votazioni, i primi ad essere votati erano i IIviri o IIIIviri iure dicundo, poi gli edili ed eventualmente i questori. Estratto a sorte il distretto elettorale nel quale avrebbero votato gli incolae, il presidente chiamava i rappresentanti di tutte le curie. Costoro si dirigevano nell’apposita postazione e, una volta entrati, mettevano nell’urna una tavoletta con il nome del candidato prescelto. Chi aveva ottenuto la maggioranza relativa dei voti delle curie vinceva; a parità di voti otteneva la carica chi era padre o sposato; in caso di ulteriore par condicio si procedeva con il sorteggio. I magistrati La gestione delle casse cittadine era nelle mani dei magistrati, ma l’ordine doveva garantire la regolarità del loro operato. I decurioni erano responsabili di gestire il denaro ricevuto per testamento da parte dei privati, il cui volere poteva essere disatteso solo per intervento dell’imperatore. Erano responsabili dell’utilizzo del suolo pubblico e della sua concessione per l’elezione di monumenti onorari e funebri. Un aspetto dibattuto è quello della nomina dei magistrati. Se in epoca repubblicana e alto imperiale le elezioni avevano regolarmente luogo nei comizi, sembra che nel II secolo d.C. il loro ruolo si fosse ridotto notevolmente e che il Senato locale fosse divenuto l’organo di elezione non solo di magistrati straordinari ma anche di quelli ordinari. 2.1.4 I magistrati a) IIviri o IIIIviri iure dicundo come a Roma, l’azione dei decurioni andava d’intesa con i magistrati cittadini, che del consiglio decurionale mettevano in azione le decisioni. L'autorità amministrativa della città era composta da quattro magistrati organizzati in due collegi composti da due membri, i duoviri, o in un singolo collegio di quattro, i quattuorviri. I due magistrati più importanti si chiamavano duoviri ho quattuorviri iure dicundo e detenevano, tra gli altri, poteri giurisdizionali; di grado inferiore erano i duoviri o quattuorviri aediles o semplicemente aediles. In ogni città i nomi dei magistrati venivano registrati su tavole esposte al pubblico: i fasti. Chi adiva al duovirato o al quattuorvirato doveva soddisfare i medesimi criteri di dignità, genere ed età previsti anche per i decurioni. Nelle leggi municipali non è specificata una soglia di censo per i candidati al duovirato; la garanzia era data dalla cauzione che essi dovevano depositare. Cionondimeno, si badava attentamente a che lo status del magistrato fosse consono al ruolo che sarebbe andato a ricoprire. Al momento dell’assunzione della carica come gli altri magistrati, dovevano pagare la summa honoraria. La cifra era fissata nella lex costitutiva, la quale ne poteva altresì indicare l’utilizzo. Normalmente, questa somma doveva essere spesa per l’organizzazione dei giochi, ma furono molti i casi in cui la destinazione d’uso venne mutata per la costruzione di opere pubbliche. I magistrati supremi ricoprivano una posizione la quale esigeva che si si adoperassero per la città, anche attraverso l’elargizione di denaro privato, per la costruzione di opere pubbliche, per l’organizzazione di giochi e per la creazione di fondazioni. Oltre agli onori di cui godevano anche i decurioni, i IIviri o IIIIviri iure dicundo, nell’esercizio delle loro funzioni, avevano diritto a essere preceduti da due littori. A loro aspettava la sella curulis e potevano richiedere di essere accompagnati a casa di notte da una scorta che illuminasse loro la strada. Come i consoli a Roma erano i magistrati eponimi delle rispettive città. La data dell’anno indicato con il loro nome veniva riportata su ogni decreto dei decurioni. Nel caso in cui comizi non fossero stati in grado di votare i magistrati o nell’eventualità che questi ultimi fossero stati impediti nello svolgimento delle loro funzioni, i decurioni, in virtù della Lex Petronia di epoca tardo repubblicana, potevano nominare dei magistrati straordinari. I sostituti dei IIviri o IIIIviri iure dicundo erano i praefecti iure dicundo e i poteri dei prefetti erano identici a quelli dei IIviri o IIIIviri iure dicundo. Se un IIvir o IIIIvir iure dicundo era assente e anche il collega era costretto ad allontanarsi dalla città per più di un giorno, costui doveva scegliere un sostituto tra i decurioni di età superiore ai 35 anni. Erano nominati i prefetti anche quando gli imperatori, per decisione dei comizi o successivamente dei decurioni, assumevano la carica municipale suprema a titolo onorario. Le competenze dei IIviri o IIIIviri iure dicundo, che potevano contare sull’aiuto di personale ausiliario, erano molto ampie. Spettava loro presiedere le assemblee elettorali e le riunioni dell'ordine dei decurioni, eleggere i pontefici e gli auguri. I decurioni non potevano riunirsi senza essere convocati dai due IIviri o IIIIviri iure dicundo. D’altro canto, i IIviri o IIIIviri iure dicundo potevano attuare ben pochi provvedimenti senza l’autorizzazione del Senato locale. Le decisioni relative alla realizzazione e al mantenimento delle strutture e delle infrastrutture municipali rientravano nella sfera di competenza dei decurioni, i quali delegavano agli edili e ai IIviri o IIIIviri iure dicundo l'assegnazione degli appalti, la realizzazione delle opere e il collaudo delle medesime. Ogni cinque anni venivano eletti duoviri che dovevano portare a compimento il censo detti quinquennalies. Ai massimi magistrati locali si conferì il potere di “dire il diritto” nell’ambito territoriale della città. Si trattava di un diritto limitato che si applicava essenzialmente nel diritto privato. Le accuse di corruzione venivano gestite dai duoviri. L’approvazione indebita di denaro pubblico veniva giudicata dai IIviri ma su richiesta dei decurioni. Per questioni di altra natura i cittadini dovevano recarsi a Roma, presso i tribunali del pretore, del praefectus urbi o del prefetto del pretorio. c) Edili Nelle colonie e nei municipi gli edili erano i colleghi di rango inferiore dei IIviri o IIIIviri iure dicundo ed erano sempre due. La loro autonomia era limitata dalla potestas dei IIviri o IIIIviri iure dicundo, i quali potevano porre l’intercessio alle loro decisioni. Gli aspiranti edili dovevano essere iscritti tra i coloni o i municipes, essere ingenui (liberi per nascita), di età superiore ai 22 o 25 anni, aver condotto una vita proba e non aver ricevuto condanne. Gli edili rimanevano in carica un anno e dovevano pagare la summa honoraria non appena entrati in carica. A magistratura ottenuta avevano diritto alla sella curulis e alla toga praetexta; potevano contare sulla collaborazione di personale ausiliario pagato dalla comunità. I compiti principali degli di lì erano tre: 1) la cura annonae; 2) la cura urburbi 3) la cura ludorum. La cura annonae nei municipi consisteva nell’acquisto di grano e di piombo, talvolta anche di olio, che veniva distribuito a basso costo o a titolo gratuito. Nella cura annonae rientrava il controllo dei mercati e delle merci vendute, così come delle misure poderali e volumetriche. Nell’ambito della cura urbis, gli edili erano responsabili della pavimentazione, del restauro, della manutenzione, della pulizia delle strutture pubbliche, nonché dell’appalto di lavori concernenti il sistema stradale in tutto il territorio della città. Dovevano preoccuparsi che nessun oggetto e nessuna costruzione impedisse il regolare scorrimento del traffico, sorvegliare le terme pubbliche, gli acquedotti e che venissero svolte le obbligazioni assegnate dall’ordine dei decurioni per il mantenimento delle opere pubbliche. Nel quadro dei loro poteri di polizia gli edili potevano pignorare beni e infliggere multe. La cura ludorum consisteva nell’organizzazione dei giochi. Per l'organizzazione dei giochi obbligatori i magistrati prelevavano una determinata somma di denaro alla quale essi stessi dovevano aggiungere la cifra necessaria a coprire tutte le spese. Poteva accadere che per vari motivi gli edili fossero costretti ad assentarsi dalla città, in tal caso, venivano nominati dei prefetti aedilicia potestate. d) Questori In alcune città dell'Italia sono attestati anche i questori. Costoro erano responsabili di tutto ciò che concerneva le finanze pubbliche, per quanto dovessero sempre operare in accordo con i massimi magistrati. Solitamente i questori erano due e per decreto del Senato, si occupavano della realizzazione di opere pubbliche. Il rango della questura dipendeva da luogo a luogo, ma di solito si poneva più in basso dell'edilità. e) Altre magistrature locali Alcune comunità italiche entrarono a far parte dello Stato romano in qualità di municipi già nel IV secolo a.C., si trattava di unità situate nel Latium vetus (la parte centrale del Lazio di oggi), organizzate amministrati da colleghi di magistrati di origine epicoria che talvolta sopravvissero fino all'epoca imperiale. In queste comunità sono attestate due varianti principali della magistratura suprema: il dictator (dittatore) e i due praetores (la coppia di pretori). La magistratura di rango inferiore era l'edilità. A Lanuvium (Lanuvio) che divenne municipio insieme ad Aricia (Ariccia) nel 338 a.C. è attestato in epoca repubblicana, un collegio di tre edili. La posizione eccezionale di questi tre edili emerge nelle funzioni censitarie che costoro rivestivano. In epoca tardo repubblicana è alto Imperiale sono attestati altri colleghi di tre magistrati costituiti da un dictator, che costituiva il magistrato supremo, affiancato da due edili, che gli erano inferiori. Oltre al dittatore, ai due edili e all'edile con potere duumvirale è attestato un sostituto del magistrato supremo con competenze anche di carattere religioso. La presenza dell’edile con poteri duumvirali potrebbe indicare la tendenza a rendere collegiale la carica del dictator. La seconda struttura magistratuale epicoria è quella costituita da due magistrati supremi chiamati praetores e affiancati dagli edili. I praetores sono documentati nelle epigrafi dall’epoca di Tiberio a quella dei Severi (190-235). 2.1.5 I curatores locali Nel II secolo d.C., in concomitanza con la crisi finanziaria che investì molti centri urbani in Italia e la conseguente difficoltà nel reclutamento di nuovi magistrati decurioni, alcune città fecero ricorso a funzionari straordinari per potenziare l’espletamento di alcune mansioni normalmente svolte dai magistrati locali: si trattava dei cosiddetti curatores locali, appositamente nominati dai decurioni, tramite decreto, per rispondere a esigenze di controllo su determinati settori dell’amministrazione civica o per alleggerire il compito sempre più gravoso dei magistrati locali. La documentazione epigrafica testimonia la presenza di curatores soprattutto nei centri urbani maggiori dell'Italia centrale, in un periodo compreso tra il II e il III secolo d.C. a) Compiti dei curatores locali Le mansioni del curatores locali potevano riguardare l'amministrazione finanziaria, la gestione dell'approvvigionamento annonario e idrico, l'organizzazione di spettacoli gladiatori e l'edilizia pubblica. Ai curatores aerarii erano affidati i compiti di natura essenzialmente economica, legati a una corretta gestione delle risorse finanziarie cittadini. La cura kalendarii, invece, consisteva più specificatamente nella sovrintendenza del registro cittadino dei prestiti a interesse. Al curator kalendarii spettava anche il c) Servi publici Come Roma, anche le città italiche (così come quelle provinciali) avevano la facoltà di possedere propri schiavi. Per le città, la principale fonte di approvvigionamento di servi publici non era, come a Roma, la donazione da parte di privati o l’acquisto quanto piuttosto la riproduzione: le fonti suggeriscono che la principale funzione delle donne in condizione di schiave pubbliche fosse quella di partorire figli che, sarebbero nati con lo status di servi publici. Nelle colonie e nei municipi italici sono documentati schiavi pubblici al servizio dei magistrati o impiegati in attività di interesse collettivo, mentre non sono attestati servi publici come assistenti dei sacerdoti locali, a differenza di quanto avveniva a Roma. Servi pubblici al servizio dei magistrati Lo statuto della colonia ispanica di Urso prevedeva che i duumviri avessero a disposizione una nutrita schiera di apparitores; gli edili potevano invece giovarsi della collaborazione di quattro schiavi pubblici. Diversamente, la legge del municipio latino di Irni prevedeva che tanto i duumviri quanto gli edili fossero coadiuvati nell’esercizio della loro carica da schiavi pubblici; i questori, invece, potevano avere a disposizione solo schiavi pubblici. È verosimile che disposizioni analoghe fossero in vigore anche nelle città italiche. Come a Roma, anche nelle altre città dell’impero, avevano diritto di indossare il limus solo gli schiavi pubblici a servizio dei magistrati e, nella fattispecie, solo coloro che assistevano i detentori delle cariche più elevate. Non vi sono dati precisi circa i compiti degli schiavi pubblici: oltre a fungere da uomini della scorta, come probabilmente avveniva anche a Roma, non è da escludere che essi venissero utilizzati anche per funzioni di cancelleria. Servi publici impiegati in altre attività di carattere pubblico In Italia non sono attestati schiavi pubblici al servizio dei questori, tuttavia, il gran numero di testimonianze epigrafiche relative a servi publici impiegati nelle città come tesorieri, contabili o ufficiali pagatori e intermediari finanziari lascia intendere che fosse prassi comune servirsi di questo tipo di subalterni anche nell’ambito dell’amministrazione finanziaria di colonie e municipi. Inoltre, in alcune città dell'Italia centro- meridionale sono noti schiavi pubblici coinvolti in attività di carattere economico legate all'istituzione alimentaria promossa a partire dal 101 d.C. dall'imperatore Traiano a favore di fanciulle e fanciulli. Non poche che sono inoltre le attestazioni di servi publici tabularii impiegati cioè negli archivi cittadini, con mansioni probabilmente legate sia alla redazione di atti pubblici sia alla conservazione degli stessi, come avveniva anche a Roma. Inoltre, doveva essere abbastanza comune nelle città italiane l’uso di servi publici come guardiani, o in qualche modo gestori, di edifici e spazi pubblici, come terme, templi, mercati, granari, giardini, boschi e pascoli. Obblighi delle città nei confronti dei servi publici Nei confronti dei propri schiavi, le città avevano una serie di obblighi che includevano la fornitura di vitto alloggio e vestiario ed era compito dei magistrati cittadini l'assegnazione servi publici di spazi a uso abitativo. Ai servi pubblici al servizio di colonie e municipi veniva probabilmente ho risposto un salario. Questa pratica è attestata sicuramente per alcuni centri dell’odierna Turchia ma non è da escludere che ciò avvenisse anche in altre città dell’impero, tra cui quelle italiche. Infine, a tutti gli schiavi pubblici, come a Roma, anche a quelli delle città, era concesso il diritto di lasciare in eredità metà del denaro eventualmente posseduto. Manomissione dei servi publici Nelle città italiche e provinciali la manomissione degli schiavi pubblici era alquanto diffusa. A testimoniare la prassi giuridica obbligatoria per la liberazione dei servi publici è ancora una volta la legge municipale di Irni. spettava al sommo magistrato il compito di sottoporre la proposta di manomissione di uno schiavo pubblico al consiglio dei decurioni. Toccava poi all'assemblea valutare la richiesta del magistrato ed eventualmente approvarla. Dovere dei decurioni era anche quello di stabilire l'ammontare della somma che lo schiavo pubblico era tenuto a versare nella cassa cittadina in cambio della sua manomissione; solo nel momento in cui questi avesse provveduto a questo pagamento, il magistrato avrebbe potuto liberare lo schiavo pubblico, che sarebbe diventato un libero cittadino del municipio. I liberti publici erano vincolati alla città dai medesimi obblighi che legavano i liberti privati ai loro patroni: dovevano dunque dimostrare il rispetto nei confronti della città da cui erano stati liberati e fornire prestazioni lavorative. Dal momento che lo statuto del municipio ispanico si basa su modelli legislativi italici di età augustea, è probabile che il medesimo regolamento venisse applicato anche in Italia fin dall’inizio del principato. Diverse fonti epigrafiche testimoniano la permanenza degli schiavi pubblici al servizio dell’amministrazione cittadina anche dopo la loro liberazione. Si può riconoscere in questo fenomeno l’esito dell’espletamento delle operae richieste dalle città ai propri liberti al momento della manomissione. 2.2 I sacerdozi cittadini, il culto imperiale e gli Augustales Eccezion fatta per le colonie di antichissima fondazione, che a lungo mantennero i sacerdozi e i culti della tradizione latina, in generale nelle città dell'Italia in epoca imperiale i sacerdoti e gli amministratori del culto furono mutuati dal modello di Roma, pur essendone inferiori nel numero. I collegi religiosi regolarmente attestati nelle comunità italiche in epoca imperiale sono i pontifices e gli augures. Il sovrintendente dei pontefici nelle città dell'Italia non si chiamava pontifex maximus nemmeno prima del 12 a.C. quando, con la morte di Lepido, tale titolo divenne una prerogativa dell'imperatore. Dalla legge di Urso si apprende che il collegio dei pontifices è quello degli augures erano composti da tre membri ciascuno. Per diventare pontefice o augure era necessario ottemperare ad alcune caratteristiche: essere nati liberi ed essere coloni o municipes della città (cioè avere l'origo nella comunità). È molto probabile che nel corso del I secolo d.C. anche gli incolae avessero potuto progressivamente ambire ai sacerdozi. Pontefici e auguri, esattamente come i decurioni, potevano possedere il domicilio nel centro cittadino o impegnarsi ad ottenerlo nei cinque anni successivi all'assunzione della carica, che era probabilmente a vita; se ciò non avveniva, i duoviri o quattuorviri della città erano autorizzati a espellerli dal collegio. Pontefici e auguri dovevano essere illibati; non era previsto dalla legge nessun limite di età, ma è probabile che vi accedessero perlopiù maggiorenni. I pontefici e gli auguri venivano eletti nei comizi come i magistrati. Nel caso in cui il numero dei membri del collegio fosse divenuto inferiore a tre si faceva ricorso alla cooptazione e i loro nomi erano incisi su tavole di legno o di bronzo. I pontefici e gli auguri godevano di determinati benefici: dall’esenzione del servizio militare e dai munera per loro stessi e per i figli, al diritto di partecipare agli spettacoli tra le fila dei decurioni. I pontefici municipali avevano compiti diversi rispetto agli omonimi urbani. Le loro azioni erano circoscritte alle decisioni dei decurioni e IIviri o IIIIviri iure dicundo limitandosi alla supervisione delle cerimonie religiose. Gli àuguri erano responsabili degli auspici e davano il loro responso dopo essere stati interpellati. Anche in ambito municipale era del resto uso prendere gli auspici al momento dell'assunzione di una magistratura. I magistri ad fana templa delubra erano responsabili dell'organizzazione pratica dei ludi circenses e dei sacrifici pubblici, inoltre sovrintendevano ai luoghi di culto della città. È probabile che gestissero il denaro pubblico assegnato ai templi nonché i rapporti con le ditte appaltatrici che fornivano il materiale necessario per l'esecuzione delle cerimonie e dei sacrifici. Il numero dei magistri non è specificato; probabilmente esso variava a seconda delle esigenze della città. Per le funzioni religiose I magistrati municipali potevano contare sull'aiuto di apparitores, haruspices e tibicines (suonatori di flauto), pagati con fondi provenienti dalle casse cittadine e schiavi pubblici. Oltre ai collegi pontificali e augurali, innumerivoli iscrizioni attestano l'esistenza di sacerdotes responsabili dei culti delle diverse divinità venerate nelle città. A differenza dei sacerdoti di Roma, quelli municipali non avevano una titolatura omogenea. Essa variava in base alle esigenze cultuali e alle tradizioni delle singole comunità. Per tale ragione il numero dei sacerdoti non fu mai fisso. Non è chiaro se i sacerdotes municipali, come a Roma, fossero incaricati a vita o per un solo anno. Il loro compito principale era sovraintendere alla regolare esecuzione dei sacrifici, per la quale era necessario preparare per tempo il materiale e il personale necessario. Non esiguo è il numero di sacerdoti al culto imperiale, che emerse a partire dall’epoca di Augusto. Nella maggior parte dei casi a noi noti i responsabili del culto imperiale nelle città d’Italia erano i flamines e il loro corrispettivo femminile: le flaminicae. Flamines e flaminicae non erano organizzati in un collegio. Il nome fu mutuato dall’Urbe, per quanto essi svolgessero funzione diverse dai loro corrispondenti nella capitale, essendo principalmente responsabili del culto imperiale; dal canto loro, le flaminicae non erano semplicemente le mogli dei flamines, bensì sacerdotesse responsabili del culto di una donna appartenente alla famiglia imperiale. Il titolo era quasi sempre accompagnato dal nome dell'imperatore, divinizzato o meno, o di una donna della domus Augusta. Talvolta i flamines erano responsabili del culto di tutti gli augusti assieme. Non mancano infine nelle città italiche i flamines Romae et Augustorum, altamente attestati nelle province. I motivi per cui in una città si istituivano uno o più specifici sulla flamonia erano di diversa natura: il conferimento del titolo onorario di colonia, donazioni, costruzioni di opere pubbliche da parte dell’imperatore o di uno dei membri della casa imperiale. Il numero di questi sacerdoti in una città non era fisso, esso dipendeva dalle capacità economiche delle singole comunità. Una volta entrati in carica questi sacerdoti dovevano versare la summa honoraria. Come dai magistrati, dai collegi religiosi e dagli altri sacerdotes, anche dai flamines e dalle flaminicae ci si aspettavano doni e un significativo impegno economico per l'organizzazione dei sacra e per la realizzazione di opere pubbliche. come le altre cerimonie religiose, anche quelle dedicate al culto Imperiale erano amministrate dai magistrati locali e dai decurioni. Non si sa esattamente quali fossero i compiti dei flamines e delle flaminicae ma possiamo immaginare che questi, si occupassero di celebrare il compleanno, il dies imperii, le imprese belliche, l'assunzione della toga virile, l'adozione e il dies consecrationis degli imperatori e delle Auguste defunte. Nel caso di quest’ultime, al compleanno si aggiungeva la celebrazione dell’anniversario del matrimonio e la nascita dei figli. In Italia sono attestati anche flamines e flaminicae che non si occupavano del culto imperiale, bensì di divinità locali. Un numero elevatissimo di iscrizioni attesta l'esistenza nelle città dell'Italia e dell'Occidente eomano di augustales. Gli augustales, come si evince dal nome, erano dediti al culto di Augusto e quindi degli altri principi, ed erano organizzati in un collegio sviluppatosi fino ad essere chiamato ordo, come attestato da alcune iscrizioni databili al II secolo d.C. In età Imperiale, a quelle città che avessero sperimentato situazione di difficoltà economica o amministrativa era fornita la facoltà di rivolgersi all’imperatore per chiedere l’intervento di commissari straordinari, scelte appositamente per tali evenienze: i cosìddetti curatores rei publicae o curatores civitatis, nominati direttamente dall'imperatore. L'invio di un curator rei publicae non prevedeva l'interruzione della normale prassi amministrativa di una città: questi aveva infatti il compito di risolvere le criticità manifestatesi, vigilando sulle attività di ordinaria amministrazione e correggendo eventuali pratiche scorrette. Il posto di curator rei publicae non aveva una durata fissa: dipendeva dalle necessità. Fino al III secolo d.C. almeno, la carica non era sicuramente sottoposta al principio dell’annualità. Non sembra inoltre che la carica richiedesse l’obbligo di residenza nella città interessate dal provvedimento, tanto che in diversi casi un curator rei publicae ricopriva l’incarico in più centri nello stesso tempo generalmente vicini tra loro. a) Sviluppo storico della curatela cittadina L’assenza di testimonianze relativa ai curatores rei publicae anteriori all’inizio del II secolo d.C. sembra suggerire che tale istituto venne introdotto sotto il principato di Traiano. Fu del resto tra la fine del I e l’inizio del II secolo d.C. che vennero promulgati diversi provvedimenti imperiali volti a tutelare e accrescere i patrimoni cittadini, in quell’epoca evidentemente insofferenza. Fino alla metà del II secolo d.C., a essere nominati curatores rei publicae erano generalmente membri dell’élite cittadina, vale a dire ex magistrati locali, talvolta appartenente all'ordine equestre. Fu probabilmente l'imperatore Marco Aurelio a incentivare la nomina dei senatori come curatores rei publicae: in effetti, anche le fonti epigrafiche testimoniano una presenza preponderante gli esponenti dell'ordine senatorio rispetto a membri delle élites cittadine a partire dalla metà del II secolo d.C. Ciò è spiegabile in due modi: da un lato, i ceti dirigenti di comunità in crisi economica trovavano conveniente poter beneficiare della collaborazione di individui di un certo rilievo, che spesso venivano anche scelti come patroni; dall’altro, agli esponenti dell’aristocrazia senatoria la carica di curator rei publicae assicurava la possibilità di instaurare legami politici ed economici al di fuori di Roma. Tra la fine del III e l'inizio del IV secolo d.C., probabilmente in relazione alle riforme amministrative di Diocleziano, si assistette un'inversione di tendenza: le fonti epigrafiche testimoniano infatti un incremento dei membri delle élites cittadine tra le file dei curatores rei publicae a fronte di una netta diminuzione degli esponenti di rango senatorio. b) Compiti dei curatores rei publicae Le competenze dei curatores rei publicae riguardavano prevalentemente materie di carattere economico. Dietro all'intervento di un curator rei publicae, esisteva un obiettivo condiviso sia dell'autorità imperiale sia dell'amministrazione locale, vale a dire quello di raggiungere una migliore e più efficiente gestione delle risorse finanziarie cittadine. Compito del curator rei publicae era per esempio quello di ripristinare la proprietà pubblica di terreni illecitamente concessi a privati, anche qualora questi ultimi fossero stati in buona fede. Poteva trattarsi di terreni lasciati all’uso collettivo che erano stati occupati abusivamente, ma anche di aree temporaneamente concesse in locazione a privati, per le quali forse non era stato versato il canone annuale. Ai curatores rei publicae spettava anche il controllo sul patrimonio immobiliare. Una legge del II secolo d.C. obbligava infatti i proprietari di edifici pericolanti a ristrutturarli: nel caso in cui tale restauro fosse stato intrapreso a spese pubbliche e il proprietario non avesse rimborsato il denaro versato con gli interessi e nei tempi previsti, la città avrebbe potuto vendere tali immobili e recuperare la spesa. I curatores rei publicae dovevano inoltre garantire il corretto uso del denaro destinato all’approvvigionamento di grano: esso non poteva infatti essere destinato ad altre voci di spesa, per esempio nemmeno alla costruzione di edifici di pubblica utilità. c) Rango sociale dei curatores rei publicae Potevano essere nominati curatores rei publicae sia membri delle élites cittadine sia esponenti del rango senatorio. Nel caso di curatores rei publicae provenienti dalle élites cittadine, si trattava generalmente di personaggi eminenti che avevano ricoperto magistrature locali e/o il decurionato in città vicine a quelle alle quali erano stati destinati; molti avevano anche raggiunto il rango equestre. Per quanto riguarda i curatores rei publicae di rango senatorio, invece, la mansione veniva assunta come primo o secondo incarico da individui che erano già stati pretori. Dal momento che poteva essere ricoperta tanto da cavalieri quanto da senatori, la carica di curator rei publicae non entrò mai a fare ufficialmente parte né del cursus honorum equestre né di quello senatorio.
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