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Federica Muzzarelli, l'invenzione del fotografico. Storia e idee della fotografia dell'Ottocento, Dispense di fotografia

Un riassunto completo e ben impaginato del libro "L'invenzione del fotografico. Storia e idee della fotografia dell'Ottocento" di Federica Muzzarelli.

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 27/01/2019

cinzia_casali
cinzia_casali 🇮🇹

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Scarica Federica Muzzarelli, l'invenzione del fotografico. Storia e idee della fotografia dell'Ottocento e più Dispense in PDF di fotografia solo su Docsity! L’invenzione del fotografico – Federica Muzzarelli Rosalind Krauss in Le Photographique (2001) intende definire i criteri critici propri del fotografico: «qual è il “genio” specifico della fotografia?». La studiosa americana ha risposto che tale specifico è il fotografico, ciò che fa di un’immagine una fotografia. Il libro della Muzzarelli vuole percorrere la storia o le storie del fotografico in relazione sia all’evoluzione della tecnica che alla concettualità (memoria, esibizionismo, voyeurismo, ecc.) del mezzo fotografico. 1. La camera oscura Già nel IV sec. Aristotele osservava le eclissi attraverso una camera oscura che gli consentiva di non rimanere accecato dai raggi solari. Il primo disegno della camera oscura, impiegata per l’osservazione dell’eclissi solare verificatasi nel 1544, si deve al matematico e fisico olandese Frisius: si osserva un foro fatto sulla parete di una stanza buia, in modo che sulla parete opposta al foro si componga un’immagine rovesciata della porzione di realtà oltre il foro. La camera oscura viene inizialmente impiegata per studi scientifici, poi in ambito artistico. Gradualmente alla stanza buia si sostituirà una piccola scatola che consente di essere spostata e di effettuare riprese all’esterno. Dal XVI – XVII secolo viene usata da artisti quali Canaletto, Vermeer, Guardi, Bellotto. Ma è dal Rinascimento che si fanno studi importanti su di essa: a metà del ‘500 Gerolamo Cardano propone l’inserimento di una lente convessa in corrispondenza del foro per aumentare la luminosità e dunque la precisione. Altri interventi e altre ricerche in questo periodo rimarcano la volontà di aumentare il grado di fedeltà delle immagini, in relazione alla pittura. Nell’illustrazione di Kircher del 1646 si vede un modello a due camere: l’una posta dentro l’altra in modo che il disegnatore potesse stare dentro la più piccola e tracciare i contorni dell’immagine riflessa dal foro praticato in quella più grande, esterna. Sempre nel XVII secolo lo scienziato Zahn mette a punto quello che è ancora il riferimento delle macchine fotografiche reflex: la camera oscura reflex. Ponendo infatti uno specchio inclinato di 45° alla parete sulla quale veniva riflessa l’immagine, ottenne il ribaltamento dell’immagine (che quindi assumeva la corretta visione naturale sinistra-destra) e questa veniva poi proiettata in alto in modo tale che sulla parete orizzontale, sulla quale era posto un vetro, fosse più facilmente ricalcabile. Questi sviluppi in campo ottico non erano ancora accompagnati da sviluppi in campo chimico, che avrebbero consentito di rendere permanente l’immagine. La camera oscura e la formazione dell’immagine 2. Protesi tecnologiche e punti di vista Si è visto come Niépce utilizzi le caratteristiche del Bitume di Giudea spalmato su lastre di diverso materiale, poi messe a contatto con un’incisione resa trasparente dalla cera o dall’olio; a questo punto i raggi del sole induriscono il bitume solo dove questo non è coperto dal disegno sovrapposto (in cui invece rimane molle). In questo modo ottiene delle matrici che può inchiostrare e stampare. Egli stesso chiamò queste prime produzioni a metà fra incisioni e litografie, fotoincisioni (precedono quelle che più tardi definisce eliografie), le quali vennero inizialmente realizzate senza l’uso della camera oscura. In seguito quest’ultima gli servirà per prolungare le capacità sensoriali, al modo di una protesi tecnologica delle facoltà umane. Questi primi esperimenti mettono in luce il particolare punto di vista del fotografico, uno fra i possibili sguardi sul mondo che permettono dirette osservazioni della realtà. Cap. III 1. Boulevard du Temple A seguito dell’accordo con il figlio di Nicéphore Niépce, Isidore, il solo nome di Daguerre figurerà nella scoperta e nelle successive sperimentazioni. Nel 1835 infatti scopre la cosiddetta immagine latente, cioè il fenomeno per cui una lastra di rame argentato inserita nella camera oscura e sottoposta ai vapori di mercurio, lasci imprimere un’immagine che verrà fuori dopo circa mezz’ora di esposizione. La riduzione dei tempi di posa e di sviluppo fu la grande scoperta di Daguerre. Nel 1837 realizza un’immagine che ha come soggetto una natura morta (calchi di gesso, borraccia di vimini, un quadro, ecc.), di straordinaria nitidezza rispetto alla vista dalla finestra di Niépce. La tecnica di Daguerre non consente di immortalare il movimento, ma nel suo Boulevard du Temple del 1839 riesce a immortalare un passante fermo ai bordi della strada, la cui sosta è bastata per il tempo di esposizione. Attraverso il fisico e astronomo francese Arago, nonché politico, Daguerre riesce a raggiungere l’Accademia delle Scienze di Parigi (1839), alla quale comunica la nascita della fotografia. In un incontro con l’Accademia delle Scienze e l’Accademia delle Belle Arti di Parigi, viene mostrato il funzionamento del dagherrotipo, i cui diritti vennero acquisiti dal governo francese. Di lì a poco la scoperta ha una diffusione enorme, per le ripetute dimostrazioni pubbliche che l’inventore stesso compie e per la diffusione, patrocinata dallo stesso Daguerre, di una camera oscura portatile in legno. Come in un’immagine allo specchio, lato destro e sinistro sono invertiti, e l’immagine è unica, non riproducibile. 2. Il fascino della copia unica L’unicità del dagherrotipo ha segnato la scomparsa di questa tecnica fotografica già alcuni anni dopo la sua invenzione. Come descritto da Benjamin, l’opera d’arte stava entrando nell’epoca della sua riproducibilità tecnica e della democratizzazione della fotografia. Tuttavia la scelta dell’unicità non è definitivamente tramontata nel Novecento, anzi ha trovato numerosi interpreti e significati importanti. Nel 1947 Edwin Land mise a punto la tecnologia della Polaroid: il primo apparecchio si chiamava Modello 95, è pieghevole e produce immagini color seppia. La tecnologia della Polaroid è costituita da un’emulsione negativa e carta positiva, poste su due rulli separati tramite dei gusci contenenti prodotti chimici; il guscio si rompe e i prodotti chimici si spandono tra negativo e positivo, trasferendo l’immagine dall’emulsione negativa alla carta positiva. Autori che hanno usatola Polaroid: nel porno-soft Carlo Mollino (metà anni Sessanta), Robert Mapplethorpe, Nobuyoshi Araki; nella pop-art Andy Warhol. Cap. V 1. Autoritratto in figura di annegato Dall’annuncio delle scoperte di Daguerre e Arago, anche Hippolyte Bayard si rimettere a lavorare ai suoi disegni fotografici e può sottoporre delle immagini positive dirette su carta sensibilizzata con ioduro d’argento a un membro dell’Istituto di Francia: le chiama images photogénées. Si mette in contatto con lo stesso Arago e gli mostra i risultati delle sue scoperte; passano i mesi e diventa sempre più chiaro che il matematico francese vuole sponsorizzare la sola invenzione di Daguerre. Per questo motivo riceve una sorta di compenso di 600 franchi dal governo francese affinché le sue ricerche non oscurino l’invenzione di Daguerre. Bayard allora mette in scena la sua vendetta: si fotografa come un morto annegato nella Senna (Le Noyè del 1840). Sul retro dell’immagine racconta la sua storia come se fosse una lettera d’addio di un suicida. Nonostante lo scarso risultato delle sue scoperte nella storia della fotografia, Bayard ci offre il primo esempio della possibilità per la fotografia di dichiarare il falso, una bugia raccontata da un nuovo strumento; inoltre il fatto di aver immortalato un morto pone le basi per la concezione della fotografia che da Barthes è stata definita «congelamento mortifero del reale». Autoritratto in figura di annegato, Hippolyte Bayard 2. Il recupero fotografico del corpo Il caso di Hippolyte Bayard testimonia il modo in cui la fotografia può dare consistenza al sogno e all’immaginazione. Inoltre il fatto di aver immortalato un corpo ci fornisce una registrazione esperienziale che ci consente di recuperarne la fisicità e la verità (non sarebbe stato lo stesso se Bayard avesse realizzato un suo dipinto). La fotografia dunque è lo strumento che consente di esaltare i fenomeni in cui un corpo agisce nel mondo; dalla fine degli anni Sessanta e Settanta del ‘900 il corpo fotografato è divenuto l’oggetto privilegiato delle operazioni artistiche, culminato nella corrente della Body Art. La fotografia degli anni Sessanta e Settanta immortala corpi che si liberano dai tabù e dagli stereotipi sociali e culturali per esperire la realtà in prima persona. I body artisti sono i protagonisti delle loro immagini per raccontare chi sono, come sono fatti o come vorrebbero essere. La fotografia ha consentito a quegli artisti di dar consistenza e realizzabilità alle loro azioni. Cap VI 1. Il giocoliere Nel 1854 il francese André-Adolphe-Eugène Disdéri brevetta un apparecchio fotografico in grado di realizzare delle immagini di piccole dimensioni chiamate cartes de visite; la sua macchina è costituita da più obiettivi, in grado di scattare da 4 a 8 immagini dello stesso soggetto riprese sulla stessa lastra. Da subito le immaginette fungono da strumento di presentazione e sul retro vi sono informazioni del soggetto, ma anche slogan pubblicitari dell’atelier che le ha prodotte. L’economicità di queste piccole immagini accelera il processo di diffusione democratica e popolare della foto: il formato delle cartes de visite innescano infatti i meccanismi della memoria, della conservazione e del voyeurismo. Si svincolano cioè da una ricezione passiva modello quadro ed entrano nei meccanismi di interazione. Inoltre accanto a tradizionali foto-ritratto in divisa militare o nel miglior vestito posseduto, molti si facevano ritrarre con indosso costumi teatrali, carnevaleschi, oggetti bizzarri, o assumendo le fattezze di personaggi noti. Da questo si nota come fosse sparita la presunta serietà dell’artista che deve dirigere il soggetto, per fare spazio alla possibilità di vivere altre vite o situazioni surreali. Quest’invenzione inoltre sembra anticipare e ispirare le future cabine per fototessere. 2. Il modello quadro Nello scritto Il pubblico moderno e la fotografia del 1859, Charles Baudelaire descrivendo le pretese della fotografia di essere considerata una forma d’arte, ci restituisce un pezzo dei dibattiti a lui contemporanei: il poeta sostiene che la fotografia ha il diritto di essere usata per sottrarre templi e monumenti alla decadenza del tempo, per salvare le memorie collettive, ma non potrà mai assurgere alla dimensione del sogno e dell’immaginario, a quell’attività creatrice specifica dell’arte. Questo è dovuto alla sua richiesta minima di capacità manuali, al suo essere un calco troppo diretto della banalità e volgarità del quotidiano, il suo essere simili ai meccanismi industriali. Tale descrizione è utile alla comprensione dello statuto dell’arte nell’Ottocento, basata su presupposti tradizionali che i fotografi (i “pittori mancati” per Baudelaire) si affannano a imitare: la fotografia finge di essere un quadro e così nega la sua stessa identità. L’emancipazione della fotografia dal quadro avverrà quando cambierà la stessa idea di arte, cioè quando questa non sarà più solo manualità e interpretazione, originalità ed eccezionalità. Ad esempio nel ready-made duchampiano del Novecento, la brutale esibizione del reale e l’esautoramento della mano dell’artista. Tuttavia nel Novecento l’arte è ricca di recuperi dal passato, in particolare della dimensione pittorica e del principio di autorialità, sintetizzabili nel modello-quadro: ad esempio il fotomontaggio dadaista. Infatti i tedeschi Hannah Höch e Raoul Hausmann utilizzano questa tecnica come detonatore per le spinte nazionalsocialiste di Hitler: attraverso un gioco di sovrapposizioni, di accostamenti volgari di immagini prese dalle riviste criticano sarcasticamente gli stereotipi nazisti. 1. Spettacolo di lanterna magica Nel clima positivista e fiducioso nei confronti del primato della scienza della metà dell’Ottocento, rimane irresistibile l’attrazione per i fenomeni irrazionali della visione. Il concetto di “meraviglia” lega l’esperienza di una visione fisica con un’esperienza di tipo estetico (emozionale e intellettiva insieme). La fotografia e il cinema consentono un incremento notevole di soggezione nel gioco tra scienza e magia. La fantasmagoria (1798) di Etienne- Gaspard Robertson è uno dei più originali esperimenti in questa direzione: consisteva in uno spettacolo di immagini in movimento che si ingrandivano e rimpicciolivano, provocando stupore e turbamento nel pubblico. La fruizione degli spettacoli ottici è portatrice di un nuovo ruolo dello spettatore, attratto dalla realtà e dai suoi fenomeni, ma anche dalla dimensione dell’extra-realtà. Dell’idea che dagli apparecchi progettati dagli scienziati possano scaturire esperienze al limite della realtà si sono alimentati i filoni letterari e cinematografici della fantascienza: il cinema stesso nasce dalla biforcazione fra il genere del film- documentario dei fratelli Lumière e quello fantastico-immaginario di Georges Méliès. 2. La fotografia spiritica Quello stesso mescolarsi di scienza e magia che si è visto caratterizzare le esperienze della lanterna magica e della fantasmagoria, è anche della fotografia e sarà del cinema. Nel 1868 il dottor Bourion ipotizza che le retine dei cadaveri registrino registrino l’ultima immagine passata davanti ai loro occhi prima della morte; scattando una foto delle retine dei deceduti di morte violenta sarebbe stato dunque possibile conoscere le vicende di cui quelli sono stati testimoni. La sua teoria venne ben presto confutata ma testimonia l’interesse per ciò che è occulto. La fotografia dei fantasmi o spiritica diventa di moda tra la fine dell’Ottocento e il primo Novecento. Era divisa in Fotografia dei Fluidi, Fotografia degli Spiriti e Fotografia dei Medium. Cap. IX 1. La cattedrale di St. Paul Nel 1838 lo scienziato inglese Charles Wheatstone aveva messo a punto lo stereoscopio, un apparecchio che permette di guardare dentro un visore oggetti e paesaggi tridimensionali. Nel 1849 David Brewster perfeziona quell’oggetto, aggiungendo delle lenti e rendendolo più maneggevole (è una specie di binocolo in cui vi sono due fotografie posizionate in modo da rispettare la visuale dei rispettivi occhi, restituendo la tridimensionalità dell’immagine). Tra il 1859 e il 1863 Oliver Wendell Holmes, un medico americano, scrive articoli sugli stereoscopi; egli è un cultore del progresso e delle nuove tecnologie. Dai suoi articoli emerge tutta la meraviglia di chi, con gli occhi appoggiati al visore, sentiva di essere spostato altrove fisicamente e mentalmente nei paesaggi e nelle situazioni che le varie stereoscopie fornivano. Analogia fra la descrizione di Holmes e quelle di Benjamin in cui si dice che i dettagli delle immagini vengono minuziosamente restituiti dalla fotografia e per questo «l’illusione è totale». Quest’ultima frase individua la distanza fra il segno iconico (disegno o pittura) che procede per selezione dei tratti da rappresentare, e quello indicale (fotografia). Holmes ribadisce al lettore la facoltà della presenza in assenza che possiede una foto, del privilegio dell’immortalità che essa ci fornisce; inoltre si interroga circa il rapporto della foto con la morte: «I morti non ci lasciano più come un tempo;… ci guardano dalle pareti, dai portaritratti sul tavolo, dai medaglioni portati al collo, dai sigilli sugli anelli». 2. La realtà artificiale Ci si occuperà adesso delle esperienze di realtà artificiale, in particolare ci si soffermerà sulle conseguenze psicologiche e culturali che l’introduzione dei nuovi media ha portato, in r e l a z i o n e a e s p e r i e n z e i n c u i i l coinvolgimento sensoriale è paragonabile alla realtà. Le tecnologie digitali hanno infatti portato alla costruzione di un vero e proprio universo parallelo, in cui esse non sono più solo protesi che potenziano le nostre facoltà naturali, ma riescono ad animare ambienti interattivi completamente autonomi. I caratteri di duplicazione del reale e di automatismo produttivo generati dalla natura indicale della fotografia e del cinema perdono quel carattere ingenuo attribuito loro dal fronte linguistico-semiotico (dai Formalisti russi), entrando a pieno nel gioco della simulazione aperto dai nuovi media. A fronte di queste considerazioni, le descrizioni di Holmes emblematizzano perfettamente la capacità del mezzo di porsi come costruttore di una seconda realtà, in cui si privilegiano i valori concettuali su quelli formali che avevano inizialmente legato la fotografia alla tradizione del quadro. Colossi di Ramses II 2. Il viaggio fotografico Se il fotografico ha uno dei suoi pilastri ontologici nell’idea di fare esperienza, il viaggio per parte sua possiede la stessa idea di relazione all’ambiente circostante; si potrebbe allora concludere che l’atto fotografico è una sorta di viaggio nella realtà del mondo. Negli anni Sessanta e Settanta del ‘900, le operazioni artistiche hanno assunto una matrice concettuale e hanno fatto della fotografia uno strumento estet ico indispensabile; diventa così requisito essenziale dell’atto del fotografare quella riscoperta sensoriale e mentale tipicamente estetica. Il fotografico allora diventa un meccanismo di epifanizzazione delle cose, delle esperienze e degli spazi, in grado di estetizzare il banale quotidiano. Esempi di quest’ultimo utilizzo del fotografico sono le immagini di Franco Vaccari nelle quali il passaggio in un albergo milanese e una serie di operazioni per l’igiene del corpo diventano un pretesto per esaltare l’epifania del sé e dell’oblio delle cose esterne (riconquista estetica attraverso la fotografia delle cose banali). Oppure le immagini di una passeggiata per le strade di Parigi di Douglas Huebler, che non documentano luoghi in sé significativi, ma scandiscono lo spazio temporale della passeggiata stessa. Un percorso da quel momento ripercorribile grazie all’epifania fotografica degli scatti automatici. Cap. XII 1. La Contessa di Castiglione, vestita da suora carmelitana, nel romitorio di Passy Virginia Oldoini Verasis, meglio conosciuta come Contessa di Castiglione, fu una donna dallo spirito vivace e dallo spiccato culto della propria immagine. Nasce a Firenze nel 1837 da una famiglia nobile e diventa la moglie di Francesco Verasis di CAstiglione, addetto alla casa torinese di Re Vittorio Emanuele II. Essendo molto ammirata per il suo aspetto, il cugino Camillo Benso Conte di Cavour le chiede di svolgere una missione diplomatica nel 1856: andare in Francia ed entrare nelle grazie di Napoleone III per incoraggiare il sostegno delle truppe francesi nella causa sabauda antiaustriaca. Al suo arrivo a Parigi la Contessa diventa un personaggio molto noto all’alta società francese e comincia da subito a frequentare una famosa atelier di studi di ritrattistica fotografica, quella di Mayer e Pierson. Per il suo carattere e per la sua bellezza diviene così maestra nello scatenare pettegolezzi, assumendo un ruolo anticonformista e trasgressivo: vestiva in modo eccentrico per non passare inosservata come quando interpretò la Regina di Cuori, o un cigno o appunto quando si travestì da suora. Ecco allora che la fotografia diviene lo strumento più adatto per perpetuare il suo esibizionismo e narcisismo: travestita dei suoi personaggi infatti posava come modella all’atelier di Mayer e Pierson e ciò fu essenziale per renderla immortale. Fino quasi alla morte la Contessa non esiterà a sottoporsi allo scatto fotografico, per vivere esprime il culto per la sua immagine prima, per permetterle di continuare a sognare e a vivere esperienze altre poi, quando i segni del tempo investiranno il suo corpo. Ella non solo si apprestava a queste performance da modella, ma forniva anche precise indicazioni a Pierson per il lavoro di post- produzione e di stampa. Una performer assimilabile agli artisti contemporanei che, pur non realizzando direttamente e materialmente l’opera, ne possiedono interamente il progetto. Cap. XIII 1. Ritratto di Charles Baudelaire Dal 1841, anno in cui Richard Beard apre a Londra il primo atelier di ritrattistica in Europa, al 1853 la dagherrotipia è diventata molto di moda, nonostante i lunghi tempi di posa da dover sopportare (i soggetti ritratti venivano fatti sedere su sedie dotate di poggiatesta). Gli elementi d’arredo delle ateliers e i modi e riferimenti usati dai fotografi sono gli stessi di quelli della tradizione pittorica. Maestro indiscusso della ritrattistica ottocentesca fu Gaspard-Félix Tournachon, in arte Nadar, disegnatore e caricaturista; apre uno studio fotografico a Parigi (dalla caratteristica facciata rossa) e fotografa scrittori, politici, letterati, musicisti del suo tempo, come Delacroix, Victor Hugo, Wagner, Manet e Baudelaire. Nadar è considerato il «Tiziano della fotografia»; il suo studio conta molti collaboratori che hanno differenti compiti e disposizioni, ma il momento dello scatto tocca solo a lui. Il suo stile è codificatore e facilmente riconoscibile: i clienti sono messi in una posa che rende possibile cogliere il volto di ¾, illuminato lateralmente, su sfondi neutri e minimalisti, con lo sguardo in macchina e un’inquadratura in piano americano (dalle ginocchia in su). La sua fotografia è molto pittorica, concentrata su aspetti formali quali la luce, le ombre, la composizione. Nadar è l’autore che più di altri ha dato rilevanza al ruolo dell’autore durante l’elaborazione dell’opera: chi si reca nel suo studio sa che troverà qualità della tecnica e l’originalità del grande personaggio. A parte il rapporto con Baudelaire, merita ricordare che egli è stato il primo a fotografare cumuli di ossa e teschi nelle fogne di Parigi e ad utilizzare il pallone aerostatico per le sue inquadrature. 2. La costruzione dell’icona mediatica Ossessivamente attento al modo di vestire, camminare, parlare, mangiare, interessato a questioni d’igiene, maquillage e profumi, Baudelaire è uno degli ultimi veri dandy, un total black dandy; assume infatti il nero a colore simbolo del lutto perpetuo, confacente a un’epoca tragica quale il ‘900. Nonostante la freddezza che il dandy deve dimostrare nei confronti del mondo e nonostante la critica alla fotografia (pratica per «pittori mancati») e ai fotografi («nuovi adoratori del sole»), Baudelaire si sottopone diverse volte, serio e impettito, a sessioni di posa fotografica. Jean-Paul Sartre lo ha definito: «l’uomo che non si dimentica mai», come un bambino che gioca sotto lo sguardo degli adulti, bisognoso di vedersi con gli occhi degli altri, alla ricerca di una libertà vigilata per potersi riconoscere in identità. Nonostante la fotografia non possa pretendere di essere annoverata fra le arti, Baudelaire ne fa un uso e ne intuisce un carattere essenzialmente concettuale. Assumendo i panni di dandy davanti all’obiettivo fotografico, diventa icona di massa e massificabile, ripetibile all’infinito, vendibile, commerciabile. Cap. XV 1. Due donne nude Oltre al dualismo tra fotografia di paesaggio e fotografia di viaggio, viene delineandosi quello fra fotografia di nudo e fotografia pornografica, in cui la prima continua a riferirsi alle tecniche stilistiche e compositive della pittura, mentre la seconda esprime la sua forza di prelievo e traccia della realtà. Nel primo caso si può parlare di un’identità prevalentemente ottocentesca; nel secondo invece di una pratica che sarà dominante più nel Novecento. Il nudo è oggetto ricorrente nella pittura, così come nei primi dagherrotipi, in cui vengono immortalate donne nude o seminude distese su divani e ambienti che ricordano gli harem (d’ispirazione classica, mitologica e letteraria). Da sempre il nudo nell’arte, collocato in un’ambientazione lontana dalla quotidianità, immette l’elemento erotico rendendolo meno provocante: finché le figura femminili della foto ottocentesca vengono trasfigurate sotto le spoglie di ninfe, divinità o concubine, esse si adeguano ai codici di decoro e di moralità vigenti, ottenendo il lasciapassare sociale. Nonostante questo scatta un meccanismo inarrestabile in cui il confine fra nudo e pornografia diventa molto labile; tale confine diventa allora una delle espressioni più lampanti di una nuova cultura visiva. Di nuovo si ripropone il bivio di formale e concettuale, di modello-quadro e di prelievo della realtà. Il set ideale per questo nuovo tipo di immagini è il bordello, che da metà ‘800 diventa un luogo intensamente fotografico. 2. Il «bordello senza muri» Già nell’ ‘800 la fotografia diventa uno strumento molto usato nei bordelli che divengono così, secondo una definizione di Marshall McLuhan, dei «bordelli senza muri». Ben presto le prostitute che posano come modelle s’impratichiscono di tecniche fotografiche e diventano fotografe pornografe in proprio. Il caso più curioso sarà quello dell’Atelier dei Quattro Pontefici, aperto nel 1850 da Martino Diotallevi a Roma. Al suo fianco lavorano la moglie Carolina, un castrato di nome Antonio e la rispettiva moglie Costanza, si specializzano in immagini oscene in cui sono coinvolti personaggi famosi: re, regine, papi e uomini politici in atti e pose pornografiche. Tra le sue fila, la fotografia pornografica ottocentesca annovera anche Eugène Vidocq, un ex delinquente che ottiene la libertà dal carcere collaborando con la giustizia, in particolare organizzando gli archivi fotografici della polizia, che ritraggono i criminali. Pare che l’archivio, passato in mano alla Prefettura di Parigi alla morte di Vidocq, contasse più di 100.000 immagini di crimini sessuali e atti di prostituzione. Nel 1888 diviene direttore del Servizio nazionale di identificazione della polizia francese e il poliziotto fotografo dilettante Jules Jarnes assume l’incarico di risistemare gli archivi, eliminando le foto senza reale utilizzo processuale e quelle esclusivamente pornografiche. Fortunatamente Jarnes non le elimina e anzi procede a schedarle minuziosamente, restituendoci quello che lui stesso ha definito i «grandi capolavori del nudo fotografico». Cap. XVI 1. L’interno della Galleria Vittorio Emanuele a Milano Nel 1852 i tre fratelli Alinari aprono un atelier a Firenze: la crescente richiesta di immagini di monumenti da parte dei turisti stranieri, di guide delle città e di riproduzioni di opere d’arte apre la strada alla loro capacità imprenditoriale. Così, inizialmente con il marchio di «casa Bardi», la Ditta fratelli Alinari si specializza nella catalogazione di opere d’arte del territorio italiano, a un passo dall’unificazione. Anzi proprio l’attività di riconoscimento e di mappatura delle bellezze artistiche italiane da parte dei fratelli diventa strumento di quella ricerca d’identità nazionale. Vittorio Alinari diventa il punto di riferimento dell’imprenditoria culturale nazionale, organizzando concorsi, collaborando con i critici d’arte e progettando edizioni legate ai capolavori della letteratura nazionale (Decamerone di Boccaccio illustrato, una raccolta di paesaggi citati nella Divina Commedia). Alla morte del figlio, Vittorio Alinari perde lo slancio del suo lavoro e cede la ditta a una società anonima, la Iaea; ai tempi il catalogo conta 70.000 negativi, un patrimonio inestimabile di raffigurazioni di storia mitica, sacra, biblica, antica, medievale e moderna. Lo stile della fotografia degli Alinari è molto preciso e attento ai dettagli, esclude dall’inquadratura ogni elemento accessorio che possa distrarre l’attenzione e si attiene a rigorose prospettive geometriche. Prerogativa del loro immenso archivio è infatti l’inventariazione del reale, che possa dare unità visiva al paese ma anche che renda possibile un viaggio immaginario attraverso le guide. 2. Schedari topografici La fotografia dei nuovi topografi (degli anni ’70 del Novecento) propone un tipo di sguardo all’ambiente e al paesaggio lontano da tentazioni nostalgiche e piuttosto disincantato nei confronti di uno spazio modificato dall’uomo. Autori esponenti di questo stile furono Bernd e Hilla Becher, Lewis Baltz, Robert Adams e Stephen Shore. Antecedente illustre di questi autori fu Edward Ruscha, che nel 1962 realizza una serie di foto (Twenty-six Gasoline Stations) che ritraggono stazioni di servizio incontrate durante un viaggio per l’America, in uno stile freddo, impersonale e meccanico. Nelle immagini dei new topographers diventano protagonisti i motel, i supermercati, i bidoni dei rifiuti e gli anonimi grovigli dei pali del telefono. Lo stile topografico del paesaggio italiano negli anni ’80 del Novecento ha avuto come protagonisti autori come Luigi Ghirri, Gabriele Basilico e Guido Guidi. Luigi Ghirri Cap. XVIII 1. Autoritratto di Alphonse Bertillon in una foto segnaletica di prova Negli stessi anni in cui la fotografia muoveva i primi passi, andava sviluppandosi la disciplina della fisiognomica: da Aristotele e Leonardo, molti scienziati si sono dedicati allo studio delle corrispondenze fra le linee del volto e le inclinazioni psicologiche e caratteriali di un soggetto. L’arte diede per parte sua un grande contributo a questo tipo di studi, ma nella seconda metà dell’Ottocento la fisiognomica sarà oggetto di altre discipline quali l’antropologia, la criminologia, la psicologia e la psicoanalisi. In questo contesto la fotografia apporta numerose migliorie e vantaggi poiché consente di scattare immagini fedeli al vero, utilissime per poter studiare il reale e per effettuare la schedatura scientifica manicomiale, criminale e antropologica-etnologica. Il neurologo Charcot se ne serve durante le sue famose dimostrazioni di isteria nell’Ospedale della Salpêtrière (cui assiste anche un giovanissimo Freud); crea infatti all’interno dell’Ospedale uno dei laboratori fotografici più famosi dell’Ottocento dalle cui foto viene edito un «atlante illustrato sull’inconscio». In Italia l’uso del mezzo fotografico per descrivere la malattia mentale viene introdotto per la prima volta nel manicomio di Reggio Emilia nel 1878 dal direttore Tamburini (poi anche a Venezia). Nella fotografia manicomiale si predilige uno sguardo frontale e asettico, uno sfondo neutro e un’impassibilità dalla quale non lasciar trapelare nulla: deve essere chiaro che l’obiettivo di tale pratica è scientifico e non artistico. Le stesse neutralità e freddezze caratterizzano anche le foto per la schedatura poliziesca: dal 1882 il servizio di identità giudiziaria di Parigi mette a punto un sistema di classificazione criminale, il bertillonage, dal suo ideatore Alphonse Bertillon. Questo permette la creazione di un grande archivio sulla delinquenza, ma anche di organizzare un sistema di studio che ha che fare con la fisiognomica; da queste osservazioni vengono creati dei «ritratti parlanti» che devono dimostrare se una certa inclinazione è ricorrente in soggetti con determinate caratteristiche fisiche. In Italia diede un grande impulso a tali studi Cesare Lombroso, in particolare nel 1878 anche grazie ai suoi collaboratori Ottolenghi («cartellino ottolenghi») e Ellero («Gemelle Ellero»), nasce in Italia la polizia scientifica. La schedatura scientifica ottocentesca riguarda anche la campagna fotografica britannica nei confronti delle popolazioni indigene assoggettate nelle operazioni coloniali, dalla pretesa scientifica ma dalle spiccate caratteristiche pregiudiziali della mentalità del tempo. 2. Archiviare il volto del mondo La fotografia schedativa manicomiale viene ripresa nell’arte del Novecento, in particolare dal dadaista francese Duchamp (Wanted $ 2000 Reward – 1923) e da Andy Warhol in Thirteen Most Wanted Men del 1964, per cui l’artista attacca sulle pareti del padiglione dello stato di New York per il World’s Fair vere foto segnaletiche realizzate dalla polizia americana (viene poi obbligato a rimuoverle). La grande eredità che passa dalla dimensione del pratico a quella dell’estetico esalta l’automatismo del mezzo, la sua distanza dalla definizione dell’artistico ottocentesca, la sua capacità di congelamento impassibile del reale. Altri artisti che utilizzarono tale tipo di fotografia furono il professore di disegno tedesco Blossfeldt (immagini di piante e fiori a uso dei suoi studenti che fanno prevalere lo sguardo meccanico e l’asetticità tipico della fotografia criminale), August Sander (creazione di un archivio di volti di uomini e donne tedeschi provenienti da ceti diversi caratterizzato da una prassi artistica ripetitiva e neutra) e Diane Arbus (che tra gli anni ’60 e ’70 fotografa con un automatismo secco e freddo i freaks ma anche l’anonima banalità umana: giovani coppie, nudisti in poltrona, bambini con bombe a mano giocattolo in mano, gemelli e persone con anomalie genetiche, ecc.). Cap. XIX 1. La valle dell’ombra della morte Il fotogiornalismo ottocentesco sorge in relazione alla guerra. La prima guerra ad essere stata fotografata fu la guerra di Crimea (1853-54 / 1856 – Dopo il Congresso di Parigi che vedeva la Francia e il Regno Unito schierate contro la Russia per contrastare le sue mire espansionistiche sul Mar Nero) da Roger Fenton. Questi realizza La valle dell’ombra della morte, in cui la morte è solo evocata da un paesaggio desolato; si tratta di una tipo di fotografia legato all’ideologia politica, non bisognava infatti mostrare immagini cruente dato lo scarso appoggio alla guerra da parte dell’opinione pubblica. Le sue fotografie, messe in mostra a Parigi e a Londra, non riscuotono molto successo a causa di questa sua visione parziale e “anestetizzata” della guerra. Dopo Fenton giunge in Crimea Felice Beato insieme a James Robertson. I due hanno un differente modo di fare reportage, cioè realizzano una fredda documentazione delle zone belliche e delle devastazioni. Beato si spingerà in seguito molto a est fino all’India, alla Cina e al Giappone, in cui fotografa altri conflitti (come la Guerra dell’oppio), ma si appassiona anche alle culture esotiche (costumi e abitudini). Mathew Brady è il fotoreporter della Guerra di Secessione americana (1861 – 1865). Disdéri invece fotografa le salme dei comunardi uccisi durante la Comune di Parigi del 1871 (sorta dall’insurrezione dei cittadini francesi contro il governo che aveva perso la guerra contro la Prussia / poi cittadini sterminati dal governo stesso).
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