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' FEDERICO DE ROBERTO, APPROFONDIMENTI VICERE, Appunti di Letteratura Contemporanea

Ci sono tre documenti relativi all'esame di letteratura contemporanea monografico su Federico De Roberto . La vita, la sua formazione, dettagli fondamentali sul suo pensiero, si tratta di appunti presi alle lezioni del professore Giovanni Maffei. Inoltre ho aggiunto un file sui Vicerè nello specifico, e un riassunto sulle correnti letterarie per comprendere le influenze che De Roberto ha avuto nella sua carriera letteraria

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 22/03/2023

rosa-ferrara-15
rosa-ferrara-15 🇮🇹

5

(3)

2 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica ' FEDERICO DE ROBERTO, APPROFONDIMENTI VICERE e più Appunti in PDF di Letteratura Contemporanea solo su Docsity! Lezione 19 Questo è l’albero genealogico della famiglia Uzeda, molto complicato. Il protagonista di questo romanzo è una famiglia, questo è un romanzo familiare. Anche se poi, tra i membri di questa famiglia, a un certo punto comincia ad avere spicco uno di loro, il giovane Consalvo. Questa famiglia aristocratica, numerosa, litigiosa, per ogni aspetto pessima e pazza è la protagonista di questo romanzo. Questo schemino fa vedere tutti i vari rapporti di parentela e, soprattutto, le generazioni attive nel romanzo perché, essendo una famiglia antica, ci sono molte generazioni di cui si parla, ma sono passate: sulla scena del romanzo vediamo agire essenzialmente tre generazioni. Sono tre generazioni di uomini e donne legati da rapporti non semplicemente conflittuali, ma proprio rapporti di ostilità. Sono pazzi, sono stravaganti, sono eccessivi; forse, però, è una pazzia che non è solo dei Viceré, il messaggio forse è che tutti sono pazzi. È un romanzo fortemente pessimistico. L’albero genealogico mette di fronte al problema principale del primo capitolo: la presenza di una quantità spropositata di personaggi. Non solo membri della famiglia Uzeda, ma anche la gente che lavora nel palazzo Uzeda: l’amministratore, il contabile, il maestro di casa, il cocchiere, la servitù, amici, collaterali, i cosiddetti “lavapiatti”, nomignolo che si dà a quei piccoli nobili, poveri, letterati di infimo rango, che corteggiano la famiglia perché si sentono così gratificati e perché sperano sempre di essere invitati a pranzo. C’è l’idea di famiglia aristocratica che si è vista un po’ in qualche maniera nella novella La disdetta: grandi case dove non c’è intimità. Verga ha scritto due lettere a Felice Cameroni, un importantissimo critico negli anni ‘70, ‘80 e ‘90, uno di quei critici ascoltatissimi, autorevoli, che scriveva su giornali importanti. Cameroni era molto socialista, scriveva sul Sole, giornale antenato del Sole 24 Ore, un socialista – quando essere socialisti era qualcosa di forte – che scrive per il Sole, ma lui si occupava di letteratura. È stato un ardente fautore di Zola, il primo che ne ha parlato in Italia, ha procurato una certa fortuna milanese di Zola di cui si parlava poco, addirittura precedente a quella siciliana. Riceve i Malavoglia da Verga, di cui scrive una recensione, e in questa recensione scrive: “sì, però chi legge i Malavoglia, all’inizio rimane disorientato. Non era meglio fare una serie di trattini tutti per ordine, di tipo come li faceva Manzoni”, lui non usa il termine, ma [intende dire] da romanzo autoriale: “Ora vi presento i personaggi, ce li presenta uno alla volta e poi li fa agire”. E Verga risponde: “Caro pessimista, ho letto il giudizio che dai nel Sole dei miei Malavoglia e mi ha fatto un gran piacere vedere quello che tu pensi del mio libro, e l’essere riuscito in parte a incarnare il mio concetto agli occhi di un critico imparziale come te […] so bene anch’io che il mio lavoro non avrà un successo di lettura, di pubblico, e lo sapevo quando mi sono messo a disegnare le mie figure con il proposito artistico che approvi”. Verga dice che lo sa che non avrà un grande pubblico, ma gli interessa di più l’arte: l’arte è più importante del successo immediato. “Il mio solo merito è stato quello di aver avuto questo coraggio” e poi aggiunge “io mi son messo in pieno, e fin dal principio, in mezzo ai miei personaggi, e ci ho condotto il lettore come se li avesse tutti conosciuti di già e più vissuto con loro e in quell’ambiente sempre. Parmi questo il modo migliore per darci illusione completa della realtà; ecco perché ho evitato, studiatamente, quella specie di profilo che tu mi suggerivi per i personaggi principali. Certamente non mi dissimulavo che una Un’altra cosa è che questo è un romanzo centripeto, in cui sembra che tutto lo story world ha un centro che è potentemente gravitazionale alla famiglia Uzeda, il resto sta intorno; è come se fosse un sistema planetario intorno a un Sole, anche se questo Sole è un po’ infernale. «Giuseppe, dinanzi al portone, trastullava il suo bambino, cullandolo sulle braccia, mostrandogli lo scudo marmoreo infisso al sommo dell’arco, la rastrelliera inchiodata sul muro del vestibolo dove, ai tempi antichi, i lanzi del principe appendevano le alabarde, quando s’udì». Giuseppe chi è? Sta dinanzi al portone, tra un po’ sarà chiaro che questo è il portinaio del palazzo Uzeda e c’è un bambino che culla a cui mostra lo scudo marmoreo, la rastrelliera, dove un tempo antico si mettevano i cavalli. È stato un modo dell’autore per far entrare il lettore nella lentezza referenziale del racconto. Una cosa che si deve sapere è non tanto che Giuseppe è il portinaio, ma che è il portinaio di un palazzo aristocratico, di una famiglia aristocratica dell’antica nobiltà. «s’udì e crebbe rapidamente il rumore d’una carrozza arrivante a tutta carriera; e prima ancora che egli avesse il tempo di voltarsi, un legnetto (legnetto, qui sta per piccola carrozza) sul quale pareva fosse nevicato, dalla tanta polvere, e il cui cavallo era tutto spumante di sudore, entrò nella corte con assordante fracasso. Dall’arco del secondo cortile affacciaronsi servi e famigli: Baldassarre, il maestro di casa, schiuse la vetrata della loggia del secondo piano intanto che Salvatore Cerra precipitavasi dalla carrozzella con una lettera in mano.» Chi è Salvatore Cerra non sarà dato saperlo, non è molto importante: alcuni nomi cadono perché non sono così fondamentali. Succedono tante cose, è un capitolo molto denso, c’è sempre un sacco di gente che qualche volta viene chiamata pubblico. La famiglia Uzeda non è soltanto la grande famiglia potente della città, Catania, ma è il grande spettacolo di questa città, sembra quasi che la gente non abbia niente di meglio da fare che guardare questi Uzeda, questi Viceré, seguirli, parlarne. «Don Salvatore?... Che c’è?... Che novità!...» Ma quegli fece col braccio un gesto disperato e salì le scale a quattro a quattro». Non si può conoscere la novità prima che venga detta. Dopodiché, tutti si mettono a circondare la carrozzella, il cocchiere racconta e dice: “La principessa... Morta d’un colpo... Stamattina, mentre lavavo la carrozza...» «Gesù!... Gesù!...» «Ordine d’attaccare... il signor Marco che correva su e giù... il Vicario e i vicini... appena il tempo di far la via...» «Gesù! Gesù!... Ma come?... Se stava meglio? E il signor Marco?...(che è l’amministratore) Senza mandare avviso?» «Che so io?... Io non ho visto niente; m’hanno chiamato...”. Insomma, il cocchiere sa che non sta tanto bene, ma sa che è morta, però qualcuno dice: “«E senza nessuno dei suoi figli!... In mano di estranei!... Malata, era malata; però, così a un tratto?»“. Cominciano a uscire fuori i segnali che andranno a moltiplicarsi. Comincia a trapelare il rapporto che c’era tra la madre e i parenti, tra la madre e i figli: questa madre non era solo autoritaria, ma quasi autarchica, non aveva rapporti affettuosi con i figli. È morta da sola e non è un caso. Un altro tratto della spettacolarità è che tutta la raccolta del cortile commentava la notizia e la comunicava agli scritturali dell’amministrazione che si affacciavano dalle finestre del primo piano; insomma c’è un intero esercito al servizio degli Uzeda, servi, famiglie, scritturali. Arriva il principe, scende il principe in persona tutto corrucciato, Si noti che non ci vengono descritti i personaggi, pure questo è interessante, ma sarebbe stato fare un ritratto; ad un certo punto verranno descritti e si vedrà come quello che si deve capire lo si può comprendere soltanto se qualcuno dice qualcosa o se qualcuno osserva qualcosa. “Il portone restava spalancato; tuttavia, alcuni passanti, scorto lo straordinario movimento nel cortile, s’informavano col portinaio dell’accaduto; l’ebanista, il fornaio, il bettoliere e l’orologiaio, che tenevano in affitto le botteghe di levante, venivano anch’essi a dare una capatina, a sentir la notizia della gran disgrazia, a commentare la repentina partenza del principe: «E poi dicevano che il padrone non voleva bene alla madre!... Pareva Cristo sceso dalla croce, povero figlio!...» Le donne pensavano alla signorina Lucrezia, alla principessa nuora: sapevano nulla, o avevano loro nascosto la notizia?... E Baldassarre, Baldassarre dove diamine aveva il capo, se non ordinava di chiudere ogni cosa?...”. Questo palazzo aristocratico ha al piano terra delle botteghe che affittano; quindi, c’è tutto un mondo di persone formalmente autonome, ma in realtà dipendenti anche loro dei Viceré. Si può notare che qui si alternano il discorso diretto tra virgolette e l’indiretto libero; quello senza virgolette è l’indiretto libero, usato per variare, e sono formule intercambiabili. Anche il discorso indiretto libero sembra riportare cose dette. “«Quale vergogna?... Quella d’una casa dove madre e figli si soffrivano come il fumo negli occhi?...»“ Cominciano ad uscire i commenti veritieri. Ci sono tante cose di ordine tematico e ci sono due registri: il registro della pietà, della compartecipazione, della commozione del lutto, del cordoglio e anche della condoglianza, tutte quelle cose un tantino formali che si fanno, ma qui se si sta attenti, ci si rende conto che è tutto falso. Poi c’è l’altro registro, quello maligno, quello veritiero, che è il punto di vista di quelli che provano un risentimento. Nei Viceré molti personaggi, sia membri della famiglia che collaterali famiglie, hanno un risentimento, sono arrabbiati, si sentono offesi e allora, dicono la verità o forse non è manco la verità, ma è l’altra faccia della medaglia. In questo universo, l’universo dei Viceré, questa faccia è sempre quella vera: ci sono tante facce della medaglia, ma quella peggiore è sempre quella cui bisogna guardare, quella che il testo autorizza. Per cui, Don Gaspare, il primo cocchiere, ha sempre appoggiato la principessa, mentre Pasqualino, il secondo cocchiere, si è messo dalla parte del principe Giacomo. C’era una lotta sorda tra madre e primogenito, e ora Don Gaspare sa che verrà licenziato perché il nuovo capo lo licenzierà. Ora è Giacomo il principe, il capofamiglia, e quindi, Don Gaspare è certo di perdere il posto, quindi dice: “«Quale vergogna?... Quella d’una casa dove madre e figli si soffrivano come il fumo negli occhi?...»“ Continua ad esserci chiasso, nessuno che chiude il portone, forse non è morta, le voci si contrastano. Poi, immaginando evidentemente che il lettore un poco di chiarimento lo voglia avere, De Roberto fa questa operazione registica: in primo luogo fa vedere Baldassarre, il palazzo grazie ai lavapiatti. Seguendoli, si entra nel palazzo e si vede come è fatto, deve esserci sempre qualcuno a mediare lo sguardo. Mentre prima si è visto quello che succedeva perché ci si trovava nella folla, fuori (all’inizio si è vista arrivare la carrozza insieme al custode, poi quello che succedeva e si è sentito ciò che la gente diceva, tutte le chiacchiere che giravano, le prime notizie sugli Uzeda), ora entriamo nel palazzo e si andrà a conoscere gli Uzeda perché i lavapiatti sono anch’essi ammessi alla loro presenza. “Traversando la fila delle anticamere dagli usci dorati ma quasi nude di mobili, don Giacinto esclamava a bassa voce, come in chiesa: «È una gran disgrazia!... Per questa famiglia è una disgrazia più grande che non sarebbe per ogni altra...»“. Per questa famiglia è una disgrazia più grande che non sarebbe per ogni altra, suggerisce quanto, però, è vero che questa morte della principessa getta tra questa famiglia una sorte di guerra di tutti contro tutti, ammesso che poi non sia quella la conduzione dei Viceré normale, forse i Viceré devono sempre stare in guerra con qualcuno. Arrivano: prima Consalvo, il principino, il più piccolo, figlio di Don Giacomo, che sta là e guarda a bocca aperta, poi in un angolo Lucrezia che stava ingrottata con gli occhi asciutti. Lucrezia è la figlia più piccola della principessa, la figlia ancora ragazza, sempre molto arrabbiata, soprattutto ora perché passerà dalla cappa della madre che voleva mettere in convento anche lei. Arrivano altri parenti, c’è un frastuono di carrozze, arrivano Don Mariano e Don Giacinto che dicono “Che sciagura” quasi automaticamente. È divertente questa storia perché l’ipocrisia, le convenzioni, le apparenze non esistono. Qui sono plateali e chiaramente non valgono nulla, nessuno ci crede. È evidente che è una specie di quasi automatismo dire “Che disgrazia, che disgrazia”, “Povero Giacomo” tutti lo sanno che Giacomo odiava la madre. “Povera Lucrezia”, tutti lo sanno che Lucrezia odiava la madre. Qualche personaggio sincero c’è. Arrivano la zitellona asciutta asciutta”, espressione per indicare che è una tipa secca, Chiara, che abbraccia Lucrezia, poi Donna Graziella che era quella che, in realtà, Don Giacomo voleva sposare. Donna Graziella è diventata amica della moglie, la principessa Margherita, scelta dalla madre per Giacomo. È una falsona, fa vedere che lei soffre più di tutti, si vuole prodigare, è molto trasiticcia, ha un comportamento perfino azzeccoso. Hanno chiamato tutti, Don Blasco non l’hanno chiamato perché non l’hanno trovato nel convento e allora: “Va dalla sigaraia... a quest’ora sarà da lei...Corri, digli chè morta sua cognata...” Ora, se si va a Catania, dove attualmente c’è la facoltà di Studi umanistici che ha sede proprio nel convento dei benedettini, questo enorme bellissimo convento è molto interessante da visitare. Dopo essere stato il convento dei benedettini all’epoca in cui è ambientato il romanzo, ad un certo punto è stato chiuso dal nuovo Stato Italiano. Si saprà che è ambientato in età borbonica perché ad un certo punto esce una data; finora non era uscita nemmeno una data, non è stato posto in nessun momento del tempo quello che succede. Anche questo obbedisce alla logica dell’impersonalità: bisogna capire quando si ambienta da ciò che viene detto dai personaggi, non può essere un autore o un narratore che lo dice. In questo convento ci ha frequentato le scuole d’istituto tecnico e quindi è ambientato in un posto che lui conosceva. Tanti episodi del romanzo sono ambientati in questo convento dei benedettini. Il convento dei benedettini, tuttora, sta su una piazza e di fronte ci sono tutte case a schiera che sono antiche botteghe di gente che, in qualche maniera, dipendeva dal convento. In una di quelle botteghe nella finzione abita la sigaraia, che ha un marito compiacente; lei vende sigari, ma in realtà lei è l’amante principale di Don Blasco, che è uno dei più porci di questi monaci chiamati nel paese “i porci di Dio” perché dediti alle più grandiose orge. Ci sono pagine memorabili sul convento dei benedettini dove vanno tutti i rampolli dell’aristocrazia per mantenere l’eredità indivisa; per cui, in genere, il primogenito aveva quasi tutto, il secondogenito poteva avere qualcosa, il terzogenito non aveva niente e quindi magari veniva messo in questi conventi dove portavano una dote (questi conventi erano ricchissimi). Don Blasco è un omone, un personaggio essenziale in questo romanzo: è un porco, una specie di teppista, usa un linguaggio abbastanza colorito. Non è figlio della principessa, non ha un’età (ha comunque sicuramente più di cinquanta, forse anche di più), è grande e grosso con questa tonaca. È sempre arrabbiato perché è stato costretto ad andare in convento. Su tutti questi personaggi, su tutte le generazioni pesa questa specie di arbitrio dispotico dei genitori; sono tutti stati oppressi dai genitori e chiaramente questo è un elemento interessante perché anche De Roberto, per tante ragioni, in qualche maniera è stato oppresso dalla madre. De Roberto non ha avuto una vita sua per stare con la madre vedova che ha assistito fino alla morte con grande amore e abnegazione, e alla fine è morto poco dopo di lei. La madre è morta vecchissima e lui veramente dopo pochi anni muore anche lui. Don Blasco è sempre arrabbiato, dice un sacco di parolacce, usa un linguaggio colorito e soprattutto dice la verità; ha un pregiudizio negativo, però c’azzecca. Come diceva il famoso proverbio “a pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”. È uno che non pensa nemmeno di peccare. «Entra in mezzo alla confusione, mentre la marchesa andava via con il marito, spuntò finalmente Don Blasco con il faccione sudato che luceva e il tricorno in capo». È un tipo pletorico; infatti poi, ad un certo punto, “il tricorno in capo”, le corna in testa, sempre con la tonaca, con il cui cordone dà mazzate agli altri perché lui è molto manesco, picchia altri monaci. “L’avevo detto, eh?.. Doveva finire così!..” Poi, più avanti, inizia a dire: “E dove sta Giacomo? Ah È già andato?” ora stanno nel palazzo a Catania mentre la principessa è morta in una villa. Sono tutti accorsi a palazzo, ma Giacomo è voluto andare da solo nella villa con il signor Marco, l’amministratore, non ha voluto essere accompagnato da nessuno. Tornerà dopo e ad un certo punto porterà la salma, ma questo succede dopo. Subito dopo dice “È andato da solo e che è andato a fare?” Sicuramente comincia, è andato a derubare e comincia questa sua campagna. Cosa gli interessa poiché non potrà mai essere considerato un erede? Don Blasco ha uno strano senso della giustizia, un po’ contorto; non è giusto, però vede che questi personaggi non reagiscono, gli piace mettere le mani in mezzo. Dice quindi: “È andato a rubarvi!”. Poi entra e dice “L’avevo detto che doveva finire così” e la cugina, Donna Graziella che vuole portare pace, dolcezza, dice: “«Zio, in questo momento...» «Che vuol dire, in questo momento?...» rispose il monaco, piccato. «È morta, Dio l'abbia in gloria!... Ma che s'ha da dire? Che ha fatto una capisce e comincia ad uscire il vero tema di questo romanzo, che è l’eredità. La principessa che farà con l’eredità? La darà quasi tutta come si faceva e come si doveva fare al primogenito, o la darà al suo figlio preferito che è Raimondo? O farà ancora diversamente? La grande curiosità di questa gente che sta lì come a teatro per vedere cosa succede e gli Uzeda che fanno; tutti si fanno questa domanda e si formano dei partiti per l’una o per l’altra ipotesi. Torna il principe dal belvedere, con una valigia in mano, e Don Blasco subito vede che c’è quella valigia: chissà cosa ha rubato con quella valigia. “Ma, sul più bello, don Blasco il quale aveva tenuto d’occhio la valigia quasi ci fosse dentro roba di contrabbando, lo tirò per la manica, domandando: «E il testamento?»” Ha lasciato tutto detto al notaio Rubino, si farà ciò che è nelle volontà della madre. Il principe Giacomo odiava sua madre poiché veniva maltrattato da lei fin da piccolo. A capitare sotto a donna Teresa non si sapeva se era meglio essere amati o odiati perché tanto lei comunque faceva del male in entrambi i casi. Non è il testamento, sono le volontà espresse dalla madre riguardo alle proprie esequie e sono abbastanza grottesche perché se tutta la gente, tutta la città sta sempre a guardare cosa fanno gli Uzeda, loro si prestano con un costante atteggiamento iperbolicamente teatrale. Per cui questo sarebbe il funerale pieno di umiltà che la principessa ordina di riservarle: «In questo giorno, 19 maggio 1855 (così sappiamo anche l’epoca in cui si ambienta questa storia: 6 anni prima dell’Unità d’Italia, prima dell’arrivo dei Mille di Garibaldi in Sicilia), trovandomi sana di mente e non di corpo, io sottoscritta, Teresa Uzeda principessa di Francalanza, raccomando l’anima a Dio e dispongo quanto appresso. Il giorno che piacerà al Signore chiamarmi con sè, ordino che il mio corpo sia affidato ai Reverendi Padri Cappuccini affinchè sia da essi imbalsamato e nella necropoli del loro cenobio custodito. Voglio che il funerale sia celebrato, con quel decoro che compete alla famiglia, nella chiesa dei detti Padri in segno della mia devozione alla Beata Ximena, nostra gloriosa parente (vissuta nel 500), la cui salma nella loro chiesa si venera.»  Bisogna emulare questa santa nobilissima e antica: anche lei va imbalsamata e il suo corpo conservato nella stessa chiesa. «Durante il funerale e dopo che il mio corpo sarà imbalsamato, voglio, ordino e comando che esso sia vestito della tonaca delle Religiose di San Placido, e che alla cintura mi sia messa la corona del Santissimo Rosario donatami dalla mia diletta figlia Suor Maria Crocifissa (è quella che chiamano la sepolta viva, quella figlia che Teresa ha messo in convento e dopo l’ha dimenticata: monaca di clausura) il giorno della sua monacazione e che sul petto mi sia posto il crocifisso d’avorio, memoria del mio amato consorte principe Consalvo di Francalanza. In segno di particolare penitenza ed umiltà, espressamente impongo che il mio capo sia appoggiato sopra una semplice e nuda tegola: così voglio e non altrimenti». Tutta l’umiltà sarà chiusa in quella tegola: la principessa si fa imbalsamare dopo che ha fatto un sacco di peccati nella vita, si fa mettere la tonaca, si fa mettere il crocifisso della figlia, la primogenita chiusa in convento prima ancora che potesse addentrare ad avere pretese che danneggiassero il secondogenito maschio, Raimondo. Tutta questa colpa è una tegola sotto alla testa. «Per la necropoli dei Cappuccini ordino che si costruisca una cassa a cristalli, dentro alla quale sarà posto il mio corpo nel modo di cui sopra; essa avrà una serratura con tre chiavi delle quali una rimarrà a mio figlio Raimondo conte di Lumera, la seconda, in segno di speciale benevolenza pei servigi prestatimi, al signor Marco Roscitano (questo però intanto è già passato a fare gli interessi del figlio maggiore), mio procuratore e amministratore generale, e la terza al reverendo Padre Guardiano di esso cenobio dei Cappuccini». Pensa alla propria eternità, al suo corpo imbalsamato, per sempre contemplato e chissà magari venerato; continua ad esistere e ad essere visibile questa bara di cristallo con la tegola sotto alla testa. La famiglia Uzeda era un po’ disastrata, la principessa ha preso in mano le redini dell’amministrazione, però tutto questo ha avuto un prezzo. Innanzitutto, un dato su cui si insiste è la spilorceria perché sono molto attenti ai soldi, l’altra cosa che è interessante è che era ignorante: si capisce, andando avanti, che per questa famiglia è un valore essere ignoranti, si sentono appartenenti a quel tipo di nobiltà antica che riteneva la cultura, i libri, perfino saper scrivere o leggere più del necessario, lussi da poveracci. Non fanno questo, loro discendono dai Viceré, nobiltà di spada e quindi la loro è una famiglia davvero ignorante, a casa loro non ci sono tanti libri. Quelli che leggono è perché qualcosa non va nella loro testa. Leggere i romanzi, amare la poesia, amare la musica, amare la scienza, è segno che si è debole, malato, mentre, invece, gli Uzeda sono forti. Donna Ferdinanda chiama la carta scritta “carta sporca”. Ci tengono molto alla loro ignoranza. Nell’universo Uzeda per forza deve vincere la belva, l’aggressivo, il feroce e devono soccombere i buoni e i gentili, i poeti e gli idealisti e questo succede puntualmente perché c’è una legge che è la legge di quel mondo lì. Si potrebbe perfino dire che è la legge di un mondo fino in fondo naturalista nell’ottica dei metodi (in realtà ci si trova un po’ oltre l’ottica dei metodi, anche se diceva nella prefazione ai Documenti umani che il naturalista sceglierà ambienti in cui abbondano i vizi e la malattia perché sono più belli e caratteristici per il naturalista il vizio e la malattia e troverà ambienti più degradati, ma in questo caso no perché li troverà al vertice della società). Questo romanzo, questo trattamento dell’aristocrazia, questo modo di dipingere le classi sociali e di dipingere soprattutto l’aristocrazia, è proprio il rovesciamento di quel discorso secondo cui è difficile descrivere le classi dei nobili perché sono così sfumati; è facile dipingere un operaio, ma non la gente delle classi alte, quella che odora ed è così “mezzi toni”. I mezzi toni degli Uzeda, invece, non esistono. Il mondo dei Viceré è un mondo inabissato, non semplicemente basso. Lezione 20 Ne “I Viceré” i fenomeni e le immagini diffuse nel primo capitolo sono ricorrenti anche in molti altri capitoli, anche se, a un certo punto, ci saranno delle diversità che però sono anche, in fondo, fatti di sostanza. Queste forme, queste categorie narratologiche non devono essere pensate come una vera veste: hanno delle ragioni profonde e, in fondo, davvero comportano una filosofia. Il primo capitolo è la scelta di un capitolo corale, condotto con l’attrezzatura verghiana, più ancora del Mastro-don Gesualdo rispetto a I Malavoglia, però inasprita, inciprignita perché questa è una realtà più tossica. del catafalco, su tripodi d’argento, erano confitte quattro torce grosse quanto le stanghe, con uno scudo di cartone legato a mezz’asta». Ci sono candelieri d’argento e questo forse sarà vero argento, tanto si usa, ma con lo scudo di cartone legato; gli angeli d’argento che aspettano su una sola gamba saranno tutti d’argento? Tutto argento massiccio? L’idea è che siano tutte cose posticce, che fanno scena. È una macchina complicata, una specie di piramide, come se si dovessero eseguire le esequie di una divinità egizia, azteca o tolemaica. «Sei valletti con le livree del secolo XVIII, rosse, nere e dorate, impalati come statue, con le facce rase di fresco, reggevano ciascuno una delle antiche bandiere d’alleanza [tutto sempre più complicato, fastoso e perfino un po’ risibile]; dopo i valletti dodici prefiche, vestite di neri manti, coi capelli scarmigliati, stavano tutt’intorno al catafalco coi fazzoletti in mano, per asciugarsi le lacrime. [Così come quando ci si sposa ci sono le damigelle, nei funerali si usavano le prefiche.] Ma bisognava lavorar di gomiti, camminare sui piedi dei vicini, lasciarsi ammaccare le costole e pestare i calli e sudare una camicia prima d’arrivare a quell’apparato, intorno al quale una folla d’operai, di servi, di donnicciuole stava estatica ad ammirare, in attesa del corteo [la gente che è venuta a vedere lo spettacolo], il finto marmo della piattaforma, le urne di cartone scaglionate sui gradini, le lacrime di carta argentata gocciolanti dai veli neri: «Una galanteria!... Una cosa mai vista!... Per questo sono signoroni!... Lasciate fare a loro!... E dodici piangenti!... Neanche pel funerale del papa!... Ma il cadavere è già posto al colatoio per l’imbalsamazione.» In questo lacerto di discorso diretto, queste cose sono dette da una sola persona? Sono tante esclamazioni, è l’effetto corale delle voci di chi sta lì e guarda. A differenza de I Malavoglia, questi guardano, non fanno nulla, non hanno una vita, guardano e commentano e tutta questa scena alquanto barocca è per loro, perché quei fini signori dei Goncourt, quei parigini dei salotti tutti sfumature avrebbero evitato questo catafalco, queste pacchianerie, ma non sono per loro queste apparenze, sono per tutti, come era l’arte barocca – quello che è stato giudicato per secoli anche “cattivo gusto”. Il mondo rappresentato da I Viceré è un mondo barbarico, è come se fosse un atavismo, una reminiscenza di una preistoria selvaggia, in cui contano i segni visibili, plateali, anche clamorosi. Poi c’è la notazione Ma il cadavere è già posto al colatoio per l’imbalsamazione: c’è un sottile e non sottolineato colpo di scena a un certo punto. Si va avanti, c’è sempre questo procedere di Don Cono Canalà trascinato dalla folla. «Don Cono Canalà, data un’occhiata all’apparato, aveva tentato tre o quattro volte, per conto suo, d’avvicinarsi a qualcuno degli epitaffi, ma non era riuscito a spingersi tanto innanzi da leggerli; e col capo rovesciato, il cappello ammaccato dai continui urtoni, i piedi pestati, la camicia in sudore, tangheggiava [sembra come se ballasse il tango, ma in realtà è sballottato] come una barca in mezzo alla tempesta. Con belle maniere, dicendo: «Di grazia!... La prego… Mi scusi!...» arrivò finalmente a tiro della prima tabella, dove leggevasi: SOTTO MULIEBRI SPOGLIE CUORE GAGLIARDO PIETOSO ANIMO ELETTO MUNIFICO SPIRITO SVEGLIATO FECONDO ONNINAMENTE DEGNA DELLA MAGNANIMA STIRPE CHE LA FE’ SUA «Onninamente?....» disse il barone Carcaretta che si trovava a fianco di don Cono. «Che cosa significa?» «Importa interamente, o vogliam dire del tutto... Onninamente degna della stirpe... Come le piace questo concetto?...» «Eh, va bene; ma non capisco perché si divertano a pescar le parole difficili!» «Veda...» spiegò allora don Cono, insinuante: «lo stile epigrafico tiene al sommo grado del nobile e del sostenuto... Io non potevo adoprare...» «Ah, l’avete scritta voi?» «Sissignore... ma non solo, veramente: di unita col cavaliere don Eugenio... Io ho curato sovra tutto la forma... Bramerei vedere le altre: temo non abbian preso un qualche abbaglio, in copiando...» Nel frattempo, la folla gira come in un gorgo in questa chiesa, intorno a questo catafalco centrale, parla e nel loro parlare cominciano a uscire fuori lacerti della vita dei personaggi, dei singoli Uzeda. De Roberto sembrerebbe avviato su una strada integrale, coerente, di rinuncia a quella prerogativa tipica del modello autoriale che è la analessi. Come si fa, nei romanzi autoriali, a spiegare il passato di un personaggio? Attraverso l’analessi – si usa molto ormai anche nel cinema – «due giorni prima, tre mesi prima…», qui De Roberto ci rinuncia. Tutto ciò che serve sapere di ciò che già c’è stato rispetto al momento presente della narrazione lo si deve trovare nelle informazioni che si ricavano dal parlato dei personaggi: non dal pensato, solo dal parlato perché questo è un capitolo senza teste trasparenti (transparent minds). «Adesso i suoi figli potranno respirare! Li ha tenuti in un pugno di ferro...» «I suoi figli: quali?...» «Costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita fu chiusa alla badìa!... Se campava ancora ci avrebbe messo anche l’altra!... Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!... Tutto per amor d’un solo, del contino Raimondo...» «Ma il padre?...» «Il padre, ai suoi tempi, non contava più del due di briscola; la principessa teneva in un pugno lui e il suocero!...» Si capisce che la principeesa ha oppresso Don Lodovico, ha oppresso la primogenita seppellendola viva, ha oppresso tutti per amore di Raimondo, il figlio prediletto, preferito sfacciatamente dalla madre, dal quale è stato, però, schiacciato perché questa madre è una piovra. Anche il suo amore è oppressione in quanto il padre non contava più nulla e lei aveva preso in mano le redini della situazione. «È vero che non sapeva leggere né scrivere?» «Sapeva leggere soltanto nel libro delle devozioni e in quello dei conti!» Torna il tema dell’ignoranza, cosa di cui andavano fieri gli Uzeda. Quando finalmente le due pesanti imposte girarono sui cardini, tutte le teste si voltarono, tutte le persone s’alzarono sulle punte dei piedi. Veniva innanzi la fila dei frati Cappuccini con la croce, poi la carrozza funebre, dentro alla quale si vedeva il feretro di velluto rosso, fiancheggiata da tutta la servitù con le torce in mano; poi l’Ospizio Uzeda dei vecchi indigenti, tutti a testa nuda; poi le ragazze dell’Orfanotrofio coi veli azzurri pendenti fino a terra; poi tutte le carrozze di famiglia: altri due tiri a quattro, cinque tiri a due, e poi ancora un altro gruppo di gente: una quarantina d’uomini, la più parte barbuti, con le giubbe di velluto nero, anch’essi coi ceri in mano». I curiosi stipati nella chiesa, continuando a parlar della morta, si rivolgevano insistentemente una domanda e si proponevano una questione: «Chi sarà l’erede?..» Nobili e plebei, ricchi e poveri, tutti volevano sapere cosa diceva il testamento, come se la morta avesse potuto lasciar qualcosa a tutti i suoi concittadini. Aspettavano, al palazzo, l’arrivo del contino da Firenze (Raimondo) e del duca da Palermo (Gaspare) per leggere le ultime volontà della principessa; e le opinioni, nel pubblico, erano diametralmente opposte: La gente parla, si chiede di chi sarà l’eredità e tutti dicono: “lo sapremo quando si leggeranno le ultime volontà della principessa”; intanto si aspetta il contino da Firenze, Raimondo, e il Duca da Palermo, che è Gaspare Uzeda, uno dei fratelli del marito morto della principessa (prima generazione rappresentata). Le epitaffi si leggono solo quando le legge Don Cola ed è narratologicamente molto interessante. De Roberto è così fedele al principio dell’impersonalità che non fa vedere una cosa se questo nostro vederla non è giustificata dall’adozione di un qualche punto di vista. Allora, mentre il lettore si trova nella folla poiché il lettore deve avere l’impressione di stare lì, di essere interno al mondo rappresentato, una cosa così particolare come gli epitaffi letti attentamente parola per parola, chi ce li può mediare? Ci vuole uno che davvero li legga, ovvero Don Cono, che è l’unico che li legge perché gli altri sono intenti a guardare le candele, gli angeli d’argento e molto probabilmente non ci hanno fatto neppure caso. Lui invece li legge e li commenta anche: «Conciliar l’invenzione del concetto con la venustà della forma: difficoltà precipua dello stile epigrafico... L’obolo... centuplicato... non so se mi appongo...» […] I fiati, l’odor di moccolaia, il caldo della giornata facevano della piccola chiesa una bolgia; alcune donne erano già svenute, in due o tre punti si litigava fra chi voleva spingersi avanti e chi non voleva tirarsi indietro; ma nessuno si decideva ad andarsene; e negli angoli, lungo i muri, avanti agli altari, i curiosi, gli scioperati rifacevano la storia della morta e della famiglia, ne commentavano le stravaganze: «La cassa con tre chiavi!... Sarà tanto più difficile tornare a questo mondo!... E la tonaca e il rosario!... Tanta penitenza con un funerale da regina!» La piccola chiesa è una bolgia, l’archetipo infernale. Chi è che gira? Nell’Inferno ci sono i gironi, è strutturato per gironi, per cerchi, è tutto un fatto di cose tonde circolari e in alcuni gironi si gira, il dannato fa il giro completo: ad esempio i lussuriosi sono trascinati dal fuoco, girano. È una bolgia, si suda, si gira, ma perché nessuno se ne va? Perché qualcuno può andare via dall’Inferno? È la stessa risposta. C’è un don Casimiro, che è stato un lavapiatti degli Uzeda finché un giorno il principe ha deciso che fosse uno iettatore perché tutti gli Uzeda hanno della fissazioni. Il principe, ad esempio, ha la paura della iettatura e ogni tanto pensa che qualcuno sia iettatore, arriverà a pensare che anche il figlio lo sia. Ad un certo punto, invece, crede di essere lui stesso iettatore di sé stesso e cade nella disperazione (vedremo come muoiono male gli Uzeda). Don Casimiro ha tanta malignità e, come sempre, coloro che hanno risentimento dicono la verità o almeno dicono quella parte della verità che gli altri non osano dire. «Non parlate male di Ferdinando; con le sue manìe non fa male a nessuno; è il migliore di tutta la casata.» «Tanto che non parrebbe dello stesso seme...» rispose don Casimiro [facendo intendere che, forse, non sia vero figlio del principe, ma frutto di un rapporto adulterino, è una malignità]. Un altro personaggio è Fra Carmelo. Nel monastero dei benedettini ci sono i monaci che sono i ricchi e appartengono a famiglie potenti, i cosiddetti “porci”, e poi ci sono i frati che sono un po’ i loro servitori, umili, subordinati e spesso figli bastardi degli stessi padri che hanno avuto i figli che fanno i monaci: si tratta di un mondo di mostri. Un altro tema molto presente è la musica, ma anche la competizione perché questo Raciti è stato uno dei questuanti che aveva chiesto di far officiare il figlio, ma era andato un altro con una raccomandazione più potente e quelli che sono stati esclusi dalla musica, o dalla fornitura delle candele, o da qualche altra cosa, dicono molte cattiverie (tutti volevano partecipare a questo funerale). «Come lui, erano venuti in chiesa quanti eran corsi nei primi momenti al palazzo per offrire i loro servigi; ma i rimasti a mani vuote tiravano adesso in ballo le storie d’avarizia e d’intima spilorceria di quella famiglia il cui lusso era solo apparente: la principessa, una volta, non aveva fatto citare dinanzi al giudice il suo calzolaio perché le restituisse il prezzo di un paio di scarpe non riuscite di suo gradimento? E in cucina, il cuoco non aveva l’ordine di scolar l’olio rimasto nella padella dopo la frittura per riconsegnarlo alla padrona? «Più sono ricchi, cotesti porci, più sono spilorci!...» C’è una grande scena, ma è allo stesso tempo di cartone in quanto si tratta di sola apparenza, quelli che sono pieni di risentimento sono quelli che dicono la verità poiché chi pensa male è sempre più affidabile. È un mondo che ha queste leggi, molto diverse da quelle del nostro. È un altro mondo, è il mondo di quel romanzo, è quel particolare mondo-illusione che ha delle regole. Si creano mondi possibili (story world), questa è una delle teorie letterarie più recenti, quella della creazione di mondi possibili, e in questo mondo possibile la legge è sempre il peggio, a vincere è il peggio. Beckett, ad esempio, è quello che ha scritto i versi: «Il peggio di faccia perché ridere faccia», se si dovesse trovare un modo per dipingere il mondo grottesco dei Viceré, si potrebbero usare questi versi. Dopo arriva Lorenzo Giulente, figlio di uno che si ritiene il lavapiatti del duca Gaspare, che è uno zio opportunista, un personaggio che nel ‘48/49 non sapeva bene con chi stare (se con i liberali o con i borbonici), traccheggia sempre alla ricerca della sua convenienza politica. Ci riesce anche perché costui, che non aveva mosso un dito nel ‘48/49, ai tempi della rivoluzione, passa come l’eroe della rivoluzione presso i liberali, mentre riesce a far credere ai borbonici che lui finge e che in realtà è dalla loro parte. Don Lorenzo Giulente, invece, è davvero stato un eroe, ma si vedrà più avanti, in occasione della venuta di Garibaldi e alla fine dipenderà fin troppo dagli Uzeda. Lorenzo Giulente è un liberale, un patriota sincero, avvocato al cospetto di un Uzeda. Ad ogni passaggio della messa, c’è gente che conta i soldi: «Signori miei, che funerale! che spesa!... Ci saranno per lo meno cent’onze di cera! E l’apparato! La messa cantata! Io vi so dire che per la felice memoria di mio padre spesi sessantotto onze e tredici tarì, e che feci? Niente!... Qui vi dico che si sono spese cent’onze di sole torce...» esempio, non erano briganti, ma delinquenti nati e dunque andavano immediatamente fucilati senza pensarci troppo. Ecco Lombroso che De Roberto ha letto attentamente e, ad un certo punto, era anche rimasto infatuato, ma poi ha cambiato idea dopo un poco perché si è scaltrito De Roberto, era diventato un po’ più scienziato. Lombroso dice: “Il delinquente nato che cos’è?” È un atavismo, cioè Lombroso condivide un’idea molto diffusa all’epoca e che per molti anni sarà diffusa, cioè che l’evoluzione darwiniana segue una linea di progresso, sarebbe orientata ideologicamente dal bene al meglio e dal meglio all’ancora meglio. Quest’idea della scala negli esseri umani, che è molto antica, aristotelica, ma che viene attualizzata in base alle teorie darwiniane: per cui, il pesce è più imperfetto del rettile e il rettile è più imperfetto dell’uccello e il mammifero è ancora meglio e noi esseri umani siamo in cima alla catena degli esseri, noi siamo il meglio del meglio. L’evoluzione, in realtà, non segue un andamento ascendente, noi non siamo il culmine di niente, siamo un ramo di un complicatissimo cespuglio, un ramo molto presuntuoso, come già osservava Leopardi, perché pensiamo di essere meglio delle altre creature. All’epoca si pensava, invece, che ci fosse, l’uomo come un perfezionamento della scimmia, si era accettata l’ottica darwiniana, ma quasi nessuno ormai l’accettava all’altezza di De Roberto (solo il papa, ma nemmeno tutti i preti): si era accettata l’evoluzione perché l’uomo deriva dalla scimmia, ma bisognava aggiungere, che era un perfezionamento, che si trovava ad un gradino superiore. Poi si diceva che in questo gradino superiore non è che tutti gli uomini erano uguali: il selvaggio era perfezionato dall’uomo civile, il nero si trovava un gradino più basso dell’evoluzione rispetto al bianco. Le teorie scientifiche della razza erano abbastanza indiscusse e quindi c’erano i gradini dell’evoluzione e anche i gradini della civilizzazione umana. Lombroso dice che un delinquente è un atavismo, cioè si ripresenta il selvaggio. Facciamo conto che un giorno una ragazza fa un figlio e questo ha una coda, è un atavismo, si è ripresentata una scimmietta, non succederà, ma è la credenza che fasi precedenti dell’evoluzione o dello sviluppo possano, talvolta, per una specie di errore, ripresentarsi, per cui può ripresentarsi un bambino che, in realtà, è in sé una specie di ritorno, per caso è tornato a nascere un selvaggio. Non solo, ma la società dei delinquenti, nel suo insieme, secondo Lombroso, è una specie di reviviscenza atavistica del mondo selvaggio, e dice Lombroso, come nei selvaggi vige la legge del più forte, così nei delinquenti, e come i selvaggi sono molto legati alle apparenze esteriori, al fasto, ai rituali e magari sono superstiziosi, che credono a tante cose curiose perché non hanno conquistato ancora una ragione, così è nella società dei delinquenti. Ci sono pagine per dimostrare questa tesi abbastanza assurda. Per cui l’idea di Lombroso è che noi siamo civili, siamo sicuri, ma siamo sempre minacciati dalle nostre radici che possono tornare e allora noi di sicuro, un giorno, ci troviamo di fronte al delinquente che ci rapina, che ci uccide o alle bande che si organizzano per danneggiare i civili, la società civile. Ecco perché la società civile si deve difendere per reprimere ferocemente il delinquente. La prigione come forma educazione sarebbe assurdo per Lombroso che direbbe che quelli sono nati così: o li si uccide o li si chiude e si butta la chiave. Poi dice Lombroso che il mondo selvaggio era così, un mondo brutale, dove vigeva la legge del più forte, un mondo in cui giustizia e vendetta si confondevano, non esisteva ancora l’idea moderna del diritto, quello stabilito da Roma, il diritto romano come fondamento della giurisprudenza dei paesi moderni occidentali, esisteva ancora il diritto barbarico: la faida, la vendetta, l’occhio per occhio. Vendetta e giustizia si confondono e poi i selvaggi avevano tutte quelle altre cose come passioni dominanti, vizi, superstizioni e un enorme vanità, un orgoglio dei propri crimini. Tutti questi tratti che Lombroso rinveniva nei delinquenti nati e che, secondo lui, erano un atavismo del selvaggio, si ritrovano ne “I Viceré”. I personaggi del romanzo sono tracotanti, superstiziosi, pieni di passioni impulsive e soprattutto non capiscono un concetto di giustizia che sia diverso dalla pura e semplice affermazione della propria forza, della propria volontà. Allora il discorso è che il mondo Uzeda è un atavismo del mondo selvaggio. Cos’è il mondo Uzeda: è una specie di fantasia apocalittica, è la fantasia di un mondo che è tornato, un mondo selvaggio, brutale che è tornato con le sue regole ed è talmente, questo romanzo, il romanzo di questo mondo, che nessuno si stupisce. L’ipocrisia? Non c’è ipocrisia, un Uzeda è un barbaro, è come Attila, è un selvaggio, se vede un mendicante, può essere che gli dà i soldi, ma può anche essere che gli dà un calcio in faccia se in quel momento gli pare meglio così e magari gli pare anche una cosa che riscuote maggiore successo di pubblico. A volte questa folla che guarda dice che sono gran signoroni perché hanno speso tutti questi soldi. Dice, però, Lombroso che non bisogna stupirsi perché, in fondo, anche secoli abbastanza vicini ai suoi sono stati un po’ selvaggi. Il ‘500 e il ‘600 sono secoli in cui succedevano cose pazzesche: principi che si sgozzavano, casate nobiliare che si tendevano agguati come bande di camorristi. C’era un certo tasso di violenza: si pensi a quel mondo in cui scrive Macchiavelli per dare consigli al principe, un certo tasso di violenza, di protervia, è una presunzione di impunità. Sono stati archi di tempi piuttosto recenti, non è più dopo Roma, ma magari è prima dell’illuminismo, della civiltà giuridica affermatasi nel ‘700 come racconta anche Foucault in quel bellissimo libro che si chiama “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione”. Il ‘700 è il vero secolo cardine della modernità, lì gira il mondo dei delitti e delle pene, le misure illuministiche in termini anche di carceri, di punizioni di leggi ecc. Ma prima, osserva Lombroso, in fondo, i selvaggi sono vicini. A casa Uzeda esiste un libro che si chiama “il Mugnòs”, un librone con tutte le storie di famiglie di nobili di Sicilia. La zia Ferdinanda, che è molto fiera della nobiltà, la zitellona, quando Consalvo, il piccolino, comincia a capire, gli comincia a leggere le storie del Mugnòs, e gli legge di tutti questi antichi antenati del ‘500 e del ‘600 e dice: “vedi questo ha ammazzato questo con la spada, quest’altro ha teso un agguato a tradimento”, cioè riporta al bambino, come se fossero esemplari, dei gesti da delinquente. Questo conferma l’ipotesi che De Roberto ha inscenato un mondo atavistico. Quando De Roberto dice: “certo Attila oggi è difficile trovarlo, però anche Amiel tra gli Unni era un po’ improbabile che sopravvivesse. Crea quella medaglia a due facce: Attila e Amiel. Si può dire che il mondo possibile dei Viceré è un mondo in cui c’è Attila ed è normale che vinca perché è un mondo selvaggio, in cui la gente non ha tempo per studiare (gli Uzeda sono analfabeti), in cui la gente non pensa troppo (gli Uzeda sono sempre in azione, non si vedono mai che riflettono. L’unico che riflette è Consalvo perché è machiavellico, però non perché è buono, non perché crede agli ideali, è solo molto intelligente, ma è pessimo anche lui). Mentre gli Amiel dei Viceré che sono gli idealisti, quelli lettore possa capire bene, gradire, è un autore che accompagna il lettore. Come si fa ad evitare tutto questo? Uno dei modi è quello che De Roberto adotta quando vuol far vedere delle cose e introdurre in determinati spazi, mostrare degli ambienti. Cosa fa? Adotta, non sempre, un personaggio come riflettore, magari solo in quella parte o in quel pezzo perché descrivere direttamente com’è fatta la casa degli Uzeda sarebbe troppo autoriale, allora trova questo personaggio che vede i luoghi e garantisce in qualche maniera figurale (attraverso la propria presenza e ideale testimonianza) la coerenza della descrizione. Si è visto un caso nel primo capitolo, nella parte dei funerali, quando voleva far leggere le scritte, le epigrafi o epitaffi in onore della principessa: De Roberto prende Don Cono che fa girare per la chiesa e gli fa leggere le scritte. Un altro esempio analogo si ha quando bisognava scegliere la stanza dove leggere il testamento: allora De Roberto coglie l’occasione per far fare al lettore una camminata dentro al palazzo e dice: “Frattanto il signor Marco faceva disporre ogni cosa nella Galleria dei ritratti per la lettura del testamento. Il principe era stato un poco esitante sulla scelta del luogo dove compiere la cerimonia.” I ragionamenti del principe sono il pretesto per iniziare a parlare delle varie sale del palazzo: “la Sala Rossa, discretamente addobbata, capiva poca gente: il Salone dei lampadari, vastissimo, non aveva altri mobili fuorché le lampade antiche pendenti dalla volta e gli specchi incastrati nelle pareti; la Galleria, invece, conciliava la grandezza con la sontuosità, perché era vasta come due saloni messi in fila, e arredata di divani e sgabelli e mensole e tripodi dorati, e finalmente più degna, per le generazioni d'avi pendenti in effige dai muri, della solennità che radunava i nipoti”. Dai ragionamenti del principe si è arrivati ad una distesa descrizione della galleria dei ritratti. A De Roberto interessava molto fare questa descrizione, non l’ha potuta fare e basta, ma l’ha dovuta un po’ introdurre per attenuare l’effetto autoriale. È chiaro che ci sia qualcuno che descrive, ma viene introdotta in maniera morbida. Attenzione: non bisogna mai confondere De Roberto con l’autore o il narratore. De Roberto designa la biografica che non ha nulla a che vedere con il resto, se non in certi modi che avvengono in altra maniera. Domanda: De Roberto, quando scrive la sua opera, è come se cercasse di dire che noi non possiamo sapere quello che c’è dietro la testa dei personaggi, ma non lo può sapere nemmeno lui? Prof: questo io non l’ho mai detto e non è così. Risposta: il primo capitolo è un capitolo senza psico-narrazione, mentre l’Illusione è pieno dei pensieri della protagonista. Studente: Li sappiamo sostanzialmente perché ce li dice Teresa. Prof: Esatto. Studente: In questo caso (Viceré) abbiamo bisogno sempre di un personaggio che introduce alla descrizione, però anche lui ci introduce ai pensieri del personaggio ed è quindi differente dall’Illusione. Prof: È molto differente. L’Illusione è un esperimento estremo, quasi sperimentalismo: non è un gran bel romanzo, ma è un romanzo stranamente sperimentale. È come quando Perec scrive un intero romanzo senza la “e”, se ci capita, è un errore, non vale più. Ne L’Illusione non bisogna sbagliare mai, negli altri casi le forme sono molto più miste. Si potrebbe dire che legge nella testa, ma si potrebbe pensare che, in realtà, ci sia qualcuno, tutta questa gente sempre attorno che commenta. Da un certo momento in poi cominciano ad esserci le menti trasparenti, dal prossimo capitolo. Nel secondo capitolo, a De Roberto interessava mostrare questa sala, però doveva smorzare l’autorialità della descrizione perché si sarebbe visto troppo il narratore. Cerca quindi di renderlo meno visibile, introducendo il tema della sala dei ritratti, quasi suggerendo che, infondo, quella che viene riassunta dopo non è la conoscenza che il narratore o l’autore ha della sala dei ritratti, ma è quello che ne sa il principe, quello che appartiene all’enciclopedia di questa famiglia. Per cui dopo c’è questa bellissima descrizione: “Nel mezzo di quella specie di grande corridoio, l'amministratore generale fece disporre una gran tavola coperta da un antico tappeto e provveduta d'un monumentale calamaio d'argento.” Tutto è grande, deve essere monumentale nel palazzo degli Uzeda. Tutto questo si trova in un ambiente interamente ricoperto di ritratti, una sala enorme in cui non c’è un angolo senza ritratto, anche nei lati. Al centro il ritratto del Viceré Lopez Ximenes de Uzeda e attorno uomini e donne, monaci e guerrieri, vescovi e dottori, dame e badesse, ambasciatori e viceré, di faccia, di profilo e di tre quarti; vestiti d'acciaio, di velluto, d'ermellino; col capo coronato d'alloro, o chiuso negli elmi, o coperto dai cappucci; con scettri e libri e bacoli e spade e fiori e mazze e ventagli in mano. Questo è il modulo dell’elenco, ricorrente in questo romanzo, che descrive questo tutto pieno, questo tutto affollato, le cose che si accumulano e segnano ricchezza e sfarzo. Questa sala dei ritratti è interessante perché si fanno delle considerazioni su questi ritratti: si osserva che alcuni sono belli, altri brutti, ma quest’ultimi tendono ad aumentare con il passare dei secoli. Tutto nasce da una considerazione: il tema della degenerazione della vecchia razza. Questo è un tema dichiarato, in varia maniera spiegato, perfino una topica dell’epoca, dove l’idea è che le razze possono invecchiare e degenerare. Sono stati fatti degli studi interessanti in proposito: per esempio, alcune famiglie regali, in cui tutti si sposavano sempre con qualcuno con cui erano imparentati, tipo gli Asburgo ed altre, avevano una salute pessima. C’erano queste famiglie piene di bambini che nascevano male, mostri, o morivano presto a cause di malattie ereditarie. È vero che se si riduce la variabilità genetica, i rischi di geni dannosi recessivi che, però, diventano dominanti, se li portano entrambi i genitori. Ecco perché queste famiglie aristocratiche tendevano a estinguersi. È un libro di divulgazione scientifica che parla di questi temi, in cui racconta la storia di questa famiglia e mostra come non si sposassero tra fratelli o tra cugini, ma con qualcuno di 2/3 generazioni prima e quindi si incrociavano i ceppi. A un certo punto ci sono dei rami che si incrociano, per cui magari si congiungono due persone che potrebbero essere cugini di quinto grado, non lo sanno nemmeno. Nelle famiglie aristocratiche non è così: statisticamente è molto più forte che si sposano solo tra nobili e quindi è estremamente probabile che ci si sposi, che si facciano figli con persone che se non sono proprio cugini, sono cugini di secondo grado, o comunque persone in cui circola lo stesso sangue. Quindi questo tema ha un suo fondamento e porta l’esaurimento delle dinastie aristocratiche. Il declino delle razze è un tema che sicuramente De Roberto coglieva. Dato che gli Uzeda sentono di essere una razza, loro non pensano di essere come gli altri, e tra loro sempre nei secoli si sono accoppiati, dal 400 al 500, dal 300, ed è chiaro che c’è stata la degenerazione e si insiste su questo tema. Gli Uzeda muoiono presto, muoiono male, molti escono pazzi. C’è la degenerazione della vecchia razza perché la vecchia razza è destinata a vincere. Più sei degenerato e più sei forte, più sei mostro più sei forte, più sei marcio più sei forte. È uno dei risvolti del pessimismo antistorico di questo romanzo. Il capitolo terzo è un capitolo strano perché è un capitolo autoriale in cui c’è tutta una successione di analessi. Queste analessi sono dei ritratti di tutti i singoli personaggi, in cui si racconta la storia fino alla contemporaneità. Ci sono dei flashback lunghi, sono tanti, si succedono come tanti medaglioni sui vari personaggi in cui tutto quello che fino ad ora è stato suggerito dalle chiacchiere paesane, ora viene spiegato per filo e per segno. Qui certamente c’è una figura, un narratore forte e c’è il recupero della situazione autoriale. De Roberto aveva fatto il giuramento di essere impersonale e qui non lo è più? Non sappiamo se De Roberto se ne sia accorto che qui lui non è più principessa, ma si odiano lo stesso e non si parlano più da anni, sono fratelli. Solo due si amano, è curioso, fanno pena, gli ultimi figli della principessa, Lucrezia chiamata “la marmotta” (quella odiata dalla madre e, dopo la sua morte, viene odiata anche dal fratello maggiore) e Ferdinando, che la mamma chiama “il babbeo”, quello pazzo, quello che da piccolo aveva letto Robinson Crusoe e si era fissato sul fatto che quello fosse il suo destino. La madre gli aveva dato una terra del tutto inutile dove crescono solo i fichi d’India e gli affittava la terra chiedendo un affitto esorbitante. Per questo il figlio era sempre in debito con lei: ma quando la madre muore, cosa gli lascia in eredità? Gli toglie tutti i debiti e gli regala quella terra di cui nessuno se ne farebbe nulla. In questa terra, lui fa gli esperimenti agricoli, le coltivazioni. Ha una capanna che ha arredato come se fosse una barca, come fosse la capanna di Robinson. Questi due, da piccoli, i più maltratti, i più negletti, giocano insieme. Ferdinando fa dei pupazzetti perché è ingegnoso come Archimede (scemo), fa delle bamboline alla sorella che non ne ha mai avute. Aveva imparato un po’ a leggere, fa da scuola a sua sorella perché in casa Uzeda saper leggere, saper scrivere non sono cose che si fanno. C’è una parte in cui Don Eugenio sta insegnando un po’ di latino, molto semplice, al piccolo Consalvo e la zia Ferdinanda dice ‘ma che devi fare? Non devi imparare queste cose, tu mica devi fare il maestro di penna?’ (lo dice in siciliano) (maestro di penna = notaio, avvocato, ecc.). Le ragazze non avevano nessun tipo di istruzione. Si vede anche che c’è una polarizzazione dei personaggi: gli Uzeda sono pazzi, sono ostinati, ognuno ha una sua ossessione, sono tendenzialmente aggressivi, sono feroci, sono veramente quello che Lombroso diceva dei criminali nati, quei bambini che già a scuola minacciano gli altri, fanno chiasso, vengono chiamati caratteriali. Per Lombroso erano criminali nati e bisognava chiuderli subito. Poi ci sono gli altri, che sono pochi e sono veramente le vittime, sono quelli che hanno delle chimere in testa, degli ideali, un po’ mostruosi perché sono comunque mostri. Ferdinando e l’amore per la scienza, Eugenio e l’amore per la letteratura, Matilde, che non è consanguinea, è un personaggio molto romantico nel senso psicologo della parola. Nei Viceré, ma ampliando lo sguardo in tutta l’opera di De Roberto, c’è sempre la stessa sceneggiatura: arriva il feroce, si trova davanti il debole, lo atterra, lo divora o lo sbrana. Questa situazione è ripetuta mille volte, il cattivo vince sempre, è la più clamorosa disdetta di quella cosa che è stata chiamata “giustizia poetica”. La giustizia poetica è interessante, è una cosa che è stata fortissima nella storia di tutte le arti, ma che tuttora esiste e nasce dal precetto, dall’antico presupposto di Platone quando diceva che la mimesi è dannosa e i poeti andrebbero cacciati dalla repubblica a meno che le loro opere non si dimostrino utili all’educazione e quindi esemplari. Tra a tutti i romanzi, le storie, i poeti, ce n’è uno che finisce con il trionfo del vizio? Per esempio, nella Gerusalemme Liberata, chi vincono? I buoni. Nei Promessi Sposi, la fa franca Don Rodrigo? No, muore anche lui. E i Malavoglia? Alla fine, si riprendono. Fino alla metà dell’800, la giustizia poetica non è mai messa in discussione, se non in romanzi volutamente trasgressivi, tipo i romanzi di Sartre che, per scrivere quelle cose, finì in galera e non lo fecero più uscire. C’è una sola volta che il romanzo, il dramma non si chiuda con il trionfo della giustizia? Le tragedie finiscono male ed è così perché lì la giustizia è quella, devono per forza finire male. Devono finire male perché c’è una punizione, la hybris, richiama una punizione. Per trovare romanzi che finiscono con il trionfo dell’ingiustizia, bisogna arrivare al Naturalismo. In De Roberto, non è pensabile la giustizia poetica, è una cosa a cui lui pensa con difficoltà: forse c’è qualche novella come “la messa di nozze” o qualche romanzo tardo, ma non è l’atteggiamento prevalente. La giustizia poetica esiste ancora? La risposta è sì. C’è il buono e il cattivo che si affrontano, chi vince? Il buono o il cattivo? Vince il buono. La giustizia vince, ma non ne i Viceré e, in generale, non in De Roberto. [Domanda: “Perché decide di fare così? È dovuto dal fatto che al suo tempo, l’impersonalità e l’autorialità potevano coincidere? Non erano incompatibili?” Risposta:” Sì, per lui non era così chiaro. Per lui la parola autoriale non avrebbe avuto senso. Non è una parola del lessico dell’epoca. Quello che noi oggi diciamo autoriale, lui diceva ‘lo scrittore fa capolinea’. Secondo me però in questa affermazione non comprendeva i casi di autorialità un po' più mediati, meno espliciti, come questo, in cui non ci sono i giudizi netti del narratore o dell’autore. Non c’è mai uno che dice ‘io’”] Per attenuare la presenza del narratore autoriale, De Roberto costruisce questo capitolo per intero usando come “fil rouge” Don Blasco. Nella parte sulla galleria dei ritratti, De Roberto è come se introducesse lì il principe, che media tra lettore e il mondo rappresentato, magari introduce solo nell’ambiente e poi la descrizione e lo sviluppo diventano autonomi rispetto al personaggio. Succede qualcosa del genere anche in questo capitolo: medaglioni e analessi biografiche che hanno un chiaro taglio autoriale, anche se l’autore non fa tanto capolino, e che sono chiaramente costruite da un narratore forte che spiega. Tutti questi medaglioni sono tenuti insieme da un pretesto che è Don Blasco, di indole polemica. Dopo aver visto cosa è successo col testamento, vuole aizzare fratelli e sorelle di Giacomo contro di lui; vuole convincerli che sono stati derubati, vuole fargli fare una causa perché, secondo lui, il testamento può essere impugnato in sede legale. Quindi va da uno ad uno dai fratelli, sorelle, il marchese di Villardita, va da Ferdinando. Questa è l’occasione, il filo che tiene insieme questi ritratti a tutto tondo (bisognerebbe inventare una parola nuova per designare la funzione). Ad un certo punto, ci sta il ritratto di donna Ferdinanda che, essendo donna e non essendo figlia, ma cognata della principessa, non ha avuto nulla. Praticando l’usura è riuscita a costruirsi una bella fortuna e a un certo punto è andata a comprarsi una casa sulla via principale di Catania (la città non viene nominata, ma è Catania). A un certo punto, quando le dicono: “non ti converrebbe comprarti una cosa con i soldi messi da parte?” Lei risponde: “Chi presta senza pegno, si perde i denari, l’amico e l’ingegno” (citazione di Zio Crocifisso dei Malavoglia). È interessante perché significa che questi nobili possono parlare come i personaggi popolari dei villaggi, quel lazzarone. Qui ormai De Roberto va oltre lo schema dei metodi descritto nella prefazione a “Documenti umani”: questo è un ritratto naturalista del mondo aristocratico (non come pensava che si potessero fare Goncourt, che il naturalismo manda avanti la sfida di ritrarre ciò che è sfumato, bello, educato). De Roberto conferma quello che aveva detto nella prefazione: “date una cosa bella al naturalista e ve la farà lo stesso brutta, la sua filosofia non guarda in faccia alle classi sociali. Da ogni personaggio, dettaglio ambiente emergerà la convinzione che l’uomo è una bestia feroce”. Ed è questa l’idea che dicono, che il mondo dietro la civiltà è selvaggio ancora vincolato alle leggi brutali della giungla. Questi naturalisti lo fanno per reazione. I romantici, gli idealisti precipitano come Icaro e cominciano a bestemmiare come i turchi. Questo è il naturalismo: la bestemmia dell’ideale perché all’inferno si bestemmia. Nel capitolo quarto cominciano ad emergere le anime dei personaggi. Qui comincia a emergere la soggettività del piccolo Consalvo, il figlio di Giacomo. È ancora un bambino, ma i Viceré, andando avanti, diventano il romanzo di Consalvo, personaggio destinato ad emergere protagonista rispetto alla folla degli Uzeda. Diventa l’eroe in negativo: non è ebbro della sua follia come gli altri Uzeda, è lucido, ma è sempre un Uzeda. È furbo e man mano che aumenta il ruolo che Consalvo occupa in questo romanzo, aumenterà lo spazio riservato alla sua interiorità, aumenteranno le zone di riflettorizzazione che hanno Consalvo come protagonista. Si entrerà molto spesso nella testa di Consalvo come anche in quella della sorella, un’altra Teresa, altro personaggio importante. Entrambi diventano pian piano i centri focali della storia. Consalvo inizia a diventare il filo rosso come era stato Don Blasco nel capitolo precedente. Ci si muove nella casa dove ormai si è instaurato il governo di Giacomo dopo che è venuta meno la madre. Si segue il bambino che fa il monello, fa chiasso, si vede cosa Flaubert crescono tutti e due, sono cresciuti nutrendosi di fantasie, immaginando una vita grandiosa”. È quello che De Roberto dice dei romantici in genere, “cresciuti avendo letto troppe cose, troppi libri”. Attila non compone versi, non legge i romanzi, è troppo impegnato a sgozzare nemici. I Viceré, gli Uzeda, quasi tutti non leggono, non studiano, non pensano nemmeno in verità, se non quel tanto che serve per agire, come Attila. Solo Consalvo è un’eccezione, ma Consalvo è una specie di belva nuova che studia, ma studia per essere machiavellicamente più forte, e infatti diventerà un deputato. Matilde, invece, aveva lavorato con la fantasia, ipertrofia dell’immaginazione, l’aveva modellato come un eroe del Tasso e dell’Ariosto. Ha una sensibilità straordinaria, è una romantica nel senso psicologico. Ma come volete che finisca questo personaggio dei Viceré se non sbranata? Lei a un certo punto dice: “Ma perché tutti mi trattano male?” Ma perché sei nel romanzo sbagliato. È come se uno andasse allo zoo, aprisse la gabbia del leone e dice “Ma perché mi morde?”. E tanto è vero che si trova nel romanzo sbagliato che qua lo dice quasi perché lei si mette a ricordare il padre che si era fissato con i soldi. Voleva dare la figlia a un Uzeda di Francalanza, nobiltà più alta e lui era un nobile di Milazzo. Per questa cosa di innalzamento sociale, ha sacrificato la figlia Matilde perché Raimondo non la voleva. Raimondo ha detto alla mamma “non mi voglio sposare”, era troppo un bello “guaglione”. E la madre “ma no, sposati, poi lo sai come si fa…” così. Lei invece si innamora ed è chiaro che soffre, ma poi si ricorda, vedendo questi suoi nuovi parenti così litigiosi, accaniti l’uno contro l’altro e soprattutto poi concordi contro di lei, divisi da mille odi, ma quando si tratta di coalizzarsi è contro di lei, perché quella, cioè, tu metti una pecorella in mezzo alle belve, le belve magari pure litigano, però la pecorella è la prima cosa che si mangiano, e lei si ricorda la sua famiglia, dice: “La sua memoria le rappresentava il desco familiare, nella grande stanza da pranzo della casa paterna, a Milazzo: la mamma, la sorella, ella stessa intenta ai racconti del padre, sorridenti con lui, con lui tristi o dolenti; il padre tutto loro, coi pensieri e con le opere; e un costante e quasi superstizioso rispetto per le antiche abitudini, e una pace patriarcale, un amore reciproco, una confidenza assoluta.”. Così era casa sua, una casa più semplice, una piccola nobiltà, in realtà quasi una borghesia, mangiavano tra loro, senza tutti ‘questi lavapiatti, questa servitù esuberante”, magari la cameriera ce l’avranno pure avuta, niente di che, però confidenti, affettuosi, il padre parlava calmo. “Se ella si guardava ora intorno che vedeva?” e vedeva che ha sbagliato romanzo. “La principessa timida e paurosa dinanzi al marito, il ragazzo tremante a un’occhiata del padre, ma superbo dell’umiliazione inflitta alla zia; Lucrezia e il fratello ancora freddi e sospettosi; il principe ostentante il buon umore col duca” solo perché interessato, “Ella neppure sospettava le passioni che dividevano quella famiglia, il giorno che vi era entrata come in un'altra famiglia sua propria: tanto più grande era stato il suo stupore, il suo dolore, nel vedere di che sordo astio la ripagavano. Giudicavano, certo, che fosse indegna di Raimondo perché a lui inferiore: e nessuno quanto lei stessa lo poneva tanto alto; ma non le aveva giovato sentirsi e farsi umile dinanzi a lui e ad essi: l'astio non s'era placato. Allora ella aveva cominciato a comprendere le particolari passioni che, oltre all'orgoglio, animavano ciascuno di quegli Uzeda duri e violenti…” Quando si diceva che Matilde aveva sbagliato romanzo, significava che qui si affaccia una memoria di Matilde, di casa sua; prima c’era tutt’altro, tutt’altra serenità, era una famiglia. Si lasci stare che il padre l’ha rovinata, come poi rovinerà la figlia Teresa perché la farà anche lei sposare con uno sbagliato. Il nonno di Teresa è una brava persona, però deve rovinare o le figlie o le nipoti, decidendo lui per loro chi si devono sposare. Anche nell’Illusione, Teresa non si voleva sposare col marito e neanche il marito voleva Teresa, sono matrimoni combinati. Tolto questo, Matilde almeno se lo ricorda così, un’infanzia serena, una famiglia dove i rapporti erano creati dall’amore, dalla confidenza e si chiede “dove sono capitata? La volevo fare mia, ma questi si odiano tutti” e sopra un’altra parte dirà pure che una malvagità così non aveva nemmeno immaginato potesse esistere, o più avanti “gli Uzeda duri e violenti”. Per quanto lei faccia, lei si fa umile, non protesta, non dice niente, nasconde la gelosia per il marito perché vede che tutti quanti danno ragione a Raimondo quando Raimondo la tratta male, e la trattano ancora peggio, dice ma perché? La risposta è quella, è una pecorella capitata dentro un branco di lupi, dentro una gabbia di lupi. Lo story world dei Viceré è questo, è il mondo selvaggio travestito da realtà contemporanea o comunque normale: è una trasposizione dell’Inferno. In questo capitolo, infine, si comincia a profilare la strategia di Giacomo. C’è una lunga scena dialogata, fa pensare a certi episodi dei Promessi sposi, in cui stanno due che parlano e fingono, diciamo che sono quelle scene della ipocrisia della politica. Qui è politica familiare, si comincia a capire qual è il piano di Giacomo, perché Giacomo parla con lo zio Gaspare, duca Gaspare, autorevole, cerca di andare d’accordo con tutti perché lui è proprio il politico che va d’accordo con tutti. Gli dice “sai cosa ho scoperto? Che qua l’eredità è piena di debiti, siamo pieni di debiti” e praticamente insieme all’amministratore Marco ha messo in piedi una truffa. Vuole far credere ai fratelli che, in realtà, quel grande patrimonio era più apparente che reale perché era minato dai debiti. La principessa ha continuato a fare debiti, era un’amministrazione allegra e il signor Marco dice che lui non lo sapeva, non lo sapeva. Bisogna vedere come si deve fare, chi deve pagare questi debiti, e già comincia a programmare di togliere a ciascuno una parte di quello che ha avuto, quindi a Raimondo, ma quindi anche a quelli che non hanno avuto niente o pochissimo, e a riprendersi tutto perché questo è il suo piano. La madre l’ha defraudato, lui deve fregare la madre riprendendosi tutto e il romanzo, per una buona parte, sarà questa storia finché poi cominceranno ad esserci altre storie. Consalvo cresce e comincia la guerra, come c’era stata la guerra tra la vecchia principessa e il principe Giacomo, comincia la guerra tra il principe Giacomo e Consalvo perché bisogna sempre fare la guerra con gente così. Lezione 27 - CAP 9 Nel romanzo dei Viceré, all’inizio i capitoli sono più lunghi, poi diventano più brevi. Il romanzo acquista velocità e la lettura deve assecondare questo senso precipitevole del romanzo, che fa anche pensare ad un precipizio, ad un abisso, ad una caduta. Il nono capitolo è molto importante, interessante e avvincente, non lunghissimo. È un capitolo dal forte taglio teatrale, nel senso che è tutto fatto di scene. Non ci sono commenti autoriali, probabilmente c’è pochissima psico- narrazione, si ricava tutto quello che serve da queste scene, che sono non solo dialoghi ma anche gesti ed eventi. Si intrecciano in questo capitolo e giungono ad esaurimento in una maniera piuttosto strabiliante tre fili del racconto essenzialmente: 1. La storia del matrimonio contrastato tra Benedetto Giulente e Lucrezia. [Perché Benedetto vuole sposare Lucrezia? Per poter entrare nelle grazie di questa nobile famiglia o perché la ama? Lucrezia è una marmotta ostinata, lei se lo vuole sposare perché gli altri dicono no. Non è una che cade, è una che appartiene perfettamente alla follia orizzontale dei Viceré: ostinazione, spirito di contraddizione, bisogno di affermarsi, per quanto può, una marmotta.] 2. Le elezioni per eleggere il primo parlamento. quello che arriva dalla porta perché lo sentono Margherita e Graziella: viene fissato un punto d’ascolto. Si immagini di essere a teatro: c’è una scena, ci sono due personaggi, Graziella e Margherita sedute sulle poltrone, c’è un una porta e da lì provengono lacerti di questa scenata che donna Ferdinanda fa alla nipote e si sente quello che sentono i personaggi nel primo piano scenico. Arrivavano queste parole: “«Voglio? Voglio?... Prima creperai!... L'avvocato?... Crepa, piuttosto!...» «Santo Dio, mi dispiace!... È una cosa, cugina...» «La vedremo, ti dico!...» gridava donna Ferdinanda; subito dopo la voce si spense; la cugina riprese: «Lucrezia dovrebbe pensare... dare ascolto a chi parla pel suo...» «Non vuoi sentirla, bestiaccia?...» Queste parole furono gridate così forte, che la cugina e la principessa tesero tutt'e due le orecchie. Passò qualche minuto di silenzio profondo; di botto, s'udì il rumore d'una seggiola rovesciata e subito dopo quello secco e brusco di un violento ceffone.” Dopo una serie di urla, si sente il rumore di uno schiaffo, donna Ferdinanda è impazzita: “Una Uzeda che si sposa un Giulente?”. Poi rientra con la mano tutta rossa e la marmotta non dice nulla. Alla prossima scena il lettore ci va da solo. “Intanto giù nell'amministrazione i delegati delle società, ammessi in presenza del duca, erano stati da costui invitati a sedersi in giro;” In sostanza già si sono messi d’accordo, come ha giustamente osservato Graziella, ma devono fare questo teatrino. Ora si comincia a sentire quello che dice Giulente. È una parte abbastanza interessante perché Giulente ha studiato, è avvocato, sa parlare bene, ma nell’universo Uzeda i bei discorsi e il linguaggio fiorito sono sempre leggermente mostruosi: agisce il coefficiente abissale. Giulente ha qualcosa di don Cono Canalà, fa discorsi da oratore. Giulente, nei capitoli precedenti si è visto bello, un eroe risorgimentale che era andato a combattere veramente con Garibaldi ed è rimasto anche ferito nella battaglia del Volturno (lo chiamavano “il ferito del Volturno”). Quando arriva nella Catania ormai liberata, tutti lo venarono, potrebbe anche avere una luminosa carriera, ma comincia già da prima a fare dei passi indietro: accetta di non diventare sindaco per lasciare lo spazio agli Uzeda e qui si mette al servizio della carriera politica di don Gaspare Uzeda. Giulente appoggia con tutta la forza della sua oratoria questa candidatura assolutamente cinica di don Gaspare Uzeda. Si sa che esiste la famosa frase di Massimo D’Azeglio: “ora che abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo fare gli italiani” e ad un certo punto don Gaspare dice: “ora che abbiamo fatto l’Italia, dobbiamo fare i fatti nostri”. Questo è don Gaspare, un bamboccione, un pavido, uno che ha anche molta difficoltà a fare i discorsi in quanto non è bravo, non è nemmeno portato per la politica che passa attraverso i discorsi, l’eloquenza: ed è qui che lo aiuta Giulente, che ne ha tanta di eloquenza. “Giulente nipote, prendendo a parlare in qualità d'oratore, diceva: «Signor duca, in nome dei sodalizi patriottici il Circolo Nazionale, L'Unione Civica, la Lega Operaia, il Riscatto Italiano, i Figli della Nazione, dei quali le presento le rappresentanze... veniamo a compiere il mandato affidatoci, di pregarla affinché ella accetti la candidatura al Parlamento italiano. Il paese ben conosce di chiederle un sacrifizio, e un sacrifizio non lieve; ma il patriottismo di cui ella ha dato tante e sì splendide prove ci dà guanto che anche una volta vorrà rispondere all'appello del paese...» I tre o quattro popolani tenevano il cappello con tutt'e due le mani, stretto come se qualcuno volesse portarlo loro via; Giulente zio guardava per terra. Il duca, finito il discorsetto del giovane, rispose, cercando le parole una dopo l'altra, con voce strozzata: «Cittadini, son confuso... e vi ringrazio, veramente... Sono stato felice... orgoglioso anzi direi... di aver potuto contribuire, come ho potuto, al riscatto nazionale... e alla grand'opera dell'unificazione della nazione... Ma, veramente, ciò che voi mi domandate... è superiore alle mie povere forze... È un mandato... Permettete!...» soggiunse con altro tono di voce, vedendo far gesti di diniego, «che non saprei come disimpegnarlo... al quale è d'uopo attitudini speciali che io non possiedo... E non vi mancheranno patriotti che assai meglio di me... potranno rispondere agli interessi... della tutela degli interessi... del nostro paese!» «Perdoni!» riprese il giovanotto. «Noi apprezziamo il delicato sentimento che le fa dire così: la sua modestia non le poteva dettare diversa risposta. Ma della capacità di lei dev'essere giudice, perdoni!, lo stesso paese. Se ella avesse altre ragioni per rifiutare, ragioni private o di affari, noi c’inchineremmo, non potendo permettere che il suo sacrificio vada troppo oltre. Ma se l'unica obiezione consiste nella sua incapacità, ci permetta di dirle che non tocca a lei riconoscere se è capace o pur no!»” A quell’epoca gli avvocati così erano: Benedetto Giulente è avvocatesco, eloquente, oratorio. “Tacendo Giulente, il sarto Bellia, dei Figli della Nazione, disse: «Duca, l'operaio vuole a Vostra Eccellenza... Ci sono tanti che brigano il voto, ma non ci abbiamo fiducia. Vogliamo un buon patriotta e un signore come Vostra Eccellenza...»” Il ragionamento è: è un buon candidato perché ricco e quindi non ruba perché non ne ha bisogno. È un dettaglio di un realismo scoraggiante: il popolino è contento se viene eletto il viceré. “Allora, rivolto ai compagni, Giulente zio disse, con tono di bonarietà scherzosa, accarezzandosi la barba: «Non abbiate paura: il duca vuol farsi pregare...» «Farmi pregare?» esclamò il candidato, ridendo. «Mi prendete forse per un dilettante di pianoforte?» Tutti sorrisero e il ghiaccio si ruppe. Smessi la dignità grave e il linguaggio fiorito dell'ambasceria, ognuno disse la sua, in dialetto, alla buona, per indurre il duca ad accettare. Sul nome di lui si sarebbero messi d'accordo; in caso di rifiuto, i voti si sarebbero sperperati sopra tre o quattro persone; e poiché era quella la prima elezione alla quale chiamavasi il paese, bisognava che essa riuscisse l'affermazione unanime della volontà del collegio.” Sono tutti ragionamenti che vengono fatti in questa conversazione un po’ dialettale, un po’ alla buona, resi con l’indiretto libero. Insistono e poi, alla fine, fanno vedere che ci deve pensare un poco, ma in realtà non vuole altro. “Egli li trattenne ancora, discorrendo delle notizie del giorno, interessandosi alla cosa pubblica, toccando di sfuggita i provvedimenti che bisognava reclamare dal governo di Torino pel bene del paese, per il migliore assestamento del nuovo regime. Prese da un cassetto della scrivania una scatola di sigari: sigari d'Avana, color d'oro, dolci e profumati, e ne fece larga distribuzione, stringendo la mano a tutti, ma più forte ai due Giulente.” affezionato a Lucrezia, l’unico al mondo che le vuole bene) che veniva al palazzo unicamente per lei, lasciando in asso le sue bestie imbalsamate e da imbalsamare (un’altra delle manie di Ferdinando). Soltanto quando si chiudeva in camera con Vanna, per avere le lettere del giovane, le diceva, con un sorriso freddo, a fior di labbro: «È inutile! Lo sposerò!...»” Continuano questi pezzi di eloquenza sui giornali: “Chi è il duca d'Oragua”, “Un patrizio patriotta”, sono tutti testi che girano insieme anche a degli opuscoli, tutti scritti da Giulente. Racconta una biografia del duca largamente infondata: qualcosa di vero c’è, ma è tutto gonfiato, usando il presente storico [di quello che si chiama stile storico sustenì (?)]: “Nel lungo periodo di preparazione noi lo vediamo a Palermo, intrinseco dei più chiari patriotti portare il contributo della sua attività e delle sue sostanze alla causa nazionale. Ai primordi del movimento liberatore, corre in patria, poiché egli vuol parte dei dolori e delle gioie dei suoi amati concittadini (era scappato da Palermo e andato a Catania per prudenza). Qui è largo del suo prezioso ausilio ai liberali, e fa sentire ai rappresentanti dell'esecrato borbone la voce che ormai lo condanna. [...] Apre la sua casa avita a Bixio (si dice Bicio) ed a Menotti, rende ai liberatori gli onori della città. Sollecitato a rappresentare il primo collegio al Parlamento, modestamente declina l'offerta, volendo esser primo ai sacrifici, ultimo agli onori. Ma il paese lo vuole. La sorella Palermo ce lo invidia. E chi porta il nome di DUCA D'ORAGUA non può sottrarsi alla volontà del paese. Egli sarà il nostro deputato!” Qua comincia una parte piuttosto lunga e fatta di parlate, gente che parla. Parlano prima il principe e il duca perché il duca va lì e dice: “Certo questi ragazzi, Lucrezia, Benedetto, ma perché non consentiamo il loro matrimonio, i tempi sono cambiati” e il principe fa: “Sì certo, e io che c’entro, mica sono il Re…”. Allora il duca lo guarda e fa: “Ma c’è qualcosa? Dillo, dillo”, “Certo io non voglio seccare Lucrezia, ma nemmeno Lucrezia deve seccare me”. Nei capitoli prima di questo i fratelli defraudati, in particolare Chiara, Lucrezia, Ferdinando, vogliono fare causa, anche perché, falsificando le carte il principe gli ha fatto credere che, in realtà, loro pure quel poco che avevano avuto non lo dovevano avere perché la fortuna della principessa era falsa, finta, era tutto tarlato dai debiti e quindi bisognava dare una parte di quello che avevano avuto. In sostanza, molto diplomaticamente, Giacomo fa capire a Don Gaspare che darà il permesso purché Lucrezia desista dalle sue pretese. Poi piano piano si capisce pure, perché entra nel dettaglio del dare e dell’avere, non sono generici, dice: “Sì, va bene e quindi non mettesse in discussione il testamento di mamma e in più riconoscesse quelle decurtazioni dovute al fatto che dobbiamo pagare i debiti (inesistenti) che mamma ha lasciato e in più in questi anni io l’ho mantenuta”. Alla fine, Lucrezia deve accettare questo patto: vuoi sposarti Benedetto Giulente? Non deve avere niente dall’eredità, o quasi. Benedetto Giulente è ricchissimo, è il figlio unico del Giulente ricco (lo zio, invece, era povero). Quindi che problema c’è? Insomma, per farla breve, va anche un prete a parlare con Lucrezia “alla fine Lucrezia, guarda…la famiglia…”, “che cosa volete?”. Alla fine, guarda e dice: “Va bene”. Lucrezia rinuncia all’eredità e sposerà Benedetto Giulente. Ma il principe: “Non pago” dice, “ma gli altri?”. Intanto Suor Maria Crocifissa, la primogenita Angiolina, già l’ha derubata in precedenza. Dopo varie macchinazioni, Giacomo rientrerà in possesso anche della parte di Raimondo. Gli Uzeda possono tutto con la forza barbarica: il diritto che è tutt’uno con l’esercizio della forza. Rimane Chiara: allora dice il principe che “Questo è il momento buono” Chiara sta aspettando che nasca il bambino, ma un poco vorrebbe resistere perché dice “ma questi vogliono fare fesso a mio marito”. Dice il marito: “Lascia stare, non ne abbiamo bisogno”. Rimane Ferdinando, il “babbeo”, quello che aveva avuto la parte più piccola dell’eredità, che in realtà si “puzzava” di fame, ma pure a lui bisogna togliere tutto. Il principe Giacomo è di un’avidità spaventosa, e dice: “Guarda, se anche Ferdinando non rinuncia, io non ti faccio sposare”. Allora vediamo il lato cinico del carattere di Lucrezia perché questo è il fratello che, quando era piccola, era l’unico che le regalava le bamboline che faceva lui. A un certo punto dicono: “Ma…”, dice la zia, dice qualcun altro, “ma non si possono sposare, diversità di educazione”. Benedetto Giulente ha fatto l’università, Lucrezia ha avuto un solo maestro che le ha un po’ insegnato a malapena a leggiucchiare qualche parola, che è stato il fratello quando erano piccoli. Non è che ha avuto l’educazione delle fanciulle aristocratiche, che imparano il francese, il pianoforte e così via, no, niente. Per cui si ammala, fa finta di ammalarsi, si mette nel letto e sta così. Perché lei non vorrebbe che Ferdinando facesse questo sacrificio, ma talmente tanto è arrabbiata con Ferdinando che la mette nelle condizioni di fare questo sacrificio che si ammala, vero o finto, insomma fatto sta che Ferdinando va là e dice: “Ma che c’è? Ma che c’è? Ma me lo potevi dire, non c’è problema” e Ferdinando rinuncia a quelle quattro noccioline che avrebbe potuto avere. Gli resta quel piccolo fondo dove fa gli esperimenti e quest’è. Ora siamo alla parte finale di questo capitolo. “Il giorno dell'elezione era vicino; i due Giulente, ma più specialmente Benedetto, avevano scovato gli elettori, compiuto tutte le formalità dell'iscrizione; mattina e sera veniva gente a trovare il duca per dichiarargli che avrebbero votato per lui: i Giulente non mancavano mai. La vigilia della votazione, mentre appunto il candidato dava udienza ai suoi fautori, il cameriere del marchese venne di corsa a chiamare il principe e la principessa, perché Chiara era sul punto di partorire. Quando Giacomo e Margherita arrivarono in casa di lei, trovarono Federico che smaniava come un pazzo, dall'ansietà, non potendo assistere la sofferente, chiamando però a ogni tratto la cameriera, la cugina Graziella o una delle tre levatrici che si davano il cambio al letto della partoriente. Il principe restò con lui e la principessa entrò nella camera di Chiara. Nonostante il travaglio del parto, costei aveva un'aria beata, sorrideva tra due contorcimenti, raccomandava che rassicurassero suo marito. «Ditegli che non soffro... Va' tu stessa, Margherita... Ah!... Poveretto... è sulle spine...» Il suo desiderio di tanti anni, il suo voto più ardente, era dunque sul punto d'esser conseguito! I dolori s'attutivano, a quest'idea; ella non soffriva quasi più pensando all'ambascia del marito... Quando la principessa tornò in camera, la levatrice esclamava: «Ci siamo!... Ci siamo!...» «Presenta la testa?» domandò la cugina, che reggeva per le ascelle la marchesa in preda all'ultima crisi. «Non so... Coraggio, signora marchesa... Che è?...» A un tratto le levatrici impallidirono, vedendo disperse le speranze di ricchi regali: dall'alvo sanguinoso veniva fuori un pezzo di carne informe, una cosa innominabile, un pesce col becco, un uccello spiumato; quel mostro senza sesso aveva un occhio solo, tre specie di zampe, ed era ancor vivo. «Gesù! Gesù! Gesù!»” Adesso si è passati al campo politico, anche se la storia dell’aborto non è ancora finita. Si arriva all’esito delle elezioni: ci sono due processi: l’elezione del duca d’Oragua e la nascita di questo abominio. “Il domani infatti egli corse su e giù per le sezioni, per le case dei votanti, sollecitando la formazione dei seggi, interpretando la legge che riusciva nuova a tutti, incitando la gente a deporre nell'urna il nome d'Oragua.” Benedetto va a prendere a uno a uno i voti. “Frattanto in casa di Chiara, quasi in segno di protesta contro quell'ultima pazzia del duca, s'erano riuniti tutti gli Uzeda borbonici, ad eccezione di don Blasco il quale, dopo la transazione dei nipoti, la conclusione del matrimonio di Lucrezia e la candidatura del fratello, pareva veramente impazzito. La marchesa stava discretamente in salute e sopportava anche con sufficiente rassegnazione la sua disgrazia; il marchese non lasciava il capezzale della puerpera e si chinava a parlarle all'orecchio: nessuno dei due ascoltava i motti feroci di donna Ferdinanda contro il fratello, i ragionamenti storico-critici che il cavaliere teneva al principino, venuto anche lui a far visita alla zia col Priore e fra' Carmelo. Chiara aveva mandato a chiamare Ferdinando, e lo aspettava con viva impazienza: quando egli apparve se lo fece venire accanto e gli parlò piano, lungamente. Poi chiamò la cameriera e, cavato di sotto al guanciale un mazzo di chiavi, glielo diede, ordinandole in mezzo al frastuono della conversazione: «Sai la boccia dello strutto, nel riposto?... la grande?... Prendila, vuotala e nettala bene... Ma bene mi raccomando! Se c'è acqua calda è meglio.» Pronta che fu la boccia, Ferdinando andò a vederla. «Va bene,» disse; «adesso occorre lo spirito.» La marchesa ordinò che andassero a comprarlo; e allora in mezzo al cerchio dei parenti stupefatti, fu recato il feto, giallo come di cera, che Ferdinando lavò, asciugò e introdusse poi nella boccia dove versò lo spirito e adattò il tappo. «C'è un po' di sego?... di creta?...» «Ho il mio cerotto, se ti serve...» disse il marchese. (la cera è quella che si usava per chiudere le buste). E del cerotto che appestava la camera Ferdinando spalmò l'incastratura del tappo, perché non entrasse aria nel recipiente. La marchesa seguiva attentamente l'operazione; Consalvo, con gli occhi spalancati, guardava quel pezzo di grasso diguazzante nello spirito; a un tratto disse a don Lodovico: «Zio, non pare la capra del museo?» Al museo dei Benedettini c’era infatti un altro aborto animalesco, un otricciuolo con le zampe, una vescica sconciamente membrificata: ma il parto di Chiara era più orribile.” Ora questa cosa è interessante che si trova in un’altra pagina di De Roberto, Giornale di Ermanno Raeli, testo poco letto, ma in cui è chiarissimo che lui è Raeli lui e racconta di questa esperienza vissuta. Dice di aver visto al museo dei Benedettini questo otre con dentro questo aborto di capra sotto spirito, e ne rimase molto impressionato: lo ha preso e lo ha messo nel romanzo. Questa è una cosa che De Roberto fa, prende un fatto della sua vita e lo inserisce, fa anche il realismo, ci mette dei pezzi della sua esperienza. Lui talvolta disse a Di Giorgi “io mi sono fatto una legge di non scrivere e descrivere nulla che non abbia mai visto con i miei occhi”. In realtà, tutto quello che lui usa per fare le scene, particolari è qualcosa che ha preso (un poco lo aggiusta, un poco lo adatta) dalla sua esperienza. “Don Lodovico non rispose; fatta una breve visita alla sorella, andò via. Anche gli altri a poco a poco se ne andarono, lasciando Chiara sola col marito a guardar soddisfatta quel pezzo anatomico, il prodotto più fresco della razza dei Viceré. Premeva al principe di tornare dallo zio duca e, per fargli cosa grata, prese con sé il figliuolo, quantunque fosse l'ora che il ragazzo doveva tornare al convento. La famiglia era appena arrivata al palazzo, che s'udirono di lontano suoni confusi: battimani, grida, squilli di tromba e colpi di gran cassa. Una dimostrazione di cittadini d'ogni classe con bandiere e musica, capitanata dai Giulente, veniva ad acclamare il primo deputato del collegio, l'insigne patriotta.” Nel momento in cui nasceva l’aborto, è stato eletto il duca di Oragua deputato: c’è un parallelismo. “La folla gridava: «Viva il duca di Oragua! Viva il nostro deputato!» mentre la banda sonava l'inno di Garibaldi e alcuni monelli, animati dalla musica, facevano capriole. I Giulente, il sindaco, altri otto o dieci cittadini più ragguardevoli parlamentavano con Baldassarre, volendo salire a complimentare l'eletto del popolo; poiché il duca si trovava su nella Sala Gialla, il maestro di casa ve li accompagnò: Benedetto Giulente, appena entrato, vide Lucrezia accanto alla principessa, ancora col cappellino in capo. Il duca, fattosi incontro ai cittadini, strinse la mano a tutti, prodigando ringraziamenti, mentre dalla via veniva il frastuono delle grida e degli applausi, e il principe, visto nel crocchio un iettatore impallidiva mormorando: «Salute a noi! Salute a noi!» Fu il nuovo eletto, pertanto, quello che presentò Giulente alle nipoti. Il giovane s'inchinò, esclamando raggiante: «Signora principessa, signorina, sono felice e superbo di presentar loro la prima volta i miei omaggi in questo fausto giorno che è di festa per la loro casa come per tutto il paese...» «Viva Oragua!... Fuori il duca!... Viva il deputato!» urlavano giù. E Benedetto, quasi fosse già in casa sua, spalancò il balcone. Allora il duca impallidì peggio del nipote: egli doveva adesso parlare alla folla, aprire finalmente il becco, dire qualcosa. Stringendosi a Benedetto, balbettava.” Attenzione a “aprire il becco”, L’aborto aveva il becco. “«Che cosa?... Che debbo dire?... Aiutami tu, mi confondo...» «Dica che ringrazia il popolo della lusinghiera dimostrazione... che sente la responsabilità del mandato, ma che consacrerà tutte le sue forze ad adempierlo... animato dalla fiducia, sorretto...» Ma poiché le grida raddoppiavano, egli lo spinse verso il balcone. Appena il deputato apparve, un clamore più alto levossi dalla via formicolante di teste; salutavano coi cappelli, coi fazzoletti, con le bandiere, vociando: «Evviva! Evviva!...» Giallo come un morto (anche l’aborto di Chiara era giallo) afferrato alla ringhiera con tutte e due le mani, con la vista ottenebrata, immobile in tutta la persona, l'Onorevole cominciò: «Cittadini...» Ma la voce si perdeva nel tumulto vasto e incessante, nel coro assordante degli applausi; l'atteggiamento del deputato non faceva capire che egli volesse discorrere. Benedetto alzò un braccio; come per incanto ottenne silenzio.” È lui il vero leader, ma ha fatto un passo indietro: Benedetto alza un braccio e tutti zitti, il duca di Oragua, invece, apre la bocca per parlare, ma tutti fanno chiasso lo stesso. “«Cittadini!» cominciò il giovanotto; «in nome di voi tutti, in nome del popolo sovrano, ho comunicato all'illustre patriotta...» «Evviva da borghese, sempre grosso, è diventato amico di un professore dell’unità, gli chiede di capire, vuole sapere. A un certo punto arriva la notizia della presa di Roma, la breccia di Porta Pia, e finisce qui il secondo capitolo. “E la marcia ricominciò. Don Blasco, con la bandiera a spall'arme, la tuba un poco di traverso, il colletto monacale madido di sudore, andava in mezzo alla dimostrazione a braccio del professore che lo aveva ripescato e non lo lasciava più. «Fuori i lumi!...» gridavano i suoi seguaci a ogni passo, e applausi e fischi s'alternavano secondo che le finestre illuminavansi o restavano serrate e buie com'erano.” Alcuni sono contenti della “presa di Roma”, altri no. “Dinanzi a una bottega di merciaio, la fiumana dei manifestanti s'arrestò un momento: «Le torce!... Le torce a vento!...» (carattere cinematografico tipico in De Roberto) E tutte quelle che si trovarono furono distribuite e accese immediatamente. La luce fosca, fumosa si rifletteva contro le case, illuminandole, strappando vivi bagliori ai vetri delle finestre; sul mare delle teste fazzoletti e cappelli s'agitavano; la banda eccitava l'entusiasmo sonando a tutto andare la marcia reale e l'inno di Garibaldi; e le grida echeggiavano più forte, più alte, più spesse intorno all'onorevole: «Viva Roma!... Viva l'Italia!... Viva Oragua!...» A un tratto la dimostrazione s'arrestò nuovamente come se qualcuno le contrastasse il passo, e un vario vocìo si levò: «Ancora!... Avanti!... Abbasso!... Morte!... Chi è?... Che c'è?...» Da un vicolo era sbucato un frate: alla vista della tonaca i dimostranti che andavano innanzi s'erano fermati e gridavano sul muso al malcapitato: «Abbasso i preti!... Abbasso le tonache! Viva Roma nostra!...»” Tra i fraticelli del convento dei Benedettini, c’erano molti figli bastardi delle famiglie aristocratiche. Don Blasco, che non è figlio bastardo, è monaco e fa quello che vuole, ha le comare, ha il coltello, i soldi; mentre, invece, i fraticelli sono i servitori dei monaci e là c’è Frate Carmelo, che è un bastardo Uzeda ed è un uomo molto mite, pio, è servizievole, veramente crede in Dio e ha un animo religioso, però, essendo un Uzeda, ad un certo punto esce pazzo pure lui. È rimasto frate, non si è travestito e non ha temuto di nascondersi e quindi appare da questo vicolo un omino tondo tondo, piccolo e tutti gli urlano contro. “Il frate, livido in volto, con gli occhi spalancati, guardò un momento la folla minacciosa e urlante; di repente, alzò le braccia, gridando anche lui, scompostamente: «Eh!... Eh!...» «È il matto... lasciatelo andare!...» esclamarono alcuni; ma pochi udirono l'avvertimento, e la folla si mise in moto gridando: «Morte ai preti!... Abbasso il temporale!... Abbasso!... Morte!...» (lo stanno per aggredire, forse per uccidere) Don Blasco, allungato il collo, riconobbe fra' Carmelo, un altro degli Uzeda ammattito, il bastardo che a dispetto della fede di battesimo si rivelava anch'egli della famiglia. E il professore, alla vista della tonaca, se era un energumeno, inferocì come un torello al rosso: «Morte ai corvi!... Giù i tricorni: viva il pensiero laico!... Abbasso l'ultramontanismo!...» Il pazzo, alla luce fantastica delle torce, continuava a gestire scompostamente, a gridare: «Eh!... Eh!...» senza riconoscere l'ex paternità di don Blasco, il quale, per non esser da meno del professore che gl'intronava le orecchie, vociava anche lui: «Abbasso!... Morte!... Abbasso!»” Non si sa che succede, non viene detto se il fraticello viene lasciato andare, se viene ucciso o semplicemente menato, però è interessante che il capitolo si chiuda con questo Don Blasco ormai ferocemente anticlericale in questa scena di fiaccole, di fumo, di urla, di bandiere (sempre queste scenografie così affollate). [Momento domande: È questione di montaggio. Diciamo che, questo regime che lui sceglie molto libero, a volte, anche in questo capitolo che abbiamo letto oggi, dopo la prima parte, infondo non è un capitolo tecnicamente audace, non è qualcosa di confrontabile per radicalità di principio espressivo per esempio di Paradiso Perduto che è tutto riflettorizzato oppure la Sorte che è tutto iterativo o pseudo-iterativo, no. Però, c’è un radicalismo dei contenuti, delle immagini. Domanda: Leggendo, si vede che ad un certo punto noi vediamo e sentiamo tramite Graziella, però, quando questo avviene nell’Illusione, noi comunque i sentimenti di Teresa li intuiamo perché c’è qualcosa di esterno che avviene, non leggiamo nella sua mente. Risponde il professore: Nell’Illusione leggiamo sempre nella sua mente. L’Illusione tecnicamente è facile da cogliere, o c’è scena resa con la focalizzazione esterna come se fosse una scena di Teatro (personaggi che parlano), o ci sono pensieri di Teresa, percezioni di Teresa, chiaramente non dovete immaginare che lui dice Teresa «pensò: “…», sono resi con l’indiretto libero, con la psico-narrazione, con delle mescolanze che sono tese a restituire il vissuto interiore di Teresa. Teresa è il personaggio riflettore nel senso proprio delle esperienze, che so, come in Virginia Wolf o in Joyce può succedere. L’unico che diventa veramente, ad un certo punto, personaggio riflettore saliente è Consalvo. Da un certo momento in poi cresce la sua presenza, anche il suo protagonismo psicologico. Credo che l'ultima lettura che vi leggerò sarà proprio su questo, in cui vediamo Consalvo che parla e pensa. Ma direi che la mia impressione è che De Roberto sia, complessivamente da un punto di vista delle tecniche, sia qui più un narratore tradizionale. Ma perché? Perché è tornato indietro? No. Perché secondo me lui ha capito benissimo quella cosa che poi dice Genette, della coerenza che non è un valore estetico. Cioè, a volte, è troppo costrittiva. Finché lo fai in un racconto va bene, ma in un intero romanzo con limitazioni troppo forti si fanno troppe rinunce. Allora ecco perché abbiamo visto il primo capitolo proprio in stile Verga. La coralità verghiana, però volta ad una chiave peggiorativa, abissale, più espressionistica. Poi abbiamo visto che ci sta quel capitolo, mi pare sia il terzo, che comincia con una forte presenza autoriale, addirittura delle analessi. In questo capitolo non ce ne sono, questo è un capitolo scenico e ce ne sono molti nella prima parte. Noi siamo cioè messi al cospetto delle cose che succedono. A volte lui usa dei personaggi come guide, come nel capitolo della prima parte con Graziella, altrove lo abbiamo visto con Don Blasco ad esempio. Personaggi che ci portano nei posti, ma non c'è nemmeno bisogno. Quello che comunque c’è è l'impersonalità perché nel terzo capitolo ci sono le analessi, forse questo è autoriale. Per De Roberto, però, era un'infrazione dell'impersonalità? Forse non lo vedeva, non vedeva l'infrazione dell'impersonalità. Non è detto che la vedesse. (Domanda di una ragazza a proposito della focalizzazione incentrata sul personaggio di Don Blasco) (non è la stessa Teresa, questa è la figlia del principe Giacomo, quell’altra è la figlia di Raimondo e Matilde, sono cugine in sostanza). Dal punto di vista tecnico, questa resa della soggettività avviene attraverso: un uso estesissimo dell’indiretto libero e in questo capitolo se ne trova tantissimo. Questo è il capitolo attraverso cui si può comprendere come funziona l’analisi psicologica in De Roberto e in generale come funziona anche in altri autori perché sono campioni assimilabili a quelli di tanti altri autori che hanno usato questa strategia di interiorizzazione dei contenuti. Ha una struttura piuttosto facile da cogliere: sostanzialmente si raccontano due morti, è uno dei tanti capitoli luttuosi dei Viceré. Si racconta la morte del principe Giacomo e quella di Giovannino Radalì, due personaggi molto diversi tra loro: uno l’orco, l’altro l’angelo. Questi fatti sono tenuti insieme principalmente dal modo in cui li vive Teresa, la sorella di Consalvo, e lo stesso Consalvo, che pure ha un suo spazio abbastanza ampio ed è un personaggio riflettorizzato (vediamo i pensieri, ma meno di Teresa) nel capitolo. In questo punto della trama, cosa è successo? È successo che il principe Giacomo è riuscito più o meno a spogliare tutti i fratelli e le sorelle e ha rimesso insieme la grande fortuna. Raimondo ad un certo punto ha rinunciato a difendere i propri diritti in cambio dello scioglimento del suo matrimonio con Matilde, la quale poi per il dolore muore. Come ci è riuscito ad ottenere lo scioglimento? Grazie allo strapotere di questa famiglia, tramite lo zio Ludovico, tramite il duca d’Oragua: loro riescono a fare tutto quello che vogliono. Quindi Giacomo ha rimesso insieme la fortuna, ma è entrato fortemente in conflitto col figlio Consalvo; pare che nella famiglia dei Viceré i figli e i genitori non debbano mai andare d’accordo, soprattutto i primogeniti. Teresa è sempre stata innamorata di Giovannino e Giovannino di Teresa, due anime poetiche, due romantici nel senso psicologico; ma la madre di Giovannino, d’accordo col padre di Teresa, hanno stabilito che Teresa si dovesse sposare non con Giovannino – che lei amava – ma con Michele, il primogenito dei Radalì-Uzeda, il fratello di Giovannino. Teresa è stata debole, un po’ ha accettato questa cosa e ha fatto questo matrimonio che in realtà non voleva, ed è rimasta sempre innamorata di Giovannino. Ha avuto anche due figli con Michele, che è una brava persona, non è cattivo, è la madre che è tremenda (figura delle madri orche). La morte degli Uzeda non è mai una bella morte. Cos’è la bella morte? È quando uno muore sereno, circondato dall’affetto autentico dei suoi cari, è una morte dolce, magari in vecchiaia, senza troppo soffrire; invece per i Viceré la morte è una cosa tremenda. Il principe, “Grattandosi un giorno sotto la nuca, in mezzo alle spalle, per un forte prurito, il principe aveva calcato le unghie sino a farsi un po' di sangue. Lì per lì non ci aveva badato, ma dopo qualche tempo gli si formò, nel punto maltrattato, una specie di bottone che crebbe fino a impacciarlo nei movimenti e ad impedirgli di star supino nel letto” È un tumore – la scienza di allora forse non lo definiva ancora melanoma, ma probabilmente è quello – che si presenta come una bollicina. Giacomo si gratta e comincia il calvario. Chiamano il chirurgo che dice che bisogna operare, il principe impallidisce a sentire questo, ma alla fine, dato che dava fastidio questo tumoretto, si fa operare. Dopodiché c’è l’altro dettaglio su in cui si dice che Giovannino si era ritirato in certe sue campagne, ad Augusta, campagne malariche; si è ritirato lì perché non vuole più stare a Catania, nella casa, o comunque in prossimità di Teresa, ora che si è sposata con il fratello, ma ogni tanto torna. Qui comincia l’analisi psicologica di Teresa. «Tutte le volte che veniva alla casa materna, egli aveva il viso più cotto, con la barba più ispida, la pelle delle mani più dura. Su quella faccia da arabo del deserto il bianco degli occhi era però dolcissimo. Teresa ringraziava il Signore della saggezza che gli aveva ispirata, della salute che gli accordava; però, in cuor suo, ella domandava come mai quel giovane tanto elegante, così avido di piaceri, delle cose belle e ricche, aveva potuto rassegnarsi a far la dura vita di campagna, a vivere con una contadina, in mezzo a contadini...» Si dice che abbia intrecciato una relazione con una contadina, non è mai chiaro se è vero. Qui si è già entrati nella coscienza di Teresa per via di un discorso indiretto: “ella domandava come mai quel giovane tanto elegante…” è una proposizione di tipo interrogativo in forma indiretta. E qui comincia l’indiretto libero: «Non era però lei stessa la causa di quella trasformazione?» questa è chiaramente una frase di indiretto libero. «E subito, quasi a scagionarsi ai propri occhi, ella pensava: “Sono trasformata anch'io!...”» ecco che si possono alternare pensieri resi nella forma dell’indiretto libero e pensieri resi nella forma del discorso diretto. Quello che si trova in queste ampie regioni del testo dove è inscenata la coscienza di Teresa, il pensare di Teresa, il dibattere interiore di Teresa, è una mescolanza di discorso indiretto – che è la maggior parte – e di discorso diretto, quello che Doroti Cohn chiama monologo citato.. “Dov'erano più, infatti, le sue ispirazioni poetiche, le sue alate fantasie? Aveva preso marito da due anni, e già cominciava la terza gravidanza. Quand'ella sognava di Giuliano Biancavilla», Giuliano Biancavilla è un’altra infatuazione di quando era ragazza, «[o] di Giovannino, pensava forse di divenire una macchina da far figliuoli?...», comincia l’esame di coscienza di Teresa, che andrà avanti poi, per tutto il capitolo, di pari passo con lo svolgersi delle vicende esteriori. «Giovannino era suo cognato; più nulla restava così dei sogni antichi. Se ne doleva forse? No! Pensava: “Che cosa mi manca per esser felice? Sono giovane, bella e ricca, tutti mi vogliono bene”», però, in realtà, lei continua a essere inquieta e si chiede il perché, “Perché non sono contenta?”, e qui c’è un punto che pure è interessante: «Lo spirito della tentazione si serviva di arti molto sottili per turbarla in quella serenità. Forse erano i libri, le poesie, i romanzi, quelli che, certe volte, quando si sentiva più tranquilla e sicura e sorrideva di maggior beatitudine, facevano sorgere a un tratto una specie di nebbia che offuscava il suo bel cielo, e le davano un senso di oscuro sgomento, e il rancore d'un bene perduto prima ancora che ella avesse potuto raggiungerlo. Era peccato leggere quei libri», questo è tutto indiretto libero, «seguire quelle visioni? Il confessore, i preti che la circondavano dicevano sì, che erano pericolosi; ma non riconoscevano forse nello stesso tempo che il pericolo, per lei, era molto più lontano, giacché ella aveva un'anima retta e una mente sana e una coscienza purissima?... E poi, e poi, e poi, ella aveva rinunziato a tante cose; se avesse rinunziato anche a vivere con la fantasia, che le sarebbe rimasto?» Ecco, questo è un passo molto interessante perché qui viene definita la fisionomia morale di una romantica nel senso psicologico; si colga l’analogia con quello che De Roberto dice dei romantici nel senso psicologico nel suo saggio su “Leopardi e Flaubert”: leggono molto, hanno molta immaginazione, molta fantasia, sognano qualcosa di grande, di indefinito, di probabilmente morto» e quindi trae da questa morte (che poi invece non è, Giovannino sta solo molto male) una serie di considerazioni, ma soprattutto il fatto che Giovannino è morto le fa scattare una cosa dentro. «A un tratto il passato le tornò alla memoria, alla lo rivide come lo aveva conosciuto». La sua fantasia accesissima, lei è una tipica eroina di stampo flaubertiano, come madame Bovary, ha un’immaginazione così forte che le permette di vedere e di sentire cose che sono solo immaginate o ricordate. Quindi lo vede, sente la sua voce come quando le disse “Mi vuoi bene?”. «E poi con gli occhi aridi, con voce strozzata, ella riconobbe». “Con voce strozzata” significa che queste parole lei se le dice, le mormora: sta sola nella stanza, ma le articola con la voce «l’ho ucciso io», ha preso coscienza del perché Giovannino è andato a seppellirsi laggiù. Tant’vero che le ha dette ad alta voce e poi dice «Sorse in piedi. Se qualcuno l’avesse udita?...». Per fortuna nessuno l’ha sentita e continua a pensare. Sono pagine e pagine di analisi psicologica, di anatomia morale. Pensa che sia colpa sua, ma inizia a mettere in discussione anche la sua famiglia. «Non era stata soltanto lei, erano stati anche, e più, tutti quegli altri! La sua madrigna, suo padre, la madre di lui, tutta quella gente dura, spietata, inesorabile, tutti quelli che avevano impedito d'esser felice a lui ed a lei stessa». “Madrigna” perché Margherita è morta, la moglie di Giacomo, la madre di Teresa e Consalvo, e forse è morta quasi uccisa da Giacomo. Lui l’ha fatta morire, è avvenuto quasi un omicidio: ad un certo punto Margherita era malata, lui indugia, non fa delle cose e lei muore di colera. Madrigna, quindi, fa riferimento alla nuova moglie di Giacomo, la cugina Graziella. Più avanti Teresa pensa ancora al marito e dice: «Se le ispirava quasi disgusto! Se disprezzava la sua ignoranza, la sua volgarità! E l'avevano sacrificata pei loro puntigli, pei loro capricci, per la superstizione dei titoli, per l'idolatria delle vane parole! Pazzi e maligni: aveva ragione Consalvo. Egli aveva ben fatto, che s'era ribellato. La sciocchezza era stata tutta sua, nell'obbedir ciecamente. Colpa sua! Anche sua! Per obbedire, per rispettare, per contentare: chi? «Gli assassini di nostra madre!...». Questo tra virgolette fa riferimento alle parole che Consalvo, che parla molto con Teresa, le rivolge. Sono molto legati tra loro, così come lo sono con Giovannino. Sono quasi coetanei, sono stati bambini insieme e Consalvo spesso ha detto a Teresa di “obbedire a quelli”, cioè il padre, la madrigna, ecc., ma loro sono tremendi, pazzi e maligni. Consalvo le dice che hanno ucciso la loro madre, ma Teresa ha sempre voluto rimuovere questa folle malvagità della famiglia Uzeda che l’ha resa vittima. Solo ora si rende conto che l’hanno sacrificata per il nulla, per la superstizione dei titoli. Si rende conto che questi sono gli Uzeda, gente che sacrifica tutto, ogni bene della vita, ogni affetto, ogni dolcezza della vita sull’altare del potere e della ricchezza. Si noti come, se non ci fosse Teresa, non si avrebbe questo capitolo perché tutto passa attraverso di lei. Arriva successivamente una buona notizia, che Giovannino sta meglio, anzi lo riportano addirittura in città, meglio non lasciarlo lì nelle campagne, magari in città sta meglio e soprattutto lo si può curare se serve. Si vede attraverso gli occhi di Teresa il suo arrivo: «Quando Teresa lo vide arrivare, curvo, dimagrito, con la barba ispida sul viso giallo, quasi non lo riconobbe. La pace era tornata adesso nell'anima di lei. Aveva un istante disperato del soccorso divino, e giusto mentr’ella dubitava, mentre quasi accusava il Signore d'averla dimenticata, un miracolo aveva salvato il poveretto. Ella vi riconosceva l'intercessione della Beata». Teresa è molto credente e spesso di affida alla Beata Ximena che sta alla Cripta dei Cappuccini, dove c’è addirittura il sarcofago a cui si chiede la grazia. Crede che Dio, grazie all’intercessione della Beata, abbia fatto la grazia e quindi Giovannino è tornato. Risulta chiaro già in questo capitolo, ma ancora di più andando avanti nel romanzo, che Consalvo è perfettamente ateo e materialista. Per ora, in questo capitolo, Teresa è una cristiana tollerante, aperta, che si vive liberamente e senza acidità, senza rigore eccessivo la sua fede, mentre verso la fine esce pazza – perché gli Uzeda escono tutti pazzi prima o poi – e le viene una mania religiosa inquietante che viene poi mostrata nell’ultimo capitolo, quando Consalvo la va a trovare e si vede che lei ormai crede ad una certa profezia in base alla quale sta per arrivare un Re Carlo dalla Francia che ripristinerà sette regni in Europa e rimetterà il Papa sul suo seggio. Sono fantasie di un cattolicesimo fantastico, apocalittico a cui lei ad un certo punto si volge. Ricominciano a frequentarsi con Giovannino, il quale ha preso tantissimo chinino (che è una cura abbastanza forte per la malaria) e quindi non sta perfettamente bene. Dice poi: «Giovannino era adesso guarito del tutto, i colori della salute gli fiorivano in viso; la mente però era debole ancora. La sua lieve sordità lo rendeva inquieto, irritabile, nervoso. Ora smaniava per andar fuori, per veder gente; ora si chiudeva in camera, evitando tutti. Spesso, ad una lieve contraddizione, a un'osservazione senza importanza della madre o del fratello, si spazientiva, rispondeva sgarbatamente; alle volte gridava con le mani in testa: «Volete dunque farmi impazzire?». Solo Teresa riesce a calmarlo: questo è notevole perché lui sta male, si vede che con la testa non sta tanto bene, però quando c’è Teresa lui sta benissimo, è normale. Teresa ha un effetto calmante e Giovannino migliora: “E addirittura si fece radere la barba, fu una specie di trasformazione: come quelle che si vedono a teatro. Ringiovanì in un momento, il bel ragazzo di un tempo riapparve”. Qua c’è un dialogo interessante: è in parte una scena che viene riportata, frammessa a queste lunghe zone di realtà riflessa, meditata da Teresa. “Così va bene, gli disse Consalvo che veniva spesso a trovarlo, quando le sue occupazioni sindacali lo lasciavano libero”, È da considerare che Consalvo, rubando il posto a Benedetto Giulente, è diventato il sindaco di Catania. Da notare che Antonino di San Giuliano, personaggio storico realmente esistito, a cui molti ritengono De Roberto possa essersi ispirato per creare Consalvo, aveva cominciato come sindaco proprio nel periodo degli anni Settanta, quando Consalvo iniziava a fare il sindaco. “Egli era adesso all’apogeo della popolarità, non si sentiva parlare d’altro che della sua intelligenza, della sua accortezza, del gran bene che faceva al paese: il governo l’aveva nominato Commendatore della Corona d’Italia. Spesso tuttavia s’impegnavano discussioni tra lui e Giovannino, poiché quest’ultimo osservava che col sistema di buttar via […] di dare un crollo”. Queste sono scene a cui Teresa assiste, ma si è messi al corrente di ciò che succede da un narratore neutrale che, con la focalizzazione esterna, fa vedere quello che si dicevano questi personaggi. Consalvo, per ottenere popolarità, sta spendendo un sacco di soldi, sta facendo opere pubbliche di tutti i tipi, indebitandovi il Comune. C’è il rischio della bancarotta sottolinea Giovannino. E cosa dice Consalvo? “Chi ne ha, ne spenda.. dopo di me il diluvio” Chissenefrega! “Dovranno far debiti [..] polvere agli occhi”. Questo è uno dei punti in cui Consalvo mostra il suo cinismo politico, il suo machiavellismo; l’esigenza è di farsi votare, poi chi se ne frega di chi pagherà questi debiti che ora si sta facendo per ingraziarsi gli elettori. Continuano i discorsi e continua ad essere molto presente la rispettare!... Lei, la santa!... la santa!...” Si rimprovera perché sente colpevole questo amore che contraddice i vincoli del matrimonio. Questi capitoli hanno spesso un andamento precipitoso, alla fine succedono cose tremende, i nodi giungono al pettine. Le cose più forti si trovano, di solito, alla fine del capitolo. Comincia “un improvviso peggioramento”: si è tornati a Giacomo, è apparso di nuovo il tumore, questa volta verso l’ascella, i dottori dicono “bisogna operare, bisogna bruciare”, ma non voleva, “vogliono ammazzarmi, non sono dottori, sono macellai, li pagate per ammazzarmi, per liberarvi di me”. Cominciano le manie di persecuzione, un po’ come era successo con Ferdinando il babbeo, che già è morto, convinto che i parenti volessero ammazzarlo. La follia di Giacomo spesso era superstizione, paura della iettatura: ha allontanato il figlio da sé perché convinto che gli portasse male, che era il suo iettatore. Qui ora fa una serie di cose sempre legate a questa mania superstiziosa: “promette messe alle anime del purgatorio, ceri e lampade a tutte le Madonne e a tutti i Crocifissi, scongiura che non l’abbandonino”. Teresa è sempre buona dice “va bene, va bene padre, non mi lasciate Giacomo”. Poi comincia una parte abbastanza impressionante, “ella assiste al macello”, all’operazione. Negli ultimi decenni dell’800, non esisteva né la medicina, né la chirurgia come sono ora. Esisteva una medicina molto arretrata, per non parlare della chirurgia, e si faceva in casa, vengono i medici a operarlo in casa. La parte più impressionante è questa: Teresa sta lì “Non vedeva la piaga, ma il gesto circolare che l'operatore faceva col braccio, il sangue che sprizzò sui grembiali del chirurgo e degli assistenti, che macchiò il letto e il pavimento, che fece più disgustoso l'odore dell'aria. Quanto sangue! Quanto sangue! Se ne colmavano le catinelle; vuotate, si ricolmavano… Ella stava dall'altro lato del letto, tenendo una mano del padre, fredda come quella d'un cadavere. Non poteva né pregare né pensare, vinta dall'orrore: una sola idea occupava il suo spirito: «Quando finiranno?...Non finiranno più?...» Non finivano mai. Come un artefice alle prese con la materia inerte da ridurre alla forma prestabilita, il chirurgo tagliava ancora, recideva, raschiava; lasciava uno strumento e ne pigliava un altro, poi riprendeva il primo, calmo, freddo, attentissimo. Ed un incidente prolungò l'attesa, ritardò l'operazione. Una goccia del putrido sangue cadde sulla mano scalfita dell'assistente; perché quell'uomo non fosse avvelenato accesero il termocauterio, il platino rovente fu passato sulla sua mano; s'udì il frizzo della carne bruciata, l'aria divenne mefitica.”. Un’orrenda operazione di questa medicina preistorica, si vede sempre il tratto iperbolico: tutto è gigantesco quando ci sono i Vicerè di mezzo. “Quanto sangue! Se ne colmavano le catinelle; vuotate, si ricolmavano”. Tutto finisce e Teresa, stremata da queste emozioni corrose, scende le scale, barcollando, si rimette nella carrozza e comincia a meditare. Questo è un altro momento interessante perché questa ragazza, molto religiosa, comincia a fare meditazioni nichilistiche, in fondo analoghe a quelle dell’altra Teresa, nell’Illusione: “la vita è sogno, non esiste niente, tutto è un’illusione”. Sono le riflessioni che fanno i romantici quando giungono al colmo della disillusione. “Ella pensava: «Quanti dolori! quante miserie!» Che valevano al padre le ricchezze, l'impero ai quali aveva tanto tenuto? Non avrebbe dato tutto per la salute?... Ed era condannato! Quell'operazione era quasi inutile: l'ascesso sarebbe riapparso altrove…” tutto indiretto libero “E contro quella povera vita ròsa dal male, un giorno, un momento, in cuor suo — non a parole, Signore, col solo pensiero; ma con un pensiero egualmente colpevole — contro quella povera vita ella s'era ribellata… Perché?... Come era stato possibile?... Se egli aveva torti, adesso li pagava, con un supplizio atroce.” Più avanti: “Quante miserie!... E sempre il gesto del chirurgo che incideva la viva carne le stava dinanzi agli occhi... Pensava suo padre a queste cose? Riconosceva d'essersi ingannato?” Riconosceva che tutto è stato illusione, la sua vita, la sua brama di ricchezza e potere. “[…] era stato duro, falso, violento; che aveva spogliato le sorelle e i fratelli, e falsificato il testamento del monaco, e lasciato morire accattando lo zio (Eugenio morto da mendicante), e amareggiato la vita e affrettato la morte della moglie, della madre di lei.” “Che tristo e orribile mondo, quello dove l'odio tra padre e figlio poteva allignare!...”. Pensa questo: la soluzione migliore, la vita migliore è quella della sepolta viva, la zia Monaca, la zia Crocifissa. “Beata, sì, la zia monaca che passava i suoi giorni, tutti eguali, tra le preghiere e le semplici cure della santa casa, fuor della vista del male, al sicuro dalle tentazioni, dagli errori e dalle colpe. Ella pensava: «Perché ho avuto paura del monastero?... Così vi fossi entrata per sempre!...» L'imaginazione dolente riconosceva adesso” deittico degli indiretti liberi, che vuol dire in quel momento, ma che vuol dire anche in questo momento perché si è in presa diretta con il percorso interiore del personaggio, “che la verità era lì, in quel silenzio, in quella solitudine, in quella rinunzia”. Poi conclude chiedendosi: “«Se io non fossi nata?...»”. Si veda a quale punto di pessimismo e desolazione leopardiana può giungere Teresa, lei che crede in Dio, lei che ha la fede, ma dice “era meglio non nascere” che più o meno poi è quello che riflette il Pastore errante dell’Asia, poesia di Leopardi che dice “ma perché nascere, forse è meglio non essere”. Un punto artisticamente molto interessante è quando Teresa torna a casa, dopo aver fatto questi pensieri tristissimi, di una fede negativa, che nessuno si aspettava da questo personaggio. Questi sono i tipici pensieri che De Roberto prestava ai personaggi con cui aveva particolari rapporti di immedesimazione: in fondo, si tratta di un pensiero analogo a quello di Federico RanaldI nell’Imperio, quando dice “forse la cosa migliore sarebbe che tutti gli esseri umani si suicidassero per porre fine alla vita, una cosa malvagia”. Dopodiché c’è una cosa tecnicamente molto interessante, cioè lei scende dalla carrozza e ode una voce, si avvicina a lei qualcuno – si capisce, così come lo capisce lei – è Giovannino, ma non viene nominato esplicitamente. “Ed in quel punto ella udì una voce, una voce viva, dolce e pietosa: «Teresa, che avete?... Com'è andata?... Sta male?...» Non poté rispondere; il pianto la strozzava. «Teresa!... Per l'amor di Dio, non v'angustiate così! Voi che siete tanto forte!... L'operazione non è riuscita? Sì?... E allora?... Andiamo, Teresa, siate ragionevole!... Guarirà, vedrete... Poveretta!... Ha ragione... Ma ora basta! Basta, Teresa... Sentitemi... ditemi... Michele non è venuto con voi?...» «Voglio che tu non perda tempo... Ha da esser ora.» «Oggi, subito, all'istante?...» continuò Consalvo con lo stesso tono di scherzo. «Ora... o te ne pentirai!»” La casa Francalanza è proprio finita: pensateci voi, liberate lo scandalo, persuadete quel pazzo. Questo è il notaio che va dal duca d’Oragua per dire queste cose, il duca d’Oragua è preoccupatissimo perché si parlerà molto, sarà una cosa scandalosissima questa, come si dice anche dopo. La servitù di casa Uzeda era costernata per questa scelta di Giacomo e allora il duca va da Consalvo e dice hai capito cosa ha fatto tuo padre, vai da lui, chiedi perdono fagli cambiare il testamento e Consalvo dice: “non mi interessa tanto una parte del testamento mi tocca comunque, comprerò un’altra casa non c’è problema”. C’è questa riflessione del duca d’Oragua ( GASPARE UZEDA, FRATELLO DI DON BLASCO) uno dei rari momenti di trasparenza del duca d’Oragua. “Lo zio restò a guardarlo, interdetto, non comprendendo. Era dunque vero? Quell'Uzeda non somigliava a tutti gli altri? Quando gli altri litigavano, s'azzuffavano, passavano sopra a tutti gli scrupoli e a tutte le leggi pur di far quattrini, quello lì restava indifferente, sorrideva udendo che era diseredato?” È interessante anche quest’altra cosa che dopo aver fatto il testamento: “Quando le ultime formalità furono compite, quando il testamento fu chiuso, quella violenta eccitazione venne meno a un tratto. Egli aveva parlato della propria morte! Aveva dettato le ultime volontà! Aveva provveduto ai funerali! Egli era iettatore di se stesso! Non gli restava più che morire! Nessuno gli cavò più una parola: immobile, tetro, serrò gli occhi, aspettando.” Questo pensa Giacomo e poi si chiude in un mutismo, si mette immobile, tetro ad aspettare la morte. Si è giunti alla fine quasi enigmatica di questo capitolo, c’è qualcosa di strano nel finale di questo capitolo: circola la notizia che Teresa è erede universale, la madre è contentissima, aveva sempre puntato a far avere tutto al primo figlio, cioè Michele, il marito di Teresa, togliendo tutto a Giovannino, e così potrà avere una fortuna enorme. Michele, però, non è molto interessato, è una brava persona e dice: “Mamma non penso a questo, penso a Giovannino, cupo, taciturno in questi giorni mi fa spavento”. Teresa è l’unica che non sa di essere diventata l’erede universale di Giacomo. Poi succede questo: il principe continua a stare sempre peggio e una notte un servo corre a casa Radalì, il principe era all’estremo. La notizia la comunicano a Giovannino affinché avverta il fratello che stava dormendo con la moglie. “«E come si fa?... Come si fa?...» balbettava egli, in preda a una confusione straordinaria. Andò finalmente a chiamare la madre. La duchessa corse nella camera maritale; all'improvvisa apparizione Teresa, che non dormiva più da tanto tempo, sentì un gran freddo serpeggiarle pel corpo. «Mio padre?...» e, cacciato un grido, cadde riversa sul letto. La duchessa scosse il duca Michele per destarlo dal sonno greve, e corse a cercare un cordiale. La cameriera e la balia accorsero anch'esse.” Arriva la duchessa madre nella stanza dove dormono il figlio Michele e Teresa e avvisa di cosa è successo. Teresa sviene nel letto. “Nella stanza attigua il barone pareva istupidito. Suo fratello lo chiamava, le persone di servizio gli dicevano, passando e ripassando in fretta: «La povera duchessina!... Venga anche Vostra Eccellenza...» ma egli guardava la soglia della camera nuziale con occhio fisso, dilatato, come se ci vedesse qualche cosa di orribile.” Giovannino guarda la soglia della camera dove dormono insieme Michele e Teresa e ci vede qualcosa di orribile. Vedere qualcosa di orribile in una camera nuziale è quello che Freud chiama “trauma primario”, la scoperta traumatica per ogni bambino del tipo di rapporti sessuali che intercorrono tra i genitori. È un punto di partenza anche del complesso di Edipo, dell’odio per il padre che si scatena. La domanda che viene spontanea è: Giovannino mica è il figlio di Teresa? C’è questo guardare con occhi fisso dilatato qualcosa di orribile alla soglia della camera nuziale. Giovannino entra nella stanza e cosa vede? “Era distesa sul letto, con le braccia nude, il seno nudo, i capelli d'oro diffusi sul guanciale, le labbra dischiuse, gli occhi rovesciati. «Aiutami a sollevarla...» Era rigida come una morta. Egli la sollevò per le ascelle. Come se le mani gli scottassero, si mise a scuoterle. Tremava. Tremavano tutti, perché la notte era glaciale.” Si ha uno spettro orribile, una soglia fredda sulla quale viene violentata la fanciulla. Si ha una donna nuda, svenuta che sembra morta. Come sembra morta Massimiliana quando viene violentata da Ermanno Raeli nell’appendice del 1923. C’è freddo, era rigida, ma c’è anche il freddo, la notte glaciale. Giovannino ha visto una cosa che non doveva vedere, Teresa nuda, forse ha provato qualcosa, forse ha provato il desiderio di questo corpo freddo e privo di sensi (necrofilia). Alla fine del capitolo si legge che, dopo che il principe è morto, arriva la notizia che Giovannino si è sparato e si è ucciso. Si cerca di far credere che sia stato un incidente perché non vuole lo scandalo. Ma perché si è ucciso Giovannino? Si è tolto la vita dopo aver visto Teresa nuda e come morta sul letto, fredda, dopo aver avuto questa visione orribile. Si è ucciso esattamente come Ermanno Raeli, nell’invenzione del romanzo del 1923, che si è ucciso dopo aver preso, non solo guardato, ma certo Massimiliana svenuta. Qui Giovannino ha visto il corpo nudo e bello di Teresa, che sembrava morto e poi si è ucciso. Domanda: potrebbe essere perché ha visto che il corpo è stato profanato dal fratello? Prof: ci pensiamo, non è male.  Ovviamente nell’inconscio ci sono delle cose che ne significano altre perché nel complesso edipico è il padre che profana la madre, e infondo il marchese di Précourt, in Ermanno Raeli, è anche un po’ una proiezione di un padre cattivo, che ha profanato il corpo di Massimiliana. Per il bambino il padre è il profanatore, l’usurpatore. Domanda: professore prima quando Giovannino era malato, c’era stata anche quel comportamento di Teresa come se fosse sua madre, si prendeva cura di lui. Prof: si, anche. SI ENTRA NELLA MENTE DI CONSALVO Ora ci sono le riflessioni di Consalvo e su queste bisogna soffermarsi perché è un momento in cui si ha accesso alla mente di Consalvo. I ragionamenti sono diversi rispetto alla sorella Teresa. “Consalvo non diceva nulla. Pensava impaurito a quel male terribile che un giorno avrebbe potuto rodere, distruggere il suo proprio corpo in quel momento pieno di vita. Era il sangue impoverito della vecchia razza che faceva, dopo Ferdinando, un'altra vittima precoce, poiché suo padre aveva appena cinquantacinque anni. Sarebbe anch'egli morto prima del tempo, prima di conseguire il trionfo, ucciso da quei mali terribili che
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