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Farinelli F., Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo. Torino: Einaudi, 2003, Sintesi del corso di Geografia

Riassunto completo di Farinelli F., Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo. Torino: Einaudi, 2003

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 03/08/2022

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Scarica Farinelli F., Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo. Torino: Einaudi, 2003 e più Sintesi del corso in PDF di Geografia solo su Docsity! FRANCO FARINELLI – GEOGRAFIA. UN’INTRODUZIONE AI MODELLI DEL MONDO 0. CHIUDERE UN OCCHIO, SQUADRARE UN FOGLIO: LA NATURA DELLO SPAZIO LOGICO Per essere il mondo, i fatti devono essere nello “spazio logico”, ovvero nella rappresentazione cartografica, nella mappa. Da piccoli, nessuno ci ha mai spiegato che ogni volta che squadriamo un foglio con riga e compasso torniamo con Ulisse ad accecare Polifemo, a ridurre il mondo a spazio. Polifemo rappresenta il mondo prima di ogni ragione, il potere basato sulla pura forza fisica: questo mondo coincide con il globo, con l'enorme e pesante masso che sbarra l'ingresso della grotta e impedisce ai greci di tornare alla libertà. Quando essi vedranno la luce niente sarà più come prima, poiché tra loro e il mondo vi sarà qualcosa che prima non c'era: la Terra. Guarda caso, l’aggressione a Polifemo viene sferrata soltanto dopo che il gigante, ebbro di vino e di carne umana, si è assopito al suolo, cosicché la sua mole verticale è diventata estensione orizzontale. Nell’azione vengono così in contatto due assi: quella del corpo steso a terra e il palo sorretto dalla ciurma di Ulisse. Essi sono scaglionati lungo il palo a intervalli regolari, costituendo una vera e propria scala vivente, archetipo di quella metrica o grafica che distingue un semplice disegno da una rappresentazione cartografica (la quale, come sappiamo, si basa appunto su una scala metrica). Nell'insieme, il corpo e il palo sono due semi diagonali a squadra, incentrate sul punto di incontro alle loro estremità: per spingere al meglio il legno nell'occhio è necessario un angolo d'una certa ampiezza, che sembra essere di circa 90°. Ed è proprio perché l’occhio deve servire da centro che Polifemo è un ciclope, cioè un essere dall’occhio circolare, come se il suo destino fosse già stato scritto a causa della sua configurazione fisica. Il tronco perfora l’occhio e ogni profondità viene cancellata, di quello che era un globo resta soltanto una piatta distesa. Ma quanto è lungo il tronco di ulivo? Ulisse comanda che sia tagliato per la lunghezza di due braccia ben stese, rigide e dritte il più possibile, a prefigurazione della sintassi rettilinea (l’esatto contrario di quella sferica). Questo passaggio è decisivo perché ci consente di sviluppare le due rette, del corpo e del tronco, nelle due diagonali che tracciamo quando squadriamo un foglio. Allo stesso modo, questo passaggio ci permette di comprendere che cos'è davvero il compasso: tagliare un tronco per la lunghezza di due braccia implica un intervento della simmetria tra destra e sinistra propria del corpo umano. Questa simmetria governa il prolungamento in vere e proprie diagonali delle semi-diagonali originarie (le braccia), mentre il centro resta fisso e diventa l’incrocio di quattro semirette, la seconda coppia delle quali è l’immagine speculare della prima e va a occupare l’altra metà del foglio. Dopodiché, chi disegna lascia riga e matita (che sono due diverse versioni del palo d'ulivo) e apre il compasso, cioè le due braccia di Ulisse, ciascuna dotata di una delle due funzioni del tronco d’ulivo: pungere e scrivere. Il mondo si è trasformato in spazio, il globo in una rappresentazione cartografica. 1. I DUE NOMI DELLA TERRA. Attraverso una prima definizione la geografia può essere definita come “la descrizione della Terra”; tuttavia, questa definizione comporta una triplice trasformazione: il mondo viene ridotto alla Terra, la Terra alla sua superficie e quest'ultima a una tavola. Attraverso una seconda definizione, allora, il mondo può essere definito come “il complesso delle relazioni (sociali, economiche, politiche, culturali) al cui interno si svolge la vita umana”. Esso appare come una gerarchia, un complesso di relazioni di potere e di rapporti di autorità. Per quanto riguarda invece la definizione di Terra ci sono vari punti di vista. Strabone descrive l'ecumene, cioè il mondo così com'è conosciuto ed abitato, descrive solo ciò che conosce e per il quale possiede il linguaggio (nel suo caso il mondo conosciuto coincideva con le terre attorno al Mar Mediterraneo, al Mar Nero e al Mar Rosso). Carl Ritter descrive, all’inizio dell’Ottocento, la terra come “la casa dell’educazione dell’umanità”. Per lui le forme della superficie terrestre (acque, monti, deserti, pianure) fanno parte di un vero e proprio progetto attraverso il quale Dio indirizza la storia degli uomini lungo il cammino della redenzione verso la salvezza. In particolare, distingue tra una dimensione geografica e una dimensione fisica: la prima è costituita dalla larghezza e dalla 1 lunghezza, dunque corrisponde alle pianure; la seconda si basa sulla profondità e sull’altezza e coincide quindi con le depressioni e i rilievi (acque e monti). Le relazioni diverse tra queste dimensioni costituiscono vaie regioni, le quali vanno a comporre la terra. Nonostante adotti una prospettiva religiosa, egli è il fondatore della geografia moderna e definisce la geografia “Erdkunde”, ovvero “conoscenza storico-critica della terra”: e spiega nel primo dei suoi 19 volumi che ogni opera scientifica dipende da un punto di controllo ideale, ovvero si regge su una scelta di valori puramente soggettiva e non scientifica, perché prima di essere scienziati si è uomini che vivono in società. È quello che per Ritter corrisponde al punto di vista umano. Ancora oggi noi guardiamo la Terra come Ritter ci ha insegnato a fare, come un insieme di regioni ognuna caratterizzata da un complesso di relazioni tra dimensione geografica e dimensione fisica. In generale consideriamo d’ora in poi la Terra come la base materiale, e perciò visibile, del mondo. Si può inoltre dire che la Terra ha 2 nomi: Gé, ovvero Gaia (in latino), riferito alla Terra che brilla e splende alla luce; Ctòn (il primo nome con cui i greci indicavano la terra), che significa sotterraneo, cavernoso, “ctonico”, un nome che rimbomba così come l’ambito cui si riferisce. 2. CHE COS'È LA GEOGRAFIA E CHI (E CHE COSA) È DIONISO Tra Gé e Ctòn c'è un'opposizione sistematica: Gè si riferisce alla Terra come qualcosa di evidente, chiaro, superficiale, esterno, orizzontale; Ctòn implica l'invisibilità, l'oscurità, l'interno, la profondità, la verticalità. La geografia è la descrizione della terra che corrispondente al primo modo; non si tratta dell’unico modo possibile e nemmeno il più antico di cui abbiamo memoria. Un mito ne narra l’origine, quello dell'uccisione di Dioniso (figlio di Zeus e Persefone) da parte dei Titani, figli di Ctòn. Essi avevano tinto di bianco i loro volti con polvere calcarea, e cospargono di gesso anche il viso del fanciullo divino che dorme. Quando questi, svegliatosi, si guarda allo specchio, non si riconosce. Proprio dell’attimo di stupore del dio, approfittano i Titani per ucciderlo e farlo in sette pezzi. Il mondo ha la forma di una palla, proprio come la testa di una persona, e il problema della conoscenza consiste nel disarticolarlo nei suoi elementi, nel suddividerlo in parti. Come il mito insegna, tutto inizia quando Dioniso, il dio della vita senza interruzioni e limiti, della vita intesa come inseparabile processo, lo specchio riflette il bianco velo di terra che ricopre il suo volto: riflette cioè il suo viso trasformato in una chiara superficie. Soltanto per effetto di tale trasformazione le spade dei Titani possono sezionare la totalità del processo vitale. In generale si può dire che: Dioniso è il mondo, il gesso è la terra ridotta a superficie (Gè), i setti pezzi sono i sette continenti che compongono il mondo e le lame che hanno tagliato nei vari pezzi Dioniso sono i contorni, i limiti, le linee che separano e definiscono le cose, le sezionano e le spartiscono, e rendono perciò possibile la nostra vita, la quale proprio in virtù di tali limitazioni è diversa da quella degli dei: insomma, sono i nostri concetti, più o meno affilati. Si dice infine che Apollo, dio della misura e fratello di Dioniso, ricostituirà il suo corpo per volere di Zeus, appoggiandolo su una tavola, un altare, una superficie per rimetterne insieme le membra: l’altare è la tavola che impone l’orizzontalità e ricompone l’intero fatto a pezzi. Strabone è molto chiaro, a partire da Omero fino ad Aristotele, tutti coloro che hanno scritto prima di essere filosofi erano anche geografi. La filosofia è uno sviluppo della geografia, nasce da essa e da essa assume i modelli e le figure del pensiero. 3. L'ISOLARIO E L'ATLANTE, IL LUOGO E LO SPAZIO La tavola non accoglie solo quel che resta del globo, ma lo modifica anche in maniera decisiva, cambiando il modo in cui noi esseri umani entriamo in relazione con esso. Sulla tavola i pezzi restano tali ma costituiscono anche un’unità: ciò è possibile con le linee che solo sulla tavola sono presenti, che distinguono i pezzi e allo stesso tempo li uniscono. L’obiettivo è ricomporre il globo unendo insieme questi pezzi secondo il modello originario, anche se questo non si potrà mai più raggiungere, perché la natura e il funzionamento del globo risultano radicalmente modificati. Secondo il mito, inoltre, Dioniso mise incinta Arianna, e da Arianna nacque Dioniso: si parla nei miti di ricorsività, ovvero le cose che stanno una dentro l’altra, le cose si annidano dentro altre cose. Come nel mito, le cose 2 non sono. Solo verso la fine dei suoi giorni Colombo sarà colto dal sospetto che la terra toccata non sia il Catai di Marco Polo ma un altro mondo, un nuovo mondo. Ciò che commuove è lo sforzo di Colombo per far coincidere quel che vede con i tratti dipinti sulla carta che porta con sé, cui crede ciecamente. In questo mondo, le cose non durano, ma sono estese: “si estendono lo spazio di venti giorni…”. Lo spazio, in questo caso, significa l’intervallo tra un nodo e l’altro del reticolo dei meridiani e dei paralleli, suppone perciò la proiezione e dunque la carta, non il globo. L'effetto dell'impresa di Colombo non fu quindi quella di rendere sferica l'immagine della Terra che prima si supponeva piatta, ma al contrario di trasformarla da sferica a una gigantesca tavola. 8. IL DENTE DEL PESCECANE E IL CENTRO DEL LABIRINTO Dal mito si esce solo con la proiezione, cioè con lo spazio che trasforma qualcosa che non riusciamo a definire in qualcosa di cui invece controlliamo la natura e l'entità. Apollo, ricomponendo i pezzi del fratello sulla tavola, è costretto ad agire secondo quello che la tavola dell’altare gli detta, secondo la logica cartografica. Egli dispone i pezzi l’uno accanto all’altro, seguendo un ordine che è quello della distanza tra essi, mentre in origine erano connessi organicamente. Proprio al riguardo si determina la differenza tra geografia e geologia. Quest’ultima, che studia la struttura e l’evoluzione della crosta terrestre, nasce autonomizzandosi dalla prima. Essa si autonomizza quando, appena passata la metà del ‘600, lo scienziato danese Stenone (Nicola Steno) si pone una domanda che i geografi non possono più porsi: come può, a Malta, un dente di pescecane trovarsi dentro uno strato di roccia? La questione è vietata ai geografi perché, trattandosi di un fossile, presuppone la dimensione sotterranea (ctonica) e soprattutto perché presuppone la ricorsività. Stenone cerca di spiegare il fenomeno sostenendo che si tratti di un processo naturale per il quale un corpo solito si trova racchiuso all’interno di un altro corpo solido. Al contrario, tra 1500 e 1600 ogni modello ricorsivo sparisce definitivamente dall'immagine spaziale cui la geografia riduce il mondo, e mappe sempre più precise e matematicamente affidabili si sostituiscono ad esso. Sulle mappe le cose sono ordinate secondo scala metrica, quindi non possono mai stare l'una dentro l'altra, ma solo vicino o lontano dall'altra. Ed è attraverso queste immagini che la verità si trasforma in scienza, il cui rigore deriva dalla rigidità del corpo di Dioniso steso sulla tavola. Resta da mostrare come sia la logica della tavola a dettare legge. A ciò basta la figura del labirinto. L'origine del labirinto risulta dallo schiacciamento al suolo di ogni struttura verticale i cui vari livelli corrispondono ad un sistema gerarchico di potere. Insomma, il labirinto è il prodotto della trasformazione del mondo in Terra: in questo modo, i diversi piani, ovvero i diversi livelli di potere, si mutano in altrettante dimensioni orizzontali ricorsivamente disposte l’una dentro l’altra, ed è proprio tale ricorsività ad impedire che si possa parlare di spazio. Sarà Teseo a convertire il labirinto in spazio, misurandolo con il filo di Arianna e trovandone il centro. Non si può rappresentare il labirinto, si può solo pensarlo: rappresentarlo in qualsiasi forma significa trasformarlo nel suo esatto contrario, in qualcosa dotato di centro (scontrandosi con la cultura occidentale). Rappresentazione e pensiero, nel caso del labirinto, risultano inconciliabili. Allora in questo senso anche la superficie del globo è un labirinto, poiché, a seconda di come si giri la sfera, tutti i suoi punti possono essere il centro. 9. LA LINEA DEL DESIDERIO Come il centro, anche le linee diritte derivano dall’esistenza della tavola. All’inizio del ‘900 Jean Perrin dimostra chiaramente la differenza tra rappresentazione cartografica e realtà. Sulla rappresentazione cartografica ogni linea curva possiede una sua tangente. Si consideri un qualsiasi tratto di costa. Per ogni suo punto si potrebbe trovare, sulla carta, una tangente. Nella realtà invece, da qualsiasi distanza si guardi un litorale è difficile fissare per un punto una qualsivoglia tangente: a misura che ci si avvicina, quella che all’inizio sembra la tangente si trasforma in una retta perpendicolare od obliqua rispetto al profilo, perché in esso scopriamo a ogni passo nuove irregolarità. Ma già lo sappiamo: come la prospettiva, l’immagine cartografica, che è il prodotto della proiezione, funziona solo perché immobilizza il 5 soggetto della conoscenza. Se il piede segue l’occhio e si avvicina alla costa, la tangente non è più tale. Questo accade perché basta un solo passo e la costa, nel punto per cui passava l’immaginaria tangente, a differenza di prima non appare più diritta, perché in natura non esistono linee rette. D’altronde: perché consideriamo la costa come una linea, e non una fascia come in realtà è? Perché scambiamo la realtà con la sua immagine cartografica. Le linee diritte esistono sulla faccia della Terra e sono proprio esse la prova che quest’ultima è la copia della carta. Un esempio è quello del meridiano di Parigi, costruito nel 1669 in Francia dall’abate Picard: per tutta la lunghezza della Francia, veniva tracciata una gigantesca retta sul terreno per calcolare con precisione il raggio della sfera terrestre. In realtà, la sua vera funzione era quella di fungere da base e da modello per la rettificazione di tutte le vie francesi. Per la prima volta una linea dell'astratto reticolo geografico diventava materiale, la Terra viene modellata secondo la forma del suo disegno, diveniva la copia della propria copia. Nel Settecento, ciò avverrà in quasi tutte le strade di tutta Europa; nell’Ottocento sorgeranno le strade ferrate, più diritte di tutti i cammini esistenti; nel Novecento nasceranno le autostrade, diritte e veloci, che permettono di evitare il passaggio attraverso le città. Nel 1960 Buchanan chiamerà “linee di desiderio” i tracciati rettilinei che ogni automobilista si augura mentalmente per spostarsi da un punto all’altro di una metropoli; si tratta di linee ideali perché sono spesso possibili sul piano teorico ma non sul piano pratico, a causa dei divieti e dei sensi unici. Nella costruzione del territorio moderno, quindi, la linea retta che l’occhio segue nello sguardo prospettico diventa, da virtuale, concreta, per poi tornare virtuale nell’ultimo mezzo secolo, perché non più attuale. 10. L'IMMUTABILE METRO E L'ETERNO TRIANGOLO In passato, la geometria equivaleva alla civiltà: Vitruvio, il più celebre degli architetti dell’antica Roma, narra la storia di Aristippo, filosofo socratico, il quale naufragato sulla costa deserta dell’isola di Rodi, ignorando dove fosse, capì dalle figure geometriche tracciate sulla sabbia di essere capitato in un posto abitato da gente civile. Successivamente, secondo Serres, geometria significa che il metro (la misura) è la Terra; per lo stesso motivo, geografia significa che la scrittura (geometrica) è la Terra e la scrittura geometrica della Terra non è nient’altro che la sua rappresentazione cartografica. La misura diventa la Terra e viceversa la Terra diventa misura proprio con il meridiano di Francia. Nel 1791 l’Assemblea nazionale francese si rivolse all’Accademia delle scienze per individuare un’unità di misura universale, stabile e immutabile che valesse per l’intero globo, per tutta l’umanità (che riguardi quindi le persone che vivono nel presente e quelle che vivranno nel futuro). Insomma, bisognava usare ovunque lo stesso sistema di pesi e di misure. Si giunse ad individuare il metro, equivalente alla quarantamilionesima parte della circonferenza terrestre, calcolata a partire dal primo meridiano, ovvero quello che passa per Parigi. Si può quindi dire che i calcoli da cui il metro deriva consistono nella trasformazione dei valori locali in valori generali. I modelli euclidei, infatti, non sono serviti solo a descrivere il mondo, ma letteralmente a costruirlo, a configurarlo, diventando essi stessi realtà. E in generale si può dire che tutta la cartografia serva a trasformare tutto ciò che si può disegnare in ciò che si può toccare e non viceversa. Ma tutto ciò, in realtà, si deve al procedimento della triangolazione, l’unico in grado di assicurare l’esattezza e la precisione geometrica del disegno. Il triangolo, per esempio, non è solo una forma, ma un processo produttivo. 11. IL TRIANGOLO CARTOGRAFICO La triangolazione, che mette in atto la legge per la quale se si conoscono un lato e due angoli di un triangolo si possono facilmente derivare l'altro angolo e i restanti due lati, era un processo antichissimo noto già agli Egizi, ma il primo a servirsene fu Leon Battista Alberti (1450 circa). Si tratta di un fenomeno che permette sia di economizzare il tempo, sia di essere precisi nel risultato, sia di calcolare distanze e angoli altrimenti nel concreto impossibili a misurarsi. Attraverso triangoli adiacenti, costruiti cioè l’uno partendo dall’altro, era sufficiente un’unica base per reggere la rete necessaria a coprire un’intera regione. Ridurre il mondo a una serie di triangoli ha però un limite: ogni rete di triangoli è 6 autoreferenziale, ovvero è volta in una differente direzione, verso un diverso sistema di riferimento, ha una diversa continuità, un diverso isotropismo e una diversa omogeneità; insomma due distinte reti non risultano mai adiacenti tra loro. Accostare sulla stessa carta due reti riferite a contrade contigue voleva dire scoprire la loro irriducibilità. Nel `600 si iniziò allora ad utilizzare un metodo diverso: calcolare le distanze terrestri facendo riferimento alle distanze angolari tra le stelle ed i pianeti. Il sistema di corrispondenza divenne quindi quello dei corpi celesti, che essendo esterno alla Terra assicurava una precisione ancora maggiore e presentava il vantaggio di essere comune ad un intero emisfero e non più solo locale. Fu così possibile rappresentare cartograficamente regioni più ampie e proiettare sulla Terra un ordine identico a quello che definiva la percezione dei corpi celesti: l'ordine geometrico. Tale proiezione trasformò la Terra nel moderno territorio. L'importanza della triangolazione non si limitò alla costruzione dell'immagine cartografica del territorio, costituì anche un modello potentissimo ed efficace di conoscenza. 12. IL TRIANGOLO SEMIOTICO La triangolazione funziona attraverso la sostituzione della vista al passo, e proprio tale sostituzione fonda la forma moderna del passaggio dal simbolo al segno. Per i Greci, il simbolo era un oggetto spezzato in due metà e in possesso di due persone diverse che, incontrandosi e facendo combaciare i pezzi, si garantivano dell’identità dell’altro. Insomma, era un sistema di riconoscimento, e ogni frammento rappresentava la relazione con l’altra persona (amicizia, amore, conoscenza, …): il discendente di una famiglia che aveva dato ospitalità a qualcuno, recandosi successivamente nel paese del loro ospite, portava con sé il frammento che testimoniava del passato rapporto e gli assicurava a sua volta ospitalità da parte dei discendenti dell’ospite in questione. La vista del simbolo era l'insieme dei passi effettivamente compiuti dall'inizio della vicenda, i passi che aveva compiuto il viaggiatore più quelli del capostipite che aveva avviato, con il suo cammino, il legame. E soltanto perché la vista del simbolo rappresentava i vari passi, poteva sostituirli. Il segno era qualcosa che sta per qualcos'altro, che rimanda a qualcosa/qualcuno che è assente; quindi, presuppone una distanza (come il simbolo). La differenza tra i due sta nel fatto che nel segno la connessione tra espressione e significato è arbitraria, è esterna e formale. Il segno sostituisce quindi i passi senza più rappresentarli (perché viene a mancare tra la vista del segno e i passi ogni rapporto), per cui rende assolutamente superfluo il cammino del viaggiatore. Per i semiologi il mondo si compone di segni, e non a caso per sintetizzare il loro modello conoscitivo utilizzano un triangolo: al vertice superiore si fa corrispondere un significato qualsiasi; ai vertici inferiori si fa corrispondere il significante (la parola che esprime il significato in una determinata lingua) e il referente (oggetto l’oggetto che si ha davanti o tutti gli oggetti di quel tipo che esistono o esisteranno). Il primo può essere identificato come pensiero o referenza, il secondo come simbolo (la parola) e il terzo come referente (la cosa). Il rapporto tra significante e referente è indiretto, mentre quello tra questi due vertici e il terzo corrispondente al significato è diretto: per questo motivo la base del triangolo è disegnata con una linea tratteggiata, mentre i lati con una linea continua. Il triangolo semiotico si dispone esattamente secondo lo schema della triangolazione cartografica, perché anch'esso si fonda sull’opposizione tra la natura della relazione che collega gli estremi della base e quella che invece è propria del rapporto di ognuno di essi con il vertice superiore. Tuttavia, nella triangolazione la base era percorsa passo dopo passo, dunque la relazione tra le sue estremità era concreta e diretta, all’opposto di quanto accade nel triangolo semiotico. Questo semplicemente perché nei cinque secoli che intercorrono tra la prima triangolazione dell’Alberti e il primo triangolo semiotico la relazione visiva, cioè lo sguardo cartografico, diviene il prototipo della relazione diretta. 13. IL TRIANGOLO LOGICO Il vero obiettivo del triangolo semiotico era quello di eliminare dal linguaggio naturale che adoperiamo tutti i giorni l’ambiguità del rapporto tra la parola e la cosa, ma si tratta di un obiettivo impossibile poiché non tutti sono nomi propri, che significano in maniera diretta e non ambigua l’oggetto a cui si riferiscono, ma esistono anche nomi comuni. Ed è proprio per questo che hanno scelto la 7 sulla sua carta “Monte Somia”, e ancora oggi questo si legge sulle carte geografiche. In realtà, questo episodio non rappresenta ironicamente un errore, ma mette a nudo il normale meccanismo di ogni denominazione cartografica. E poiché senza rappresentazione cartografica non esiste nome proprio, tale meccanismo coincide con quello della denominazione in senso assoluto. Ogni denominazione è arbitraria, tanto che tutti i nomi propri scritti sulla carta sono il frutto di una sistematica falsificazione (come quella precedentemente citata). Questo accade perché ogni nome sulla carta è l’oggettivazione in un oggetto di una relazione che sussiste almeno fra due termini e che porta con sé almeno due culture: dare un unico nome risulta inevitabilmente fuorviante. Anche Ulisse assegna, in maniera del tutto arbitraria, come un cartografo, un nome a sé stesso per ingannare l'interlocutore Polifemo: dice di chiamarsi Nessuno, così quando Polifemo invoca aiuto perché Nessuno l’ha accecato, i suoi compagni giganti non accorrono, intendendo che nessuno stia minacciando il loro compagno. In questo caso si nota la superiorità della cultura scritta, quella di Ulisse, su quella semplicemente orale, quella di Nessuno e dei suoi compagni: l’equivoco si basa, infatti, sul fatto che nel testo di Omero, le due parole suonano identiche ma si scrivono in maniera diversa. Il trucco funziona proprio perché Ulisse abolisce ogni distanza presente tra le due parole; allo stesso modo, annullando la distanza tra sé stesso e il gigante, tramite il tronco d’ulivo, Ulisse riuscirà ad accecare Polifemo. E ancora, ogni distanza viene annullata quando il topografo punta il dito verso la montagna. Nel dito puntato, secondo Peirce, consiste il primo esempio della relazione indicale segno-oggetto, che permette di catturare l’attenzione dello sguardo dell’interlocutore e di condurlo ad arrestarsi in corrispondenza dell’oggetto prescelto. Questo gesto fonda lo spazio. 18. IL PAESAGGIO E L'ICONA Per il contadino il monte Somnia (così denominato, per caso, da lui) era l’unico che conosceva, poiché era l’unico presente nel suo luogo, nell’ambito al cui interno lavorava e che costituiva tutto il suo mondo; non essendoci per lui un’altra montagna, e quindi non avendo bisogno di distinguere tra più monti, il contadino non aveva necessità di dargli un nome proprio, perché quella era la montagna, l’unica montagna. Al contrario, per il topografo l’unico problema è costruire la carta geografica e dare quindi un nome a quella montagna, per distinguerla da tutti gli altri monti esistenti. Cosgrove direbbe che il contadino è un insider, ovvero un abitante di un luogo, per cui ciò che vede corrisponde all’ambito in cui egli vive; non ha bisogno di puntare nessun indice a indicare qualcosa che non conosce. Per lui il paesaggio non esiste, perché chi abita un luogo e non conosce altro non può avere coscienza di alcuna diversità, e allo stesso modo non esistono neanche i nomi delle cose. Il topografo al contrario è un outsider in quanto arriva dall'esterno e cerca di ridurre a quel che già conosce ciò che vede per la prima volta. A differenza del luogo quindi, il paesaggio non si compone di cose, ma è solo una maniera di vedere e rappresentarsi le cose del mondo. E’ il modo, la forma con cui la modernità concepisce il mondo sotto forma di luogo, una rappresentazione che obbedisce ad una relazione di tipo iconico, ed esclude per principio sia il livello dell'indice che quello del simbolo. Il paesaggio è un'immagine mentale, perché svanisce appena il cartografo si mette al lavoro, ma senza il quale nessuna moderna immagine cartografica potrebbe costruirsi. Perché un paesaggio esista sono necessarie almeno tre cose: un soggetto che guarda, qualcosa da guardare e il massimo orizzonte possibile, ovvero un'altura che funzioni da punto di vantaggio. Il paesaggio presuppone quindi la modernità, perché fino alla sua nascita nessuno aveva dato importanza ai rilievi e alle alture né tantomeno qualcuno aveva mai pensato di misurare l’altezza delle montagne; inoltre, è grazie ad esso che queste ultime vengono inserite nelle carte geografiche del mondo e considerate parte dell’ecumene (cosa che avviene soltanto tra il ‘700 e l’800). Il soggetto del paesaggio, ovvero l’uomo che guarda dall’alto il panorama sottostante, è un soggetto storicamente determinato. In geografia esso coincide con la nascita della società civile, dell’opinione pubblica che si oppone in Germania al mondo aristocratico-feudale. 10 19. IL DONO DI HUMBOLDT: IL CONCETTO DI PAESAGGIO Alexander von Humboldt è il primo ad introdurre il concetto di paesaggio nell'analisi geografica. Egli distingue tre stadi della conoscenza, tre tappe della relazione conoscitiva tra l’uomo e il suo ambiente: • 1. Suggestione: sentimento primigenio e originario che sorge nell'animo umano al cospetto della grandiosità e della bellezza della natura. La sua forma conoscitiva è quella del paesaggio, che corrisponde al mondo inteso come armonica totalità di tipo estetico-sentimentale, cui ogni analisi razionale è ancora estranea. Riguarda quindi solo la facoltà psichica del soggetto. La suggestione è chiamata Eindrunk: “drunk” sta per impressione che investe la sensibilità del soggetto; “ein” sta a significare sia l’individualità, la singolarità del soggetto che guarda e che dà avvio al processo della conoscenza sia la capacità del soggetto di ridurre ad unità il cumulo delle impressioni, in maniera tale che almeno all’inizio l’ambito conoscitivo si configuri come un tutto, una totalità predisposta alla rivelazione dell’ordine sottostante i singoli fenomeni. • 2. Esame: il suo compito è quello di disarticolare la totalità sentimentale e avviarne la traduzione in termini scientifici. Non c'è più paesaggio, né sentimento, né impressione, né totalità, ma solo la fredda e razionale dissezione delle singole componenti: lo stadio intermedio è quello puramente scientifico. L’esame è chiamato Einsicht, dove “ein” sta in questo caso a significare “vista”, ovvero strettamente connesso all’elaborazione razionale; inoltre, in questo caso l’unicità espressa dal prefisso non si riferisce al soggetto ma all’oggetto, poiché ci si concentra solo su di uno degli elementi presenti. • 3. Totalità: costituita dallo stare insieme in un rapporto di mutua interdipendenza di tutti gli elementi in precedenza analizzati. La totalità originaria viene trasformata e ripristinata, non più sul piano estetico e dell’impressione, ma sul piano scientifico. Lo sviluppo di ogni conoscenza altro non è, per Humboldt, che la traduzione in termini scientifici di un’impressione iniziale, quella espressa appunto dal paesaggio, che non è assolutamente scientifica, ma senza la quale la scienza non esisterebbe. 20. IL PAESAGGIO È L'ICONA La triplice articolazione di Humboldt e la triplice articolazione di Peirce hanno evidentemente delle analogie, ma nel caso del primo livello vi è una vera e propria coincidenza tra il paesaggio e l’icona. È proprio su di essa che Humboldt si baserà per raggiungere il suo obiettivo: strappare la borghesia tedesca dai suoi “giochi poetici” per dedicarla alla conoscenza scientifica, grazie alla quale potrà garantirsi il controllo del mondo. Ma tutto partiva dal trasformare l’uomo di gusto in un osservatore della natura. Si trattava di condurre il protagonista della dimensione pubblica letteraria, il conoscitore dell’opera d’arte verso una visione del mondo che potesse svilupparsi in comprensione scientifica del mondo stesso, e che non si arrestasse più allo stadio della semplice contemplazione. Bisognava trasformare la cultura borghese, mutare il sapere pittorico e poetico in scienza della natura atta al dominio e non alla semplice e pura rappresentazione. La sua opera riuscirà nel suo intento: convincerà allo studio del mondo fisico l'intera borghesia europea e muterà il concetto di paesaggio da estetico in scientifico, caricandolo di un significato inedito e rivoluzionario. E il paesaggio, che tutti i borghesi conoscono perché conoscono i quadri e le loro rappresentazioni artistiche, è stato lo strumento di tale trasformazione. 21. LO SGUARDO DI HUMBOLDT E L'ASTUZIA DEL PITTORESCO Humboldt si rivolse al mondo tropicale dell’America, impiegando tutta la cospicua eredità materna nell’ultimo grande viaggio privato di esplorazione scientifica. Dopo di che, l’organizzazione della perlustrazione del globo divenne questione di Stato. In America egli ha dipinto tutto e scritto tutto. Quella di Humboldt si può definire una vera e propria rivoluzione dello sguardo, che mette a frutto la lezione dei “viaggiatori pittoreschi”, i quali alla vigilia della Rivoluzione francese erano profondamente attratti dai vulcani mediterranei e dalle rovine e dalle bellezze italiane. L’immagine pittoresca è un'immagine in cui il colpo d'occhio fa un grande effetto, ma allo stesso tempo gli oggetti si distinguono con facilità, a costo di ridurre al minimo l'ingombro della presenza umana. 11 Quest'ultima serve solo a rendere apprezzabile, per contrasto, le smisurate dimensioni della scena naturale che fa da sfondo: cioè che è davvero importante notare nei quadri sono le forme animali e vegetali, le morfologie della terra e così via. Le incisioni a colori, inserite nel suo atlante dell'America, furono lo strumento più sottile della strategia humboldtiana, perché proprio con esse (in cui canone pittoresco e illustrazione scientifica fanno un tutt’uno) per Humboldt il paesaggio coincide. 22. UNA "NEBULOSA LONTANANZA" Goethe, al contrario di Humboldt, non ammetterà mai l’uso di strumenti che servano d’aiuto nell’indagine della natura, e sosterrà che a quest’ultima basta l’occhio così com’è, senza il ricorso ad alcuna protesi. I due concorderanno tuttavia su un punto: sulla presenza, in ogni veduta di paesaggio, di una certa bruma all'orizzonte e di una progressiva perdita di chiarezza e limpidità dell'aria a mano a mano che la distanza aumenta. E non si tratta di un semplice fenomeno atmosferico, causato da particolari condizioni metereologiche, ma di un dato politico e culturale. Per Goethe l’orizzonte appare brumoso poiché l’artista è fortemente influenzato dai quadri dei paesaggisti che ha ammirato in Germania. Nel caso di Humboldt la questione è più complicata, perché quel che in Goethe è non intenzionale, obbedisce invece a un preciso progetto, segue il corso di una calcolata metafora. Per Humboldt, innanzitutto, il fascino dei paesi tropicali dipende dal fatto che in essi è del tutto assente il dispotico potere aristocratico feudale presente in patria. Tale potere è massimo in pianura e sparisce sui rilievi, per cui per Humboldt e tutti i suoi concittadini borghesi la montagna tedesca è la casa della libertà; è dalla vetta delle montagne che si può vedere che si manifesta la “nebulosa lontananza”, provocando un incanto pieno di mistero. Per Humboldt, come per Goethe, la bruma che in lontananza avvolge le cose è spia della dipendenza della descrizione letteraria dalla rappresentazione pittorica, ma anche molto di più. Essa è la metafora di ogni progetto politico-sociale: sempre all’orizzonte e mai raggiunto, e perciò indeterminato in lontananza. Da stadio della conoscenza, il paesaggio diventa un semplice insieme di oggetti e, poiché è l'unica forma di realtà accessibile al geografo, esso equivale alla realtà geografica stessa. Da stato d’animo e mappa cognitiva, che non si può né toccare né contare, il paesaggio diventa visibile ed esistente, alla portata della vista e del tatto del geografo: movente di tale repentino cambiamento fu la Prima guerra mondiale, strumento fu la macchina fotografica, mezzo che riduce a dato istantaneamente prodotto ciò che prima era il risultato di un processo soggettivamente fondato. In tal modo la coscienza della natura sociale della conoscenza subì lo stesso destino della bruma che la rappresentava: scomparve alla vista e cessò di esistere. 23. MONTAGNA E PIANURA La montagna è quindi il regno della libertà per Humboldt, poiché lì è assente il potere aristocratico-feudale. Essa è stata spesso un rifugio per oppressi, culture minoritarie, popoli esiliati e respinti all’esterno dell’organizzazione insediativa dominante che ha sempre interessato la pianura. Si pensi, per esempio, alla geografia culturale delle Isole britanniche: al suo interno l’elemento celtico, che prima dell’arrivo di Cesare occupava di fatto l’intero paese, risulta ancora oggi confinato sui rilievi, accuratamene evirato da qualunque conquistatore. Di fatto, l'opposizione pianura-montagna appartiene all'origine della cultura occidentale, e la supremazia di quella su questa è connessa al sorgere delle prime città: già per i Romani era fondamentale la distinzione tra ager (il pianeggiante ambito delle sedi stabili, della coltivazione e della cultura) e saltus (la scoscesa e disordinata massa del rilievo, regno dell’instabile pastorizia e dell’assenza di valori civili). Meno dell’8% dell’intera popolazione mondiale vive oggi al di sopra dei mille metri ed è raro trovare un esempio di sottomissione della pianura alle esigenze economiche della montagna. Il caso più esteso riguarda la pratica della transumanza, della migrazione stagionale di bestie e uomini dal monte al piano. Insomma, quando Humboldt invita gli oppressi alla libertà dei monti, in realtà inizia la depecorazione del vecchio continente, cioè la sottomissione dell’economia montana europea a quella di pianura: dunque in realtà la fine della stessa libertà delle montagne. Fino ad allora allo scarto della 12 in ogni caso, connessa com’è con il principio di causalità, non riguarda il paesaggio. Dalla geografia scompare così la precedenza del soggetto rispetto all’oggetto, la precedenza di un modello pittorico rispetto al paesaggio stesso, la precedenza dell’intenzionalità rispetto alla conoscenza e all’applicazione; ma, soprattutto, scompare ogni possibilità di concetti tipico-ideali nel senso assegnato da Max Weber. Come per Weber il “tipo ideale”, anche i “tipi di paesaggio del Biasutti” non possono mai essere rintracciati nella realtà empirica. Sono sintesi ottenute attraverso l’accentuazione di uno o più caratteri e il raggruppamento di altri che sono presenti in minima parte, per dare origine a uno schema con in quale la realtà deve essere comparata e misurata, allo scopo di illustrare specifici elementi significativi del suo contenuto. In realtà il carattere tipico-ideale dovrebbe valere al massimo per i singoli paesaggi, non per il concetto di paesaggio. Ma in quanto quelli discendono da questo, esso funziona da modello di ciò che il paesaggio deve essere secondo la convinzione dell'autore, cioè secondo un valore assunto come permanente. Esso implica cioè un giudizio valutativo, che nel caso di Biasutti è l’indipendenza del paesaggio da ogni schema o creazione preliminari. Il giudizio consisteste nell’implicita pretesa assenza di ogni pre-giudizio. Insomma, per Biasutti la geografia è scienza induttiva: procede solo dal particolare al generale. Essa non deriva da un presupposto, né da una deduzione; è inconsapevole e irriflessa. 29. LE FORME DEL PAESAGGIO Ridotti da modo di vedere a insieme di elementi, da senso del mondo a collezione di cose, da soggettiva proiezione a oggettivo complesso di forme, il paesaggio mostra subito i propri limiti. Gambi, nel metterli in evidenza, scrive: “Quel che non ha forma visibile plasma ed edifica quel che è invece visibile, sicché quest'ultimo, che corrisponde al paesaggio, è solo una conseguenza del primo. Perciò il concetto di paesaggio è insufficiente a indicare la realtà”. Gambi riprende così il discorso di Bloch, effettuato agli inizi degli anni ’30, che distingue tra due sistemi agrari in Francia: · openfield: impostato su campi aperti, privi di recinzione; diffusi nell'Europa centrale, derivano dalla rotazione collettiva delle colture tipica del Medioevo, in omaggio ai bisogni della comunità più che del singolo coltivatore; anche le abitazioni raggruppate insieme e mai sparse sui campi testimonia la prevalenza della logica della collettività su quella dell’individualità. · bocage: impostato su campi chiusi, contornati da muretti, staccionate, alberi; diffusi nella facciata atlantica dell'Europa; prevale la chiusura dei campi a segno dell’assenza di spirito comunitario e della solidarietà comunale; lo stile insediativo, organizzato secondo abitazioni isolate, conferma l’impronta individualistica. Gambi complica lo schema binario del Bloch, rendendolo più articolato e applicabile anche alle regioni che sono a meridione rispetto alla grande pianura continentale europea. Per esempio, nella zona mediterranea vi sono tre piani di coltivazione, uno sovrapposto all’altro: quello erbaceo, quello dell’arbusto (la vite) e quello dell’albero. La loro associazione dà luogo alle architetture campestri più sofisticate. A differenza dei tipi di paesaggio precedenti, quello che fa la differenza in questo caso non è l’assenza o la presenza di recinzioni, o la forma dei campi, ma la trama della fila di piante, la cui forma è espressione di una vera e propria struttura agraria. 30. PAESAGGI ANOMALI Questa struttura agraria è così originale che agli storici appare, ancora oggi, assolutamente anomala: essa è infatti in grado di associare tra loro tre piante che di fatto sono l’un l’altra antagoniste, triplicando il suolo agricolo. Se a ciò si aggiunge che dopo il raccolto sul campo pascolava il bestione, viene da domandarsi come mai per tanto tempo la coltivazione promiscua sia stata riguardata come estensiva, a dispetto delle intense procedure con cui essa riesce a utilizzare il terreno. La risposta consiste nell’origine continentale e non mediterranea dei modelli storiografici e geografici. Mentre in Inghilterra il capitalismo (a sostituzione del feudalesimo), originato da una pronunciata e generale industrializzazione, si verifica solo tra il 1600 e il 1700, nel nord Italia esso era presente sin dal Medioevo. Tuttavia, ad esso non si accompagna, come nelle Isole Britanniche, lo sviluppo della grande industria, se non dopo l’unificazione politica della penisola: i cinque secoli che intercorrono vengono definiti dagli storici 15 “inclassificabili”, “la più lunga fase di indecisione economica mai conosciuta da un paese occidentale”. E questi sono proprio i secoli della diffusione della coltura in filare: essa esprime l’indecisione dell’agricoltura italiana moderna, la sua via di mezzo, la sua soluzione equilibrata tra produzione per l’autoconsumo e produzione per il mercato. E proprio a tale terza via si deve quel che costituisce agli occhi dei visitatori stranieri il principale fascino e l’attrattiva del paesaggio italiano. L’anomalia della quale il paesaggio filare è espressione si fonda sul sistema della mezzadria. In base a quest’ultimo, il proprietario della terra e il capo di una famiglia colonica si accordavano per la messa a coltura di un podere e per spartirsi, all’incirca a metà, il raccolto: entrambe le famiglie avevano così soddisfatti i loro bisogni alimentari. E, proprio perché doveva “mantenere” due famiglie, il sistema della mezzadria ignorava le forme di specializzazione produttiva che più tardi si sono imposte e oggi sono normali (esattamente come il metodo filare). Soltanto quello che non veniva consumato dal duplice prelievo familiare raggiungeva il mercato, arrestandosi di norma a quello locale che un giorno alla settimana invadeva la piazza del paese. Non a caso, anche la popolazione era scarsa e i centri abitati di piccole dimensioni, poiché non era possibile alimentare con tale quantità di scorte di cibo una crescita demografica più sostenuta: esisteva, insomma, una reciproca interconnessione tra fatto urbano e fatto rurale. E proprio in questa interconnessione si scaglia l’essenza della piantata, tanto che la sua sparizione, ai giorni nostri già compiuta, avverte prima di tutto l’interruzione di tale legame, di tale secolare solidarietà. 31. I LIMITI DEL PAESAGGIO E L'ARTE DELL'ATTORE Secondo Gambi, il paesaggio come strumento conoscitivo ha dei limiti. Vi sono infatti dei fatti che concorrono alla costituzione delle realtà agricole, la cui riduzione in termini di paesaggio è impossibile: pur lasciando cospicue tracce in quel che si vede, questi fatti non possono venir dedotti in maniera significativa perché sono la conseguenza di quel che non si vede, cioè di strutture mentali o di istituzioni sociali. Per esempio: · i riflessi della vita religiosa sul disegno dei campi e delle maglie stradali, adeguati ai punti cardinali (per esempio l’impianto coloniale di via e canali secondo il modulo ortogonale dei romani ce non segue affatto il dato topografico); · i fatti psicologici, come la forza della tradizione e l'abitudine all'imitazione, che non di rado determinano la maniera di abitare o il tipo di pratiche agricole; · l’esistenza o meno del libero mercato, ovvero il conflitto tra le distribuzioni medievali con le terre comuni e il capitalismo basato sulla concorrenza e sull’iniziativa individuale; · la diversità dei costumi giuridici relativi alla proprietà familiare: i beni, alla morte del capofamiglia, in alcuni luoghi, spettano al primogenito, in altri vengono divisi tra tutti i discendenti. · influenza della città sul contado. Quel che del mondo si può rappresentare sulla carta, quel che è topograficamente rilevante, non è insomma quel che può spiegarne il funzionamento: è questa la critica di Gambi al concetto di paesaggio. Effettuiamo un paragone. Ogni attore, così come ogni geografo, ha a che fare con le tavole: per il primo sono quelle del palcoscenico, per il secondo sono le carte geografiche. L’unica differenza è che l’attore le calpesta con i piedi e perciò le sottomette, mentre il geografo le tratta invece con i guanti e perciò, se non fa attenzione, ne cade preda. 32. PAESE, PAESAGGIO, DOLLAR STANDARD: LA FINE DELL'ORDINE Con la crisi finale della produzione agricola per l’autoconsumo si chiude la modernità, cioè la fiducia nella possibilità di riduzione del mondo ad immagine, e inizia l’epoca della smaterializzazione della realtà. Nel 1971 il presidente degli USA sospende la 16 convertibilità del dollaro in oro, decretando la fine del sistema allestito dal Fondo monetario internazionale dopo la Seconda guerra mondiale e inaugurando la stagione dei cambi flessibili. Pochi giorni più tardi in Italia vengono aboliti i patti di mezzadria e terminano così quei cinque secoli “inclassificabili”: l'attività del mondo non dipende più da ciò che possiamo vedere/toccare. Già nel 1930 circa, il definitivo abbandono del gold standard segnalò l'impossibilità di continuare a definire le singole differenti monete in termini di determinate quantità di grani d'oro puro. Nacque così il dollar standard, un meccanismo che permetteva di effettuare una traduzione tra il concreto (oro) e l'astratto (valore di una banconota). Oggi non esiste più uno standard, semplicemente perché non esiste più un qualcosa che con la sua materialità fornisca la misura concreta dell’astrazione, ovvero del valore di una moneta. Paesaggio e dollar standard subiscono quindi lo stesso processo di evanescenza: perdono insieme, tra il 1960 e il 1970, rilevanza e consistenza. E poiché se inteso come insieme di forme visibili il paesaggio è un complesso riconducibile alla relazione tra città e campagna, perde significato anche quel che chiamiamo paese, che è appunto il meccanismo che funziona come scala del rapporto tra ambito urbano e contadino. Desplanques scrive “all’orizzonte del lavoratore dei campi si staglia sempre un paese”. 33. IL VILLAGGIO NON È UN GLOBO, IL GLOBO NON E' UN VILLAGGIO. Nell’ultima citazione “paese” sta per “villaggio”, e in esso gli abitanti hanno tra loro un rapporto visivo, tattile e acustico. Se questo è vero, il villaggio “globale” sostenuto da McLuhan non esiste, perché non esiste la separazione tra spazio visivo e spazio acustico che lo fonderebbe: i due coesistono. Ma cosa intende egli per “spazio visivo” e per “spazio acustico”? Lo spazio visivo è quello creato dall'alfabetizzazione fonetica greca che ha trasformato la parola, e quindi la concezione del mondo, in qualcosa di visibile, lineare, segmentabile; lo spazio acustico è sorto sui detriti della civiltà alfabetica come prodotto dell'avvento dei mezzi di comunicazione elettrici e della tecnologia elettronica (radio, televisione) e ricostruisce in nuova forma il campo dei rapporti simultanei, di natura sonora, che era proprio dell'uomo pre-alfabetizzato. Lo spazio visivo è dotato di un solo centro, quello acustico di una pluralità di centri: il primo è quindi stabile e calmo, il secondo caotico e in un continuo flusso. Il villaggio è come lo spazio visivo: ha un solo centro; al contrario, il globo è come lo spazio acustico: ha una pluralità di centri. La metafora del villaggio serve solo a confermare la riduzione del mondo a spazio, poiché essa serve a tradurre il globo in termini spaziali (villaggio): il villaggio, infatti, rappresenta la minimizzazione della distanza interpersonale e la massimizzazione della comunicazione, per cui si può dire che venga trasformato in spazio. È proprio il ricorso al modello spaziale implicito nella metafora del villaggio che impedisce a McLuhan di fare i conti con la globalità e gli fa capire che è falso credere, come lui sosteneva, che nel mondo tutti comunichino con tutti continuamente e contemporaneamente: non viviamo in “un mondo uditivo di eventi simultanei”. Si noti per esempio come gli stati a più alto reddito facciamo un uso maggiore della tecnologia e delle comunicazioni che da essa derivano (computer, internet, cellulare) rispetto agli stati a basso reddito: il mondo non è in equilibrio, non tutti comunichiamo allo stesso mondo e allo stesso tempo, perché le possibilità alla base sono diverse. 34. SI ABITA IL MONDO, NON UN LINGUAGGIO La comunicazione non è un problema di spazio: pensiamo per esempio a quanto poco comunichino i vicini nonostante abitino fisicamente l’uno di fianco all’altro. In realtà McLuhan aveva molta più ragione di quanto credesse, ma al momento della nascita delle sue teorie il processo della smaterializzazione era appena iniziato, era ancora a tal punto agli albori che non si riusciva a scorgere la grandezza delle sue teorie. A prima vista, tutto questo sembra la conferma di ciò che si crede in filosofia: che si abiti non il mondo ma un linguaggio, che il mondo (inteso come i comportamenti degli uomini, le loro scelte e le loro azioni) dipenda dal "più originario" bene del linguaggio, cioè dalla possibilità di dare nomi che istituiscono l'essenza delle cose. Insomma, il mondo dipende dai valori culturali e sociali che nel linguaggio trovano forma d’espressione. Ma se pensiamo così, dimentichiamo la cosa più 17 un ambito circoscritto da frontiere, ma a un zona di contatto più o meno estesa, composta da relazioni, interazione e comportamenti interconnessi. Per Appadurai i nativi, gli indigeni, non sarebbero addirittura mai esistiti: non esiste un essere umano confinato nel luogo in cui si trova e non contaminato da scambi e ideali con il resto dell'umanità. Tale concezione sarebbe il risultato di un "congelamento metonimico", processo per cui una parte della vita del soggetto (in questo caso la condizione statica) viene scambiato per la totalità e finisce per contrassegnarlo dal punto di vista della concettualizzazione. Il soggetto della conoscenza geografica e il gene hanno esattamente lo stesso destino, e in entrambi i casi il colpevole è l'immagine cartografica. 39. CONOSCENZA, RICONOSCIMENTO, PROCEDIMENTO: L'IMMAGINE DEL GEOGRAFO Secondo Ritter, la regola fondamentale del lavoro scientifico è quella di procedere di osservazione in osservazione, lasciando perdere le ipotesi e le opinioni; alla base, tuttavia, di ogni lavoro vi deve essere una preliminare teoria, o un’ipotesi da verificare o falsificare. Se essa non è presente, non si arriverà alla verità. Sia per Ritter che per Humboldt quindi non si dà mai "semplice indipendente conoscenza" (Kenntniss) della superficie terrestre, ma solo "riconoscimento" (Erkenntniss) di essa. E nel riconoscerla, si utilizza la conoscenza di essa che fino ad ora si ha acquistato come individui storicamente determinati. Questo perché, per entrambi, la teoria precede tutto il cammino epistemologico e il procedimento non è altro che riconoscimento. Ritter definisce perciò la Terra come "il più grande degli individui viventi", assegna al pianeta e i continenti l'identica forma del soggetto della conoscenza geografica: il rappresentante della società borghese che in quegli anni stava conquistando la propria emancipazione, il diritto alla propria soggettiva singolarità, alla propria individualità. Prendiamo come esempio l’iconografia, ovvero l'immagine del geografo: alla vigilia della Rivoluzione francese le carte accompagnano sempre il ritratto del geografo, ma nell’800 tale figura viene bruscamente soppiantata da un'altra. Al chiuso dello studio si sostituisce l’aria aperta e alla mappa la penna: i geografi non sono più rappresentati nell’atto di disegnare o consultare mappe, ma sono rappresentati, penna in mano, all'aria aperta, mentre osservano la natura oppure scrivono. L’aria aperta implica il viaggio, lo spostamento, la mobilità del soggetto; la penna l’incompiutezza del discorso, il suo carattere provvisorio, parziale e soggettivo, a differenza della natura cartografica che non ammetteva né replica né critica. 40. LA PRIMA MORTE DEL SIGNORE DI BALLANTRAE Il soggetto della conoscenza geografica, come il signore di Ballantrae nel romanzo di Stevenson, muore tre volte per finta, fingendosi paralizzato; e, grazie a queste finzioni, riesce a sfuggire per tutte e tre le volte alla morte vera. La prima apparente morte coincide, tra 800 e 900, con l'invenzione della "geografia umana" da parte di Paul Vidal de la Blache. Vidal invita ad "osservare la carta", abbandonando ogni idea dell'esistenza della coscienza e del linguaggio: nella rappresentazione cartografica Vidal vedeva "lo strumento di precisione, il documento esatto che raddrizza le nozioni false" (proprio in quegli anni i francesi avevano perso la guerra contro la Prussia per colpa della troppa poca e inadeguata conoscenza del territorio francese da parte dell’armata). Vidal partiva dal reale, dal concreto, dalla carta rifiutando tutto ciò che sapeva di teoria, di costruzione a priori: l’esatto opposto della precedente geografia tedesca dell’Erkunde, tanto che il suo influsso ebbe lunga durata in Europa per tutti il XIX secolo, tranne che in Germania. Quel che ne consegue è appunto la morte (apparente) del soggetto della conoscenza geografica, la sua paralisi, la sua immobilità: ogni procedimento scientifico che da una teoria di partenza arrivi a una descrizione scientifica finale risulta assolutamente abolito, poiché tra le due non vi è più nessuna distanza. Infatti, l’immagine cartografica, nella sua reale concretezza, permette di fare a meno di ogni teoria, poiché essa è già scientifica per definizione. La corretta successione metodologica per Vidal era: "Descrivere (fare la mappa), definire e classificare, quindi dedurre”. Con Vidal, la carta geografica torna ad essere la stessa cosa che era al tempo della geografia aristocratico-feudale: un 20 formidabile dispositivo ontologico, un silenzioso strumento per la definizione implicita, dunque non sottoposta a riflessione, della natura delle cose del mondo. 41. CHE COS'È UN ALBERO? Abbiamo detto che per Vidal lo strumento di precisione per eccellenza era la carta topografica. Si tratta di una carta nella quale un centimetro equivale al massimo a due chilometri nella realtà e che sacrifica ogni altro tratto del mondo pur di fornire con la massima precisione l’intervallo lineare tra due punti. In realtà, dal punto di vista storico essa è una carta come tante altre, che costituisce il ritratto dei moderni stati nazionali a partire dal 1840. Come ogni mappa, anche quella topografica funziona attraverso l'inevitabile scelta tra gli innumerevoli elementi di cui la realtà è composta, per evitare che risulti affollatissima, una macchia nera nella quale non distinguiamo più nulla. Si pone così il problema della selezione, del processo di riduzione o modificazione che riguarda il formato, la forma ed il numero dei fenomeni rappresentati. La semiologia grafica distingue al riguardo tra: - Generalizzazione concettuale: corrisponde a un "mutamento d'impianto" del fenomeno, per cui si ha una nuova concettualizzazione di quest’ultimo (ad es. alla foresta si sostituisce un singolo albero); - Generalizzazione strutturale: implica la conservazione della concettualizzazione data, si limita semplicemente alla semplificazione della sua struttura (ad es. il simbolo che sta per foresta passa da un numero di alberi proporzionale alla sua estensione a un numero di alberi fisso e limitato di alberi per ogni foresta). Ma tale distinzione si limita a illustrare il passaggio da una scala all’altra, non dice nulla circa il problema originario della riduzione della realtà a segno cartografico. Riprendiamo il motivo della piantata che è il portato di una complessa realtà storica, sociale ed economica e nel Mezzogiorno rappresenta un’eccezione. Solo nella pianura campana essa viene indicata con un simbolo specifico (due pioppi collegati da un festone di vite), mentre in tutto il resto della penisola è rappresentata dal regolare allineamento dei due generici segni che stanno per la vite e l’albero. La spiegazione è semplice: nella campagna di Aversa, dove gli alberi superano i 20m di altezza, il clima e il suolo ne favoriscono l’imponenza delle dimensioni, ed è questa che la forma topografica si preoccupa di registrare. Come dire che nel caso in questione la rappresentazione cartografica trasforma in prodotto naturale la più artificiale architettura campestre. Proprio in questo senso agisce da dispositivo ontologico. 42. LA SECONDA MORTE DEL SIGNORE DI BALLANTRAE Le carte geografiche hanno rappresentato la struttura logica sulla quale i geografi hanno costruito la teoria geografica, scrive Bunge. Ma esse, aggiunge, sono solo un sotto-insieme della matematica, dunque un’incompiuta restituzione in termini matematici del mondo. Quindi, se i geografi si fidano delle carte, devono per forza fidarsi della matematica, perché le carte stesse si fondano sui principi di quest’ultima. Perché insomma accontentarsi di una traduzione parziale come quella cartografica, e non procedere a una versione fino in fondo matematica della geografia? Fu questo il programma della "geografia quantitativa" (anni '60-'70). Al suo interno i singoli concreti fenomeni dovevano essere sostituiti dalle proprietà geometriche del modello della loro distribuzione nello spazio. Così un bacino fluviale si muta nel grafo di una rete idrica, le città che formano una regione assumono la forma di una maglia poligonale, la forma del suolo e la sua composizione viene essa in ordine dal disegno di ideali anelli concentrici. Ogni cosa viene analizzata attraverso il linguaggio matematico, il quale essendo molto più rigoroso di quello naturale, permette l’immediata quantificazione dei fenomeni empirici. Per la geografia quantitativa, il fatto (suo oggetto di studi) è soltanto quello che si può ridurre a quantità, dunque misurare, e tutto ciò che non si può misurare viene quindi escluso dall'analisi. Essa si basa sull’approccio probabilistico e sul trattamento statistico dei dati, per cui non si occupa più di ricercare il nesso causale tra i fenomeni (il perché), ma si occupa del “come”; effettuate le varie misurazioni, cerca di inferire le reciproche connessioni, l’interdipendenza tra i vari fenomeni. È proprio qui che ritroviamo la seconda morte. Essa elimina definitivamente il soggetto poiché sopprime interamente l'intenzione assegnata al sapere 21 geografico all’interno della società. La sua funzione consiste solo nell’applicare la geometria euclidea ai fenomeni fisici e alle manifestazioni sociali, senza che vi sia posto per nessun tipo di soggetto, in nessun momento dell’analisi. La geografia quantitativa parte dalla deduzione (ultimo dei termini della successione metodologica di Vidal), ma la chiama "fatto", in modo che essa assuma una veste geometrico-matematica, pretendendo che il suo rigore si estenda all'intero meccanismo che da essa prende avvio. 43. CHE COS'È LO ZERO? Credere che la rappresentazione cartografica fosse un derivato della matematica era un grandissimo errore: non è la carta che deriva dai numeri, ma i numeri che derivano dalle carte. Prendiamo il caso dello zero. Nel sistema di computo della civiltà babilonese lo zero non aveva sostanza né valore intrinseco, era una cifra, non un numero, una semplice casella vuota sull’abaco o tavola da calcolo. Esso corrispondeva a una colonna in cui non vi era nulla, perché tutti i sassolini erano ammucchiati in basso. Come il bianco su di una mappa, lo zero su una tavola era una condizione momentanea. Fu Fibonacci a introdurre in Europa i numeri arabi, zero compreso. Ma come aveva fatto questo a divenire nel frattempo, in Oriente, il più importante dei numeri? Secondo Kaplan il cerchio vuoto che oggi sta per lo zero viene dall’orma lasciata dalle pietruzze circolari sulla superficie di una tavola da calcolo coperta di sabba, in maniera che restasse traccia del calcolo stesso. Il passaggio è decisivo per due ragioni. La prima è che questo è esattamente il processo della proiezione: in entrambi i casi si è in presenza della trasformazione di un globo in un segno bidimensionale, si sottrae una dimensione alla sfera. La seconda ragione è che se il sassolino rotondo lascia l’orma, questo significa che dopo una serie di calcoli tutte le colonne in cui la tavola è suddivisa recano il segno di zero, o possono recarlo. Il che equivale ad ammettere che lo zero sta per la parte della tavola non occupata dai sassetti, dunque sta per la tavola stessa. Lo zero è la tavola. Proprio per questo motivo, sulla tavola pitagorica non esiste lo zero: perché Pitagora e i suoi seguaci già sapevano che la tavola stessa era il grande nulla dal quale ogni notazione proveniva, era la base che non ha valore in sé, ma dà valore ad ogni cosa. Tra mensa (termine latino per indicare la tavola) e mens (termine latino per indicare la mente) vi è un'evidente affinità: possiamo sia paragonare la nostra mente ad una tavola, sia possiamo considerare la tavola (lo zero) come una mente in grado di produrre idee. Lo zero diventa quindi ciò che gli si aggiunge. E lo stesso vale per quella tavola che, aggiunta di particolari segni, chiamiamo carta geografica: perché dovremmo altrimenti credere che una città raffigurata su di essa sia proprio quella città, se non perché la tavola stessa in qualche maniera lo diventa? 44. LA TERZA MORTE DEL SIGNORE DI BALLANTRAE Le falsi morti del signore di Ballantrae avvengono per congelamento. Il soggetto torna a dare problemi al sapere geografico con la nascita della "geografia comportamentale" (anni '70 del ‘900). In realtà si tratta di un’ulteriore forma di decesso, perché più che di un soggetto vero e proprio si tratta di uno zombie, una specie di morto vivente, un’anima separata dal corpo che si muove nel mondo senza volontà e solo perché obbedisce a ordini. Nella geografia comportamentale, a differenza di quanto accade nella geografia quantitativa, il soggetto è come una variabile interposta tra l'ambiente e il comportamento spaziale. Ma quest’ultimo appare il risultato di un nesso tra stimoli ambientali e reazioni: è come se l'agire sociale non venisse determinato da scopi e valori in base ai quali il soggetto che agisce si orienta e che richiedono di essere compresi per capire il comportamento messo in atto dal soggetto. Di fatto i processi sociali non si compongono di comportamenti meccanici o datati di un significato oggettivo, ma si fondano su un senso e una motivazione che hanno valore soggettivo, si basano sull’interpretazione soggettiva del comportamento stesso. Lo stesso comportamento, dunque, deve essere compreso passando attraverso l’interpretazione dell’interpretazione del mondo da parte del soggetto che agisce. È il principio della sociologia comprendente scaturita dalla lezione di Weber. Con la geografia comportamentale viene dunque reintrodotto il problema della natura dell'oggetto indagato, cioè l'uomo. Tuttavia, si tratta di una reintroduzione insufficiente: l'uomo viene 22 e tutte le isole è allo stato selvaggio; buona parte di questa metà è costituita da ghiacciai, piccole parti dalla tundra artica, dalla foresta boreale, dai deserti caldi e dalle foreste tropicali. Nelle regioni selvagge vi è un’altissima concentrazione di animali e vegetali, ad evidenziare il fatto che anche la distribuzione di questi ultimi, come quella umana, risulta concentrata e asimmetrica. 50. «IL LEGNO STORTO DELL'UMANITÀ» Con tale espressione Kant intendeva la natura imperfetta del genere umano, la sua costituzionale debolezza ed infermità. Ma perché ciò che è diritto deve per forza essere migliore di ciò che non lo è? Quando nasce nella cultura occidentale questa concezione? Per rispondere bisogna tornare nella grotta di Polifemo, dove Ulisse e i suoi compagni sono intrappolati e cercano una via di fuga. Per prima cosa Ulisse sceglie un tronco d'ulivo, che è l'albero più contorto di tutto il Mediterraneo e lo taglia per la lunghezza di due braccia. Tale misura è il primo esempio di concezione geometrica della simmetria bilaterale tra destra e sinistra: la linea verticale della testa, del busto e delle gambe rappresenta il piano rispetto al quale le due braccia costituiscono la retta perpendicolare, sulla quale al punto P a un’estremità corrisponde un solo punto P’ che giace, rispetto al piano, dall’altra parte. Con ciò si esce dal mito, per il quale destra e sinistra non sono equivalenti ma corrispondono a qualità distinte. Successivamente, Ulisse comanda ai suoi uomini di eseguire lo sgrossamento, la rettificazione, la trasformazione dello storto nel diritto, di quel che è curvo e irregolare in qualcosa di liscio, levigato uniforme e rettilineo: insomma, la trasformazione di una forma naturale nel suo contrario, la linea retta, l'unica forma che in natura non esiste. È l'ulivo il legno storto dell'umanità, quello da cui essa trae origine. La rettificazione è così l'inizio della tecnica e l'inizio dell'applicazione del modello simmetrico alla conoscenza del mondo. Nel modello vi è una linea, detta “diaframma”, che coincide con l’asse longitudinale del bacino del mondo, la quale divide quest’ultimo in due settori, uno superiore e l’altro inferiore: nel primo le temperature diminuiscono a mano a mano che dalla linea immaginaria ci si sposta verso settentrione, nel secondo le temperature aumentano a mano a mano che da quest’ultima ci si sposta verso meridione. Il modello riuniva le tre caratteristiche fondamentali su cui ogni struttura simmetrica si fonda: rappresentazione, trasformazione, invarianza. Ma soprattutto è a partire da questo modello e dalla sua applicazione che nacque l’idea di clima. 51. UOMINI (DONNE) E CLIMA La tecnologia (almeno quella il cui modello fonda la normalità) inizia con la rettificazione del tronco; la scienza con la linea retta, impensabile senza tale operazione. Ma soltanto alla fine dell’Ottocento si iniziò a disporre di osservazioni metereologiche di lungo periodo tanto numerose da consentire la costruzione di un quadro approssimativo delle variazioni del clima terrestre che permettesse di effettuare una classificazione. Quel che per noi oggi è il clima inizia a prendere forma intorno al 1650, quando compaiono adeguati strumenti di misurazione delle sue componenti (barometro per la pressione e termometro per la temperatura). Prima il clima era un fisso e stabile pezzo del mondo conosciuto: la striscia di terra, compresa tra due parallele linee rette, che di mezz'ora in mezz'ora distinguevano per ogni fascia la differente durata del giorno più lungo, dunque le diverse latitudini. Clima per gli antichi greci significava infatti "inclinazione" dell'asse terrestre rispetto al Sole e, molto prima di smembrare la Terra in sette continenti, il sapere occidentale ha diviso l'ecumene in sette climi (inizio del 1200, Federico II e Alberto Magno): il primo e il settimo, ovvero il tropicale e il boreale, sono i climi estremi, il secondo e il sesto sono meno estremi, il quarto e il quinto sono i più temperati. E anche se oggi il concetto di clima è cambiato, non cambia l’esistenza di una zona temperata al cui interno si addensa la maggior parte della popolazione terrestre. Se oggi la trasformazione del concetto di clima da porzione del globo a complesso di fenomeni atmosferici consente di pensare ancora ad esso secondo uno schema simmetrico, ciò non vale per coloro che abitano la terra: l'insieme degli uomini e delle donne, che si dispongono in maniera assolutamente asimmetrica. 25 52. L'ASSE NELLA MANICA Proprio l'irregolare estensione e la diversa ripartizione delle terre e delle acque, con la variabilità delle temperature e il movimento dei venti, costituiscono la ragione fondamentale dell'ubiquità e della connessione tra tutti gli elementi: l’apparente disordine crea l’ordine e governa il destino dell’umanità. Perché l'agricoltura si è diffusa con ritmi diversi nei vari continenti? Perché la diversità delle vicende americane, africane, europee dipende prima di tutto dal diverso orientamento dei relativi assi continentali: nei primi due casi gli assi sono orientati in senso nord-sud, nel terzo caso in senso est-ovest. E dato che le località poste alla stessa latitudine hanno giorni di identica durata e identiche variazioni stagionali dell’insolazione, nella massa eurasiatica c'è una continuità ed un'omogeneità di condizione climatiche altrove sconosciuta. E poiché il programma genetico dei vegetali risente delle condizioni climatiche, la rapidità della loro diffusione è stata molto diversa da un continente all’altro. La più antica zona di produzione alimentare del mondo coincide con l'attuale Mezzaluna Fertile (tutta la zona del deserto siriano nel Medioriente): da qui il farro, l’orzo, i piselli e tanti altri vegetali si sono propagati alla velocità della luce in tutta Europa. Lo stesso vale per gli animali: quasi tutte le specie della Mezzaluna seguirono l’espansione delle piante domestiche locali, invadendo velocemente tutta l’Europa e non solo. E questa velocità di espansione è stata dettata dal fatto che i Paesi si trovavano sulla stessa latitudine, per cui avevano lo stesso clima, e vegetazione e animali potevano sopravvivere serenamente. 53. CARTOGRAFIA E GEOGRAFIA DEI GENI La somiglianza genetica tra una popolazione e l'altra diminuisce in modo regolare col crescere della distanza, perché quasi tutte le popolazioni scambiano individui coi loro vicini tramite la migrazione. Le cose sono complicate dal fatto che le frequenze geniche vengono alterate costantemente anche dalla selezione naturale e dalla deriva genetica, che è la fluttuazione da una generazione all’altra dovuta al campionamento casuale degli spermi e delle uova (inseminazione artificiale). Per la spiegazione delle migrazioni i genetisti ricorrono al concetto di “espansione” e al modello dell’onda di avanzamento. Con il primo indicano l’intensificazione dell’occupazione di una regione o l’occupazione di nuove regioni da parte di una data popolazione, spesso in seguito allo stimolo di sviluppi culturali. L’intera storia del popolamento della Terra viene infatti intesa come un processo costellato di tali espansioni, partite dall’Africa e dall’Asia occidentale. In generale, le migrazioni risultano quindi molto più complesse delle migrazioni vegetali o animali, poiché rientrano molto meno nella disposizione orizzontale delle diverse fasce climatiche; anzi, essendo disposte in senso nord-sud le linee che distinguono un gradiente genico dall’altro provano il contrario. 54. ISTMI Ma un insieme di geni non è né un uomo né una donna: non è un individuo. Ogni organismo vivente è infatti la conseguenza unica di una storia che è il prodotto dell'interazione di forze interne ed esterne (relative all'ambiente). I 2/3 delle barriere genetiche europee coincidono con confini geografici (mari o monti) oltre che linguistici. Ma esiste anche un confine terrestre meno netto ed evidente, poiché non corrisponde a nessun visibile limite materiale: l'istmo. Si tratta di una lingua di terra che pone in comunicazione due estensioni solide di notevoli dimensioni, un grande ponte naturale gettato tra i continenti. Agli inizi del Novecento, gli istmi di Suez, Panama e Corinto furono mutati in stretti (a causa della loro sottigliezza e piattezza) e trasportati così nel sistema delle comunicazioni marittime. Fino ad allora essi avevano funzionato come ogni istmo: luoghi di transizione e separazione tra popoli e culture diverse, e le tavole genetiche lo dimostrano puntualmente. Nell’America meridionale, per esempio, vi sono componenti assolutamente assenti in quella settentrionale. L'indagine sulla distribuzione dei geni conferma in maniera ancora più netta la funzione separatrice dei grandi istmi continentali. Il caso più evidente è quello dell'istmo ponto-baltico e di quello Stettino-Trieste: è tra i due istmi che si svolgono le transizioni che permettono di distinguere l’Europa continentale da quella marittima, e che riguardano anzitutto il clima, la vegetazione, la storia. È a partire da essi che si riesce a definire il clima, poiché a mano a mano che ci si allontana da essi, 26 andando verso oriente, la temperatura dell’inverno e le precipitazioni diminuiscono regolarmente; al contrario, aumenta bruscamente il salto termico: ne deriva, di qua e di là dalla fascia istmica, un’Europa dal clima più mite e umide e un’Europa dal clima più secco e rigido. Infine, questi due istmi funzionano anche da soglie genetiche, a segno dell''impossibilità di separare le specificità del corredo biologico umano dai lineamenti della faccia della Terra: la componente che deriva dai pastori nomadi e dai popoli della steppa si arresta in corrispondenza della stretta, di là dalla quale dominano le popolazioni di lingua germanica e del Mediterraneo. 55. LA DONNA (L'UOMO) È MOBILE L'uomo (inteso come l’insieme degli uomini e delle donne) è il più mobile degli esseri viventi. Resta vero quanto scritto a proposito della paralisi del soggetto geografico, ma è anche vero che la sua mobilità è parte così importante del funzionamento del mondo che nemmeno la geografia ha potuto ignorarla del tutto, sia pure assegnando al fenomeno un’importanza secondaria rispetto all’insediamento stabile umano. Sorre sostiene che l'unica realtà è il movimento e la permanenza è solo un'illusione dovuta alla lentezza del movimento stesso. Oggi immagine, secondo lui, anche quella apparentemente più definita e omogenea, è un’immagine composita e fuggitiva, la cui stabilità è sempre relativa e mai assoluta. L'oggetto della geografia torna quindi a muoversi, e con esso la mente del geografo, non più bloccata dall’adesione al modello cartografico del mondo, per il quale tutti gli elementi di cui quest’ultimo si compone appaiono prima di vita, e perciò immobili: la geografia “classica” è arrivata alla fine. Sorre distingue tra: • Migrazioni di gruppi organizzati che si muovono con mezzi propri. Esse possono essere definitive, avere un raggio illimitato e comportare la fondazione di nuove sedi; in tal caso si distinguono tra migrazioni guerriere; migrazioni di cacciatori, pastori o agricoltori che hanno esaurito le capacità del terreno; forme evolute come quelle connesse alle colonizzazioni. Oppure possono essere ritmiche, interne a un ambito definito, ovvero intorno a una sede più o meno permanente; in tal caso includono: i tragitti dei pastori nomadi delle steppe e dei deserti; le forme legate a tipi di raccolta, di caccia, di pesca o all’agricoltura itinerante; il seminomadismo del lavoro agricolo e della pastorizia in montagna. • Migrazioni a scopo lavorativo individuali o in gruppi non organizzati: erano stagionali, a volte si svolgevano anche su largo raggio, come tra un continente e l'altro, attivate dal richiamo dell'identità culturale. • Spostamenti periodici non lavorativi: sono più o meno stabili e definitivi e, a eccezione delle correnti periodiche per motivi turistici o religiosi, riguardano le migrazioni forzate e tutte le altre forme di spostamento reso inevitabile da necessità od opportunità economiche o ragioni politiche. 56. VITA E GENERI DI VITA Secondo una stima, alla vigilia della Prima guerra mondiale le rondinelle furono circa 100mila. Tutti i movimenti ritmici e stagionali obbediscono ai criteri euclidei della continuità, dell’omogeneità e dell’isotropismo, vale a dire del riferimento ad un unico centro: sono cioè concepiti come se si svolgessero non nel mondo reale, ma sulla carta, sul materiale supporto della rappresentazione cartografica, di cui appunto finiscono con l’assumere le proprietà. Tuttavia, questo non accade direttamente, ma attraverso la mediazione del concetto di genere di vita elaborato da Vidal. Esso è l'insieme delle pratiche, delle tecniche e dei modelli mentali per mezzo dei quali un gruppo umano sopravvive in seno ad un determinato ambiente fisico. Tale concetto non ha retto l’analisi delle società fondate sulla divisione del lavoro e sulla duplice distinzione tra differenziazione sociale e professionale. E ciò a dispetto della revisione, dovuta a Sorre, della formulazione originaria fondata sulla relazione biunivoca tra ambito e genere di vita. Per Sorre, al contrario, esistono in ogni ambito tanti generi di vita quante sono le professioni: soluzione che trascura l'articolazione della società, perché per esempio medici e ingeneri, 27 inteso come unità fondamentale dell'architettura: gli architetti e gli urbanisti credono così ciecamente a quel che hanno appreso a scuola su come le città dovrebbero funzionare e non riescono più a capire come invece, nella concreta quotidianità, esse funzionano davvero. L’ultima critica della Jacobs riporta alla polemica di Ritter, alla sua contrapposizione tra la vita del mondo e la sua cadaverica, cioè cartografica, rappresentazione. È tale richiamo a svelare nella logica della mappa lo schema contro cui anche la Jacobs reagisce: lo stesso schema rispetto a cui la geografia delle sedi funziona da fedele protocollo. 61. C'ERA UNA CASA MOLTO CARINA L'oggetto, per i geografi del Novecento, era quel che risultava dalla forma topografica delle cose. Per Humboldt la forma attesta il modo della formazione dell’oggetto dell’indagine geografica, essa è la sua storia, dunque l’espressione visibile di un processo che andava ricostruito. Quel che Schluter invece più non tollera è proprio una descrizione che prende le mosse dalla forma. Già Peschel aveva sostituito a essa l’omologia geografia, ovvero l’esame delle similitudini tra le stesse conformazioni così come rappresentate dal cartografo. Sarò proprio la forma cartograficamente determinata a governare l’intera geografia delle sedi. Prova ne sia la classificazione delle case rurali messa a punto da Demangeon. Si tratta di un esempio probante, perché il punto di partenza di Dem. è proprio il riconoscimento della natura storica dell’oggetto in questione, frutto di una lunga evoluzione. Egli distingue due tipi di case rurali: • La casa a blocco: unitaria, composta di un unico edificio dove si trova tutto sotto lo stesso tetto, spesso composta di legno e terra cruda. È l’abitazione dei contadini poveri, che vivono del lavoro su di un piccolo terreno. A seconda della sua forma se ne distinguevano quattro varietà principali: la casa elementare (stalla e alloggio sono attigui), la casa a elementi trasversali (sulla sua facciata si allineano stalla, alloggio e fienile), la casa a elementi longitudinali (allungata in profondità e non in facciata), la casa a elementi sovrapposti (l’alloggio sopra, il resto sotto). • La casa a corte: due o più edifici si trovano raggruppati intorno a un’area sgombra, il cortile. Presenta soltanto due varietà: la casa a corte chiusa (gli edifici si toccano e annucleano al proprio interno il cortile), la casa a corte aperta (gli edifici non si toccano e non arrivano ad accerchiare, comprendendolo, completamente il cortile). Da tale classificazione consegue un evidente paradosso, frutto della strutturale ignoranza dei rapporti indicali: la casa unitaria non possiede il cortile. Naturalmente non è così: proprio per le premesse di Damangeon non esiste casa contadina priva di uno spiazzo scoperto antistante, assolutamente indispensabile per lo svolgimento della vita quotidiana e dove spesso, anzi, si trascorre la maggior parte del tempo. 62. LA RETORICA CARTOGRAFICA Marinelli (successore di Peschel), all’inizio del Novecento, riconosce nella cartografia un vero e proprio strumento di pensiero, che permette la materializzazione di complicati rapporti e semplifica le idee. E così come intorno alla carta geografica si possono riunire tutte le idee relative alla geografia, intorno alla carta topografica si possono riunire quelle relative alle singole regioni terrestri. Viene rifiutata la semplice analisi planimetrica e topografica di Demangeon. E la forma della dimora a corte chiusa lo dimostra: essa compare dalla pianura padana alle isole, ma mentre la forma grossomodo è la stessa, essa è espressione di realtà economico-sociali e di processi storici diversissimi. Da una parte vi è la grande azienda capitalistica, fondata sull’impiego di manodopera salariata; dall’altra la piccola azienda agricola che fa capo a dimore aziendali di coltivatori diretti. La dimora, cioè l’edificio, sta per l’azione dalla sulla quale essa sorge, di cui dunque essa è parte: l’oggetto viene addirittura ridotto a metonimia di sé stesso. E proprio perché alla causa (l’azienda, il complesso dei fattori produttivi e dei rapporti di produzione) si sostituisce l’effetto (la casa) all’inizio degli anni Settanta del Novecento la 30 geografia delle sedi cessa di fatto di esistere. Il rifiuto della semplice analisi formale o planimetrica sottrae al dispositivo cartografico tutto il suo potere antologico, la sua capacità di determinare la natura dell'oggetto indagato. Quel che è frutto di un processo storico e sociale viene trasformato in fenomeno fisico e naturale. Anche la geografia quantitativa entra in crisi, perché ci si accorge di non poter inferire il processo dalla forma: molto spesso processi contrastanti producono la stessa forma. 63. IL «PREGIUDIZIO GRAFICO» Ma come può la rappresentazione topografica trasformare la causa nell’effetto? Si tratta di svelare il meccanismo del “pregiudizio grafico”. Febvre usa quest'espressione per criticare l'omologia geografica: quest’ultima secondo lui si accontenta della somiglianza formale per mettere a confronto, sulla base del solo contorno cartografico, cose che non hanno nulla in comune dal punto di vista genetico. Essa, infatti, ricava dalla similitudine della forma la prova della correlazione evolutiva di due organismi, ma questi magari geneticamente non hanno nulla in comune. Ma prima di essere nella mente di chi guarda la carta, il pregiudizio grafico è annidato all'interno della rappresentazione stessa. Il villaggio, nel dizionario, è definito “un gruppo di case più piccolo di una città, ma più grande di un casale”; in generale esso è un gruppo di costruzioni, un complesso edilizio, un insieme edificato. Non si tratta però di una definizione condivisa: in India, per esempio, il villaggio è definito “un terreno delimitato da confini, non necessariamente dotato di abitazioni, ma sempre invece dotato di un nome che segnala l'esistenza di diritti di usufrutto o di proprietà sul terreno stesso”. Esso è quindi un'unità fondiaria e fiscale prima di essere un'unità residenziale: in effetti, a pensarci, senza terreno su cui poggiare le abitazioni queste ultime non potrebbero nemmeno esistere. Fino a qualche secolo fa anche nella cultura occidentale il villaggio aveva lo stesso significato che oggi mantiene in quella orientale. La questione allora diventa: come, quando e perché in epoca moderna il villaggio è passato a significare l'abitato e non più il coltivo? Spiega Clausewitz (un generale prussiano allievo di Ritter) che le forme del terreno influiscono sul combattimento in triplice maniera: come ostacolo alla vista, come ostacolo alla percorribilità e come mezzo di copertura contro gli effetti del fuoco. Di conseguenza, è stato proprio sulla base di tali criteri che tra `800 e `900 si è proceduto in Europa alla costruzione delle carte topografiche, trasformando in ostacolo o vantaggio tutti i tratti della Terra. In tal modo ciò che è fisso, evidente, ingombrante viene privilegiato a ciò che è mobile, sfuggente e di scarso volume: gli alberi vengono privilegiati alle coltivazioni erbacee (meno voluminose e temporanee); i limiti di proprietà (e quindi il concetto stesso di azienda agricola) spariscono e così via. Per questo il villaggio, spogliato di ogni segno riferibile alla sua natura di formazione sociale, si tramuta, prima sulla carta e poi nella nostra testa, in un semplice insieme di case. 64. TRA MITO E ARCHETIPO: CHE COS'È UNA CITTÀ? La definizione più diffusa di città sostiene essa sia “un agglomerato di edifici più esteso di un villaggio”. Ma cos’è davvero una città? Gli storici hanno rinunciato a dare una risposta onnicomprensiva alla domanda, poiché sostengono che il concetto di città muta da tempo a tempo e da paese a paese. I geografi, invece, si dibattono ancora oggi nella contraddizione tra considerazione formale (topografica) e funzionale della città: se si bada all'ingombro fisico, alla dilatazione continua dell’area fabbricata, al numero sempre maggiore della popolazione urbana oggi la città appare crescere ed estendersi; ma se invece si bada alle funzioni tipiche della città (coordinare, dirigere, controllare il territorio circostante) allora essa si va rarefacendo e sparendo, perché tali funzioni si concentrano sempre più in un numero limitato di aree del globo. Oggi più di metà dell'umanità vive in città, qualsiasi cosa tale parola voglia dire. Infatti, essa ha significati diversi da uno stato all’altro, poiché quel che da paese a paese varia è la quantità di abitanti minima necessaria perché una sede sia classificata come urbana; quel che non varia invece è la natura quantitativa del criterio che i censimenti adottano. Le statistiche non fanno altro che tradurre nel linguaggio numerico l’idea topografica dell’insediamento: anch’esse riducono quest’ultimo, che in realtà è un processo, a una serie di cose, e distinguono poi tali cose, a seconda della 31 loro grandezza, in sedi rurali o urbane. L’unica differenza è che mentre dal punto di vista topografico quel che importa è la forma, dal punto di vista statistico quel che importa è il formato, cioè quello che deriva dalla forma. 65. LA «MANO INVISIBILE» E QUELLA NASCOSTA Fino al 1950 si sosteneva un “versione stadiale della storia dell’umanità”: l'emergere della civiltà è il risultato di una sequenza che inizia con le attività di raccolta dei frutti spontanei e con la caccia, prosegue con l'agricoltura e culmina con la formazione urbana e statale. Si tratta di una sequenza lineare, continua, basata su stadi o fasi. La reazione più vivace contro tale modello è stata quella di Jane Jacobs: essa ritiene infatti che il modello non provenga dalla teoria evoluzionistica di Darwin, ma da Adam Smith. Lo sviluppo implicito nella serie insediativa che dalle forme rurali conduce a quelle urbane deriva quindi non dall’evoluzione biologica, ma da quella storica e dall'economia politica. A Smith stava a cuore la divisione tecnica del lavoro, che a sua volta dipende dal mercato, perché tocca a quest’ultimo assorbire il prodotto. Quindi Smith considera villaggi, città, grandi città anzitutto come mercati isolati, la cui estensione non è misurata dalle loro dimensioni ma dalla massa degli acquirenti o dal possibile smercio: si tratta di una visione assolutamente e unicamente economica. La divisione del lavoro, che conferisce a quest’ultimo una capacità infinita di produzione, è così una funzione del carico demografico di riferimento. Il passaggio dal villaggio alla città vale quindi per Smith solo in termini di aumento del numero degli abitanti e delle attività specializzate: perché città e villaggi valgono solo come mercati isolati. Ecco allora la corrispondenza: Smith parla di “divisione del lavoro”, la versione stadiale della storia dell’umanità fa corrispondere a ogni stadio dell’evoluzione del centro urbano un compito specifico e distintivo (caccia, agricoltura, …). È insomma la stessa cosa. Inoltre, per Smith lo stadio finale della società, quello commerciale, è regolato dalla "mano invisibile" che governa l'economia. Ma perché una mano invisibile esista bisogna che il mondo sia ridotto ad un disegno che comprenda anche la mano dell'autore, e che perciò cancelli la concreta esistenza di quest'ultima. 66. «MANI CHE DISEGNANO» Nella litografia di Escher “Mani che disegnano” una mano disegna un’altra mano che a sua volta, in circolo, disegna la prima. Escher riesce a rappresentare così un’immagine che cela la realtà, un’immagine che occulta la mano del disegnatore (non disegnata ma vera) che ha disegnato l’immagine stessa. La mano così nascosta è quella invisibile, e quella visibile, cioè disegnata, è quella falsa. Questo giro di parole e questa litografia in realtà vogliono semplicemente farci capire che è il disegno stesso ad essere portatore di un'intenzione, di una volontà, la quale è indipendente dalle intenzioni o dalle volontà di qualsiasi disegnatore. Per questo la mano invisibile di Smith procede involontariamente: perché segue un'intenzione che è già iscritta in un'immagine e non dipende quindi dalla sua “mano”. E per capire di quale immagine e di quale intenzione si tratti dobbiamo ritornare all’evoluzione della città. Partiamo dal City Hall di Los Angeles, costruito negli anni Venti del ‘900 per uguagliare l’altezza della Torre di Babele, dello zigurrat babilonese. Una scritta sul muro esterno ricorda qualcosa su cui Aristotele era d’accordo, al punto d’averla già scritta: la città è nata per preservare la vita, essa esiste per far vivere bene gli uomini. Fino a tutto il ‘500 si continua a pensare allo stesso modo. Il trattatello che avvia la moderna riflessione teorica sulla natura urbana, Delle cause della grandezza delle città di Botero, scrive che la grandezza di una città non è data dall'estensione del suo sito o dalla lunghezza del perimetro delle sue mura, bensì dalla moltitudine degli abitanti e dalla loro grandezza. Come abbiamo visto però, nel `700, l'idea di città però passa a significare non più gli uomini, ma le cose, le case; gli uomini sopravvivranno, appunto con Smith, solo perché trasformati in produttori e consumatori. La definizione di città si trasforma e diventa “un insieme di più case disposte lungo le strade e circondate da un elemento comune che di norma sono mura e fossati”; “è una cinta muraria che racchiude quartieri, strade, piazze pubbliche e altri edifici”. Ed è, a proposito, da tale cambiamento del concetto di città che deriva l’assenza di uomini nelle prime fotografie 32 scomporsi in distinte fasi e operazioni, di cui la prima consiste nell’affermazione dell’autonomia delle strade rispetto al resto. La scissione del nesso organico tra arteria stradale ed edilizia produrrà la generalizzazione della forma prospettica che segnerà tutta la modernità. Mentre Firenze scopre nel 400 di essere stata sempre e inconsapevolmente una città prospettica, Ferrara si costruisce dal nulla consapevolmente come tale e per questo si configura in maniera molto più prospettica e precisa della stessa Firenze, con delle prospettive aperte e mai interrotte da vedute frontali. Tasso sarà il primo a parlare di tutto questo nel suo poema, e per questo sarà considerato il primo folle della modernità in Europa. 71. ELOGIO DELLA FOLLIA All’inizio del Quattrocento, Tasso ha un rapporto profondamente drammatico con la società, subisce profondamente il distacco tra ideale e realtà: la realtà di quegli anni consisteva nell’autunno del Rinascimento, nell’Italia lacerata e in piena dissoluzione, e Tasso non si sentiva più cittadino di nessuna città. Insomma, il poeta sperimenta sulla sua pelle la terribile prima esperienza della modernità, che proprio a Ferrara debutta. ‘’L’anima nostra è una città’’ scrive. E la sua anima, proprio come la città di Ferrara, non soltanto è divisa a metà ma mostra anche tutti i segni del conflitto moderno, cioè della contraddizione tra la vorticosa metamorfosi di quel che esiste e la distruzione di tutto quello che ci è caro. Nell’ultimo atto del Faust Berman scorge la celebrazione di quello che egli chiama il modello faustiano di sviluppo, che privilegia i progetti relativi ai trasporti a scapito dei profitti immediati. Tra 800 e 900 tale modello cambierà la faccia di tutta la Terra: si pensi al taglio degli istmi di Suez e Panama. Ma esso nasce alla fine del ‘400 a Ferrara, dalla distruzione degli orti, delle ville e dei giardini necessaria per il raddoppio dell’estensione del perimetro cittadino. Ferrara moderna è il primo luogo per cui vale la citazione dal Manifesto del Partito Comunista: “Tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria, è profanata ogni cosa che è sacra, e gli uomini sono costretti a guardare con occhi disincantati la propria reale condizione e i propri rapporti con i propri simili”. È questa l’aria nuova che ad Arianuova si respira. La follia di Tasso fu quella di non rassegnarsi alla necessità e all’inevitabilità del processo e di non voler subire quel “disincanto”. L’elogio alla follia di Erasmo da Rotterdam (1509) si basa sull’idea che non possa esistere una ragione che, come il piano della nuova Ferrara, esprima regole che, distruggendo ogni differenza locale, pretendano di valere ovunque e dovunque. La razionalità di ogni comportamento dipende dal contesto. Quindi, alla fine, l’unica differenza tra la follia di Erasmo e quella di Tasso sembra essere che la prima riesce a fare proprio ciò che la seconda non riesce a fare: accettare l’illusione degli uomini che credono di essere i personaggi di cui portano la maschera, e ridurre tutto il mondo a un gigantesco e ironico sorriso. 72. IL “DISINCANTO DEL MONDO”, IL POSSIBILE E IL VIRTUALE Con l’espressione “il disincanto del mondo” Weber si riferiva all’eliminazione della magia come tecnica di salvezza per gli uomini, alla sparizione degli stregoni. Anni fa Gauchet ha ripreso l’espressione per definire il processo che anima la storia politica della religione. Secondo lui l’essenza del fenomeno religioso risiede su di una struttura antropologica molto più profonda, in grado di sopravvivere, cambiando veste, anche alla fine della religione stessa: esso si fonda infatti su un principio di mobilità messo al servizio di ciò che è immobile, su di un principio di trasformazione che serve per garantire l’intangibilità delle cose. La tormentata vicenda terrena di Tasso, con la sua ispirata morte presso il convento, sembrerebbe l’incarnazione di tale essenza sul piano della pratica esistenziale. Nella prospettiva moderna quel che è immobile è il soggetto, al cui servizio si muove l’occhio alato. E la metamorfosi dell’occhio serve all’uomo a risparmiare il faticoso rapporto tattile con le cose, che presuppone l’incontro fisico diretto con ognuna di esse. La colonizzazione della realtà che ne risulta tende anch’essa al disincanto, in forza della regola per il quale l’invisibile, che in precedenza concorreva in forma non controllabile alla costruzione del mondo, viene adesso addomesticato secondo una duplice modalità: dal punto di vista della rappresentazione e della percezione resta compresso e concentrato dietro al punto di fuga, sotto forma di infinito; dal punto di vista della costruzione materiale 35 assume la forma del possibile, sottraendo il campo al virtuale. Virtuale e possibile sono opposti: il possibile è il reale, statico e già costituito, a cui manca solo l’esistenza; il virtuale è ciò che si oppone all’attuale, a quel che esiste e non può mai integrarsi in esso, perché gli manca sempre qualcosa. Ed è questo qualcosa che assicura l’incanto del mondo. Il disincanto del mondo, oggi, si compie attraverso la sostituzione dello spazio ai luoghi, attraverso l’espansione della relazione indicale tra strada e edifici secondo il modulo della prospettiva fiorentina. Rossetti apre il cantiere di Arianuova nel 1492 proprio mentre Colombo si prepara a salpare: il navigatore e l’urbanista fanno la stessa cosa, affermano lo spazio e allo stesso tempo lo negano. Colombo rifiutando fino alla fine la natura del Nuovo Mondo; Rossetti non riconoscendo alla logica della rettilinearità e ortogonalità nessuna supremazia astratta, anzi cercando di metterla al servizio di una città vivente. Il punto in comune tra i due è il riferimento alla globalità, alla totalità del campo d’azione: la Terra per Colombo, la città per Rossetti. Proprio perché nelle loro imprese logica spaziale e globale coesistono, per i pionieri della modernità l’invisibile assume la forma della modernità. Per i loro successori assumerà la forma del possibile, fino a scomparire. 73. L’INCANTO, L’IMMAGINE, IL DISINCANTO Le strade diritte esistono da moltissimi anni e farne la storia significherebbe ripercorrere la storia di tutta l’umanità. Già partire dal paleolitico, su tutta la faccia della Terra le sedi umane furono concepite secondo lo schema rettilineo e ortogonale, il cui scopo era di rendere visibile e disponibile ciò che non lo era al tatto, ossia proiettare sull’ordine terrestre quello celeste. Prendiamo la città romana come esempio: essa era improntata su due assi ortogonali, il cardo e il decumanus. Ogni cittadino sapeva che percorrendo il cardo stava camminando in parallelo all’asse intorno a cui ruotava il sole, mentre percorrendo il decumanus stava seguendo il corso di quest’ultimo. In questo modo, la città era uno strumento di decifrazione del significato del cosmo e tale certezza faceva sentire il cittadino inserito intimamente in esso. La città era il prodotto del rito, la sua era una forma simbolica, qualcosa che stava per qualcosa d’altro: proprio dal rimando all’invisibile e all’intoccabile derivava il suo incanto. Da ciò, deriva un’altra definizione di città: la città come gigantesco simbolo che serve alla memoria e alla conoscenza, un complesso di segni per i quali gli abitanti, attraverso la partecipazione fisica ai riti, si identificano con un comune passato. Secondo Rykwert, la città è molto simile ad un sogno. Infatti, come in un sogno noi vediamo davvero le cose, per cui non l’immagine sognata e l’immagine materiale ci appaiono uguali, allo stesso modo la città (intesa come un gigantesco simbolo che tiene insieme il cielo e la terra) ha la sua immagine materiale che corrisponde ad essa, ed è l’immagine cartografica. Il compito dell’immagine cartografica è quello di una trasposizione della realtà per fare in modo che vengano padroneggiati oggetti di per sé incommensurabili. E il disincanto è proprio questo: ridurre la città a un complesso di cose visibili, sostituire ad essa un’immagine urbana. Per riassumere: l’incanto avviene quando ci si rende conto della differenza di natura tra l’immagine e il mondo, il disincanto quando il mondo viene trasformato in immagine cartografica. 74. CHE COS’E’ UNA CITTA’ Senza la città non vi è rappresentazione geografica e viceversa. Ma di nuovo, che cos’è una città? In reazione al modello dominante fondato sulla sequenza evolutiva lineare e cumulativa che dall’attività di raccolta dei frutti spontanei conduce alla città attraverso l’agricoltura e il villaggio, e culmina con lo Stato, si va accreditando negli ultimi tempi il rovescio: la tendenza a considerare l’agglomerato urbano come la forza motrice dello sviluppo dell’agricoltura, dalla comparsa dei villaggi e della vita rurale e pastorale. Carlo Cattaneo nel 1850 parla della città come ‘principio ideale’ della storia italiana. Oggi archeologi, urbanisti e geografi iniziano a identificare nella città l’origine materiale della storia mondiale, pur senza nessuna pretesa di sostituire del tutto la vecchia teoria. L’esempio canonico è quello di Catal Huyuk, sito scoperto sull’altopiano anatolico a metà del secolo scorso, databile tra il 7000 e il 5000 a.C. e abitato da 10mila persone: numero che faceva dell’agglomerato la sede più affollata dell’intero 36 neolitico. Fu da sempre caratterizzata da una complessa divisione sociale del lavoro: vi erano pastori, agricoltori, cacciatori, mercanti, artigiani e artisti altamente specializzati. E tra questi ultimi vi è l’autore dell’unica preistorica pianta urbana del mondo antico: si tratta di un affresco, che risale circa al 6150 a.C., che raffigura Catal Huyuk sotto la minacciosa mole dell’Hasan Dag in eruzione. Il vulcano è rappresentato come se stesse di fronte all’osservatore, e la città invece come se fosse guardata dall’alto. La pianta risulta quindi essere astratta, e proprio per questo è definibile come il primo atto di autocoscienza urbana. In altri termini: proprio in forza del fatto che tale affresco è astratto, Catal Huyuk è da considerarsi una città nonostante sia abitata in prevalenza da contadini, pastori e cacciatori. Per definire in generale la città basta generalizzare tale idea: città è ogni sede in grado di produrre un’immagine materiale, pubblica e quindi condivisa della forma e del funzionamento del mondo o di una sua parte. Di conseguenza, ogni rivalità fra città si esprime nella lotta per l’affermazione e la diffusione delle immagini che esse producono: la produzione di informazione specializzata è il motore di ogni attività urbana. 75. BEDOLINA CITY La definizione di città data sopra consente di liberarsi definitivamente dal pregiudizio topografico e di evitare il contrasto tra funziona e funzione: insomma, un grande passo avanti. Un’altra celebre mappa preistorica è la “roccia dei campi” di Bedolina, petroglifo rinvenuto nel cuore delle Alpi in Valcamonica risalente all’età del bronzo (1400 a.C.). Gli storici sono convinti che questo modello abbia le caratteristiche visive di una mappa topografica contemporanea. Normalmente, quello di Bedolina è un villaggio composto di capanne, ma, secondo l’ultima definizione di città, anche il villaggio di Bedolina si trasforma in un vero e proprio organismo urbano. E proprio l’arte rupestre di natura cartografica che essa produce autorizza tale trasformazione. Così come l’affresco del tempio è la mappa di Catal Huyuk, la “roccia dei campi” è la mappa di Bedolina. Anzi, la rappresentazione di Bedolina riguarda il territorio, e non l’abitato, per cui riflette proprio la funzione di dominio e di controllo che fa di un aggregato di costruzioni una città vera e propria. Ma non è semplice stabilire se un insieme di segni preistorici corrisponde ad una mappa. Di norma, ci si basa su alcuni criteri fondamentali per definire un qualcosa “una mappa”: 1. che l’intento dell’autore sia di rappresentare le relazioni spaziali tra gli oggetti; 2. che i segni siano eseguiti tutti contemporaneamente; 3. che i segni siano appropriati e ricorrenti, cioè frequenti e identici all’interno della raffigurazione; 4. che il loro numero superi una soglia minima; 5. che vi sia una distanza massima tra essi, ovvero che non siano troppo frammentari. Sorge così una domanda: se sia l’idea di mappa a dipendere da quella di città; o viceversa; oppure se mappa e città risultino co-costitutive, si alimentino a vicenda. 76. LA CITTA’ IDEALE Oltre alla città reale e quella sognata, che sono la stessa cosa, vi è la città ideale, descritta da Platone nel Gorgia. È la città che realizza il modello dell’uguaglianza geometrica: una città bassa in cui, intorno alla città alta (acropoli) di forma circolare, le abitazioni e i campi sono disposti in modo da trovarsi alla stessa distanza media dal centro rispetto a quella delle abitazioni e dei campi di tutti gli altri. È quindi una città circolare, ideale sia dal punto di vista della forma che del funzionamento. Molti la rimpiangono, ma in realtà una città così non vi è mai stata. Da dove nasce allora il modello platonico? Esso nasce dalla mappa stessa, non dal sogno. Per comprendere al meglio il processo bisogna partire da Anassimandro e dalla sua impresa geografica, ovvero la costruzione della prima mappa. Si trattava di una tavola, la cui forma rotonda (che divenne quindi la forma del mondo) richiamava quella dell’assemblea dei guerrieri descritta più volte nei poemi omerici: un ambito circolare, quindi dotato di centro, occupato a turno dagli oratori, ognuno dei quali, finito il proprio discorso, tornava al proprio posto e lasciava la posizione centrale al successivo. Il centro dell’assemblea non è altro che il retro della piazza centrale greca, 37 molteplicità dei sensi si trasforma così in significato. Nello schema quadrangolare invece, quello della città ippodamea, il rapporto tra centro e cittadini e tra cittadino e cittadino risulta capovolto. Nella città circolare il centro geometrico è anche quello funzionale, sede di tutte le attività più importanti, mentre in quella quadrangolare questa coincidenza salta, nel senso che agorà, tempio e mercato si trovano in punti diversi. In ogni caso, la distanza dei cittadini dal centro geometrico è diversa, perché i vettori sono dotati di differenti lunghezze. Al contrario, la distanza tra singoli cittadini resta sempre identica. Quindi: all’interno della città circolare la distanza civica è uguale dal centro ma disuguale tra i cittadini, all’interno della città quadrangolare invece, al contrario, la distanza è uguale tra i cittadini ma disuguale dal centro. Il passaggio dall’isonomia alla democrazia si realizza proprio in tale inversione. Il vantaggio della democrazia (e quindi della città ippodamea) sta nella velocità di informazione, che risulta molto più rapida, proprio perché tra cittadino e cittadino la distanza è standard: lo schema della città è divenuto spaziale. Per Pericle la democrazia è l’isonomia più la velocità dell’informazione, assicurata dalla rettilinearità e ortogonalità degli assi, che permette di ridurre il mondo e le sue città ad una gigantesca mappa quadrangolare. Nella città di Clistene, invece, idealmente circolare, i cittadini sono uguali davanti alla legge e prendono decisioni nel grande centro geometrico che deriva dalla coerenza tra l’ordine urbano e l’ordine del cosmo. Nella città di Pericle questa coerenza non c’è più, il centro unico altrettanto e la decisione non è più collettiva, pochi sanno quello che si decide. “A parole si trattava di democrazia, ma in realtà era il governo del primo cittadino”. Il progetto di Pericle fallì, per un problema che tutt’oggi ci appartiene: conciliare le ragioni della democrazia con il funzionamento del mercato. In realtà questo è il problema che si cela dietro la questione della quadratura del cerchio, della costruzione di un quadrato la cui area sia equivalente a quella di un cerchio dato, cioè dalla rettificazione della circonferenza di quest’ultimo. Questo problema solo in apparenza sembra geometrico, in realtà è il problema di due città inconciliabili, quella circolare e quella quadrangolare, quella dell’isonomia e quella dello spazio. 81. RIFLESSIONE SUL BAROCCO Prima di Ippodamo, già Babilonia, per esempio, aveva una pianta a scacchiera e in essa le strade si incrociavano ad angolo retto. È stato però proprio Ippodamo a cambiare il valore e la funzione dell’angolo retto, spogliandolo (assieme alla linea retta) di ogni simbologia religiosa e affidandogli la missione contraria: imporre l’ordine della ragione all’ambito civico. Inventando il tracciato geometrico delle città, Ippodamo desacralizza la città ma allo stesso tempo la costruisce su un terreno matematico, organizzandola in un sistema in cui lo schema urbano diventa il risultato di un calcolo indipendente da ogni riferimento esterno alla forma della città stessa e al funzionamento di questa. Fu proprio la pianta a scacchiera di Ippodamo la base per la ricostruzione e il rinnovamento urbanistico delle città italiane dopo l’Unità. Ma tutta l’urbanistica del ‘700-‘800 dipende dalla natura della città barocca, che rappresenta il vertice dell’identificazione della città con lo spazio, dell’organizzazione del fatto urbano secondo il principio cartografico. È la città barocca a riprendere e sviluppare l’operazione avviata da Ippodamo: trasformazione la città nella mappa di sé stessa. La città viene sacrificata all’arteria, cioè al traffico e l’astratto schema geometrico determina il contenuto sociale, nel senso che precede i bisogni della vita e condiziona le istituzioni della comunità (per esempio, se il terreno scelto per la fondazione è irregolare, esso viene spianato). La pianta è estremamente simmetrica e rigida, per cui non accetta adattamenti o cambiamenti nel tempo dettati dai bisogni delle nuove generazioni. La città diventa una tavola d’informazione progettata e costruita sotto la guida di un architetto tirannico. È in questa città, barocca, che la natura del rapporto indicale tra la strada e la casa assume la forma della relazione spaziale. E ciò accade perché nella città barocca le strade dritte svolgono la stessa funzione delle mappe: permettono di vedere tutto e subito, di accedere istantaneamente alla parte interessata, per cui ogni dettaglio della città ha già colonizzato tutte le forme del futuro. Le città diventano dunque, tra ‘600 e ‘700 la copia della propria copia (la mappa). 40 82. LO SPAZIO IMMAGINARIO Considerate dal punto di vista funzionale, le arterie barocche sono contraddittorie rispetto alla loro forma: esse spaccano in linea retta il cuore della città, ma in realtà equivalgono a delle circonvallazioni, il cui scopo è evitare la frizione dell’attraversamento umano. Dietro tale contraddizione agisce l’invenzione dello spazio immaginario, opera di Hobbes che era convinto che il mondo fosse davvero una carta geografica. Concepire qualcosa, secondo lui, vuol dire concepirla in qualche luogo e dotata di un’estensione, divisibile in parti, e fare in modo che essa sia tale per cui non possa coesistere allo stesso tempo in due posti diversi. In base all’immagine cartografica, l’epoca barocca procede alla materiale costruzione dello stato come prodotto artificiale del calcolo umano e alla meccanizzazione della rappresentazione statale. Per Hobbes la conoscenza scientifica non aveva direttamente a che fare con la struttura e la natura del mondo esterno derivava dall’annullamento del mondo esterno; il soggetto della conoscenza era un uomo cui, scomparso il mondo, restavano solo le idee e le immagini delle cose viste e percepite in precedenza. Egli non poteva fare altro quindi che calcolare sulla base delle proprie idee, come se fossero esterne e non generate da lui. E sulla base di questo criterio interiore di validità, al mondo venivano imposti schemi artificiali prodotti dalla mente. Successivamente il mondo ricompariva: questo perché lo schema ottenuto attraverso l’annullamento della realtà esterna era lo spazio immaginario, un’estensione irreale, un fantasma di ciò che esiste davvero. Un sistema sicuramente artificiale, ma l’unico in grado di comprendere il comportamento e il moto dei corpi, perché permette di definire il luogo, cioè la porzione di spazio con il quale il corpo coincide. Lo spazio immaginario è necessario, perché all’interno della mente vi è una tabula rasa, carta bianca, mentre al di fuori i corpi si presentano secondo una legge e un ordine. Quindi gli oggetti per Hobbes assumono già una forma cartografica, sicché la conoscenza già dispone secondo il modello del mapping, della relazione fra le due mappe. E proprio perché quella interiore, che corrisponde allo spazio immaginario, prevale su quella esterna e la ricomprende, l’artificiale forma rettilinea assume su di sé tutto il funzionamento del mondo. 83. L’ESITO DELLA MODERNITA’ L’esito della modernità consiste dunque davvero nella riduzione, attraverso il mapping, del mondo a una mappa, a una tavola. Così l’irreale si muta nel reale, la faccia della Terra si trasforma nello spazio immaginario di Hobbes, in una superficie che obbedisce alle leggi di continuità, omogeneità e isotropismo. Risultato e insieme promotore di tale trasformazione è lo stato territoriale moderno, la cui articolazione si svolge secondo la successione: strada dritta – ferrovia – autostrada. La prima funziona da modello alla seconda, e la seconda da modello alla terza. E se l’avvento dei percorsi stradali rettilinei corrisponde allo stadio originario della formazione statale, lo sviluppo della ferrovia coincide con la sua maturità e quello delle autostrade con l’inizio del suo declino. Le strade diritte, per prime, obbediscono nella forma ad un modello artificiale, ma essendo percorse fino alla metà dell’800 da trazione animale, rispondono ancora alla logica del movimento naturale. Soltanto la meccanizzazione del traffico su terra e su acqua, dovuto all’impiego della forza vapore, capovolge il rapporto tra dato naturale e mezzo di locomozione: la trazione meccanica si sostituisce alla trazione naturale e la velocità e le caratteristiche del movimento dipendono dalla macchina e non più dalla natura. Alla ferrovia si deve la definitiva trasformazione del mondo in spazio. Con la ferrovia, che è il modello della strada ideale perché priva di attriti, la meccanizzazione del movimento trasmette alla terra l’attributo decisivo per la sua traduzione in termini spaziali: lo standard. Essa, infatti, produce un movimento meccanico uniforme, infinito (fino a quando e se qualche forza applicata ad essa lo costringe a mutare). Di fatto, sistema di vie ferrate (binari) e Stato moderno funzionano esattamente secondo gli stessi principi: si comportano come una grande macchina ed esigono direzione unitaria e movimenti coordinati, poiché ambedue sono agenti e prodotti dello stesso modello spaziale, ossia presuppongono una distesa continua, omogenea e in cui i punti sono rivolti verso un unico centro. Non a caso, la crisi del modello spaziale comporterà sia quella dello Stato che quella della ferrovia. 41 84. C’ERA UNA VOLTA IL MARE, C’ERA UNA VOLTA LA TERRA Lo slancio della ferrovia si arresta alla vigilia della Prima guerra mondiale. Ma allo stesso tempo fu proprio attraverso il progresso del tracciato ferroviario che le cose iniziarono a trasformarsi in impulsi immateriali. Fu proprio la strada ferrata a guidare la nascita della telecomunicazione, fornendo l’avvio alla smaterializzazione del mondo e quindi al processo di despazializzazione. Fu proprio la ferrovia, infatti, a promuovere l’avanzata del telegrafo elettrico. Negli Stati Uniti, circa nel 1830, la nascita del telegrafo permise alle ferrovie di risparmiare tempo e denaro (oltre al fatto che permise di evitare molti incidenti di treni che viaggiavano sullo stesso binario). Ben presto il modello ferroviario si trasferì alla telecomunicazione, tanto che già alla fine della prima metà dell’Ottocento nasce il concetto di “rete”, intesa come l’intreccio di oggetti disposti in linee. Quando nel 1855 iniziò la posa dei cavi sottomarini, la Gran Bretagna costituì il primo sistema di informazione globale, in grado di collegare terre, mari e oceani e mantenne per circa un secolo l’egemonia della comunicazione. In tal maniera terra e mare divennero la stessa cosa: entrambi trasportatori di denaro e informazione, le merci più preziose per il funzionamento del mondo. Nel 1956 il primo cavo telefonico transatlantico venne posato, e l’egemonia prima tenuta dall’Inghilterra, si spostò vero gli Stati Uniti. A differenza della ferrovia, il telegrafo muta la natura delle cose: separa la circolazione dell’informazione dall’interazione umana, smaterializza un messaggio cartaceo dal punto di partenza a quello di arrivo. Trasforma quel che esiste, e che si può toccare e contare, in quel che sussiste, e che non si può né toccare né pensare. E proprio tale scissione (quel che esiste alla ferrovia, e più in generale alle vie di comunicazione materiali, e quel che sussiste alla trasmissione elettrica, alla comunicazione immateriale) è all’origine della crisi dello spazio. 85. LE RAGAZZE DEL MIDI (AVIGNONE) Al quadro “Le ragazze di Avignone” di Picasso (1907) si riconduce la crisi dell’immagine pittorica moderna proprio nei termini del crollo dei tradizionali riferimenti spazio- temporali: scompaiono la linea d’orizzonte, la profondità e la distinzione tra piani (dunque il modello prospettico) e di conseguenza crolla l’unità del soggetto e dell’oggetto, per cui il quadro non è più imitazione della realtà oggettiva. Non a caso, le ‘Ragazze di Avignone’ avevano il naso e gli occhi storti, come se fossero osservate da un soggetto che allo stesso tempo guarda da due punti di vista diversi: si tratta proprio della messa in discussione dell’unicità del punto di vista e dell’immobilità del soggetto. Ciò accade prima di tutto perché il cubismo trasforma il quadro in una carta geografica. Sia nelle opere cubiste che nelle carte, infatti, il quadro consiste in un’unica superficie cui viene ridotta anche la terza dimensione, quella dell’altezza degli oggetti, i quali vengono così ridotti a una serie geometrica di forme. Si tratta esattamente di quel che accade alle parole nel corso della trasmissione telegrafica, con la variante della carta al posto della tela. Si tratta di un altro mezzo giro, questa volta soltanto dell’occhio, che permette l’uscita della modernità (dal mondo ridotto a spazio). Inoltre, Picasso disarticola oltre agli oggetti anche la superficie stessa del quadro-mappa: il significativo viene così separato dall’espressivo, il segno (significante) da ciò che designa (significato). Il segno non è più l’oggetto, ma l’oggetto sulla tela, il trattamento che l’oggetto subisce in quella determinata rappresentazione. E lo stesso accade con le parole nel corso della trasmissione telegrafica. In tal modo si può parlare veramente e completamente di annullamento dello spazio, di distruzione delle sue caratteristiche di continuità, omogeneità e isotropismo. 86. METROPOLIS: DALLA FERROVIA ALL’AUTOSTRADA Benché per gli antichi greci il termine metropoli rappresentasse ‘la città-madre’ di una colonia e implicasse il rapporto con una città figlia, per esempio Atene nei confronti di Turi, qui si intende la città dove si registra il trionfo e la simultanea morte dello spazio. Ma facciamo un passo indietro. La ferrovia ha meritato, in America, l’appellativo di generatrice dal nulla di realtà urbane, ma in generale, in tutte le grandi agglomerazioni, ha sempre svolto un ruolo decisivo per la loro crescita ed estensione. È alla strada ferrata, infatti, che si deve lo sviluppo delle periferie: basti pensare alla formazione della ‘Grande Berlino’, costituita dalla città di Berlino e da altre città e comuni rurali 42 Settanta. La sua origine va individuata nell’idea di campo urbano, inteso come l’unità territoriale di base della città postindustriale, quella appunto dedita più di ogni altra alle attività terziarie e quaternarie. Si tratta di una vasta area che si distingue dalla città tradizionale per due motivi. Non può essere visualizzata come un insieme ma, a motivo delle sue dimensioni, può essere praticata solo una parte dopo l’altra, in sequenza. Inoltre, essa risulta individuata non dalla continuità del tessuto edilizio, come sarebbe nel caso della regione urbana, ma al contrario dall’uso che le persone fanno del loro ambiente, al punto che i suoi limiti esterni coinciderebbero con gli spazi utilizzati dai suoi abitanti a scopo ricreativo. A prima vista tale area si scosta di poco dalla conurbazione. Ma una differenza esiste, nell’individuazione funzionale e non più topografica dei limiti, la stessa che avvia la distruzione del concetto stesso di limite urbano, almeno nella sua versione materiale. S’inaugura il riconoscimento dello spazio urbano come uno spazio funzionalmente individuato da flussi di persone, denaro e merci, che sul piano dei modelli comporta un radicale cambiamento, in cui la dimensione temporale prende il sopravvento su quella spaziale. L’indagine si concentra sul riscontro di un complesso di comportamenti individuali relativi alle economie di agglomerazione, alla velocità di reazione della popolazione, alla sua propensione alla segregazione, alla sensibilità alla distanza. Tali comportamenti sono specificati a priori da una serie di parametri quantitativi, cioè da schemi la cui formalizzazione non mantiene più alcun rapporto con la forma urbana stessa. Non è un caso che questa smaterializzazione del fatto urbano intervenga in concomitanza con il crollo del mercato immobiliare dell’inizio degli anni Settanta. L’evidente paradosso consiste nel fatto che proprio nel momento della sua massima dilatazione, spesso dopo una stasi che almeno in Italia è secolare, in coincidenza del suo massimo slancio edilizio la città entra in crisi riguardo al suo compito: elaborare un’immagine di sé in cui possa riconoscersi e riuscire a controllare in tal modo il proprio sviluppo. 91. LA CITTA’ FORDISTA. A partire dalla fine della Prima guerra mondiale e fino agli anni ’80 sono state adottate diverse ipotesi di modelli spaziali relativi all’uso del suolo all’interno delle città, pensate per rispondere alla questione: è possibile riscontrare nella disposizione interna delle funzioni urbane un ordine la cui ricorrenza implichi la somiglianza dei congegni di sviluppo delle città stesse? La prima risposta fu il modello per zone concentriche di Burgess, costituito da un centro e 5 corone circolari, ognuna dotata di uno specifico compito. Il centro ha il ruolo di comando della vita civile, economica e sociale. Intorno a esso si estende una zona di transizione in cui le attività commerciali e la piccola industria si mescolano con quelle residenziali, circondato a sua volta dalla compatta aureola delle abitazioni operaie. Alle spalle di questo si sviluppano le corone delle abitazioni delle classi medie e superiori, e di là si estende l’anello delle piccole città-dormitorio dei pendolari. A distanza di decenni si è avuto buon gioco nell’accusare tale modello di eccessiva rigidità. Nessuna critica, pur corretta, coglie il difetto di fondo annidato nell’origine stessa del modello: quello che va sotto il nome della teoria dei nuclei multipli. In esso l’uso del suolo urbano si articola non più attorno a un unico cuore ma a una pluralità di gangli, prodotti dalla specializzazione interna delle funzioni. Ne risulta la completa distruzione dell’ordine circolare, e alla serie di anelli concentrici si sostituisce una sorta di patchwork. Gramsci ha spiegato che il fordismo (la pratica della produzione in serie per il consumo di massa) si fonda sull’inclusione delle città, e soprattutto del suo sistema di trasporti, all’interno della produzione stessa. Proprio sul trasporto urbano si basa il terzo modello, quello dei settori radianti, formalizzato dall’economista Hoyt. Secondo lui la crescita della città lungo una particolare arteria si basa sullo slancio di un’unica attività. Così la raggiera di assi stradali originata dal centro agirebbe come il principale elemento d’individuazione delle zone funzionali urbane, che assumerebbero la forma di settori circolari. Anche il modello di Hoyt è il risultato di una generalizzazione dotata di due caratteristiche: è nato da ricerche empiriche all’interno di una metropoli americana e mira a una ricostruzione dell’apparecchio 45 cittadino imperniata sulla corrispondenza biunivoca tra singola zona e singola funzione. Proprio questo è il punto, perché si tratta della stessa corrispondenza tra singola unità di forza lavoro e singola funzione su cui si regge il modello fordista della catena di montaggio. È in tale corrispondenza che si concentra la logica cartografica. I modelli urbani messi a punti tra le due guerre sono ancora topografici: la città imita ancora la carta, il suo funzionamento obbedisce ancora alla logica di questa. 92. LA CITTA’ KEYNESIANA. Per la scuola di Chicago la “città era una costellazione di aree naturali, ognuna con il suo ambiente caratteristico e ognuna con la sua funzione specifica da assolvere”. Per area naturale va intesa una zona in cui si concentrano tipi individuali che si considerano omogenei. L’omogeneità in questione è solo il riflesso di quella connessa all’estensione euclidea di cui fin qui si è discusso, discende direttamente dalle proprietà della mappa. La cui validità inizia a venire meno con il passaggio dalla città fordista a quella keynesiana. La città fordista è la città della produzione, la città keynesiana è la città del consumo. Prende il nome da Keynes, l’economista inglese che teorizzò negli anni ’30 l’intervento dello Stato nella gestione delle politiche fiscali e monetarie atte a incentivare l’urbanizzazione dal lato della domanda, e risolvere così il problema della disoccupazione. Il consumo comportò la ristrutturazione del territorio e si tradusse nella smisurata crescita delle periferie: un modo per rendere necessari i prodotti delle ditte di costruzioni, delle aziende petrolifere e automobilistiche, delle fabbriche di gomma, che trasformò la città in un gigante artefatto per la redistribuzione dei redditi. Ne scaturirono vere e proprie regioni funzionali sotto il profilo economico e urbanistico, incentrate, specialmente al Nord, sulle capacità di irraggiamento di una grande città, in grado di agire da centro coordinatore rispetto a una rete di sedi medie e piccole circostanti. Si trattò di un processo continuato per tutti gli anni ’70 in tutto il mondo, indirizzato dagli interessi delle grandi imprese. Esse iniziarono a svincolarsi del tutto dal quadro di riferimento dello stato-nazione e a sfruttare a tutto campo i rapporti della nuova articolazione dell’economia mondiale: nazionali, internazionali, multinazionali, planetari. Si comprende così la nascita del concetto di campo urbano, fedele ritratto di uno sviluppo orientato su ambiti di consumo distintivi e sulla dissoluzione della rigidità di ogni confine precedente. L’astrazione del capitale finanziario cui la città keynesiana obbedisce spiega l’astrazione matematica dei modelli che hanno governato la sua analisi. Se all’inizio esso mantiene in parte almeno la qualità isotropica, negli anni ’70 perde anche quest’ultima, perché il suo corpo è sempre meno l’espressione di decisioni prese al proprio interno, e sempre più il risultato di scelte esterne. Al contrario della città fordista, la città keynesiana inizia a trasformarsi in un organismo transnazionale irriducibile al modello topografico, e invisibile nei suoi meccanismi. Questo perché nel 1969 negli Stati Uniti nacque la prima rete di comunicazione elettronica e la materia che ci circonda iniziò a mutarsi in immateriali unità d’informazione. Un evento paragonabile al mitico scontro tra Ulisse e Polifemo: allora lo spazio veniva per la prima volta alla luce; negli anni ’70, preso nella rete, iniziò a morire. 93. LA CITTA’ INFORMAZIONALE. A partire dall’inizio degli anni Settanta la stessa logica della città keynesiana entra in crisi, almeno negli USA, e il processo urbano torna a essere dominato dalle questioni relative non all’organizzazione del consumo ma della produzione. Questo non significò il ritorno della forma topografica come principio di definizione del fatto urbano, al contrario. La ragione della crescente astrazione dei modelli analitici rispetto al dato visibile risulta mimetica: essa dipende dal fatto che è lo stesso processo della produzione, compresa quella della città, a essere divorato dall’immateriale e dall’invisibile, dalla rivoluzione informatica. Con quest’espressione si intende la presa esercitata dal sistema dei flussi elettronici sul funzionamento del mondo. L’avvento di tale sistema fa tutt’uno con una serie di concomitanti fenomeni: l’abbandono del programma keynesiano di redistribuzione sociale da parte dello Stato; l’accelerazione 46 nell’internazionalizzazione dei processi economici; la decentralizzazione della produzione congiunta alla localizzazione flessibile degli impianti; lo sviluppo di nuove tecnologie basate sul trattamento dell’informazione. Il risultato di tali rivolgimenti si condensa nella differenziazione del lavoro in due settori: l’economia formale fondata sull’informazione e l’economia informale, cioè illegale. È dall’illegalità dell’economia informare e dalla natura elettronica dei flussi d’informazione che deriva il carattere per metà invisibile della nuova forma urbana. La logica del sistema dei flussi disarticola ogni struttura locale. Allo stesso tempo i valori locali restano indispensabili, proprio perché è su di essi che l’economia informazionale si regge. Proprio perché la sua materia prima è l’informazione, essa si fonda sull’immateriale capacità di manipolazione simbolica, che è un’altra maniera per dire cultura: qualcosa che dipende dall’ambiente al cui interno si viene educati. Nel corso degli anni ’80 la crescita del sistema dei flussi elettronici, traducendosi nella crisi dello spazio topografico-euclideo, riconfigurava il rapporto tra questo e la pluralità di luoghi, tra il modello di spazio e quello di luogo. Tale riconfigurazione presupponeva la possibilità di una distinzione tra l’uno e l’altro. Così il funzionamento del mondo poteva ancora essere pensato nei termini di un’articolazione dialettica tra ambiti differenti eppure integrati, tra due sensi riconducibili allo stesso significato: proprio così come la città informazionale consiste di un modello duplice, composto di due segmenti sociali e topografici diversi, ciascuno animato da una logica propria. 94. UN GIRO INTERO Torniamo a Tolomeo e al suo consiglio di assumere come modello del mondo la mappa e non il globo. Per gli uomini del Medioevo Dio era un globo, una sfera che aveva il centro dappertutto e la circonferenza da nessuna parte. Nell’epoca d’oro della costruzione dei globi, il ‘600, Pascal applicherà alla natura tale definizione. Il globo, infatti, è il prototipo della scultura barocca, è un’opera concepita per uno spettatore che le giri intorno a 360 gradi. Ma se esso è la statua della Terra, dove passeggia lo spettatore che alla Terra in tal modo resta esterno? E com’è possibile pensare reale tutto questo prima del primo astronauta? Girare intorno al globo non induce solo all’ammissione dell’esistenza del vuoto assoluto, ma corrisponde alla pratica per cui la conoscenza è l’esito di un circuito intorno a qualcosa che non conduce alla fine da nessuna parte se non al punto di partenza. Stare fermi e far scorrere il globo con la mano, invece, comporta l’idea che il sapere sia fondato sulla vista e sul tatto. Per il soggetto che si aggira intorno al globo lo spazio non esiste, né dove il soggetto si trova né sulla sfera: i passi del soggetto obbediscono a una misura che non è standard, e sul globo non esiste la scala, ma le proporzioni delle sue parti dipendono dalle relazioni interne. Secondo la logica del globo, sul quale non esistono linee dritte, a una piccola superficie corrisponde un grande volume. Tale principio corrisponde a quello dell’accumulazione capitalistica che oggi appare selettiva e discontinua, frammentaria e disomogenea. Così come selettiva e discontinua, frammentaria e disomogenea è la città di oggi, quella globale, all’interno del cui congegno spazio e tempo non spiegano quasi più nulla, e l’apparenza topografica, il visibile, è uno spoglia da cui non si ricava più nulla di concreto circa il funzionamento del mondo. 95. LA CITTA’ GLOBALE Le città globali non sono necessariamente le città più grandi della Terra. Quando le prime vennero riconosciute come tali, secondo la classificazione delle Nazioni Unite le città che superavano i 10 mln di abitanti erano 13. Di esse solo le prime quattro (Tokyo, San Paolo, New York e Città del Messico) sono per il momento annoverate tra le città globali, cui s’aggiungono Londra, Parigi, Francoforte, Zurigo, Amsterdam, Sydney, Hong Kong. Le città europee e nordamericane controllano, quelle asiatiche e sudamericane s’ingrandiscono a dismisura, mentre l’Africa nemmeno compare. Sebbene l’elenco delle città globali sia da intendersi in maniera dinamica, al suo interno le modifiche avvengono lentamente, anche a causa della particolare logica dell’industria finanziaria, tipicamente selettiva: mentre le sue attività si estendono in 47
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