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Federico Moro - La Serenissima contro il mondo, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto del libro di Federico Moro "La Serenissima contro il mondo. Venezia e la Lega di Cambrai (1499-509)".

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 07/08/2023

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Scarica Federico Moro - La Serenissima contro il mondo e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! 1 Federico Moro – LA SERENISSIMA CONTRO IL MONDO. VENEZIA E LA LEGA DI CAMBRAI (1499-1509) INTRODUZIONE Il primo decennio del Cinquecento porta a maturazione, per Venezia, le contraddizioni generate dalle fallite sfide strategiche del secolo precedente. La mancata conquista dell’egemonia in Italia e la perdita di quella marittima mediterranea, combinate con l’espansione oceanica portoghese avranno conseguenze fatali. La successione degli eventi produce nel primo quarto del XVI secolo la Seconda Guerra Veneto- Ottomana (1499-1503), che mette fine alla supremazia navale veneziana, e la Guerra della Lega di Cambrai (1509-17). In particolare, le sconfitte del primo anno di questa portarono la Repubblica sull’orlo della dissoluzione. La risposta, definitiva, sarà l’elaborazione della dottrina della “neutralità armata”. I veneziani sono stati subito costretti a combattere. La guerra ha caratterizzato l’intera loro esistenza. Prima per sopravvivere, poi per assicurare le rotte marittime necessarie al commercio, unica fonte di vita della federazione di piccole comunità locali che darà vita alla repubblica, infine per creare l’impero. Per garantire le lunghe linee di comunicazione marittime, attraverso cui scorrevano i traffici, hanno creato una rete di basi navali cui potessero appoggiarsi tanto navi mercantili che flotte da battaglia, impegnate a mantenere aperte e sicure le rotte. Nel Quattrocento, Venezia si era trovata di fronte all’opportunità di dotarsi di un’importante dimensione territoriale. L’avevano condotta su tale strada alcuni eventi casuali e la corsa verso lo scontro finale con un impero di Terra, quello ottomano, e la maggiore potenza italiana, il milanese ducato dei Visconti. L’esito di tale doppio confronto era stato negativo: sconfitta contro gli ottomani, vittoria parziale su Milano. La frontiera terrestre arriva sì al fiume Adda, quindi nel cuore della Lombardia, ma la Serenissima, come la Signoria aristocratica lagunare comincia ad autodefinirsi a partire dal 1462, fallisce nell’imporre il proprio controllo alla Penisola. Anche il possesso dei porti pugliesi nel Meridione è destinato a vita precaria. E intanto i portoghesi sono arrivati in India, doppiando il Capo di Buona Speranza e aprendo una nuova rotta marittima tra Europa e Asia. DUE ANTICHI NEMICI Il primo nemico: il papa I contemporanei sanno bene che nel 1502 che l’intera impalcatura della Repubblica si regge sul potere marittimo perché è questo ad assicurare il controllo delle rotte a lunga distanza, su cui viaggiano le merci fonte della ricchezza dei cittadini e dello stato. Quando, poi, alla sconfitta militare si sommino fattori d’indebolimento economico, il rischio d’aggressione aumenta in modo geometrico. La repubblica si trova proprio in tale condizione, sconfitta sul campo del pasisa e con la fonte della ricchezza, il commercio marittimo, minata dalla perdita delle basi navali e dall’apertura delle rotte oceaniche da parte portoghese. Firmando il Trattato di Blois con Luigi XII, la repubblica ha cercato di eliminare per sempre dalla scena il peggiore nemico italiano e cioè il ducato di Milano. 2 Il Trattato ha prodotto immediato frutto. Luigi XII è sceso in Lombardia, ha sconfitto con grande rapidità Ludovico il Moro, anche perché si è comprato i mercenari svizzeri che avrebbero dovuto combattere per lo Sforza, e si è impadronito di Milano. I veneziani, d’altro canto, hanno occupato Ghiara d’Adda e Cremona, anche quest’ultima feudo imperiale, concludendo due acquisizioni alle quali tenevano da parecchio tempo. Il successo non può certo compensare le perdite greche, tuttavia la pace con la Sublime Porta del 1503 stabilizza le relazioni veneto-ottomane per circa trent’anni. I rapporti con Costantinopoli restano caratterizzati da frequenti frizioni, in particolare a causa dell’ininterrotta attività di pirati e corsari a vario titolo, tuttavia non vi saranno altri conflitti sino al 1537. Per fronteggiare la minaccia portoghese, il 5 dicembre 1502, il Senato provvede a varare l’Additio Specierum, magistratura dedicata al problema dell’approvvigionamento di spezie. Il 15 gennaio 1506, poi, vara un’altra magistratura, quella dei cinque savi alla mercanzia, mentre il consiglio dei Dieci esamina a partire dal 1504 diversi progetti tendenti alla realizzazione di un canale attraverso l’istmo di Suez e la possibilità di fornire aiuto militare contro i portoghesi nell’Indiano. Nel 1510, dopo un’interruzione durata ben diciotto anni, riprende la muda di Costantinopoli. Diverso l’approccio ottomano all’identico problema: aumento dei dazi a carico dei veneziani dal 2 al 5% e, soprattutto, ripresa della marcia di conquista. Venezia, comunque, a lungo starà ben attenta a non sollevare alcuna osservazione capace di portare allo scontro con la Sublime Porta. Si tratta di una delle ragioni per cui evita di farsi trascinare in un’alleanza anti-ottomana, la solita “crociata”, che resta un obiettivo perseguito con tenacia sia dall’imperatore Massimiliano I d’Asburgo che dai papi. In particolare quando al soglio pontificio sale l’energico cardinale ligure Giuliano della Rovere, vale a dire Giulio II. A Venezia, già sotto pressione nel Levante a causa dell’espansionismo ottomano, serve obiettivamente un alleato forte in Europa. Questo non può che essere la Francia. Luigi XII ha già dichiarato di voler intraprendere una crociata anti-ottomana non appena acquista la piattaforma napoletana. La quale, del resto, è stata sfruttata già dai normanni come base di partenza per attaccare Balcani e Costantinopoli, allora entrambi bizantini. Un’idea ripresa dai sovrani angioini prima che Napoli finisse travolta dall’offensiva aragonese. Per Venezia un campanello d’allarme. Il disagio cresce in laguna quando Luigi XII preannuncia l’intenzione di volersi riprendere Napoli. Infatti, la Serenissima, la quale controlla i porti pugliesi da Monopoli a Otranto, declina l’offerta di partecipare alla prevista spedizione quando il re le propone di condividerne oneri e onori. Suggerisce, invece, al sovrano, di accordarsi con Ferdinando d’Aragona e Sicilia per una pacifica spartizione del regno. Il frutto è il Trattato di Granada dell’11 novembre 1500 che prevede l’assegnazione a Luigi XII di Napoli, Terra di Lavoro e Abruzzo insieme al titolo regio, mentre a Ferdinando vanno Puglia e Calabria con titolo ducale. Il signore feudale di Napoli, il papa spagnolo Alessandro VI de Borja, avvalla. Venezia continua a detenere, di fatto e non di diritto, i porti pugliesi. Tra il 1499 e il 1502 Cesare de Borja, figlio del papa Alessandro VI e chiamato duca Valentino per via del feudo di Valentinois con annesso titolo ducale concessogli da re Luigi XII, sfrutta il doppio supporto papale e francese per ritagliarsi un dominio personale all’interno dello Stato della Chiesa. Il quale, da sempre, vive un’accentuata frammentazione che permette il potere reale di una schiera di signorotti locali sotto l’ombrello della sovranità nominale del pontefice. Impegnata contro gli ottomani in Grecia e impossibilitata a scontrarsi con Luigi XII per le ragioni già viste, Venezia assiste comunque preoccupata ai successi del Valentino. Nel 1502, papa Alessandro VI, prevedendo gli sviluppi della loro presenza in Italia, propone a Venezia un’alleanza strategica in funzione anti-francese e anti-spagnola. La repubblica, però, che coltiva ancora le medesime aspirazioni, lascia cadere l’invito: non vuole legarsi in alcun modo alla Sede Apostolica. Il 18 5 Gritti e Giorgio Emo, con il supporto francese al comando di Gian Jacopo Trivulzio si limita a uno sterile scontro di frontiera tra Ala, Rovereto e Riva del Garda. A dispetto delle energie profuse, i franco- veneziani non riescono a prendere Trento. Qui la resistenza imperiale risulta insuperabile anche per la scarsa collaborazione degli alleati francesi. Gli sviluppi trentini rappresentano l’epilogo dell’intera vicenda. Infatti, messo in ginocchio dalle vittorie di d’Aviano e Contarini, l’imperatore Massimiliano I, già il 5 giugno 1508 ha stipulato una tregua triennale sulla base del reale possesso in quel momento: ora davvero l’Adriatico è il Golfo di Venezia. Tale accordo include il papa e i re d’Ungheria, d’Aragona, d’Inghilterra, di Francia e tutti i rispettivi alleati. Clausole aggiuntive sono il rispetto delle proprietà e il loro pacifico godimento da parte dei rispettivi sudditi e piena libertà di transito e commercio. Papa Giulio II ricomincia con le proteste contro Venezia riguardo al possesso delle terre romagnole e per il dispositivo militare messo in piedi dalla repubblica in quelle zone. Non solo, torna alla carica sulla questione dei vescovadi e segretamente propone a Luigi XII una lega generale europea che escluda la Serenissima. Notizia che arriva subito alle orecchie dei servizi d’informazione veneziani. La repubblica ha commesso un gravissimo errore. Se le costanti geopolitiche fanno di Massimiliano I e dell’impero in generale il nemico strategico per eccellenza di Venezia, alla luce dei trionfi militari appena conseguiti e della differenza di risorse finanziarie esistente la Signoria avrebbe dovuto ordinare a Pitigliano e a d’Alviano, semplicemente, di finire il lavoro. Cioè di concludere l’espulsione dell’Asburgo dalla Penisola. Per portare a termine il piano potrebbe sfruttare l’ostilità di re Luigi XII alla conclusione della tregua veneto-asburgica: per il re transalpino la rivalità con Casa d’Austria affonda le radici nel matrimonio tra Maria di Borgogna e lo stesso Massimiliano, allora semplice arciduca il 18 agosto 1477, che aveva portato i ricchissimi Paesi Bassi nell’orbita imperiale. Le cose vanno diversamente, purtroppo per Venezia. Da qui prende le mosse una serie di trattative capace di produrre un incredibile rovesciamento delle alleanze. I germi del prossimo conflitto sono già posti. IL PRIMO ANNO DELLA GUERRA DELLA LEGA DI CAMBRAI 1508  gli eventi precipitano nel corso dell’anno e in particolare dopo la vittoria veneziana nella breve campagna di primavera. Nel dicembre del 1508, infatti, il cardinale Georges I d’Amboise, per conto di re Luigii XII, e Margherita d’Asburgo, figlia di Massimiliano I e vedova del duca di Savoia Filiberto II, governatrice dei Paesi Bassi, s’incontrano a Cambrai. Ufficialmente, devono mediare un accordo tra l’arciduca Carlo d’Asburgo e il duca di Gheldria, Charles II Egmond che deve il trono alla protezione francese. In realtà, sono plenipotenziari per chiudere un’alleanza tra le monarchie sin lì avversarie. I colloqui sono difficili e rischiano di continuo il naufragio, ma il 10 dicembre 1508 Margherita e d’Amboise sottoscrivono due trattati. Il primo pone fine al conflitto in Gheldria e stabilizza i rapporti feudali nei Paesi Bassi, obbligando l’imperatore all’investitura feudale del ducato di Milano in favore del re di Francia Luigi XII, il quale se ne vede così legittimato il possesso. Il secondo vede la nascita di una nuova Lega anti-veneziana con l’obiettivo di togliere alla Repubblica tutte le conquiste nella Terraferma e in Istria. In tale quadro l’imperatore avrà Padova, Vicenza, Verona, Rovereto, Treviso, Friuli e Istria; Luigi XII Brescia, Bergamo, Crema, Cremona, Ghiara d’Adda e tutte le varie pertinenze già del ducato di Milano; Ferdinando di Trastamara in quanto anche re di Napoli i porti pugliesi a cominciare da Trani, Brindisi, Otranto, Gallipoli; papa Giulio II Ravenna, Cervia, Faenza, 6 Rimini e quanto resta della Romagna veneta; Ladislao VII Jagellone (1456-1516) re d’Ungheria, se si unirà ai collegati, la Dalmazia; il duca di Savoia Carlo II il Buono (1486-1553) il regno di Cipro del quale al momento è solo pretendente. Il pontefice Giulio II farà precedere l’offensiva da un massiccio impiego di armi spirituali, allo scopo di seminare discordie civili e frazionare il campo veneziano oltre che per sottrarre alla Repubblica possibili alleati. Il trattato, poi, prevede come si svolgerà l’attacco. Ciascun sottoscrittore, infatti, procederà all’autonoma occupazione del territorio assegnatogli dagli accordi. Comincerà Luigi XII, aprendo le ostilità il 1 aprile 1509. L’attivazione scaglionata dei fronti d’attacco mette a disposizione di Venezia delle finestre temporali per ingaggiare uno alla volta i nemici in modo separato. Come mai la Lega commette un errore tanto clamoroso? L’unica spiegazione possibile viene dal perdurare della reciproca diffidenza tra francesi e imperiali. Con tale mossa, Massimiliano I si cautela dalla possibilità di un insuccesso, brucia ancora la disfatta del Cadore, restando in attesa di vedere cosa farà Luigi XII. Pronto, con ogni evidenza, a sfilarsi se le cose in Lombardia dovessero mettersi male. La reazione della Serenissima si concretizza in due richieste di chiarimenti affidate, tramite lettera del Senato, agli oratori, cioè ambasciatori, presso le corti di Francia e di Spagna. Significativo il fatto ci si rivolga alle due potenze ritenute vicine a Venezia, tralasciando ogni tentativo verso l’imperatore e il pontefice. In entrambi i casi, però, le risposte sono evasive. Cosalvo, uno spagnolo, disse ai veneziani che la Spagna avrebbe partecipato all’attacco. Invito a Cornèr di avvertire subito la Signoria e segnalarle la sua piena disponibilità a fornire ogni aiuto possibile a Venezia a partire dal regno di Napoli, dove conta su una solida rete di sostenitori, ma anche nella stessa Castiglia, dove non sono pochi gli scontenti creati dal governo dell’aragonese Fernando di Trastamara. Chiede alla Repubblica di mettere a punto un comune piano d’azione. L’8 marzo 1509 Valladolid inizia in via ufficiale la raccolta di fondi dedicati alla guerra contro Venezia. L’ambasciatore veneto prova a ottenere un nuovo colloquio con il re. Riceverà soltanto l’invito a tornarsene in laguna. L’ambasciatore a Roma viene sollecitato a cercare la via per riacquistare ascolto presso il papa; quello in Ungheria a provare a distogliere il re dall’entrare nell’alleanza; mentre il segretario Jacopo Caroldo a osare l’impossibile: far defezionare il governatore di Milano, Gian Jacopo Trivulzio. Sull’Inghilterra a Venezia sembrano far parecchio conto. Infatti, il Consiglio dei Dieci invia nell’isola un proprio agente speciale, Andrea Badoèr, il quale parla alla perfezione la lingua al punto che effettua il viaggio spacciandosi per inglese. Toccherà proprio a lui constatare l’inconsistenza anche di questa pista. L’avvicinarsi della ormai certa invasione spinge il governo veneziano a tornare a bussare alla porta di Giulio II. Correttamente, individua nel pontefice l’anello debole della Lega, anche perché è l’unico al quale la Repubblica può offrire delle compensazioni interessanti, a partire dalla Romagna. L’esca è allettante: Rimini e Faenza e la disponibilità a ridiscutere tutto quanto il papa deciderà, nei tempi e nei modi da lui scelti. Se non è una capitolazione, poco ci manca. Giulio II, però, non riesce a vedere quale vantaggio potrebbe ricavare dall’inimicarsi Luigi XII, Massimiliano I e tutti gli altri collegati. L’ultimo tentativo di produrre una frattura nel campo avversario è la mossa della disperazione: il Consiglio dei Dieci manda il segretario Giampietro Stella da Massimiliano I per insinuargli il dubbio circa le mire di Luigi XII sul trono imperiale. Ritenendosi sciolta da ogni vincolo a causa della slealtà francese, Venezia è pronta a schierarsi a fianco dell’Asburgo nella difesa dei suoi diritti. Giravolta talmente incredibile da non trovare alcun ascolto. Il 14 aprile un araldo del re di Francia arriva a Cremona con la dichiarazione ufficiale di guerra da consegnare a Venezia. 7 Il punto è: che fare di tutto ciò, partendo dalla certezza che in campo al momento ci sono solo il re di Francia, con il debole supporto del marchese di Mantova, e il papa con la modesta armata del suo capitano generale Francesco Maria I della Rovere? Perché il duca di Ferrara, Alfonso I d’Este, come l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo e il re di Spagna, Ferdinando il Cattolico, resta alla finestra a guardare cosa succederà in Lombardia. Se lo chiede anche il governatore generale veneziano Bartolomeo d’Alviano. In linea con il suo temperamento, che ne fa il perfetto esempio di condottiero votato all’attacco, fornisce la sua risposta il 22 aprile 1509 al provveditore generale in campo Giorgio Cornèr: l’armata riunita deve passare l’Adda e affrontare i francesi nella battaglia decisiva in campo aperto. Pontevico sull’Oglio, dove sono, deve essere considerato soltanto il punto di radunata dell’armata. A Treviglio bisognerà andare per affrontare Luigi XII in campo aperto, batterlo e conquistare Milano. Sarà battaglia decisiva. Pitigliano, invece, a Pontevico sta costruendo un campo trincerato dove far confluire anche il provveditore generale dell’artiglieria, Vincenzo Valièr, con i cannoni. Il capitano generale è un seguace della tradizionale scuola di guerra italiana, che evita l’alea del combattimento e privilegia la manovra incruenta. Questo perché la battaglia, per natura, è incerta e sempre molto dispendiosa. La sua idea è di aspettare l’avanzata del re al riparo di un campo trincerato ben posizionato: Pontevico sull’Oglio, appunto. Lì, consumare i francesi dopo averli costretti a penetrare in profondità nel territorio veneziano, avendo solo due, lunghe e vulnerabili, vie di rifornimento alle quali appoggiarsi. Sulle quali scatenare gli eccellenti stradioti e cavalleggeri leggeri della repubblica. Siamo ancora alle schermaglie, tuttavia. Il 27 aprile 1509, Giulio II emana la Bolla di scomunica contro la Repubblica. Ha lo scopo di creare discordie civili all’interno dei domini di San Marco. Resterà del tutto inascoltata. Per prudenza, tuttavia, i governanti veneziani ne proibiscono la pubblicazione e diffusione. In questa fase di ulteriore scontro con il papa, caratterizzato da ampio ricorso a inutili cavilli di natura giuridica, Venezia ritenta la carta Massimiliano I d’Asburgo. Sollecita quindi Gianpietro Stella perché si faccia ricevere dall’imperatore per offrirgli 200.000 fiorini d’oro e piena assistenza militare per la riconquista del ducato di Milano: in sostanza, si tratta di proporgli un cambio di alleanza. Venezia non può permettersi di aspettare. Per riuscirci, l’unico approccio è la guerra preventiva. Battaglia di Agnadello Il 29 aprile 1509 viene speso dal comando veneziano in un duro confronto tra le opposte visioni, di Pirigliano e d’Alviano. Il problema è duplice: da un lato, al di là delle preferenze per un’impostazione o l’altra, il capitano generale non possiede né il carisma e neppure l’autorità formale necessari ad avere l’ultima e decisiva parola su cosa fare. Pitigliano insomma, non riesce a essere il comandante in capo necessario a ogni armata. Dall’altro il potere politico è in sostanza assente. Alla fine, la presenza francese a Treviglio spinge comunque Pitigliano a condividere lo spostamento dell’armata da Pontevico. Battaglia di Agnadello, esercito veneziano  come visto, però, attriti, divergenze e confusione sono le conseguenze dell’impossibile convivenza di Pitigliano e d’Alviano e dell’incapacità dei provveditori a dirimerli. L’unità di comando è compromessa sin dall’inizio, la catena di trasmissione degli ordini destinata a rompersi alla prima difficoltà. D’Alviano commette un errore di valutazione: a colpo d’occhio pensa di potersela giocare con un avversario che non giudica superiore di numero. Forse, addirittura, è lui in vantaggio e accetta la battaglia, informandone subito Pitigliano e richiedendo il suo immediato aiuto. Perché sbaglia d’Alviano? Perché la sua ricognizione ha fallito. Dove sono gli stradioti e la cavalleria leggera che avrebbero dovuto individuare e controllare il nemico? Soprattutto, mettere il governatore
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