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Farsi piacere: la costruzione del gusto, di Manuele Arielli, Sintesi del corso di Estetica

Riassunto del libro Farsi piacere: la costruzione del gusto, di Manuele Arielli Per il corso di Filosofia dell'esperienza estetica, tenuto dal professor Diodato.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 08/11/2019

Hellionorr
Hellionorr 🇮🇹

4.5

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Scarica Farsi piacere: la costruzione del gusto, di Manuele Arielli e più Sintesi del corso in PDF di Estetica solo su Docsity! FARSI PIACERE; LA COSTRUZIONE DEL GUSTO – EMANUELE ARIELLI CAPITOLO 1: DE GUSTIBUS Esistono situazioni in cui cerchiamo di cambiare i nostri gusti (ad esempio aspiriamo a trasformare ciò che vogliamo per renderci desiderabile una persona, una pietanza, uno stile di vita, un’idea politica...). Se secondo Schopenhauer una persona “può fare quello che vuole ma non può volere ciò che vuole”, per Dworkin e Kant una persona è veramente libera quando sa riflettere sulle proprie preferenze e cambiarle -> quindi la libertà non è affatto il fare ciò che si desidera ma il decidere cosa desiderare. In altre parole, non solo vogliamo essere liberi da impedimenti esterni ma avere anche il controllo del nostro sistema di desideri, gusti e predilezioni. Questo libro orbita intorno a un’idea sospetta, e cioè che sia possibile costruire i gusti, piegarli alla nostra volontà. Ci pare una forzatura ipocrita e moralmente discutibile il farci piacere delle cose (persone, lavori, cibi...), perché dal momento in cui le inclinazioni personali definirebbero chi siamo, modifucarle sarebbe come tradire noi stessi e la nostra autenticità. Tuttavia, occorre diffidare dell’autenticità come metro di misura del vero sé, dotato di gusti genuini e immutabili (opposti a quelli acquisiti e costruiti) perché senza che ce ne rendiamo conto, anche questi gusti genuini sono oggetto di sforzi di trasformazione (educazione, biologia, media). Domande guida: • Quali sono le ragioni che ci inducono a cambiare gusti? • I gusti possono essere controllati e modificati? • In quali circostanze si tratta di un atto libero e in quali è una subdola forma di adattamento? • I gusti sono un fatto privato? • Come distinguere un gusto genuino da un gusto esibito per ragioni opportunistiche? • Cos’è un gusto genuino? Idea centrale del saggio: per trasformare i propri gusti è necessario un lavoro di distaccamento da sé che si avvale di finzione, autoinganno e alienazione controllata. Sapersi ingannare diventa tratto distintivo di autonomia nei confronti dei propri vincoli interni. L’ipotesi avanzata è: l’intervento sui nostri gusti si rivela una ‘pratica di libertà’, ossia un esercizio di autonomia con cui ‘aggiriamo’ noi stessi per esplorare nuove preferenze e sovvertire le gabbie di quelle preesistenti. CAPITOLO 1: ACQUISIRE E SOVVERTIRE I GUSTI Acquisire un gusto è diverso dallo scoprirlo: per scoprire che qualcosa ci piace basta farne esperienza (e avere le competenze se si tratta di un prodotto culturale), il piacere e l’apprezzamento verranno da sé. Invece acquisire un gusto impone la necessità di lavorare contro la struttura delle nostre inclinazioni preesistenti, con sforzo e tensione. L’autore parla della sua impazienza estetica: non c’è spazio per ciò che non soddisfa immediatamente il mio desiderio (gli algoritmi contribuiscono ad accentuare questo ciclo autoreferenziale) • Autoerotismo emozionale: il prodotto culturale cessa di essere qualcosa verso cui mi apro con curiosità nell’attesa che l’artista mi riveli ciò che non conosco. Ora la qualità dell’oggetto è misurata in base all’efficienza e rapidità nel farmi raggiungere il massimo di soddisfazione; qualsiasi intoppo è irritante. • Anedonia: declino della capacità di apprezzare nuovi stimoli. Sembra che il mio gusto eserciti una tirannia su di me, impedendomi di oltrepassare il muro algoritmicamente forzato dei miei desideri. Una ragione che può motivarmi a cambiare e a esplorare nuovi gusti è: non ho guide per seguire una dieta sana, per non mangiare schifezze sento il bisogno di assumere il controllo del mio gusto, di imporgli una direzione. L’imperativo avanguardistico: Marcel Duchamp diceva “Mi costringo a contraddirmi in modo da evitare di conformarmi al mio stesso gusto”, sintetizzando un aspetto essenziale delle avanguardie artistiche. Andy Warhol diceva “C’è tanta gente con cui competere qui che l’unica speranza di avere qualcosa sta nel cambiare i propri gusti e volere ciò che gli altri non vogliono”. L’arte contemporanea può essere vista come un cambiamento autoindotto di gusti. Le avanguardie hanno ribaltato il rapporto tra arte e giudizio: non misuriamo più l’opera in base ai gusti, bensì sono i gusti a doversi adattare all’opera; pertanto chi studia discipline artistiche sperimentaliste contemporanee non impara più tecniche compositive come la pittura ma deve lavorare su se stesso per produrre dentro di sé una nuova sensibilità estetica per rompere la gabbia delle simpatie preesistenti. Pure lo spettatore di una mostra di arte contemporanea è tenuto ad esercitare apertura mentale e a ricalibrare il proprio gusto per comprendere l’opera e trovarla interessante. L’enigma che l’opera pone allo spettatore è dunque: che cosa devi fare dentro te stesso per poterla apprezzare? L’epoca autoriflessiva: Il ventesimo secolo è l’epoca della continua rimessa in discussione; la riflessività diventa presupposto dell’autotrasformazione, un impulso ad auto-sovvertirsi. Una conseguenza della riflessività è l’elevato valore che attribuiamo all’autodeterminazione dell’individuo: ad esempio siamo allergici agli eccessi di paternalismo, ovvero al controllo da parte di un’autorità di ciò che dovremmo fare e desiderare. Solo per quanto riguarda l’infanzia riteniamo legittimo guidare dall’esterno i giudizi di una persona. Attribuiamo dunque all’adulto la responsabilità di fare scelte giuste, ma dato che le scelte di una persona sono espressione dei suoi desideri, questo non significa altro che essere responsabili di ciò che si desidera. Pertanto, se in passato l’autorità consisteva dell’indurre obbedienza, quindi nel far fare alle persone, oggi, per non compromettere gli ideali di autonomia, ambisce a far volere, a fare in modo che le persone vogliano volere. Per questo c’è un incremento di letteratura psicologica sullo studio della gestione di sé stessi e dell’autocontrollo, così come il fiorire della manualistica self-help, che suggerisce modi per cambiare abitudini, trasformarsi per il meglio, acquistare più fiducia, maggiori abilità sociali, diventare più efficienti... I tradizionali testi sacri hanno avuto tra le funzioni quella di essere antesignani dei moderni libri di autoaiuto, guide spirituali per affrontare le angosce dell’esistenza, per orientare in modo corretto le proprie aspirazioni e migliorare se stessi. La sociologa McGee avanza l’ipotesi che la proliferazione di manuali di autoaiuto sia da vedere come una sindrome delle società avanzate, che hanno perso schemi di 1 facciamo (se dico che mi piace scrivere e poi non ho mai voglia o se dico di apprezzare la musica classica ma non la ascolto mai, forse è meglio farsi un esame di coscienza a proposito dell’immagine che abbiamo di noi stessi). Osservare i comportamenti non è una soluzione infallibile contro l’opacità dei gusti, perché anche i comportamenti sono malleabili e soggetti a distorsioni valutative, ma sono vie d’accesso più plausibili per capire chi siamo rispetto alle storie che raccontiamo. Di solito desideriamo ciò che ci piace e ci piace ciò che desideriamo, ma ci sono circostanze in cui possiamo apprezzare qualcosa o qualcuno senza averne desiderio e non è strano anche il contrario, ovvero desiderare qualcuno che non apprezziamo come persona. Qui abbiamo a che fare un una distinzione centrale: quella tra piacere e desiderio, che funzionano con meccanismi biologici del tutto distinti. Il piacere è il senso di benessere e di felicità che segue il soddisfacimento di un bisogno; è indotto dal rilascio di endorfine, la cui insufficienza è causa di stati depressivi. La natura spinge un organismo a perseguire beni urgenti per la sopravvivenza prospettandogli come ricompensa il piacere, ed è la dopamina ad attivare a livello neurofisiologico l’impulso a perseguire la ricompensa. Esistono anche casi in cui si desidera qualcosa e quando lo si ottiene non si prova piacere: pulsioni senza godimento, ed è la situazione tipica di chi è vittima di una brama compulsiva; nei casi più letali lo vediamo nei tossicodipendenti, nei casi meno drammatici e più diffusi lo vediamo in quelle ossessioni quotidiane che vanno da atti ripetitivi (mangiarsi le unghie) ad abitudini incontenibili (controllare mille volte Instagram, fissare il cellulare, eccedere nel cibo...). impulsi che portano la persona ad abbuffarsi di stimoli oltre i limiti di sazietà, senza liberarsi dell’urgenza, anzi alimentandola in assenza di appagamento: non lo faccio perché mi piace ma perché se mi astengo mi sento a disagio. Non consideriamo sempre i nostri gusti i migliori, a volte non approviamo ciò che apprezziamo e ci sono circostanze in cui non vogliamo ciò che ci piace e non ci piace ciò che vogliamo -> questo rivela la possibilità di assumere uno sguardo dall’alto sulle nostre inclinazioni (che è quello che ci distingue dagli animali, il quale non può riflettere sui propri desideri). CAPITOLO 4: LA VOLPE E IL DESIDERIO Desiderare è voler trasformare la realtà adattandola al desiderio, però a volte si adatta il desiderio alla realtà per evitare il dolore della rinuncia (ad es. vorrei un nuovo cappotto di cachemire ma quando vado a vederlo mi rendo conto che è eccessivo e costa toppo, allora arrivo a convincermi che tutto sommato è meglio il mio vecchio cappotto di lana, e poi il cachemire non mi è mai piaciuto) -> questo è quello che Elster definisce “cambiamento adattivo di preferenze”, prendendo ad esempio la classica favola di Esopo della volpe che vuole l’uva, irraggiungibile, e si convince che questa sia acerba (risolvendo così la dissonanza tra desiderio e realtà). Teniamo in conto due aspetti: • La metamorfosi delle preferenze è un processo automatico e involontario, forse anche inconscio • Il cambiamento può anche essere un intervento volontario sul sé (lo chiama ‘pianificazione del carattere’), quindi i desideri sono sottoposti a trasformazione. Questo è un lavoro su se tessi, un adattamento ai vincoli del reale che rispecchia l’ideale di disciplina del sé dello stoicismo. Può essere la condizione forzata di una donna che vorrebbe amare il marito ma non lo ama, o il voler apprezzare un’arte ma non riuscirci L’atteggiamento della volpe è momentaneo e dovuto alle circostanze sfavorevoli, non si tratta di una vera trasformazione ma di un temporaneo autoinganno. Il fenomeno dell’uva acerba rappresenta il caso in cui svaluto ciò che non ho, ma la psicologia riconosce anche il fenomeno opposto in cui rivaluto ciò che non ho (il fenomeno dell’erba del vicino), in base in cui apprezzo e idealizzo qualcosa in quanto non mi appartiene. Inoltre, esiste anche il caso in cui svaluto ciò che ho, ovvero la posa dell’insoddisfatto cronico, che ottiene qualcosa e smette di apprezzarlo perché si focalizza su particolari negativi. In un ulteriore caso si può rivalutare ciò che si ha, fenomeno simile all’effetto Pollyanna, la cui filosofia consiste nel vedere il lato positivo di ogni situazione in cui ci si ritrova, perfino la più avversa (in apparenza è positivo ma può degenerare in casi eticamente discutibili, come quando una sposa è vittima di un marito oppressore e finisce per apprezzare la sua condizione). Se fossimo dotati della capacità illimitata di adattamento di Pollyanna allora non avremmo più matrimoni infelici né lavori noiosi; il dipendente frustrato amerebbe il suo lavoro, il senzatetto vedrebbe la sua vita come la migliore possibile. Desiderare ciò che non abbiamo e avversare ciò che abbiamo potrebbero essere visti come impulsi di un’umanità fondata sul desiderio senza freni; eppure, in forma moderata possono essere concepiti anche come forze che alimentano in una persona sana la sana ambizione di superare la propria condizione attuale. Essere sempre soddisfatti di ciò che abbiamo o rifiutare ciò che non possiamo raggiungere potrebbero essere invece considerati meccanismi di salvaguardia dell’incessante conflitto tra desiderio e realtà, ma anche processi perversi di accettazione e ripiego passivo. Tuttavia, potremmo dire che tutte le nostre aspirazioni sono adattate alle circostanze e alle opportunità offerte, perché nessuno può ottenere quello che vuole (ricchezza, felicità, vita eterna, salute, intelligenza), e solo pochi passano le giornate a rammaricarsi per l’irraggiungibilità di questi ideali, di solito ce ne facciamo una ragione. Nella storia della volpe e l’uva, la volpe non cambia i propri gusti bensì cambia il proprio modo di percepire e interpretare la realtà: il desiderio non è negato, resta intatto; è piuttosto la realtà a non essere considerata all’altezza delle aspirazioni. In sintesi, nel conflitto tra realtà e volere di solito trasformiamo il reale o trasformiamo il desiderio, ma c’è anche un altro livello di soluzione, ossia quello in cui modifichiamo la nostra interpretazione del desiderio o della realtà. Interpretare non significa cambiare ma illudersi di averlo fatto. Immaginiamo ora uno scenario: assistiamo al saggio teatrale dei figli dopo mesi di loro duro impegno; è una situazione in cui desideriamo con forza che lo spettacolo ci piaccia. Durante la recitazione ci rendiamo conto che lo spettacolo non è all’altezza delle aspettative, quindi ora il conflitto non è più con una realtà esterna come poteva essere l’uva irraggiungibile, bensì con una realtà interiore, ossia il fatto di trovare noioso lo spettacolo dei figli pur desiderando di apprezzarlo. Nel desiderio di volerlo apprezzare il padre si convince che lo spettacolo era bello, si convince che il proprio gusto fosse orientato nella direzione sbagliata; potrebbe dirsi “pensavo di trovare lo spettacolo insopportabile, invece ero irritato dalla pessima scenografia e dal rumore in sala”. Oppure, in maniera simile, posso deviare la mia insofferenza per la musica 1 atonale interpretandola come inadeguatezza del mondo in cui la ascolto, evidentemente differente da quello del mio amico esperto di musica. Ovvero non penso più che i miei gusti siano incongruenti ma che fosse sbagliata la maniera in cui li esercitavo. CAPITOLO 5: GUSTI AUTENTICI? Un esercizio forse sbrigativo ma illuminante è tracciare la mappa dei propri gusti. Il gusto è fatto di mille disgusti; mostrarsi onnivoro potrebbe oltretutto fare di me una persona scialba. La capacità di disgustarsi o di rendersi indifferenti un gusto è quindi tanto importante quanto quella di acquistarlo. Se è vero che i gusti rispecchiano la mia identità, allora sarà inevitabile che io abbia una reazione a denti stretti contro coloro che li mettono in discussione. Chi inserisce ciò che amo nella sua personale categoria del disgusto, negando ciò che a me piace, nega ciò che io sono. Già Kant dopotutto diceva che i giudizi di gusto, benché soggettivi, reclamano validità universale. Il gusto quindi è un linguaggio che manifesta me stesso agli altri, a tal punto che nel marketing gli oggetti vengono descritti almeno sotto due dimensioni: quella funzionale (a cosa serve) e quella simbolica (che cosa comunica). Ci sono oggetti la cui dimensione funzionale prevale su quella simbolica, per esempio un dentifricio. Ci sono invece oggetti, come un cellulare all’ultimo grido, che al di là delle loro funzioni trasmettono importanti segnali sul mio status. E oggetti, infine, in cui la dimensione simbolica prevale sulla funzione: pensiamo a un vestito o un paio di scarpe per una persona attenta alla moda. Se il gusto diventa un linguaggio allora con esso non solo posso parlare ma posso anche mentire, come quando esibisco una borsa di lusso e segnalo ricchezza pur avendo il conto in rosso. Non è detto che i gusti debbano essere esibiti solo a uso degli altri: potrei segnalare qualcosa di me a me stesso, usare cioè la funzione simbolica di un oggetto per persuadermi di essere fatto in un certo modo (ad es. compro le scarpe da ginnastica per persuadermi di essere un individuo sportivo e attivo). Per lo psicologo Geoffrey Miller una persona fa promozione del sé inviando segnali sulle sue scelte estetiche, per esempio mostrando su un social network quali generi musicali, libri o film preferisca, oppure esibendo i prodotti che compra o ostentando un certo stile di vita. Ma allora lo scopo dell’esibizione del sé non è rivelare come si è veramente, quanto piuttosto esibire un’identità per ottenere un certo obiettivo; questo significa che non si tratta di descrivere se stessi, bensì di costruire se stessi attraverso i gusti. Quanto di quella ista di mi piace/non mi piace è sincero e quanto è una messa in scena? Ritroviamo argomenti analoghi anche nel pensiero postmoderno, che vede nela fabbricazione dell’identità l’unica alternativa al venire meno di un sé reale e definibile una volta per tutte. Il postmoderno considera cioè il soggetto una sorta di illusione ottica, il prodotto di un miscuglio di influenze sociali, schemi culturali e forze economiche. Sull’idea di soggetto come prodotto di un bricolage osserviamo una netta polarità tra entusiasti e pessimisti: gli entusiasti vi vedono un’occasione per l’indivisuo di prendere in mano le redini della propria identità, emancipandosi dai dogmi del passato che lo irrigidivano in ruoli prestabiliti. Il postmoderno celebra allora la libertà di giocare con la propria biografia o di poterne variare a piacere l’immagine. La contrapposizione tra dimensione privata e pubblica del sé si acutizza durante il romanticismo (es. le confessioni di Rousseau,). Nelle epoche successive ritroviamo in varie forme questo atteggiamento mi movimenti culturali di ribellione, in mode tendenze di individui in fuga dell’alienazione consumistica e dall’oppressione del conformismo, ma anche in filosofi come Sartre e Heidegger. Tuttavia pochi hanno visto in questa lotta all’ipocrisia un lato oscuro. Adorno per esempio scorge tentazioni anti-intellettualistiche, toni che esaltano la spiritualità interiore e l’incontinenza di un io elevato a misura etica, e che rifiutano ragionevolezza e pragmatismo, considerati i valori meschini e piccolo borghesi, finendo per saturare il linguaggio filosofico, quotidiano, e il dibattito pubblico e politico: per intenderci si immagini un politico che guadagna il consenso non perché è ragionevole e a un buon programma ma perché è se stesso, è autentico. Si vede così che l’autenticità elevata a ideale assoluto entra in contrasto con i principi dell’autonomia individuale, per almeno tre motivi: • L’autenticità esalta la spontaneità di un sé puro e libero da qualsiasi vincolo, auto riflessività inclusa. Una persona che valuta le proprie inclinazioni e formula riflessioni sarebbe già colpevole di contaminare tale purezza. Piuttosto regna il soggetto come pura macchina istintuale; • L’autenticità prevede un individuo cartesiano in cui l’interiorità può essere separata Dalle maschere esteriori del quotidiano. È un’immagine poco realistica, perché è difficile tracciare il confine tra la zona della persona vera e genuina dal resto. Piuttosto l’autonomia dovrebbe essere lo sforzo che non si conclude mai per organizzare e dare ordine ai frammenti della propria esistenza, per capire i fattori che ci determinano; • Il culto dell’autenticità vede sempre con sospetto qualsiasi divergenza tra sè privato e sè pubblico, il sè pubblico è artificioso e conformista. Il mondo ideale il sé pubblico dovrebbe essere assoggettato a quello privato, ma ciò è diametralmente opposto a quell’etica della padronanza di sé che nell’antichità fu concepita come base dell’autonomia: l’enkrateia, il potere sul sé, e che individuava nella capacità di gestire una maschera pubblica la garanzia per salvaguardare il proprio sé privato dall’invadenza dell’opinione altrui. Secondo gli ideali stoici, il saggio come un bravo attore che recita, non per ingannare l’altro, bensì per mantenere la padronanza interiore. L’Ipocrisia una presa di distanza interna Dalle proprie manifestazioni esterne. Come inganno perpetrato con gli altri, l’ipocrisia è una forma di menzogna, ma sul piano dei gusti E delle preferenze personali, È uno stato di moderata insincerità con se stessi. La separazione tra piano privato e pubblico È rilevante per la questione dell’acquisizione di gusti, in quanto le strategie per trasformarli hanno l’aspetto di finzioni e messe in scena. Finzioni non volte ad ingannare l’altro, ma ad agire su di sé. Si vuole agire sul sé perché esso è frutto di influenze esterne e di fattori che non controlliamo, non un nucleo genuino E duro da salvaguardare. Mettere in discussione i propri gusti diventa pratica di libertà, un esercizio di distanza critica E di esplorazione di punti di vista alternativi. Un primo passo consiste nel riconoscere queste influenze: conoscere se stessi non va più inteso nel senso di conoscersi nel proprio profondo, quanto piuttosto nel senso di conoscere cosa ci compone, cosa ci influenza e dirige. Questo non significa che ci si possa emancipare da tali influenze. Le strategie che verranno discusse nei prossimi due capitoli consistono in azioni comuni che fanno parte del nostro comportamento quotidiano. Quello che dovrebbe cambiare è 1 l’uso consapevole di queste strategie: conoscere i fattori che influenzano i nostri gusti è premessa per un intervento mirato e cosciente su di essi. Interventi che non hanno garanzia perché il soggetto non si lascia mai plasmare del tutto, ci sono inclinazioni radicate nel profondo e difficili da modificare. Ci sono diversi gradi di successo nella trasformazione dei gusti: cambiare gusti può riuscire, ma può anche diventare autoinganno, cioè convinzione illusoria di aver acquisito un gusto. L’autoinganno si ha quando la distinzione tra vero e falso finisce per confondersi anche per l’ingannatore. Nell’essere umano, negare aspetti del sé, immaginare convincersi di essere altro, diventa una strategia per allontanarsi dai limiti dell’essere se stessi. Se il confine tra inganno e autoinganno è nebuloso, lo è anche quello tra autoinganno E cambiamento reale delle inclinazioni personali. C’è chi si illude di avere determinate preferenze e chi manifesta in modo sempre coerente con i propri comportamenti. Percorsi di manipolazione autoindotta: chi vuole modificare le proprie preferenze incappa per forza in una di queste fasi: • Inganno: la persona finge gusti che sa di non avere o di avversare (contraffazione delle preferenze) • Atteggiamento di superficie: il disinteresse verso i propri gusti reali, forse assenti, tipicamente si coniuga con l’ansia di appropriarsi the mode e tendenze. Non c’è Lo sforzo di celare un gusto ma solo di mettere uno in scena • L’individuo si autoinganna e crede di avere determinati gusti. • Si riesce a farsi piacere qualcosa sul serio CAPITOLO 6 E 7: STRATEGIE DI AZIONE 1. Tecniche/strategie esteriori: Secondo Aristotele virtù e carattere non nascono in modo spontaneo, richiedono esercizio. Se non sei ancora virtuoso, ma ti comporti in modo tale da riuscire a diveltarlo, allora hai fatto uso della finzione come strumento di trasformazione. Non basta desiderare il cambiamento, bisogna esercitarlo nel tempo. Esistono cinque strategie basate sul “fare come se”. Non si finge l’apprezzamento per ingannare l’altro, lo si fa come esercizio interno sul sé. • Fare come se qualcosa si piacesse è un tentativo di apertura mentale per uscire dal perimetro delle nostre preferenze: significa indossare un gusto nuovo allo scopo di vedere il mondo da un punto di osservazione diverso. Secondo Willam James, in modo simile,, non sono le emozioni a causare reazioni corporee esterne, ma il contrario: non piango perché sono triste, sono triste perché piango. Gli stati affettivi sarebbero cioè influenzati dal comportamento esterno, la periferia fatta dei movimenti facciali, corporei, delle reazioni fisiologiche, agirebbe sul sé. Le ricerche psicologiche successive hanno relativizzato questa idea E suggeriscono l’esistenza di un gioco complesso tra stati interiori e manifestazioni esteriori. Esempio di un esperimento in cui un gruppo di studenti Deve parlare positivamente di un quadro E l’altro gruppo deve parlarne negativamente: gli studenti che avevano simulato di apprezzare l’opera, avevano finito per apprezzarla veramente. Il “come se” opera anche quando imito qualcun altro: in virtù dei meccanismi empatici, comportandomi come si comportano gli altri cominciò a volere ciò che loro vogliono. Dall’imitazione si arriva all’interiorizzazione degli stati mentali. Sospettiamo che le persone non abbiano le idee molto chiare sulle nostre preferenze: questo spinto lo psicologo Daryl Bem a sviluppare la teoria della percezione del sé: noi montiamo l’attenzione sulle nostre azioni perché non abbiamo le idee chiare sulle nostre preferenze. Guardiamo cosa facciamo per capire cosa desideriamo. Si insinua il rischio di un circolo vizioso tra atti e gusti chr si rafforzano a vicenda, facendoci imboccare direzioni che non avremmo voluto prendere. Occorre stare attenti a cosa si fa “come se”, prima che diventi un fatto della nostra interiorità che non vogliamo più cambiare. • Consumo ironico: l’appropriazione ironica è una forma particolare di “come se”: si finge un apprezzamento non ancora reale e lo si mette in scena con un poco di superiorità intellettualistica (come qualcuno che sceglie una canzone pacchiana non perché abbia cattivo gusto ma per esibire senso dell’umorismo). L’ironia, come diceva Freud, È un meccanismo di difesa, di presa di distanza, che immunizza La persona dal rischio di rendersi ridicola, deviando a proprio favore una potenziale minaccia all’immagine di sé, segnala basso coinvolgimento emozionale e superiorità rispetto allo stile esibito. Si pensi al recupero di un oggetto retrò come l’orologio digitale Casio: una volta superata la fase di distanza ironica, esso si è inserito di diritto nello stile hipster. Simile al consumo ironico è quello onnivoro: l’onnivoro può essere l’individuo abbastanza colto, che è in grado di ascoltare sia musica d’avanguardia, sia musica leggera, senza assumere nei confronti di quest’ultima un tono di disprezzo intellettuale. La mancanza di disprezzo culturale può diventare una forma ancora più raffinata di snobismo verso persone etichettate come intolleranti. Il consumo ironico o onnivoro è una strategia per sperimentare bustine scelte di vita che altrimenti resterebbero precluse a causa della rigidità dei gusti di una persona o di quelli imposti dal suo ruolo. • Lasciarsi condurre dal gruppo: l’entusiasmo collettivo spinge la persona a liberarsi della sua individualità e a seguire il flusso indistinto del gruppo e diventare uno con esso. Notare che qualcosa o qualcuno è interessante per gli altri, lo rende interessante e attraente anche per noi; inoltre siamo restii a boicottare i sentimenti collettivi. Il contagio di gruppo non attiva solo passioni forti, può anche farci adagiare in modo passivo nell’istinto di gregge. Ci sono modi più indiretti in cui sono influenzato dalla presenza degli altri: dato che sono insicuro delle mie stesse preferenze, faccio riferimento allo sguardo altrui, come l’altro mi vede e giudica, per definire me stesso. Dunque, noi ci adattiamo a come ci vedono gli altri, O meglio: a come gli altri dicono di vederci, ma tendiamo anche ad adeguarci all’immagine di noi che gli altri ci offrono. A volte convinciamo gli altri che ci piaccia qualcosa perché gli altri possano convincere noi stessi che quel qualcosa ci piaccia. Questo impulso poggia sul desiderio di riconoscimento: un impulso profondo dell’animo umano a voler trovare una conferma della propria persona del giudizio altrui. Se vogliamo diventare buoni, dovremmo convincere gli altri a giudicarci tali. Perché se gli altri ci giudicano buoni, nel tempo lo diventeremo. • Esposizione: è raro che una canzone ascoltata per la prima volta venga gustata appieno; comincia a piacerci solo dopo un certo numero di ripetizioni. 1 Esiste un linguaggio dell’apprezzamento: ad esempio un’azienda può stiolare in modo miracoloso la motivazione dei venditori chiamandoli “sale manager”, un formaggio che ha un terzo di grassi sembrerà più salutare se ci si scrive sopra “ha due terzi di sostanze magre”... Più l’oggetto dell’apprezzamento è concettuale e astratto, cioè più esso si sottrae alla semplice seduzione dei sensi, più importante sarà il saper dare ragioni del valore estetico con le parole. Attraverso la padronanza verbale raggiungiamo un grado di maestria anche nei nostri gusti: saper creare la spiegazione giusta per giudare l’opera che abbiamo di fronte ci permette non solo di esibire competenza, ma anche di plasmare il nostro stesso atteggiamento in base a un processo di autopersuasione. Più siamo esperti nella costruzione di una narrazione ceh renda plasibile il perché dovremmo o non dovremmo apprezzare qualcosa, più saremo abili a persuadere noi stessi. In psicologia il meccanismo con cui creiamo spiegazioni plausibili del nostro operato si chiama razionalizzazione. Razionalizziamo quando creiamo spiegazioni puntando all’eleganza, alla plausibilità e alla coerenza dell’immagine che abbiamo di noi stessi come di eprsone sensate e dotate di buon gusto. Razionalizziamo anche quando non ammettiamo con noi stessi di essere guidati da processi che sfuggono al nostro controllo, da motivi incorenti, impulsivi o eticamente discutibili. Razionalizziamo perché la capacità di modellare discorsi intorno alle ragioni del proprio agire, spesso ad hoc, ex post, è il presupposto per creare un sé accettanile. Per sorreggere l’integrità del nostro centro di gravità narrativo, siamo spinti a cercare la coerenza anche in circostaze in cui essa è assente. Non tutti i giudizi di valore hanno una funzione retorica, piuttosto il linguaggio ha una funzione di sostegno; il surrealismo, per esempio, non avrebbe avuto l’importanza che ha avuto se le sue opere non fossero state sostenute da un discorso teorico-filosofico portato avanti dai suoi membri e dai critici sostenitori. L’opera reale è solo una parte di un tutt’uno che include il mondo di parole che l’accompagna. In tal senso la tradizione che parte dall’orinatoio di Duchamp è quella di un’arte che non va guardata, che non è retinica, ma un’arte di cui si parla e su cui si scrive perché intellettualmente provocnte. Essa genera teso e discorso teorico, e questi testi fanno parte della vita culturale dell’opera. Usare il linguaggio ci avvicina a quel “come se” discusso nel capitolo precedente: ma mentre là si trattava di manipolare l’esteriorità dei propri atti, qui invece si lavora sulle ragioni interiori, creare gli argomenti giusti per apprezzare qualcosa. • Strumentalizzare: nessuno si aspetta che un’opera d’arte sia banalmente piacevole, quanto piuttosto che sia coinvolgente a livello emozionale ed intellettuale. L’artista che non riesce a raggiungere tali vette si accontenta di solito di una categoria più inclusiva, quella di interessante. dire che un’attività, una persona o un’idea politica siano interesanti significa esprimere un giudizio positivo, ma tutto sommato privo di grandi passioni. Inteso come l’opposto di noiso, esso è il grado zero dell’apprezzamento. Se indursi grandi passioni dal nulla è impresa assai difficile, ecco che diventa più facile intervenire su questo grado minimale del piacere e andare alla ricerca dell’elemento interessante. Ma come ci rendiamo interessante ciò che non lo è a prima vista? Con pratiche di strumentalizazione, in cui all’oggetto o all’esperienza vengono assegnate, in modo anche opportunistico, funzioni prima inesistenti. Ad es.se ogni mattina devo fare la coda in auto o impazzisco o sfrutto la situazione ascoltando audiolibri, iniziando dai romanzi per poi passare ai saggi, poi ai corsi di lingua e così via. Quasi non vedo l’ora di isolarmi nel traffico: ciò che prima era penoso ora è interessante. Ciò che all’nizio è solo strumentale con il tempo diventa piacevole in sé, ad esempio caccia e pesca sono diventate pratiche ludiche. Oppure abiti o calzature, mezzi di protezione, diventano oggetti apprezzati di per sé. Questo spiega anche la difficoltà descritta nel quinto capitolo di distinguere un apprezzamento disinteressato di una forma d’arte da un consumo opportunistico. Anche l’ostentazione di gusti è un uso strumentale, e se questo può favorire pratiche culturali che possono poi rendersi autonome e diventare gusti propri, tanto meglio: un individuo dalle lettura limitare che iniiza a prendere in mano guerra e pace anche per pura posa non può che esser eincoraggiato. La riappropriazione è qualsiasi atto che prende il brutto, il marginale o il noioso e lo ritrasforma in qualcosa che ha valore. I bambini sono quelli che senza sforzo né malizia praticano tattiche sovversive allo scopo di esplorare e rendersi interessante il loro ambiente: un muretto diventa un sentiero su cui camminare, una maniglia cigolante uno strumento musicale...così gli usi non convenzionali di spazi, oggetti, situazioni, ore di lavoro, di tecnologia e di ogni prodotto culturale diventano atti di astuzia creativa in cui le persone si ritagliano in modo opportunistico dei margini di libbertà individuali. CAPITOLO 8: L’UOMO SENZA PREFERENZE Potremmo pensare che sarebbe perfe�o essere in grado di manovrare i propri desideri a piacimento, avere potere su di essi. Così penseremmo di conseguenza che strategie, esercizi e aggiramen� del sè sarebbero allora solamente metodi lacunosi. In realtà, il valore di ques� esercizi consiste nel sostenere l’autonomia della persona anche a�raverso il suo cara�ere di sforzo. Lo sforzo racchiude anche la possibilità del fallimento. Supponiamo dunque che cambiare gus� e preferenze non richieda alcuna fa�ca: immaginiamo di essere come nel libro di fantascienza di Greg Egan persone che possono programmare le proprie mo�vazioni e stabilire con un semplice a�o mentale il livello di soddisfazione per ogni cosa. Come noi modifichiamo il volume dell’audio, il protagonista con una manopola deve fissare a quale livello apprezza ad esempio la musica di Beethoven, é interessato alle donne, é incen�vato a fare ginnas�ca, ecc. Da un lato questo poter sembra il compimento dell’ideale stoico di padronanza del sè, dall’altro si rivela una dannazione perché il protagonista scopre di essere vi�ma della tentazione di neutralizzare ogni dispiacere, nonché della tentazione di aumentare al massimo il godimento anche per l’esperienza più banale e rischiare di cadere in uno stato paralizzante di bea�tudine perenne. Il controllo totale di sè si rivela una responsabilità ardua e piena di insidie. È vero che siamo lontani dallo scenario di Egan, ma gene�ca, farmacologia, neuropsicologia e medicina compiono già passi da gigante in una direzione simile. Se le possibilità di intervento aumentano, si accrescono anche le tentazioni di farvi ricorso, come è avvenuto con la chirurgia este�ca. Siamo nel territorio del transumanesimo o postumanesimo, corrente di autori come Nick Bostrom o Peter Sloterdijk i quali prospe�ano e auspicano il superamento di barriere naturali considerate finora insormontabili: invecchiamento, mala�a, morte, limi� cogni�vi della mente ma anche limi� della mortalità umana. L’umanità arriva a intervenire e infine a superare se stessa. Su ques� scenari le opinioni si dividono tra sostenitori e i cri�ci che vedono in ciò sia derive totalitaris�che, sia il rischio di manipolazioni imprevedibili di fondamentali meccanismi della natura umana. Ma più che i �mori di manipolazione totalitaria del singolo da parte di autorità paternalis�che, si delinea uno scenario in cui il singolo cederà in modo spontaneo la 1 sua privacy, dietro il richiamo dell’o�mizzazione del sè e dei vantaggi economici che ciò sembra comportare. L’individuo é dunque libero di scegliere se monitorarsi o rifiutarsi di farlo, ma di fa�o non è libero della tentazione di farne uso senza limi�. Se siamo liberi di crearci subiamo la pressione di usare questa libertà, siamo quasi costre�. Di fronte alla possibilità di intervento sul sè, costruire e migliorare se stessi diventa una libertà a cui non possiamo più dire di no. Nel discorso filosofico contemporaneo c’è consenso sul fa�o che la libertà intesa come possibilità di realizzazione del sè auten�co si ribal� in una so�le spinta all’autosfru�amento. Secondo questa le�ura gli individui oggi inseguirebbero sogni di libertà e realizzazione individuale, senza ormai apparen� vincoli e obblighi esterni, in una corsa estenuante che si traduce in una realtà fa�a di lavoratori individualizza�, in con�nua mobilità, freelancers stressa� e in costante lo�a per costruire se stessi. Il sen�rsi inchiestato è il risultato di un taylorismo del sè, in cui ogni sogge�o é impegnato a costruire se stesso, magari con l’aiuto di farmaci che ritocchino la mente per o�mizzarla. L’ideologia dell’autodeterminazione non fa che amplificare il senso opprimen� di essere il responsabile unico del proprio fallimento: il sei tu che decidi diventa é colpa tua, sei un bamboccione, non sei abbastanza eccellente. Affinché le pra�che di trasformazione del sè non diven�no illusioni autoschiavizzan� in cui ci forziamo in discipline di automiglioramento libere solo in apparenza, il meglio che possiamo fare è esercitare in modo costante e discrezionale la vigilanza sui nostri giudizi, vigilanza che gli an�chi definivano phronesis, sinonimo di prudenza e saggezza pra�ca. Anche l’esercizio di trasformazione delle preferenze é questo: lo sviluppo della capacita di prendere distanza da sè, valutare ciò che si desidera, sperimentare nuove prospe�ve e pun� di vista sull’esperienza. La persona è facile preda della compulsione a formare un sè ideale, di successo, efficiente, o�mizzato. La necessità dell’autoanalisi, del saper fare un passo indietro e rifle�ere, anzi vigilare sulle proprie preferenze, é qui assente. La vigilanza sul sè impone di chiarire i miei desideri e la loro origine, tenta inoltre di respingere o deviare voleri che non vorrei mi appartenessero. E ciò vale anche per i gus� più semplici e quo�diani. L’esercizio di queste pra�che mi ha fa�o capire che io non sono i miei gus�, i quali hanno origine dal caso, dall’educazione, dalla biologia, dalla storia, dagli altri. Però divento ciò che i miei gus� mi portano a consumare: l’uomo è ciò che culturalmente parlando mangia. E quindi per evitare di finire di cibarmi a caso, è bene che io prenda una distanza cri�ca dal sistema delle mie preferenze. Se non possiedo preferenze mie e auten�che allora é bene che nemmeno tali preferenze possiedano me e mi imprigionino in una gabbia indissolubile. Mantengo sempre aperta la possibilità di provare altro, pur senza avere certezze sugli esi�. Persino il fallimento nel distanziarmi dai gus� personali, dato che siamo fa� anche di inclinazioni inamovibili, é un risultato. Cambiare é un esercizio ines�mabile, però lo é anche provare e scontrarsi con i limi� e riconoscere con dignità l’insuccesso.
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