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Ferroni, Storia della letteratura italiana dall'800 al 900, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Appunti completi e dettagliati per esame di Letteratura italiana 2 con la Cotrone

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

In vendita dal 07/06/2018

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Scarica Ferroni, Storia della letteratura italiana dall'800 al 900 e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana dall'Ottocento al Novecento. 1. Il tempo della rivoluzione 1.1 Il crollo dell'Antico regime Alla fine del '700 la rivoluzione americana (1776) e quella francese (1789) porteranno al crollo delle strutture della società di Antico regime e alla formazione di un nuovo mondo borghese e liberale. Le colonie americane necessitavano di autonomia e libero sviluppo (vs politica vessatoria della madrepatria inglese); la Francia stava vivendo già dal 1770 una crisi economica che stava causando un forte conflitto tra le classi e stava spingendo la borghesia a pretendere un maggiore peso politico (vs privilegi della nobiltà e del clero). A questo si affiancarono le spinte illuministiche > Vs il principio di autorità e in favore della costruzione di una società razionale, fondata sulla libertà, sulla fratellanza e sull'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte allo Stato. La rivoluzione americana fece nascere una nuova società basata su moderati principi liberali, su di un forte senso della dignità del lavoro, sullo spirito di concorrenza economica / la rivoluzione francese distrusse principi e simboli che per secoli erano stati i cardini della società europea > capovolgimento radicale della società, laicizzazione forme del potere, diretta partecipazione dei cittadini, caduta della monarchia, distruzione dei privilegi nobiliari e delle prerogative e dei poteri della Chiesa > creazione repubblica considerata patrimonio comune del popolo armato, il cui controllo fu assunto dalla grande borghesia e dai nuovi strati politici e militari formatisi. L'esportazione della rivoluzione al di fuori del territorio francese turbava profondamente gli equilibri europei > espansione imperialistica della Francia sotto Napoleone Bonaparte > Impero napoleonico > 1815 Congresso di Vienna: sembrò una restaurazione di antichi equilibri in tutta Europa ma i valori su cui poggiavano le società di Antico regime erano crollati per sempre. 1.2 L'orizzonte sociale e l'eredità della rivoluzione -"Rivoluzione della borghesia" > anche il "popolo" di Parigi e parte della popolazione contadina -Mutamento vita politica e statale > nuove figure di politici, politica come scena essenziale della vita pubblica, Stato come organismo civile e razionale . -Organizzazione militare > formazione di eserciti nazionali basati sulla coscrizione obbligatoria > unificazione sociale -Affermazione di valori universali basati non più sul privilegio e sul diritto divino, ma sulla libertà, sull'uguaglianza e sulla fraternità > 1789 Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino. 2. La letteratura dell'Italia napoleonica 2.1 Il classicismo dell'età napoleonica In Italia la continuità della tradizione classica non sembrava in alcun modo messa in discussione dal nuovo assetto politico-sociale > una comune base classicista collega quasi tutte le esperienze letterarie e artistiche del tempo ma si distinguono forme più convenzionale, legate ai più diffusi modi settecenteschi, e forme più vicine alle esigenze neoclassiche di bellezza ideale, pura e assoluta. La letteratura italiana restò come cristallizzata da una troppo lunga tradizione ma si avvicinò comunque, spesso in modi esteriori, a temi e motivi maturati nella cultura europea del tardo Settecento. La continuità della tradizione, in quel periodo di cambiamenti e trasformazioni, significò per molti un modo per affermare ancora la persistenza di un'identità nazionale > letteratura italiana “arretrata” rispetto a quelle europee. Milano = centro > capitale della cultura italiana > nuove iniziative editoriali es. Collezione dei classici italiani (1802-14 > 249 volumi che fissarono una specie di canone molto ampio di “classici” nazionali). Classicismo ancora legato alla tradizione illuministica in Tommaso Valperga di Caluso (amico e corrispondente di Alfieri > “ragione” sicura di sé, capace di progettare il progresso proprio allontanandosi dal turbine della politica e degli eventi contemporanei) / Ippolito Pindemonte: separazione dalla scena storica e apertura verso le nuove forme della sensibilità europea: già prima della rivoluzione aveva scritto le Prose e poesie campestri ( 1784-88 > 1788 pubblicazione poesie / 1817 pubblicazione opera completa), in cui la nuova curiosità per la natura assumeva toni di dolce e tranquilla malinconia; trovatosi a Parigi nel 1789, mostrò un certo interesse (documentato dal romanzo Abaritte, 1790) per i primi eventi rivoluzionari, ma assunse poi atteggiamenti di moderato distacco nei confronti dei nuovi sviluppi storici > equilibrato classicismo > traduzione dell'Odissea (1822); epistola in versi I Sepolcri (1807 > risposta a Foscolo). Le più alte espressioni del classicismo di questa età sono rappresentate da Vincenzo Monti e da Ugo Foscolo: il primo mediatore tra forme diverse, pronto ad assumere posizioni moderate e ufficiali, a vivere la classicità come ornamento; il secondo mosso da un'ostinata volontà di scontro e polemica, sempre all'opposizione e alla ricerca di una parola poetica piena di densità storica e valori assoluti. Negli ultimi decenni del 700’ e nei primi dell’800’ si riscontrano nella cultura italiana anche tendenze che esteriormente appaiono opposte a quelle neoclassiche (se il gusto neoclassico è caratterizzato dalla compostezza, dalla calma, dalla serenità, dal dominio delle passioni si possono riconoscere all’interno di scrittori neoclassici come Monti, Pindemonte e Foscolo atteggiamenti di esasperazione passionale e soggettiva, concentrazione gelosa sull’io, amore per il primitivo) > suggestione di alcune opere straniere che ebbero larga diffusione in Europa e che vennero presto tradotte in italiano es. Giulia o la Nouvelle Eloise di Rousseau, Pamela di Richardson e I dolori del giovane Werther di Goethe (scaturisce da un movimento letterario attivo in Germania negli anni 70-80 dell’800, lo Sturm und Drung, che costituisce un preannuncio del futuro romanticismo > cenacolo di giovani intellettuali inquieti e ribelli i quali ostentavano una passionalità primitiva e selvaggia, un’ansia di libertà che si opponeva alle convenzioni sociali). 2.3 Vincenzo Monti Con la sua opera e il suo modello di intellettuale-letterato, Monti attraversa non soltanto l'età rivoluzionaria e napoleonica ma anche i decenni che immediatamente la precedono e la seguono. Conquistò il titolo di “primo poeta d’Italia” conferitogli da Madame de Stael non tanto per il valore delle sue opere quanto per la sua adattabilità alle tendenze e al gusto dominante, ponendosi come mediatore tra tradizione classicistica e trasformazioni politiche > seppe attraversare indenne regimi diversi e mise la sua poesia al servizio di questi / contribuì a cambiare la destinazione della tradizione, trasformandola da modello per una società nobiliare e clericale in modello per una nuova società dominata dalla grande borghesia e da un’aristocrazia dalle iniziative borghesi. Nasce nel 1754 in Romagna da famiglia di proprietari terrieri > studia a Faenza > 1771 Ferrara: studi giuridici e medici con scarsa voglia e convinzione, suggestionato soprattutto da diversi autori padani legati alla tradizione classicistica. Egli riscosse notevole successo presso l’aristocrazia provinciale e conservatrice della Ferrara papale > pubblicò nel 1776 il suo primo libro di versi, La visione di Ezechiello. Trasferitosi a Roma Monti si diede alla vita mondana ma fu sempre ligio ai valori religiosi e alle gerarchie sociali > la sua vita di poeta-cortigiano si svolgeva tra atteggiamenti edonistici e sentimentali / veniva chiamato “abate” nonostante non fosse mai entrato nella carriera ecclesiastica. 1779 Saggio di poesie (ampia raccolta di tutte le sue esperienze poetiche) / produsse poi una serie di componimenti che fecero di lui la voce poetica ufficiale della Roma papale. Al suo successo letterario si associò una vita felice: il matrimonio con Teresa Pikler e una buona sistemazione economica come segretario presso il nipote del papa. Gli eventi francesi portarono Monti a dover interpretare l’orrore di quegli anni tramite un poema ispirato all’attualità, la Basvilliana che però rimase incompiuto > le sue abitudini di vita attirarono su di lui sospetti di giacobinismo > abbandonò di nascosto Roma e si stabilì a Milano. La caduta francese del 1799 lo costrinse a tornare a Parigi da dove poi poté ritornare a Milano, in seguito alla battaglia vinta da Napoleone a Marengo (per la quale scrisse la canzonetta Dopo la battaglia di Marengo). Fu nominato professore presso la cattedra di Pavia e vi rimase dal 1802 al 1804; durante il primo decennio dell’800 completò la traduzione dell’Iliade. Nonostante la caduta del regime napoleonico egli riuscì ad adattarsi bene al regime austriaco: in alcuni suoi scritti si ritrova l’esaltazione del potere austriaco, alla cui politica culturale collaborò parzialmente / non fu mai un vero sostenitore del regime e cercò di imprimere al suo classicismo un carattere più “nazionale”. Per quanto riguarda la polemica tra classici e romantici, si schierò in difesa della tradizione classica e dell’uso poetico della mitologia, ma mantenne buoni rapporti con molti esponenti delle nuove tendenze romantiche. Morì a Milano il 13 ottobre 1828. 2.3.1 Monti poeta del neoclassicismo papale Negli anni giovanili trascorsi a Ferrara, Monti si esercitò in espedienti poetici di varia natura, impadronendosi del linguaggio settecentesco, da quello arcadico a quello più elegante, al gusto per la poesia religiosa. epistolari con l’Italia e i suoi risentimenti nei confronti del mondo intellettuale e politico italiano si inasprirono sempre di più tanto da complicare anche i suoi rapporti con i numerosi italiani in esilio a Londra. 1817 morte della madre >1822 ritrovò la figlia Mary, la quale gli fu vicino negli ultimi giorni di vita. Morì per idropisia a Londra nel 1827 e venne sepolto lì; solo nel 1871 le sue spoglie furono portate a Firenze e tumulate nella chiesa di Santa Croce. 3.2 Dalla vita alla letteratura Nella vita di Foscolo tutto appare provvisorio: è dominato da un’instabilità che lo porta sempre altrove. In questo atteggiamento possiamo scorgere un “io” irrequieto che, persa la terra d’origine, si lascia trascinare dalle occasioni più varie, rifiutando ogni legame familiare e sociale. Il poeta rivendica il valore assoluto della propria personalità attraverso un giudizio negativo sul mondo > individualismo foscoliano = egotismo. L’epistolario foscoliano comprende, oltre alle lettere dell’autore, anche quelle dei suoi corrispondenti: in questi scritti viene messa in luce una volontà di imporsi, e soprattutto balzano in primo piano l’ambito della politica e quello dell’amore. L’attenzione alla condizione storica si lega in Foscolo ad un’irriducibile volontà di intervenire sulla scena del presente, di farsi ascoltare, di giudicare il mondo e cercare di cambiarne i caratteri. L’autore sente la necessità di legare l’esperienza intellettuale con l’azione politica, assumendo come punto di riferimento Alfieri e Rousseau / Quanto alle passioni amorose, queste sono vissute in modo rovinoso da parte del poeta > rapporti difficili, senza futuro e destinati a svanire in fretta. Rispetto alla mediocrità, la donna gli appare come entità superiore e assoluta. In queste passioni però c’è qualcosa di artificioso e costruito: sembra quasi che egli volesse trasformare la propria vita in un “continuo romanzo”, assumendo atteggiamenti teatrali e comportandosi come se ogni suo atto dovesse essere osservato. Foscolo ricorre a vere e proprie maschere, inventa personaggi che gli fanno da schermo ai quali affida diversi caratteri della sua personalità > Jacopo Ortis e Didimo Chierico sono le sue controfigure principali e rappresentano due aspetti contrastanti del suo carattere: quello tragico, passionale e negativo (Jacopo) / quello ironico scettico e disincantato (Didimo). Per ciò che riguarda la poesia, Foscolo sembra alla ricerca di una bellezza assoluta e superiore, da conquistarsi attraverso la continuità con la tradizione classica. Egli cerca una poesia in cui le contraddizioni e le passioni possano trasporsi su un piano ideale; non è neanche trascurabile il fatto che riallacciando il rapporto con la cultura greca, ha modo di ricongiungersi alla terra madre, la Grecia. Se si guarda l’opera di Foscolo tenendo conto della corrispondenza costante tra vita e letteratura, si comprende subito come il carattere precario della sua esistenza si riflette anche nell’instabilità e nell’apertura della sua vasta produzione: la sua immagine di scrittore non si definisce mai in testi totalmente compiuti. La maggior parte dei suoi scritti è abbozzata, sono esperimenti e interventi provvisori. Per questo motivo nessuna opera di Foscolo è interamente finita, anzi la sua la si può definire “un’opera aperta”, che coincide con la stessa provvisorietà della vita. L’opera foscoliana tocca molteplici temi, tra cui quello della compassione, del sepolcro visto come emblema della continuità tra vivi e morti, della patria, dell’amicizia, della bellezza e dell’armonia. Questi riferimenti però si presentano come illusioni > l’autore non riconosce ad essi nessun fondamento oggettivo nella natura, che anzi gli appare cieca e indifferente ai desideri e alle passioni umane. 3.3 Il contrasto e la sconfitta: Jacopo Ortis Le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” accompagnano Foscolo per gran parte della sua vita: a quest’opera lavorò a Bologna nel 1798 > dopo la partenza da Bologna nella primavera del 1799 lasciò il testo in sospeso > un certo Angelo Sassoni lo diffuse con il titolo di “Vera storia di due amanti infelici ossia ultime lettere di Jacopo Ortis” > Foscolo protestò molto per l’uso che veniva fatto del suo nome e per lo scempio che le lettere originali avevano subito e nel marzo del 1801 fece una revisione dell’opera. Tornò nuovamente sul romanzo apportando modifiche che lo condussero ad una nuova edizione apparsa a Zurigo datata però Londra > la redazione definitiva uscì a Londra nel 1817. Nella figura del protagonista Foscolo trasferisce molti aspetti della sua vita personale: le aspirazioni giovanili, la voglia di libertà e bellezza. Il nome di Jacopo inoltre riprendeva quello di uno studente dell’autore dell’università di Padova, suicidatosi senza lasciare alcuna motivazione (lo stesso Foscolo aveva pensato spesso al suicidio). La vicenda del romanzo assumeva un carattere molto autobiografico, sommando però alla delusione generale anche il fallimento di un’esperienza amorosa. Foscolo si ispirò a due grandi modelli del romanzo epistolare del Settecento, la Nouvelle Héloise di Rousseau e il Werther di Goethe. Punto di vista del protagonista > lettere che egli indirizza all’amico Lorenzo Alderani. Deluso dal trattato di Campoformio e perseguitato dai nuovi padroni di Venezia per le sue idee patriottiche, Jacopo Ortis si è rifugiato sui colli Euganei dove conosce Teresa, destinata ad un altro uomo > pur ricambiando la passione di Jacopo, ella non si oppone al volere del padre e il protagonista decide così di partire. Le lettere scritte dai colli contengono inoltre il racconto di una visita alla casa di Petrarca ad Arquà e una lettera politica contro Napoleone. Seguono poi le lettere scritte da Jacopo durante un viaggio in Italia e la conoscenza con Parini. Appresa poi la notizia dell’avvenuto matrimonio di Teresa, Jacopo si toglie la vita con un pugnale. Ortis è mosso da un desiderio di valori assoluti da opporre alla mediocrità della vita sociale, ma nello stesso tempo una tensione distruttiva lo rende irrequieto tanto da spingerlo verso la morte. La narrazione approfondisce progressivamente conflitti interiori che si risolvono con la rottura di ogni rapporto tra l’io e il mondo. Nella vicenda alcuni critici hanno riscontrato una salvezza per l’autore > scrivendo il romanzo, Foscolo ha accantonato l’idea del suicidio. In quest’opera possiamo cogliere atteggiamenti alfieriani, come lo scontro tra virtù individuale e i limiti della realtà > Foscolo trascina il modello alfieriano verso una situazione esistenziale e sociale ben diversa da quella degli eroi: Jacopo Ortis non può essere un eroe assoluto, il suo culto di valori alti e sublimi deve confrontarsi con un mondo borghese abitato da personaggi mediocri e fatti irrilevanti (perfino il suo amore per Teresa deve affrontare i pudori della morale del tempo). Il protagonista aspira all’eroico, ma non trova spazio, incontra solo la meschinità sociale e il silenzio della natura (indifferente alle faccende umane). Interpretazioni di tipo psicoanalitico: traccia di una colpa che è dello stesso Foscolo, legata al suo spirito ribelle, alla sua infanzia interrotta dalla morte del padre e al suo rifiuto per la vita familiare. Punto di vista ideologico: Ortis ha perso ogni fiducia nel progresso e nella realizzazione positiva della ragione nella storia > si fa portavoce della delusione di Foscolo e della crisi degli ideali rivoluzionari. Nelle riflessioni con le quali Jacopo lega le sue vicende personali all’intero destino dell’umanità e della natura, si affaccia un’immagine della storia carica di orrore > egli, sul modello di Hobbes, Machiavelli, Rousseau, considera la vita sociale come una sorta di guerra contro tutto e tutti. La negatività della storia si basa proprio sull’indifferenza della natura, e in questo modo anticipa il meccanicismo che sarà poi ripreso anche da Leopardi: egli vede nella natura una forza cieca, che può conservarsi solo attraverso la distruzione dei singoli esseri. Essa spinge in questo modo a cercare la felicità, ma solo in vista del suo ordine superiore, in cui la vita è intrecciata alla morte. Jacopo insiste nel cercare valori positivi, benché debba comunque riconoscerli come illusioni. Questi valori sembrano annunciare una consolazione profonda, l’amicizia e il rapporto con “gli spiriti di forte sentire” l’arte e la letteratura come affermazioni privilegiate dell’io. Teresa rappresenta la sintesi di tutte le speranze che sembrano rendere degna l’esistenza > nella sua figura di donna-angelo, si avverte l’eco della tradizione stilnovistica e petrarchesca > è solo grazie all’unione con Teresa che Jacopo potrebbe raggiungere quell’armonia consolatrice, ma sono proprio i complessi della società a impedire quell’amore, che resta rovinoso perché Teresa è inafferrabile e come lei, anche tutti i valori che ella rappresenta (anche l’arte è inafferrabile per Jacopo > scrittore mancato). Il protagonista è pervaso da un’ansia di esprimere fino in fondo questi contrasti, cerca di rendere partecipe il lettore trascinandolo nel proprio vortice passionale, ma nello stesso tempo tende a chiudersi in se stesso: il suicidio è l’ultimo gesto esemplare con il quale egli si sottrae a una comunicazione che cerca ostinatamente. L’egotismo autodistruttivo di Jacopo è mediato però dagli interventi di Lorenzo Alderani ( anche lui un esule che condivide valori e delusioni con l’amico, ma questi presenta un dolore più misurato). Anche gli slanci più appassionati di Jacopo compaiono su uno sfondo letterario-romanzesco che sfiora continuamente l’artificio (es. i paesaggi lunari, l’attrazione sinistra per i cimiteri). I sepolcri sono però anche un’immagine di continuità con la tradizione > Jacopo prova una forte emozione visitando le tombe dei grandi Italiani a Santa Croce (poi cantate nei Sepolcri). 3.4 La poesia neoclassica dei sonetti e delle odi Nelle poesie di Foscolo possiamo riconoscere da una parte una tematica amorosa e galante che segue gli schemi della poesia arcadica, dall’altra si nota una ripresa dei motivi della poesia antica; talvolta possiamo distinguere i primi segni di una tematica autobiografica inqueta, di una precoce disperazione legata ai ricordi familiari e in particolare per la perdita del padre. Molte di queste poesie rimasero inedite e furono poi rifiutate dal poeta. I primi risultati importanti della poetica foscoliana si hanno nel periodo che va dal 1798 al 1803 con una produzione relativamente esigua (12 sonetti e 2 odi) ma dall’estrema concentrazione stilistica, accompagnata da uno strenuo lavoro di correzione e perfezionamento > storia redazionale alquanto travagliata. Un primo opuscoletto è andato perduto ma doveva contenere sette sonetti, che è difficile identificare con precisione ma che comunque furono certamente corretti e riadattati nelle edizioni successive. Tra la fine del 1799 e l’inizio del 1800 uscì nell’opuscoletto Omaggio a Luigia Pallavicini l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo > nel fascicolo del 1802 apparvero 8 sonetti e la stessa ode alla Pallavicini > nel 1803 apparve un volumetto di Poesie con 11 sonetti e nel 1803 si aggiunse a questi il sonetto Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo. Negli otto sonetti pubblicati nell’edizione pisana del 1802 la vena autobiografica è piuttosto marcata, e riversa nella lirica la tensione conflittuale dell’io rispetto alla realtà. L’io nel mondo si manifesta come contraddizione e opposizione in un confronto continuo con la morte; lo scorrere del tempo mette in risalto il rapido consumarsi dell’esistenza del poeta, figure femminili invitano il poeta corrucciato ad abbandonarsi a qualcosa di più dolce e musicale. Nel loro insieme questi sonetti mostrano la volontà di Foscolo di adattare alla propria sensibilità la principale linea di sviluppo della tradizione poetica italiana, quella petrarchesca, in tutte le sue forme > spesso questa intenzione però risulta troppo esteriore e schematica e contrasta in modo evidente con il bisogno di un’espressione personale. Le due odi si pongono in rapporto con la più recente tradizione poetica settecentesca, soprattutto con le ultime odi classicistiche di Parini. Esse allontanano gli elementi autobiografici e l’irruenza dell’io ed esaltano la bellezza femminile come un valore assoluto: la bellezza e la sua esistenza minacciata dalla fragilità e dalla malattia vengono proiettate nel mito, nella riproduzione di divinità mitologiche che suggeriscono un’armonia eterna. Legata agli schemi settecenteschi è l’ode A Luigia Pallavicini caduta da cavallo / più originale è l’ode All’amica risanata scritta per Antonietta Fagnani Arese, 1802 (il poeta sembra voler investire di luce e di musica la figura femminile, sullo sfondo di flessuose immagini neoclassiche > le occasioni mondane, le stesse norme della moda e dell’abbigliamento si trasfigurano in qualcosa di mitico > la poesia eleva l’attrazione che l’autore prova verso la donna fino alla dimensione sacra delle figure divine del mondo greco > la passione amorosa viene così distillata attraverso il mito e il poeta si volge inevitabilmente verso la terra madre, la Grecia). Nei 4 sonetti scritti tra il 1802 e il 1803 Foscolo supera i limiti dei sonetti precedenti e raggiunge una notevole capacità di elaborazione strutturale: rinnova la forma metrica, rompe i confini tra le quattro strofe e le adatta a un discorso più completo > Foscolo conduce così il sonetto verso una misura di classicismo antico (crisi della forma metrica tradizionale nel XIX secolo > il sonetto perderà il dominio che aveva raggiunto nella lirica dei secoli precedenti). Tra gli ultimi quattro sonetti più maturi c’è Alla sera (l’oscura immagine di una quiete segreta è percorsa da spiragli minacciosi, dai richiami del negativo e dalla morte) / Alla Musa è una meditazione sulla promessa di valore racchiusa nella poesia e sulla difficoltà di vivere in un epoca di conflitti storici, oltre che individuali / in A Zacinto si condensano motivi autobiografici e mitici, sotto i segni della luce e dell’acqua > il ricordo dell’isola dove il poeta è nato, patria perduta, l’attesa della morte, il richiamo dei miti e della poesia greca converge qui per esprimere un desiderio di impossibile ritorno all’origine, all’infanzia felice e dar voce alla coscienza delle lacerazioni dell’io / Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo (In morte del fratello Giovanni) è rivolto al fratello Giovanni, morto suicida nel 1801 > la solidarietà tra il poeta e il fratello si riconosce sotto il segno della sventura e delle “secrete cure” di un destino di morte, di qualcosa che corrode dall’interno > la tomba appare l’unico luogo in grado di ricreare l’integrità della famiglia dispersa, di offrire al poeta la dolcezza della protezione materna. 3.5 Traduzioni e rapporti con i classici Negli anni tra il 1802-1803 il poeta si concentra nello studio attento dei classici, si accosta alla filologia e si pone il problema di un esercizio poetico basato sulla traduzione dei classici > 1803 La chioma di Berenice (poemetto di Callimaco andato però perduto e reso noto solo dalla traduzione latina di Catullo > nei discorsi che precedono il vero e proprio commento, Foscolo indica nel mirabile e nel passionato le due qualità essenziali della poesia e nel mito il suo fondamento. Il poeta inoltre inserisce nel commento elementi autobiografici, finte citazioni e riferimenti a testi inesistenti con intenzioni ironiche nei confronti degli studiosi professionisti). Foscolo provava una spontanea predilezione per Omero, che egli riteneva dotato di grande respiro mitico > durante il suo soggiorno in Francia dal 1804 al 1806 si impegnò in un lavoro di traduzione omerica, che doveva continuare per tutta la vita, senza però portarlo mai a termine. Agamennone un immagine di Napoleone. Tieste ebbe invece otto repliche, la Ricciarda invece fu scritta a Firenze e rappresentata a Bologna. 3.10 Le Grazie: composizione e struttura L’opera di Foscolo più affascinante e difficile è il poema le Grazie, a cui egli lavorò in periodi diversi senza mai arrivar però ad una sistemazione definitiva > idee e progetti sul poema si accumularono per anni, ruotando intorno all’immagine delle Grazie, tre divinità femminili minori che nella mitologia classica comparivano al seguito di Venere (definite divinità tra cielo e terra, esse hanno avuto dagli dei il compito di far sorgere gli affetti sociali e la vita civile). Ma il vero e proprio lavoro delle Grazie iniziò a Firenze e le prime fasi ci sono testimoniate da molteplici manoscritti > dopo varie interruzioni, Foscolo riprese il lavoro durante l’ultimo soggiorno fiorentino, quando ordinò gran parte del lavoro in un fascicolo (indicato con il nome di Quadernone) con una revisione del carme dedicato ad Antonio Canova e suddiviso in tre inni (Venere, Vesta e Pallade > la redazione dell’ultimo inno rimase frammentaria). Una volta tornato a Milano continuò ad assemblare altri versi, fino ad abbandonare totalmente il poema una volta arrivato in Inghilterra. Lo riprese solo parzialmente con alcune correzioni e varianti > le Grazie sono così considerate un poema in movimento, accresciutosi e trasformatosi negli anni, ma mai assettatosi in una struttura definitiva. Il primo inno (a Venere) muove dal rapporto delle Grazie con Venere e si richiama alla statua della dea costruita da Antonio Canova e installata a Firenze nella Galleria degli Uffizi / il secondo inno (a Vesta) descrive il passaggio delle Grazie dalla Grecia all’Italia > sullo sfondo del paesaggio di Bellosguardo, il poeta invita a fare un rito in onore delle Grazie tre affascinanti donne italiane che rappresentano tre aspetti diversi della bellezza: una fiorentina suonatrice di arpa, una bolognese che reca il miele delle api di Vesta e una danzatrice milanese danzatrice / il terzo inno (a Pallade) doveva essere ambientato nel continenti di Atlantide, dove le Grazie si rifugiano dopo aver abbandonato l’orrore della civiltà corrotta e incapace di bellezza e da dove, per iniziativa di Pallade, vengono inviate di nuovo in mezzo agli uomini, ma coperte di un velo che le protegge dagli sguardi indiscreti. Foscolo aspira a un poema allegorico che rievochi immagini filosofiche, morali, civili > all’aspetto allegorico si lega una finalità didattica, ovvero la volontà di infondere ai giovani i valori civili più alti, la compassione e il pudore > richiamo alla più antica poesia greca, in cui il genere didattico si univa a quello epico e lirico. 3.11 La poesia delle Grazie Nella composizione del poema resta costante il proposito di ricreare un’immagine della poesia e della mitologia antiche > Foscolo aspira ad una poesia che possa condensare il passato, il presente e il futuro > questa poesia non può semplicemente riprodurre modelli, temi e figure del mito antico, ma a patire da questi deve sapere costruire un sistema personale. Essa ci mostra così un’idea di bellezza perfetta e luminosa ma pur sempre inafferrabile: allo stesso modo l’io del poeta sembra sfiorare le cose rappresentate solo per distaccarsene (in questo modo la poesia si rivela intrisa di pudore e compassione). Il carattere del poema resta comunque frammentario > la frammentarietà e l’instabilità tipiche della ricerca di Foscolo trovano il loro senso più pieno in questo poema che egli rinuncia a portare a termine. La ricerca di una poesia onnicomprensiva, capace di condensare in sé l’essere individuale e sociale dell’uomo, era una contraddizione nella società del tempo > il mondo borghese escludeva una letteratura così carica di valori assoluti come quelli ricercati da Foscolo > l’unica possibilità per mantenerla in vita era di presentarla come il segno di una funzione sociale perduta, recuperabile solo per frammenti (la maggior parte della lirica greca era nota soprattutto nella forma di frammento) > le Grazie, proprio perché frammentarie, rappresentano l’esito moderno di un’immagine antica di poesia. Sotto la tematica morale, storica, civile, agisce in modi misurati e sottili il tema della sensualità: il poema è un’ambigua esaltazione del fascino femminile, tanto più seducente quanto più appare velato. 3.12 Foscolo critico Foscolo avverte il bisogno di confrontarsi con una letteratura già data, attraverso l’esercizio critico o la traduzione. Dal suo lavoro emergono alcune importanti nozioni, che possiamo riassumere così: -L’idea generale della poesia come eloquenza, strumento di persuasione -Il rifiuto degli schemi della retorica tradizionale -La poesia vista in relazione con il genio e con la forza di “sentire” dell’individuo -La coscienza della storicità della poesia, del variare delle sue forme in rapporto alle trasformazioni sociali -La celebrazione della poesia primitiva, nella quale il genio si fa diretta espressione di una comunità -Uno spiccato senso del carattere integrale della parola poetica, della sua capacità di esprimere e raccogliere in sé tutte le facoltà dell’uomo A queste idee lavorò durante il suo esilio inglese. Nel suo insieme questa produzione risulta disorganica, accoglie punti di vista eterogenei e non adotta rigidi schemi. Vari spunti di critica letteraria si trovano in molti saggi e articoli scritti da Foscolo, anche se privi di finalità professionali. Possiamo distinguere il lavoro dell’esilio inglese in due gruppi: -Carattere storico > dedicati ai grandi scrittori e autori del passato -Carattere militante > nati come elementi polemici sulla letteratura contemporanea. Foscolo riservò particolare attenzione allo studio di Dante, come esempio di “poeta primitivo” > benché estraneo a ogni prospettiva religiosa, Foscolo riconosce che il fondamento della poesia dantesca sta proprio nella religione, ma in essa l’orizzonte teologico assume una caratteristica simile a quello che il mito aveva in epoca classica. Inoltre dà notevole rilievo all’individualità del poeta, con la sua condizione di esule, la sua ideologia politica. I saggi storici meglio riusciti sono dedicati a Petrarca > i quattro saggi comprendono anche il “Parallelo tra Dante e Petrarca” dove i due poeti vengono intesi come esempi di due opposti atteggiamenti umani e di due diverse situazioni storiche. Quanto agli interventi militanti ricordiamo un saggio che sottolinea l’importanza sociale dei periodici letterari ed esprime giudizi negativi sul giornalismo dell’epoca. L’autore guardava con diffidenza all’orizzonte romantico: lo infastidiva l’interesse dei romantici italiani per gli autori francesi o tedeschi, lo indignavano la polemica contro la mitologia la rivendicazione del vero come finalità della letteratura. Foscolo affronta le delusioni politiche e personali, la difficoltà di agire sul mondo, il crollo degli equilibri tradizionali che sostenevano il rapporto tra individuo e società, e rifiuta di riconoscersi in gruppi sociali determinati. 4. La rivoluzione romantica Il romanticismo influenza in modo decisivo l’arte, la letteratura, l’ideologia europea nella prima metà del XIX secolo: esso genera una vera rivoluzione che ci induce a definire l’intero Ottocento il “secolo romantico” e segna un profondo distacco con il secolo precedente. Si usa vedere nel romanticismo in primo luogo una reazione all’illuminismo, una riscoperta cioè del sentimento in opposizione alla ragione. Il Romanticismo si origina dalla nuova esperienza dell’io, dalla nuova attenzione al negativo. Di fronte allo choc della rivoluzione francese, questa sensibilità si approfondisce e complica, e si espande in più complessi sistemi ideologici e politici, in modi di espressioni completamente nuovi rispetto al passato e si rifiutano molte prospettive illuministiche. È comunque possibile riconoscere alcuni caratteri generali del Romanticismo. L’individualismo, già molto diffuso nella cultura e nella vita sociale del Settecento, diventa esaltazione del valore e della libertà assoluta dell’individuo, che riconosce la sua esperienza privilegiata nell’arte e nella poesia, intese come espressioni, manifestazioni del genio, e qui si concentra il significato dell’esistenza del singolo e della società. E il genio dell’individuo è tanto più alto, quanto più riassume in sé tutto il valore e lo spirito di un popolo, di una comunità e di un tempo da cui egli trae elementi vitali. Il culto dell’individuo si incontra con la riscoperta e l’affermazione dei valori nazionali: si rifiuta l’ideale illuministico di una universalità della ragione e dell’uomo e si rivendica il valore dei caratteri originali di ogni nazione. L’interesse per la vita e la storia dei popoli europei si risolve in una passione per il mondo medievale, per i suoi miti e le sue credenze, e in una rivendicazione del valore della religione, capace di dare un senso alla vita dei popoli e dei singoli individui. In altri casi poi, la singolarità dell’individuo viene affermata contro tutti e tutto, rasentando atteggiamenti di titanismo, di disprezzo anarchico verso ogni tipo di società. Essenziale è il rapporto dei romantici con la natura: non si tratta solo di sensibilità per gli aspetti oscuri del paesaggio naturale, ma di una concezione della natura come organismo vivente, di cui l’uomo è pienamente parte: la natura è lo specchio dei sentimenti e delle passioni dell’uomo, perché anche essa è animata da sentimenti e passioni. Se nel pensiero illuministico prevaleva la visione meccanicistica della natura, vista soprattutto come un sistema di forze estraneo all’uomo: ora invece in essa si riscopre un principio spirituale. Strumento importante per comunicare della natura è per i romantici la poesia: la poesia ha bisogno del simbolo, che condensa immaginazione e significati profondi e segreti, e dell’analogia, che crea corrispondenze tra gli aspetti anche lontani della natura e dello spirito. All’esaltazione si associa spesso l’ironia, che per i romantici è un modo di svelare la presenza della soggettività, cioè dell’individualità dell’autore. Il simbolo romantico cerca di dar voce a un’esperienza assoluta: la poesia vuole afferrare il senso totale della vita. La nozione romantica dell’organicità della natura si collega a un senso molto vivo del suo divenire, della sua storicità: è proprio da questa storicità della natura l’uomo è indotto a ricercare il passato. Qui è una delle giustificazioni fondamentali del culto romantico per la storia: sia il mondo naturale che il mondo umano sono in continuo progresso, non appaiono mai compiuti ma tendono a mutamenti e rivoluzioni. La filosofia idealistica centra la sua attenzione sulla condizione dell’io, sul suo rapporto con la natura e con la storia, sul senso del divenire e della tradizione. 4.1 Il Romanticismo in Italia: i caratteri e i limiti del Romanticismo italiano Di romanticismo si inizia a parlare in Italia solo con la polemica suscitata nel 1816 dalla pubblicazione, sul primo numero della “Biblioteca italiana”, dell’articolo di Madame de Stael Sulla maniera e l’utilità delle tradizioni, che conteneva un invito ai letterati italiani a guardare al di là delle Alpi e a cercare una nuova letteratura filosofica, attraverso il confronto con la nuova sensibilità europea. Un vero movimento romantico italiano si riconobbe proprio nella comune difesa dei suggerimenti di de Stael, avviando una battaglia che comportò un rifiuto di forme, schemi, regole della tradizione classicistica e una nuova attenzione alla realtà contemporanea. Grazie a questa battaglia, alcuni dei principi fondamentali del Romanticismo si affermarono anche in Italia nel corso degli anni ’20. Questo tipo di romanticismo italiano presentava prospettive più limitate e caratteri particolari rispetto a quello europeo: esso si distingue per la sua moderazione. In Italia agisce ancora il peso della tradizione classica, che allontana dalle posizioni più radicali o da quello spirito ribelle che caratterizzano la cultura romantica europea. I nostri primi romantici sono legati ad Alfieri e Parini, guardando sempre a Monti e Foscolo. Il romanticismo italiano, soprattutto nelle prime fasi, conserva una continuità con gli aspetti dell’Illuminismo di cui condivide la ricerca di una letteratura utile, che collabori al perfezionamento della civiltà. Letteratura e poesia si modificano secondo i caratteri storici delle diverse società (l’insegnamento della Stael si sovrappone a quello di Vico): da ciò deriva il bisogno di una letteratura moderna, che risponda alle esigenze del presente e nello stesso tempo rivolga una nuova attenzione a momenti storici trascurati dalla tradizione classicistica, come il Medioevo, origine e radice della moderna civiltà italiana. Si ha così un linguaggio non solo rivolto ai dotti, ma capace di raggiungere i sentimenti dl popolo, o della borghesia. All’arte vengono così attribuiti compiti positivi, comunicabile al pubblico borghese: siamo molto lontani dalla radicale negatività delle più avanzate esperienze romantiche, dalla loro ricerca di territori inesplorati. Il Romanticismo italiano evita l’estremismo di quello europeo; e mentre nel romanticismo europeo si verificano violente fratture tra l’arte e la società, il Romanticismo italiano tende a rispecchiare le tendenze e i valori sociali diffusi dal livello “medio”. Esso perviene comunque a una conquista di realismo, di storicità soprattutto attraverso l’opera di Manzoni. L’altro grande autore del primo Ottocento, Leopardi, parte da prospettive antiromantiche e raggiunge risultati originali che possono essere avvicinati a quelli di certe più radicali esperienze europee contemporanee, ma che non possono riassumersi sotto l’etichetta del Romanticismo. 4.1.2 Classici e romantici L’articolo di Madame de Stael suscitò reazioni negative tra i letterati legati alla tradizione classicistica, che sentirono colpito l’onore italiano. La polemica classico-romantica fu condotta principalmente sulle riviste letterarie e conobbe momenti di particolare durezza: in italia fu il primo grande dibattito culturale svoltosi su un terreno pubblico. Pur avendo pubblicato l’articolo della Stael, la Biblioteca italiana diede spazio soprattutto alle posizioni dei classicisti, in un’ottica conservatrice tesa a difendere l’onore italiano: vi prevalsero classicisti austriacanti, mentre i classicisti con idee politiche progressiste se ne staccarono molto presto. I romantici lombardi trovarono la loro roccaforte nel foglio liberale “il Conciliatore”. Ma la repressione austriaca mise fine dopo pochi anni sia al “Conciliatore”, sia ai più spregiudicati orientamenti romantici che Durante il periodo napoleonico, a Milano, compì i suoi primi esperimenti letterari; il padre, per sottrarlo alla vita libera di Milano e ai suoi rapporti con gli ambienti repubblicani, lo trasferì a Venezia presso il cugino, la cui morte costrinse Alessandro a tornare a Milano. Alla notizia della morte di Carlo Imbonati, l’autore raggiunse la madre a Parigi, e da quest’incontro i due non si separarono più. A Parigi egli scrisse il carme In morte di Carlo Imbonati; essenziale per la sua formazione fu la diretta conoscenza di Claude Fauriel: in egli, il poeta vide sempre un termine di riferimento per le sue idee e i suoi progetti; Manzoni inoltre trova sostegno nella sua insoddisfazione per le prospettive illuministiche e per gli svolgimenti e gli sbocchi politici della rivoluzione francese, e insieme nel suo bisogno di aderire a ideali e valori collettivi universali: si iniziavano a porre le premesse di una “conversione” religiosa e letteraria, che maturò dopo anni trascorsi a Parigi e dopo vicende personali come la morte del padre che lo lasciò erede universale (al quale funerale però non partecipò) e il matrimonio con la sedicenne Enrichetta Blondel, da cui nacquero 10 figli. Durante il matrimonio tra Napoleone e Maria Luigia d’Austria accadde un episodio che cambiò intimamente l’anima di Manzoni: persa Enrichetta tra la folla, l’autore fu assalito da una crisi d’angoscia che lo accompagnerà per il resto della vita. Religione e vita familiare rappresentano per Manzoni un porto sicuro, un modo per allontanare pericoli; inoltre, essendo anche figlio unico della made Giulia, visse con due eredità sostanziose, e poté crescere accanto a sé una grande famiglia. La casa di Manzoni era frequentata dall’aristocrazia e dal mondo intellettuale milanese, invece per ciò che riguarda la situazione politica del tempo, Manzoni manteneva un atteggiamento distaccato e insieme partecipativo, stringendo rapporti con personaggi attivamente impegnati dell’iniziativa politica, ma evitando sempre di intervenire in prima persona. Dopo le sue prime esperienze letterarie scrisse gli Inni sacri, pubblicati in un periodo in cui la caduta del regime napoleonico e gli esordi del potere austriaco portarono la popolazione italiana a una speranza positiva. A queste speranze però seguì ben presto una delusione per la Restaurazione: Manzoni però poté avviare un rapporto aperto e fiducioso con il gruppo del Conciliatore, ma nuove speranze e delusioni furono suscitate in lui durante i moti del 1821-22 e fu proprio in questi anni che si registra la sua più scarsa attività letteraria. Questa attività comunque portò alla pubblicazione del Conte di Carmagnola, Adelchi, Marzo 1821, il Cinque maggio; fu anche in questi anni che iniziò a lavorare al suo grande romanzo storico, che apparve in una prima edizione, nel 1827. La messa a punto del romanzo lo portò a porsi degli interrogativi sulla questione della lingua, tanto che decise di recarsi a Firenze. Lì conobbe gli scrittori dell’Antologia, tra cui Vieusseux, e incontrò anche Leopardi e Giordani. Successivamente però l’autore prese la decisione di abbandonare la poesia e la letteratura e indirizzarsi verso un genere di critica verso lo steso romanzo a cui si era impegnato così a fondo: di conseguenza preferì dedicarsi soprattutto a problemi filosofici e linguistici. Dopo questa successione di eventi tranquilli, la vita di Manzoni fu scossa dalla morte, nel ’33 di Enrichetta, nel ’35 della primogenita Giulia. Il poeta ebbe un secondo matrimonio che fu seguito da un periodo di vitalità creativa, che gli consentì di terminare il rifacimento linguistico dei Promessi Sposi. Nel ’41 morì anche la madre Giulia e nel ’61 morì anche la seconda moglie. Dopo l’annessione della Lombardia al Piemonte però, Vittorio Emanuele II gli assegnò il vitalizio annuo, e nel ’60 lo nominò senatore: come tale Manzoni partecipò a Torino alla proclamazione del Regno d’Italia; appoggiò inoltre lo spostamento momentaneo della capitale da Torino a Firenze e la politica del nuovo Stato italiano, ostile al potere temporale dei papi. Morì quasi novantenne a Milano, in seguito ad una caduta dalle scale della chiesa di San Fedele; ebbe il funerale di stato e per il primo anniversario della sua morte Giuseppe Verdi compose la Messa da requiem. 5.2 Formazione e primi tentativi poetici Nella sua formazione scolastica, Manzoni acquisì una buona cultura classica e si avvicinò alla cultura illuministica. Gli avvenimenti rivoluzionari a cui aveva assistito gli fecero nascere atteggiamenti giacobini, basati sul concetto laico di libertà e virtù, ma subito complicati dal sorgere delle delusioni per la difficile vita delle repubbliche giacobine in Italia e per il successivo instaurarsi del regime napoleonico. Di ispirazione ancora giacobina è Il trionfo della libertà scritto per celebrare la ricostruzione della Repubblica Cisalpina: in esso troviamo un’esaltazione della libertà repubblicana. Le condizioni in cui verteva l’Italia napoleonica però fecero accrescere rapidamente la delusione di Manzoni, che si allontanò dalle posizioni giacobine anche in seguito al ritrovato fascino di autori come Alfieri, Parini e Foscolo. Tra i testi che scrisse in questi anni ricordiamo l’Adda, lo scritto satirico dei quattro Sermoni, importante per capire meglio i suoi modi letterari è il carme In morte di Carlo Imbonati scritto al fine di consolare la madre per la morte del compagno: qui il poeta presenta una propria visione in cui appare il defunto e si intavola un dibattito morale con lui. Ne sorge così un modello di vita virtuosa, di nobile comportamento intellettuale. Comunque il contatto con gli ideologues parigini portò Manzoni a distaccarsi dal culto solitario della virtù, a modificare sia le sue prospettive culturali sia la sua nozione di poesia (aspirando a una partecipazione maggiore alle situazioni storiche del presente). Inoltre la curiosità per la storia suscitatagli dagli ideologues lo portò ad interrogarsi anche sulla questione del problema nazionale italiano. 5.3 L’inquieta religiosità di Manzoni La conversione di Manzoni fu il punto di arrivo di una ricerca che mirava al valore unitario e universale al di là del culto della virtù individuale e delle recenti tempeste storiche. L’approdo al cattolicesimo significò per lui l’abbandono di un’idea di giustizia aristocratica e solitaria e la riscoperta di una verità radicata nella tradizione e nella realtà collettiva del popolo. Il Manzoni cattolico non rinuncia alle radici illuministiche della sua formazione: la sua adesione alla fede e ai dogmi non vuole essere un’immersione dell’irrazionalità né una negazione delle forme della civiltà moderna bensì vuole porsi come raggiungimento di una razionalità più alta e universale, che non esclude un confronto con le forme laiche della modernità. Parliamo dunque di un cattolicesimo convinto, che porta a continue contraddizioni, a nuove domande tormentose sul rapporto tra essere e dover essere: i principi basilari del Cristianesimo rappresentano il “dover essere”, il comportamento giusto che deve scontrarsi con le forme concrete, sociali e storiche dell’essere. Nel pensiero di Manzoni si scorge una ricerca rivolta a fa vivere l’ideale cristiano nella realtà e nella storia, “l’ideale calato nel reale”: per Manzoni l’integrazione tra questi poli non si dà mai nel mondo terreno, ma lo scrittore cristiano continua a cercarla anche se sa che può realizzarsi solo nel disegno di Dio. Dalla religione manzoniana scaturisce una ricerca rigorosa e coerente, attenta a scoprire tutti i comportamenti provvisori e compromissori che gli uomini assumono in campo morale e sociale; la sua religione si pone inoltre anche come difesa contro gli aspetti distruttivi della stessa personalità dell’autore, che solo a volte traspaiono nelle sue scritture. La poesia di Manzoni appare così civilmente comunicativa e allo stesso tempo chiusa in se stessa: essa si svela nella litote che dice e non dice, sull’ironia che aggredisce nascondendosi e difendendosi. 5.4 Gli Inni sacri Durante la sua conversione Manzoni mette mano a una nuova poesia che abbandona di colpo i modelli neoclassici e gli schemi della letteratura italiana del primo Ottocento: egli progetta una serie di dodici Inni sacri, dedicati alle fondamentali festività della liturgia cattolica, con il proposito di rifarsi anche ai lontani modelli della poesia cristiana antica e medievale. Inizialmente ne vengono composti quattro: La Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione. Iniziò poi la composizione di un altro inno che però rimase incompiuto, La Pentecoste. In questa poesia religiosa l’autore sente il bisogno di aderire a valori collettivi e rituali, di prendere parte a una comunicazione che respinga le fratture della storia e della società. Le feste cattoliche appaiono come le forme di un presente che si ripete sempre, come il rinnovarsi di eventi sacri. Nel loro insieme, gli Inni sacri cercano di imporsi con energia e vigore, ma conoscono momenti opachi, troppo ricalcati sulle forme rituali e ricorrono spesso a materiali linguistici stridenti: da una parte continue innovazioni soprattutto sintattiche, dall’altra sopravvivenze di ritmi e movenze di linguaggio melodrammatico, oltre che di schemi classicistici. Manzoni così ambisce a rifare in chiave moderna il linguaggio della poesia biblica cercando di ritrovare la dimensione corale e collettiva; ma il linguaggio che egli utilizza appare artificioso, come se fosse sforzato. L’inno più riuscito è sicuramente la Risurrezione, in strofe di ottonari, con un ritmo incalzante e basato su una serie di immagini che affermano la gioia della risorgere della vita nel segno della risurrezione di Cristo. Il nome di Maria invece, su strofe saffiche, è scandito da un tono più sommesso, come in una misura liturgica che vuole ricordare i modelli delle lodi mariane. Il Natale, in settenari, inizia in modo vigoroso ma poi subisce un abbassamento di tono di tipo convenzionale; il meno riuscito invece è la Passione, in strofe di decasillabi, composta stancamente nella fase della prima caduta napoleonica e della restaurazione austriaca. 5.5 Prove di poesia civile In quegli anni Manzoni tentò una poesia civile ispirata ai valori di una religione combattiva: egli scrisse due canzoni civili rimaste incompiute: Aprile 1814 (per le speranze suscitate dalla cacciata dei Francesi dall’Italia) e Il proclama di Rimini. Un ritmo intenso è invece quello dell’ode Marzo 1821, scritta nel clima di speranze suscitato in quel periodo dalla politica piemontese e dall’ipotesi che il reggente Carlo Alberto potesse muovere una guerra contro gli austriaci; di quest’opera Manzoni distrusse il manoscritto, per timore di persecuzioni politiche, ma che poi trascrisse a memoria nel ’48 e fu pubblicato insieme al Proclama di Rimini 5.6 La scrittura tragica e Il conte di Carmagnola Manzoni elaborò dopo il ’15 una sua idea di tragedia storica, che rifiutava le tradizionali unità aristoteliche di tempo e luogo e cercava un intreccio più mosso di quadri storici con l’obbiettivo di suscitare non un’illusoria identificazione con le passioni dei personaggi, ma una più complessa coscienza critica, capace di distinguere tra bene e male. I primi documenti di questa ricerca confluirono nel Conte di Carmagnola. In questi frammenti Manzoni sostiene che in opposizione alla tragedia classicistica incentrata sui desideri, la nuova tragedia storia deve mettere in luce le sofferenze: gli eroi tragici devono essere degli innocenti i cui patimenti e dolori mostrino i limiti della condizione terrena e la necessità dell’espiazione, legata ai disegni della Provvidenza Divina; la coscienza dello spettatore così viene indirizzata verso due virtù cristiane: la rassegnazione e la speranza. L’autore vi mise mano all’inizio del 1816 ma la lasciò sospesa per altri lavori. Una rappresentazione teatrale dell’opera si ebbe, anche se senza successo, a Firenze. I cinque atti mettono in scena la vicenda del condottiero quattrocentesco Francesco Bussone, conte di Carmagnola, vincitore della battaglia di Maclodio, ma poi accusato di tradimento e condannato a morte dal governo della Repubblica. Manzoni sostiene la testi dell’innocenza del conte, facendo di lui l’eroe virtuoso, condotto alla rovina dagli intrighi politici. Piuttosto schematico è lo svolgersi del conflitto tra l’eroe virtuoso e leale e gli inganni del potere, mentre il linguaggio cerca una nuova carica comunicativa, anche se resta ancora pieno di formule classiche. Il punto più alto della tragedia è costituito dal coro della battaglia di Maclodio. La battaglia qui vi appare non come un’inevitabile scontro di forze, bensì come una strage irrazionale tra italiani che finiscono per morire al servizio di un cieco sistema di potere, mentre lo straniero si accinge a scendere in Italia approfittando di queste divisioni. Più ampia è invece la condanna della guerra e della violenza: come stolti sono coloro che combattono nonostante dovessero essere fratelli, stolti sono anche gli stranieri che approfittano delle divisioni. 5.7 L’Adelchi Nel soggiorno parigino Manzoni approfondì ulteriormente i problemi del genere tragico, cominciò a considerare quelli posti dal romanzo storico e iniziò una nuova tragedia, dedicata al problema dello scontro tra i popoli e razze diverse sul suolo d’Italia. Questa nuova tragedia era l’Adelchi, incentrata sulla caduta del dominio longobardo in Italia in seguito alla discesa dei franchi di Carlo Magno, chiamati dal papa. Manzoni comunque restò insoddisfatto per i suoi particolari di invenzione, non corrispondenti a precisi dati storici: così la decisione di precisare alcuni interventi storici, porto alla stesura del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia, destinato ad essere pubblicato insieme alla tragedia. Rispetto a quella del Conte di Carmagnola, la stesura dell’Adelchi è più aperta e decentrata: anche nel linguaggio vengono abbandonati i pesanti residui classicistici ancora presenti nell’altra tragedia. Manzoni si serve di un endecasillabo sciolto che riduce al minimo le fratture e che da all’intera tragedia un tono di conversazione. La scena si incentra sui Franchi e sui Longobardi. • L’atto I si apre con il ritorno di Ermengarda, figlia del re longobardo Desiderio e sorella di Adelchi, associato al regno, presso la casa paterna dopo che è stata ripudiata dallo sposo Carlo Magno; • L’atto II si svolge nel campo dei Franchi; • L’atto III mostra un assalto improvviso dei Franci, favoriti dai traditori, al campo longobardo, mentre Desiderio si ritira a Pavia e Adelchi a Verona; • L’atto IV si svolge nel palazzo di Verona, dove Adelchi tenta un’ultima resistenza e poi nel campo franco, di fronte alla città, dove Carlo e Desiderio hanno un duro colloquio; l’opera si conclude con la notizia della caduta di Verona e l’ultimo incontro di Adelchi col nemico Carlo e col padre Desiderio, prima di morire. La vittoria dei Franchi rappresenta uno sviluppo positivo: ciò si lega a uno spregiudicato realismo politico e ai compromessi dell’esercizio del potere, e si scontra con la virtù incontaminata dei due principi longobardi, Il romanzo manzoniano è ambientato nella campagna lombarda, tra l’Adda e il lago di Como, e a Milano nel periodo in cui quella zona fu sconvolta dalla guerra dei Trent’anni, da una carestia e poi dalla peste: al suo centro ha la storia di due umili popolani. La scelta dell’ambientazione lombarda è legata a una volontà di radicare la rappresentazione in un mondo ben noto all’autore: la scelta del secolo XVII pone il romanzo in un quadro storico abbastanza lontano da quello contemporaneo, ma non abbastanza per immetterlo nel periodo medievale. Il primo strumento di distanziamento è l’espediente del manoscritto ritrovato: l’autore finge di aver trovato un manoscritto del secolo XVII che narra la storia milanese e inizia il romanzo fingendo di trascriverne le parti iniziali con il linguaggio seicentesco; ma dopo poche pagine inizia a raccontare la storia del manoscritto per conto proprio e con proprio linguaggio. Questo espediente da luogo a una mescolanza tra passato storico e presente, che è anche mescolanza tra oggettività storica e invenzione narrativa. Di fronte a dati storici, l’autore si preoccupa di richiamarsi a documenti e testimonianze del tempo, che talvolta possono appesantire il flusso del discorso, ma che rivelano il suo continuo bisogno di verità storica. 5.14 Il Fermo e Lucia La prima redazione del lavoro può apparirci assai diversa da quello che poi sarà I promessi sposi. Questa prima stesura del romanzo si basa su blocchi narrativi compatti, quasi autonomi, che invece ne I promessi sposi appariranno più omogenei e meglio collegati tra loro. È divisa in quattro tomi: il primo è dedicato agli ostacoli frapposti alle nozze di Fermo (che poi diventerà Renzo) e Lucia, alla loro fuga dal villaggio: il secondo narra le vicende di Lucia, accolta nel monastero di Monza da Gertrude e poi fatta rapire con al complicità della monaca da Don Rodrigo e dall’innominato; il terzo tomo verte sulla liberazione di Lucia e la sua collocazione in casa di don Ferrante, sulle vicissitudini di Renzo; il quarto è dedicato alla guerra e alla peste e si conclude con il ritorno di Renzo, il ritrovamento con Lucia e lo scioglimento della vicenda. Lunghe digressioni sono costituite dalla presentazione di altri personaggi o da problemi morali, letterari, sociali. Il moralismo di Manzoni è molto più esplicito qui che nei Promessi sposi: qui la separazione tra bene e male è molto più radicale, non ammette sfumature. Da una parte ci sono gli umili e i religiosi che li sostengono, dall’altra i potenti e coloro che cedono al loro volere. Non solo i personaggi negativi, ma anche quelli positivi sono sottoposti a quest’analisi morale: ad esempio la visita che padre Cristoforo fa a don Rodrigo ci fa notare come “l’uomo onesto e senza la forza” appaia pieno di esitazioni e provi un senso di vergogna che lo mette addirittura in cattiva luce di fronte allo sguardo della società. Il richiamo ai disegni della Provvidenza divina è vivo e presente anche in questa prima stesura. 5.15 I Promessi Sposi: struttura e movimenti narrativi La più generale struttura narrativa dei Promessi sposi si ricollega a uno schema romanzesco tradizionale, quello di due giovani innamorati la cui felicità è ostacolata da forze nemiche ma che poi, dopo varie peripezie, riescono a ritrovarsi e a sposarsi. Questo schema tuttavia viene privato di tutti i tradizionali risvolti erotici, avventurosi e fantastici, bensì integrato in un orizzonte di saldi valori morali e religiosi. La realtà popolare e contadina intreccia continui rapporti con mondi molto della violenta nobiltà feudale, della città, delle istituzioni e del clero. La conclusione positiva però non porta i due protagonisti a un recupero del loro mondo originario, ma conduce al loro trasferimento in un altro paese: in questo modo Manzoni evita di concludere la storia in una prospettiva ideale. La scrittura manzoniana nega ogni interpretazione idillica, non vuole essere ricerca di una serena felicità ma vuole essere più che altro una ricostruzione dello scontro tra le forze che ostacolano la normale esistenza dei due giovani promessi sposi e quelle che invece vengono in loro soccorso. Si tratta di forze individuali che trovano giustificazione nei piani della Provvidenza distinguendo il bene dal male e verificando insieme la loro inevitabile coesistenza. Di eccezionale concretezza sono anche i personaggi minori: Agnese, Perpetua, i bravi, il conte zio.. sono tutte presenze attraverso le quali il romanzo svela la sua densità sociale. Il più generale movimento narrativo si sostiene sui rapporti e sulle tensioni che si creano tra otto personaggi fondamentali, quattro appartenenti al mondo laico (Renzo, Lucia, Rodrigo, l’innominato) e quattro appartenenti al mondo religioso (don Abbondio, padre Cristoforo, il cardinale Federigo Borromeo, Gertrude). I due promessi sposi Renzo e Lucia rappresentano la forza positiva dell’operosità e della religiosità popolare. Gli altri due laici rappresentano due immagini diverse della prepotente nobiltà feudale: don Rodrigo che incarna la figura del tradizionale libertino, l’innominato invece è una figura suprema e tragica del male e della violenza. Ma questi, da aiutante di don Rodrigo, cambia improvvisamente posizione: la sua compassione per Lucia e la conversione lo trasformano in aiutante delle forze del bene. I quattro personaggi appartenenti al mondo ecclesiastico svolgono funzioni diverse: don Abbondio, il più umile e il più vicino alla vita quotidiana dei protagonisti, soggiace per paura e per viltà alle minacce di don Rodrigo: egli è chiamato in causa controvoglia, come personaggio che preferisce non intervenire; padre Cristoforo, al contrario, è il principale aiutante dei due promessi, sarà poi allontanato per intervento del conte zio, verrà poi richiamato dall’epidemia e ha la funzione di risolvere l’azione, sciogliendo il voto di Lucia e benedicendo l’unione dei due sposi. Un’immagine opposta al mondo degli ordini religiosi è quella della monaca di Monza, che da ospite e aiutante di Lucia, si rivela l’aiutante in realtà dei suoi rapitori. Il cardinale Federigo Borromeo rappresenta il volto positivo dell’alta gerarchia ecclesiastica: egli ha la funzione di sostenere l’innominato nella sua conversione e di mettere al sicuro Lucia. Come abbiamo visto, nel Fermo e Lucia si ha una tensione narrativa meno ampia, i due personaggi sembrano percorrere momenti quasi sfasati tra loro, nei Promessi sposi invece si ha un movimento narrativo più complesso, che si sposta spesso da un’azione all’altra. Possiamo inoltre notare un distacco totale tra i due personaggi: Lucia pare sempre chiusa in sé, la sua esperienza si esaurisce quasi sempre in luoghi interni; Renzo invece è esposto continuamente a spazi aperti, a confronti con le strade del mondo e della città. Il romanzo raggiunge a metà del racconto il suo punto più negativo, l’allontanamento di padre Cristoforo, la fuga di Renzo, il rapimento di Lucia; ma è proprio qui che si ha la conversione dell’innominato e l’ingresso in scena del cardinale e questi avvenimenti introducono decisivi mutamenti, dando inizio a una svolta positiva. La peste assume una funzione riequilibratrice: è infatti proprio la peste a permettere il ritorno di Renzo, a permettere l’incontro di Renzo e Lucia nel lazzaretto. 5.16 La posizione del narratore: tra realtà e ideologia La narrazione dei Promessi sposi si svolge secondo il modo del “narratore onnisciente”: la voce che narra distingue nettamente se stessa dai due personaggi. La mescolanza tra il racconto attribuito al narratore seicentesco e quello dello scrittore che trascrive il manoscritto dà luogo a continui passaggi tra informazioni, fatti, interpretazioni. Gli eventi vengono affidati alla Provvidenza divina; ciò però non arresta l’impegno a ricostruire gli aspetti più particolari degli eventi, ad interrogare le ragioni di atti e comportamenti. In questo modo la voce dello scrittore chiama in causa il pubblico, con un’ironia che si rivolge verso la condotta dei personaggi, le interpretazioni che egli ne propone, le possibili reazioni del lettore. Quest’ironia mette in guardia contro ogni sopravvalutazione dei rapporti tra autore, lettore, personaggi e trova le sue radici nel fondo illuministico della cultura e della stessa religiosità manzoniana, ma non ha la spregiudicata sicurezza distruttiva dell’ironia illuministica e a differenza dell’ironia romantica non mira a creare una frattura tra mondo soggettivo e mondo oggettivo. Inoltre la partecipazione soggettiva dell’autore finisce per dare un’immagine ideale del mondo degli umili: egli lo vede tutto regolato da valori positivi di operosità, di moralità, di religiosità. Per Manzoni la ribellione alle gerarchie sociali è sempre un errore e una colpa, e la ricerca di rapporti più giusti tra gli uomini viene affidata ai disegni della Provvidenza, che dev’essere sempre accettata con spirito di rassegnazione. Manzoni comunque ha idee ben precise sullo sviluppo economico: ritiene che un sano benessere sia possibile solo se si lascia il campo aperto all’iniziativa. Nella vicenda di Renzo si realizza un percorso verso la libera iniziativa economica: egli è infatti un poverello soltanto in confronto ai signori, ai potenti, ai colti, ma nella realtà contadina del suo villaggio egli appare come un buon massaio benestante. Le prepotenze subite suscitano in Renzo uno spirito di ribellione, infatti le esperienze fatte, le vicende successive e la parole di padre Cristoforo formano il suo carattere sociale, portandolo lontano da ogni spirito di rivolta. 5.17 I caratteri dei personaggi L’analisi di Manzoni scende a fondo nei caratteri morali e nella psicologia dei personaggi: la sua narrazione è anche indagine sulle contraddizioni del cuore umano, sull’inesauribile ricchezza delle passioni o degli affetti. I personaggi acquistano così uno spessore psicologico inconsueto nella nostra tradizione letteraria; la loro vita è fatta sia di ciò che accade nella loro anima sia della loro partecipazione all’ambiente esterno. Essenziale è la sua attenzione ai caratteri fisici, ai gesti, all’abbigliamento, elementi dunque capaci di svelare la propria individualità. Nel mondo degli umili prevale spesso una dimensione corale, si notano legami con l’intera comunità: quasi tutti i personaggi minori aderiscono con spontanea immediatezza alla realtà, in Renzo e in Lucia invece i caratteri popolari si complicano, intrecciandosi con una più sottile attenzione psicologica: Renzo è il personaggio più dinamico del romanzo, ricco di curiosità e di spirito d’adattamento. I lettori sono sollecitati a vedere in lui la più autentica immagine del cristiano onesto, che sa trovare sempre una via giusta anche tra errori e incidenti. Lucia al contrario appare un’immagine di troppo stilizzata femminilità cristiana: essa è la donna angelo, segno di bene e salvezza. È quasi una negazione di tutte le figure femminili della tradizione letteraria italiana e una esaltazione del ruolo ideale attribuito alla donna dell’Ottocento. Personaggio particolare è il curato don Abbondio, figura comica che richiama su di sé riprovazione e simpatia: è definito “vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro”; egli è tutto preso dall’impegno di difendersi dalla violenza del mondo, di salvare la propria quiete anche a prezzo di mancare ai suoi doveri verso i più deboli. I personaggi malvagi del romanzo appaiono insidiati da un senso di colpa che nel caso dell’innominato porta addirittura alla conversione e in quello di don Rodrigo corrode dall’interno il personaggio, conducendolo ad esitazioni continue. L’altro personaggio del male, la monaca di Monza, Gertrude, è travagliata da un groviglio di paure, di desideri soffocati. Altra figura è quella del cardinale Federigo, in cui il bene si manifesta ai vertici delle gerarchie sociali: egli rappresenta in modo troppo esemplare un dover essere ecclesiastico e aristocratico, un segno di come la Chiesa possa farsi portatrice di una giustizia quotidiana. La figura più autentica del religioso è quella di padre Cristoforo che sfugge a ogni compromesso: egli ha rinunciato completamente alla virtù individualistica, non ha nessuna preoccupazione per il proprio nome e per la propria felicità, vive soltanto per gli altri. 5.18 La lingua del romanzo e la questione linguistica La frattura tra lingua parlata e lingua scritta incuriosì Manzoni fin dai primi anni: in questa frattura egli vedeva la ragione essenziale della difficoltà di trovare in Italia un pubblico di lettori ampio e omogeneo, non limitato dunque ai soli letterati. Ogni tentativo di impegnarsi in generi letterari rivolti a un pubblico più vasto si scontrava con la difficoltà di trovare un linguaggio adeguato. Nel primo abbozzo del Fermo e Lucia, Manzoni si affidò a un italiano comune, sganciato da schemi classicistici, composto da elementi di varia provenienza la cui mescolanza lo lasciava piuttosto insoddisfatto. Manzoni svolse negli anni successivi varie ricerche linguistiche, lessicali e grammaticali, approfondendo anche essenziali questioni di teoria del linguaggio. Egli individuò come sola forma praticabile quella toscana e fiorentina, che gli appariva la più ricca di elementi universali: si basa essenzialmente su quelle forme di conversazione dell’ambiente lombardo colto che appaiono congruenti e conciliabili con un modello toscano; si tratta quindi di un lombardo toscanizzato. Durante il soggiorno fiorentino, egli vide confermata la sua convinzione del carattere universale del toscano e rafforzò la sua scelta in direzione della lingua parlata. Con l’edizione dei Promessi sposi del ’40 Manzoni pensò così di raggiungere un modello linguistico veramente universale, radicato nel fiorentino. La caratterizzazione dei personaggi trova uno strumento essenziale nel dialogo: gli umili e i potenti parlano tutti la stessa lingua, in un mondo omogeneo e unitario, in cui non c’è spazio per il dialetto. In modo magistrale, il plurilinguismo viene usato solo per sottolineare contrasti di cultura e ambiguità di comportamento (ad esempio l’uso del latino da parte dei colti). 5.19 Addio al romanzo Manzoni tendeva ormai a una crisi della stessa letteratura, della sua pretesa di valere come esperienza autosufficiente, come ricerca di espressione individuale; nella sua ottica cattolica egli si opponeva a tutte le esaltazioni romantiche del genio, della creatività dell’individuo, della libertà morale dell’arte. Manzoni mostra tutta la vanità dei desideri di distinzione e di gloria che animano gli scrittori e afferma un’esigenza di uniformità e di buon senso. Queste posizioni così radicali allontanano Manzoni da ogni nuovo progetto letterario: in pratica egli diede addio alla letteratura, impegnandosi in studi filosofici e storici. 5.20 Altri scritti storico-politici Uno scritto storico è la Storia della colonna infame apparse in appendice all’edizione in dispense dei Promessi sposi, iniziata nel ’40. Scrivendo la storia di una colonna eretta a Milano nel 1630 a memoria del supplizio subito dagli “untori”, accusati dalla superstizione popolare di aver malignamente propagato la peste, l’autore la natura è fonte di una forte capacità di sentire, stimola l’immaginazione e produce illusioni che rendono la vita grande. Il mondo antico, più simile all’infanzia e più vicino alla natura, trova la sua suprema espressione in una poesia che sa illudere e imitare la natura. Con lo sviluppo della civiltà materiale e delle conoscenze il mondo moderno ha invece spento ogni illusione. Importante è però ricordare che l’imitazione dei classici non dovrà essere pedissequa, bensì dovrà sempre basarsi sul sentimento. Il legame leopardiano sugli aspetti essenziali della sensibilità contemporanea è ben evidente nelle idee di Leopardi sulla poesia: egli cerca sempre di motivare le condizioni legandole anche alle sue esperienze di vita; nella poesia egli vede sempre n valore essenziale e un elemento di conoscenza di sé e di vitalità. Tra i generi poetici, la lirica appare quello più spontaneo e originario, più vicino anche all’espressione della natura: la lirica può realizzare le tendenze autentiche della poesia, dando così voce alle sensazioni più indefinite e inafferrabili. Il suo ambito è quello del vago, dell’indeterminato, dell’infinito, della memoria e del ricordo. E la forma artistica che più si avvicina alla poesia è la musica. La poesia suscita inoltre una capacità di sentire l’esistenza, generando grandi illusioni e proprio in questo modo si oppone alla vita sociale contemporanea, dominata dalla filosofia e dall’egoismo, incapace di provare entusiasmo e di credere nelle illusioni. Essa è dunque qualcosa di indeterminato e di non contemporaneo, inattuale. 6.6 Lo Zibaldone e le fasi del pensiero di Leopardi Nell’estate del 1817 Leopardi iniziò a raccogliere gli appunti e le annotazioni destinati poi a confluire nello Zibaldone: egli toccò gli argomenti più diversi, da quelli filosofici, letterari, linguistici e di comportamento etico e sociale. Nello Zibaldone vediamo chiaramente l’esigenza dell’autore di interrogarsi sempre più a fondo sul senso dell’esperienza letteraria, sul rapporto tra l’uomo e la natura e sul significato dell’esistenza individuale e sociale. Si rivela dunque qui l’orizzonte della filosofia di Leopardi ed emergono i temi essenziali del suo pensiero: questa filosofia non è qualcosa di sistematico, bensì preferisce svolgersi attraverso interrogazioni e approfondimenti continui. Importante è sottolineare che quella di Leopardi è una filosofia che rifiuta i suoi tradizionali schemi e si intreccia strettamente con la sua poesia. Rispetto alla maggior parte delle filosofie negative contemporanee, essa rifiuta ogni assolutizzazione della negatività, anzi mantiene sempre una lucida visione razionale della realtà. Il pensiero di Leopardi comunque non può essere qualcosa di omogeneo e sempre uguale a se stesso: si svolge anzi con alcuni cambiamenti di prospettiva, con la progressiva precisazione di un orientamento materialistico e pessimistico. Si può infatti dire che già nel ’17 Leopardi elabora il suo pessimismo storico, che vede nella natura una fonte di vitalità, produttrice di illusioni. Intorno al ’19 questa prospettiva si complica attraverso un’adesione che ha il valore di una vera e propria conversione filosofica con conseguente abbandono del cattolicesimo familiare. Negli anni successivi però si sviluppa uno spostamento del giudizio sulla natura e sul rapporto tra il vero e le illusioni: Leopardi si accosta al meccanicismo materialistico e intorno al 1823 elabora il suo pessimismo cosmico, espresso pienamente nelle Operette morali del ’24. Qui la natura appare come una forza cieca e ostile all’uomo; alla vanità delle illusioni si oppone la necessità di andare fino in fondo nella conoscenza del vero e dell’infelice condizione della vita umana. L’esaltazione iniziale della natura e delle illusioni si lega in parte al pensiero di Rousseau e, dopo la conversione filosofica, si inserisce la filosofia sensistica, che mete in primo piano il problema della felicità: l’azione delle illusioni sull’uomo deriva da una catena di condizioni date dai sensi e si spiega attraverso quella che Leopardi chiama teoria del piacere. Secondo questa teoria, ogni esistenza è guidata da un’aspirazione al piacere che però non riesce mai a realizzarsi totalmente: il piacere così si risolve in un contino desiderio di altro piacere. il desiderio è dunque sempre infinito e ciò spiega l’inclinazione umana per l’immaginazione, come possibilità di “concepire le cose che non sono”. Questa teoria viene approfondita dall’autore anche tramite le interrogazioni tra i rapporti del piacere e del dolore, constatando in modo sempre più netto l’inesistenza del piacere presente: il piacere esiste infatti solo come attesa di n piacere futuro o come provvisoria sospensione del dolore. La teoria del piacere si apre così ad una prospettiva storica: è qui essenziale il concetto di amor proprio con cui Leopardi definisce l’attaccamento naturale di ciascun individuo a se stesso: nelle società più vicine alla natura, l’amor proprio è una condizione positiva e radice di grandi affetti; nel mondo civilizzato esso si trasforma in egoismo e culto del proprio interesse personale. La civilizzazione è dominata proprio da un’espansione sociale dell’egoismo, da una guerra di tutti contro tutti, dai desideri che hanno perduto la loro spinta naturale. Attraverso l’assuefazione, questa condizione non naturale ha creato nell’uomo una seconda natura, che si è sovrapposta a quella originaria, facendole perdere così i caratteri spontanei. La vita psicologica e sociale si rivela come il prodotto delle circostanze in cui ciascuno è inserito: perfino i sentimenti più inafferrabili come quello amoroso, hanno fondamenti accidentali e si ricollegano in ultima analisi alla deformazione dell’amor proprio e al desiderio di felicità. Sulla base della sua personale esperienza di dolore e di infelicità, Leopardi avverte l’impossibilità di conciliare natura e civiltà e giunge a considerare come soli elementi davvero naturali della vita umana quelli fisici e biologici. Tutto ciò lo porta, tra il ’23 e il ’24, ad allontanare totalmente l’idea positiva della natura, individuando anche una contraddizione tra vita ed esistenza: la natura non da la vita, ma solo l’esistenza. Il vivere inoltre è dominato dalla noia, e la sofferenza minaccia sempre il singolo individuo. Nei suoi cicli di costruzione e distruzione, la natura tende a conservare se stessa, assolutamente indifferente ai patimenti e ai desideri degli uomini, degli animali, delle piante. 6.7 Esperimenti vari del 1819 La sua conversione filosofica lo porta a porre in primo piano il problema della felicità e a distaccarsi in modo più netto dal Cristianesimo. Nello stesso tempo Leopardi sente l’esigenza di una letteratura che pur essendo legata ai più autentici valori classici, sappia essere moderna fino in fondo e rispondere in modo diretto alla sensibilità del presente. Quest’esigenza di modernità lo spinge a tentare, nel ’19, una poesia che rappresenti le situazioni scabrose, delineando figure femminili vittime di malattie e crudeltà. Interessante è inoltre il tentativo di prosa autobiografica a cui Leopardi lavorò nel maggio del ’19, Ricordi d’infanzia e di adolescenza, materiali per un’opera che voleva essere lirica e narrativa. 6.8 Gli Idilli Motivi autobiografici portano alla stesura di una nuova poesia, culminata negli Idilli, componimenti in endecasillabi sciolti che segue lo svolgersi di sensazioni, ricordi, sentimenti dell’io, riducendo al minimo i riferimenti culturali. Nell’idillio il poeta può rivolgere lo sguardo alle forme della natura esterna e nello stesso tempo seguire i percorsi mentali e sentimentali che si svolgono nel suo io. Lavoro attivamente alla poesia idillica tra il 1819 e il 1821, e si tradotto in una serie di componimenti che tradizionalmente vengono chiamati Piccoli Idilli e che furono pubblicati nel volume dei Versi nel 1826. Al 1819 risalgono L’Infinito e Alla luna; al 1820 la Sera del dì di festa: al ’21 Il sogno e La vita solitaria. L’Infinito ci trasporta verso uno dei momenti più alti della poesia leopardiana: il ritmo dell’endecasillabo sciolto è spezzato da una ricca serie di enjambements; con questo movimento metrico, si segue l’immergersi dell’io nella sensazione dell’infinito, creata dal rapporto con un luogo preciso e definito e con un’attenta misura di tempo e spazio. Questa esperienza dell’infinito si pone come piacere dell’immaginazione. Il paesaggio naturale è uno spunto per la riflessione, e nella mente del poeta prende avvio l’immaginazione di spazi senza limite al di là dei confini dello spazio. Meno ardua è la soluzione dell’altro breve idillio Alla luna dove il colloquio con la luna e lo sguardo colmo di lacrime si proietta nel piacere del ricordo che sembra sospendere il dolore. Su un notturno lunare si apre anche La sera del dì di festa con un colloquio (impossibile) tra l’autore e una donna, ignara del suo amore. 6.9 Le canzoni Leopardi non rinuncia allo scenario classicistico tentato nelle due canzoni civili del ’18, bensì continua a svolgerne gli schemi. Il forte impegno retorico delle prime due canzoni si apre ora verso una più forte tematica filosofica, legata ai caratteri più problematici che il pensiero di Leopardi assume dal ’19 in poi. L’elaborazione delle canzoni è sorretta dall’ostinata indagine che il poeta svolge sul senso e sulla giustificazione delle illusioni nella vita naturale, storica, intellettuale. Questa tensione ideologica si connette sempre alla convinzione di partecipare a tutti i costi ad una grande tradizione storica, letteraria e retorica: la parola del poeta così si pone ad un livello di nobiltà sostenuto da un’estrema difficoltà metrica e sintattica (confrontata soprattutto con Dante e Petrarca). Tutto ciò si associa alla volontà di dar voce ai grandi autori del passato come esempi di virtù. Un ultimo sguardo alla natura vista come positiva si ha nell’Inno ai Patriarchi del luglio del ’22. Questo doveva appartenere ad un ciclo di inni cristiani, e questo fu l’unico realizzato anche se non tocca minimamente la questione religiosa. 6.10 Le operette morali Fin dal ’19-’20 Leopardi progettava di scrivere dei dialoghi satirici in una prosa aggressiva e paradossale, tra mito e filosofia. Leopardi iniziò a scrivere le Operette morali nel corso nel ’22 e già due anni dopo era arrivato a quota venti. In questi testi in prosa relativamente brevi egli si servì di miti filosofici negativi, capaci di offrire immagini vive dell’infelicità per indagare sul vero e per criticare le illusioni. Il risultato fu un originale esempio di prosa moderna, e questa ci appare come totalmente estranea ai modi linguistici dominanti in quegli anni in Italia. Le Operette, alcune delle quali richiamanti all’immaginario classico, sono spesso sospese in una luce paradossale, filtrata da un occhio partecipe e distaccato che trova nel dolore la propria capacità di conoscenza e irrisione. Tra i temi fondamentali delle operette scritte nel ’24 c’è l’indagine sulla felicità e sull’infelicità, lo svelamento dell’ostilità della natura. Lo scrittore e i personaggi guardano da lontano l’affaticarsi degli uomini impegnati a raggiungere i loro piccoli obiettivi, accecati dalle loro illusioni. Quest’opera è un’analisi spregiudicata delle forme morali della vita umana; è inoltre anche un grande addio finale a tutte le illusioni. 6.11 Fuori da Recanati: partecipazione e astensione La partenza di Leopardi da Recanati nel ’25 mette l’autore a diretto contatto con il mondo editoriale milanese. Inizia così un periodo di intenso lavoro dedicato alla cura di testi classici e all’allestimento dei volumi destinati ad un pubblico molto più ampio di quello che Giacomo poteva avere in mente nel primo periodo. Tra il 1825 e il ’27 nel nostro autore si fa spazio sempre di più una forte convinzione pessimista che lo porta ad accettare fino in fondo le conseguenze della scelta del vero e allontanare ogni rimpianto delle illusioni. Con l’adesione al materialismo meccanicistico si nega esplicitamente la possibilità di un intervento attivo nella vita sociale e politica. Leopardi fin ora fa della sua una morale dell’astensione, rinunciando così alla felicita, senza però sottrarsi all’infelicità. Questo comporta anche una rinuncia alla poesia, alla ricerca di vitalità e al rapporto con le illusioni a cui essa si lega. Leopardi tende così a porsi in una condizione di solitario ed estraneo testimone del presente, limitandosi solo a guardare le diverse forme della civiltà della cultura umana, senza però parteciparvi. In questo periodo dunque vengono composte due nuove operette tra cui Il dialogo di Plotino e Porfirio: questi due filosofi antichi mostrano come nella vita umana solo una cosa non inganna mai, ovvero la noia, negano le teorie sulla vita dell’anima dopo la morte e discutono del suicidio. Porfirio contesta la diffusa opinione che considera il suicidio non naturale, con la ragione che è la stessa natura umana a non essere naturale, in quanto modificata dall’assuefazione e dalla ragione. 6.12 Il "risorgimento" poetico La rivalutazione del senso della vita e dell’amicizia tra gli uomini, contenuta nel finale del Dialogo di Plotino e Porfirio, porta Leopardi ad una nuova attenzione agli affetti e ai sentimenti, che si sviluppa in vari pensieri dello Zibaldone. Con ciò Leopardi non intende recuperare il valore delle illusioni ma esprimere un nuovo bisogno: seguire il flusso delle emozioni e delle sensazioni che costituiscono una parte ineliminabile della stessa condizione naturale. Vari sono i pensieri dello Zibaldone che si riferiscono ai morti, alla loro memoria. La poesia, nel dar la voce più immediata al sentimento dell’anima al presente, deve esprimere il volgersi di questo sentimento verso la rimembranza, verso il recupero di immagini che sono state e che non sono più. Gli oggetti interessano la poesia per i ricordi che riescono ad evocare, per ciò che è stato e che non è più; il più profondo carattere della poesia inoltre sta proprio nel vago, legato alla doppia vista che fa vedere continuamente il mondo e gli oggetti come doppi. La sensibilità poetica attribuisce così alle cose un valore più forte di quello che esse hanno realmente, un valore dunque che si richiama a qualcosa di lontano e perduto, che ci rivela il consumarsi della vita. Nella Ginestra, scritta nel ’36, la polemica di Leopardi contro le ideologie spiritualistiche e progressiste trova uno scatto vigoroso, specchiandosi nelle immagini suscitate dal Vesuvio, nell’inesorabile violenza ella natura. Questo canto è stato sempre oggetto di interpretazioni contrastanti ma è impossibile non avvertirne il suo fascino. L’affermazione della propria distanza dalla volgarità e dagli inganni del pensiero corrente prende le mosse dal confronto con il paesaggio circostante, con i più semplici aspetti della vita quotidiana. La ginestra, fiore che anima il paesaggio vesuviano, è segno di una resistenza di vita di fronte alla distruzione della natura. La visione del paesaggio più volte devastato dal vulcano smentisce la presunzione degli uomini che pensano che un Dio sia sceso per loro sulla terra. Il motivo della luce che si oppone alla tenebra in cui gli uomini preferiscono restare immersi, domina tutto il canto. Il tramonto della luna ha come scenario il paesaggio notturno che però presenta echi e riprese della poesia idillica, dando a tutto il canto la forma di un ritorno alla giovinezza perduta. Però quest’ultimo notturno si caratterizza per lo sparire della luna, per l’immergersi di tutte le cose nel buio ma a differenza della luna, che risorge sempre, la giovinezza abbandona per sempre gli individui. 6.19 Il modello del poeta e dell’intellettuale Nella vita e nell’opera di Leopardi si riconosce una delle più importanti esperienze di tutta la nostra letteratura. Ma anche per questo all’opera di Leopardi si sono attribuiti i significati più diversi, secondo gli orientamenti e le scelte esistenziali dei lettori. In nessun modo però si può ignorare che la letteratura è per Leopardi la via per capire fino in fondo l’esperienza sia individuale sia storico-sociale sia naturale. L’esperienza della malattia e del proprio corpo infelice ha determinato in modo essenziale l’attenzione di Leopardi agli aspetti fisici dell’esistenza. Qualcuno ha anche tentato di negare la forza critica del pessimismo leopardiano, proprio per il suo legame con la malattia e per questa posizione aristocratica e antiborghese, ostinata a difendere il ruolo sublime della letteratura senza capire che nel caso del nostro poeta proprio la malattia, l’origine nobile, e la stessa nozione classica di letteratura diventano strumenti di conoscenza e giudizio e conducono il rifiuto del presente non verso il passato ma verso il futuro. 7. Letteratura e politica nel Risorgimento A partire dal ’30 il legame tra esperienza letteraria ed esperienza politica si afferma nel modo più integrale, e molti sono gli scrittori che si calano nel vivo delle battaglie ideologiche e politiche. Già De Santis individuò tra gli scrittori di questo periodo due grandi scuole, la “democratica” e la “cattolico- liberale”. In questo periodo si sviluppano vari tipi di romanzi, da quello storico alla novella in versi, diffusa anche era la poesia patriottica. Gli orientamenti democratici e repubblicani si sviluppano inizialmente sull’asse Genova-Livorno, mentre nella cultura piemontese occupano un ruolo centrale gli orientamenti cattolico-liberali. 7.1 Aspetti della poesia romantica e patriottica Nella produzione poetica sono presenti schemi romantici, che permettono di affrontare diverse tematiche storiche, patriottiche, religiose e sentimentali. Questa poesia interessa soprattutto per il suo repertorio di situazioni e figure, che canta fanciulle pallide e appassionate, bambini sofferenti e derelitti. Tra i numerosi esponenti di questo periodo ricordiamo Niccola Sole e Pietro Paolo Parzanese, quest’ultimo celebre per la sua lirica popolare. Sguardo alla vita degli umili si trova nella poesia di Arnaldo Fusinato di cui sono celebri anche alcune liriche patriottiche. La poesia patriottica svolse naturalmente la funzione di sostegno immediato e corale all’azione politica e militare, avvalendosi spesso di un linguaggio semplificato e sbozzato. Tra i numerosi poeti patriottici si distingue Goffredo Mameli che realizza nella sua poesia il modello mazziniano con toni enfatici, come nell’inno Fratelli d’Italia. 7.2 Il Romanticismo diffuso: Prati e Aleardi I poeti romantico-risorgimentali che riscossero maggior successo presso il pubblico borghese furono Prati e Aleardi. Essi parteciparono alle lotte rinascimentali e ottennero la carica di senatori del nuovo Regno d’Italia. Essi apparvero come modelli esemplari di poeti professionisti, capaci di dar voce a sentimenti eccessivi. Giovanni Prati intendeva trasportare nella nostra letteratura gli aspetti più sentimentali del Romanticismo europeo, soprattutto francese. Con lui la poesia diventa una sorta di mistica della lacrima, una celebrazione del dissidio tra le esigenze sentimentali degli individui e gli ostacoli del mondo esterno. Ma egli evita di porta all’estremo questo dissidio: il suo patetismo a tutti i costi resta sempre sospeso tra provocazione e conformismo. Il linguaggio del Prati appare discontinuo, provvisorio. La sua opera più notevole è l’Edmenegarda, novella in versi che narra una vicenda contemporanea di corruzione, peccato, tradimento, basata su un evento di cronaca reale. Oltre questa, scrisse anche Psiche, popolata di figure mitiche che invitano il poeta a immergersi nella segreta vitalità della natura. Temi e motivi romantici si trovano nella poesia di Aleardi che sviluppa un controllato sentimentalismo attraverso una forma più accurata e un’accorta sperimentazione metrica. Riprende e rinnova inoltre schemi classicistici, caratteri aulici e tradizionali: pare cercare un classicismo romantico, rifacendosi al modello di Foscolo. 7.3 Niccolò Tommaseo Niccolò Tommaseo rientra nella cerchia degli intellettuali cattolici, fu animato da una grande sensibilità romantica, ricco di contraddizioni e di asprezze. Egli non si preoccupò di nascondere il proprio io, non conobbe il metodo dell’ironia ma aveva comunque una tendenza esibizionista; importante il lui è la perpetua lotto tra peccato e pentimento. Tra le sue peculiarità c’è il rifiuto e la critica al laicismo e al materialismo della borghesia europea contemporanea, in vista di una nuova civiltà religiosa, fondata su un profondo legame tra l’individuo e il popolo cristiano, su una nuova solidarietà sociale. Il suo cattolicesimo si appoggia anche su prospettive socialiste. Nato il 9 ottobre 1802 in Dalmazia da famiglia di commercianti italiani, studiò nel seminario di Spalato e poi in quello di Padova dove acquisì una severa educazione cattolica che lasciò segni essenziali sulla sua personalità. Laureatosi in giurisprudenza a Padova sentì ben presto il bisogno di allontanarsi dal suo ambiente originario, ponendo il suo lavoro a disposizione della nascente industria libraria milanese: a Milano si trasferì nel ’24, avviando un’intensa attività di collaboratore a iniziative editoriali e giornalistiche. Successivamente si trasferì a Firenze dove fu uno dei collaboratori dell’Antologia. Dopo la soppressione dell’Antologia partì esule per la Francia e visse a lungo a Parigi frequentando i circoli intellettuali parigini e conoscendo momenti di dissipazione e di sfrenata sessualità. Negli anni ’40 visse a Venezia e fu sostenitore di una federazione antiaustriaca tra gli Stati Italiani e fu poi imprigionato nel ’48. Guidò inoltre anche la Repubblica veneziana e dopo la sua caduta riprese la strada dell’esilio. Nel 1859 si spostò a Firenze e qui vi rimarrà fino alla sua morte nel ’74. La sua opera critica di maggior successo è il commento alla Divina Commedia mentre i lavori critici iniziarono con la cura del Dizionario dei sinonimi e con la creazione del Nuovo Dizionario della lingua italiana. Tra i numerosi scritti in cui tentò di definire la sua ideologia politico-religiosa, il più importante e costituito dai tre libri Dell’Italia scritti quasi interamente a Firenze nel ’33: in essi si intrecciano l’ansia religiosa e la ricerca della libertà, il patriottismo e la difesa nazionale. Tommaseo sperimentò anche il genere letterario più amato dal pubblico negli anni ’30, il romanzo storico. La sua opera in prosa di maggior successo resta Fede e bellezza. Si tratta di una narrazione che sviluppa elementi autobiografici articolata in sei libri; al centro della storia c’è Giovanni, un intellettuale italiano esule in Francia e di una donna italiana, Maria. I due sono accomunati dalla conoscenza del peccato e dalla dissipazione e da una forte passione religiosa, che li porta a bruciare quanto rimane del loro passato finché un crudele destino porta Maria alla morte di tisi. Tommaseo si libera delle incertezze di Fede e bellezza nelle prose non destinate alla pubblicazione. Nel suo epistolario si trovano numerosi momenti di confessione morale, di analisi del suo rapporto col mondo. Ma il più singolare scandaglio della sua esistenza è il Diario intimo, costituito da frammenti di percezioni, affetti, amori: la personalità dell’autore è proiettata in una dimensione fuori tempo. Aspetti autobiografici sono presenti anche nella vasta produzione poetica di Tommaseo, che si formò sotto forma di varie raccolte. 8. Alla ricerca della poesia popolare Il popolo a cui si riferiva la letteratura romantica e risorgimentale italiana corrispondeva in linea di massima ad alcuni stati della piccola e media borghesia cittadina, arrivando talvolta a comprendere una parte del proletariato urbano e i contadini più emancipati. Risultati utili e affascinanti ottennero alcuni scrittori che raccolsero testimonianze della tradizione orale del popolo italiano, trascrivendo direttamente i testi dialettali o compiendone traduzioni e rifacimenti in lingua. Si porta così alla luce una poesia che celebrava le vicende eterne della vita del popolo – l’amore, la morte, la sofferenza. 8.1 Ippolito Nievo: la vita Visse intense esperienze intellettuali politiche e militari, sempre presente nella sfera pubblica. I suoi molteplici scritti mostrano un rifiuto netto del Romanticismo sentimentale che riscuoteva ancora grande successo; in lui c’era un’esigenza di maturità virile, di vigore intellettuale e fisico che egli realizza partecipando, al seguito di Garibaldi, alla guerra del ’59 e all’impresa dei Mille. Ma questa ricerca di vitalità sembra nascondere il suo io più profondo. Nato a Padova nel ’31 da parte di famiglia nobile, nell’infanzia soggiornò in varie città seguendo gli spostamenti del padre che fu pretore ad Udine. Dal ’41 studiò nel collegio a Verona e fu in contatto con le iniziative dei gruppi democratici: a questi anni risalgono una relazione amorosa con Matilde Ferrari. Iniziò presto l’attività di scrittore e in pochi anni scrisse numerose opere narrative, poetiche, teatrali e articoli su giornali locali. La sua fama di scrittore era abbastanza affermata ma quando nel ’85 terminò le Confessioni di un italiano, si rese subito conto della difficoltà di pubblicarle. In seguito alla situazione venutasi a creare nel ’59, partì a Torino insieme ai fratelli Carlo e Alessandro e lì si arruolò nel corpo dei Cacciatori delle Alpi, comandato da Garibaldi; dopo si trasferì in campagna mantenendo però sempre i rapporti con Garibaldi, finché nel ’60 si imbarcò con i Mille combattendo a Calatafimi e a Palermo. Amareggiato dall’annessione del Meridione al Piemonte, andò a Napoli e poi a Palermo e da qui si imbarcò verso Napoli nel ’61 in un piroscafo affondato durante una tempesta. 8.2 Le opere minori di Nievo La prima vera esperienza letteraria di Nievo è un racconto satirico l’Antiafrodisiaco per l’amor platonico, scritto nel’51, vendicativa ritrattazione della passione per Matilde Ferrari, costruita su un intreccio di eventi privati e pubblici con un ironico atteggiamento antiromantico. Fin dal ’51 egli si dedicò a una produzione poetica fitta e disordinata, tra cui due volumetti entrambi con il titolo Versi, accompagnati da un saggio. Questo saggio definisce i caratteri di una poesia non espressamente rivolta alle classi inferiori. Questa prima produzione poetica si riallaccia a varie tematiche dominanti nella poesia del tempo: tocca motivi storici, patriottici, amorosi. Più maturo appare il canzoniere apparso con il titolo Le lucciole nel ’57. Ma il risultato più apprezzabile di Nievo è la raccolta Amori garibaldini, basato sull’esperienza militare del ’59 in cui la passione patriottica e amorosa si fondono in una franca ironia, in un atteggiamento disincantato che non vuole presentarsi come eroico. Quasi completamente sconosciuta restò la produzione teatrale di Nievo, che conta numerose commedie e tragedie. Nievo inoltre fu ricollegato anche alla letteratura “campagnola” e abbinò l’analisi sociale a motivi sentimentali e ad un’idealizzazione del mondo contadino che sfiora l’idillio, anche se non vi mancano interventi ironici. Oltre che nelle novelle, la tematica campestre è presente nel romanzo Il conte pecoraio, molto vicino al modello manzoniano: qui si offre una rappresentazione moralistica delle disavventure a lieto fine, di una contadina sedotta da un nobile prepotente. Su vicende amorose ma anche di congiure politiche, si basa anche un altro romanzo, Angelo di bontà. Di livello più alto è invece il breve romanzo Il barone di Nicastro, in cui si narrano i viaggi che un barone colto compie per tutta la terra alla vana ricerca della virtù, salvo poi fare ritorno con la convinzione che tutta la realtà è perversamente dominata dalla contraddizione. Negli anni dell’impegno patriottico, acquistano un’importanza fondamentale gli scritti politici: dal saggio Venezia e la libertà d’Italia, nato dalla delusione per la mancata liberazione del Veneto, ad un altro saggio Frammento sulla rivoluzione nazionale, in cui si pone il problema sul rapporto tra la costituzione della nuova Italia e le masse popolari, soprattutto contadine. Comunque le masse popolari sono sempre utilizzate come strumento per iniziative che spettano agli giustificazioni. Con Carducci il classicismo si impose come supremo modello di comunicazione poetica proprio perché fu recepito dal pubblico in questa prospettiva retorica e nazionalistica, proprio perché l’autore fu visto come una sorta di “vate” della terza Italia, capace di riaffermare la continuità della tradizione. Contro il romanticismo convenzionale, il classicismo esprimeva un’esigenza di realismo, proponendo un ritorno alla rappresentazione della realtà, ma in termini mediati attraverso lo schermo delle forme classiche; la realtà a cui esso mirava era quella catalogata e controllata dal linguaggio dei classici, anche se vi venivano incorporati più diretti riferimenti alla vita quotidiana contemporanea. 11.2 Vita di un poeta-professore: Giosue Carducci Nell’esperienza di Carducci ebbero un peso fondamentale l’infanzia e la prima adolescenza passate in Maremma, a contatto con una natura dalle tinte forti e accese, che alimentò il suo spirito ribelle e aggressivo. Nato il 27 luglio del 1835 a Valdicastello, in Versilia, dove il padre Michele era medico al sevizio di una compagnia mineraria francese, Giosue visse dal ’38 al ’49 in Maremma, ove come medico condotto, operò il padre. Fece le prime letture e i primi studi, stimolato dal padre, dotato di una buona cultura classica. Nel ’49 il padre perse la condotta per le sue idee liberali e la famiglia dovette trasferirsi a Firenze, dove Giosue frequentò le scuole dei Padri Scolopi, acquisendo una buona preparazione letteraria e retorica: nel 1853 fu ammesso alla Scuola Normale Superiore di Pisa, da dove uscì nel ’56 laureato in filosofia e filologia. In questo periodo tornò spesso a Firenze: qui con degli amici formò la società degli “Amici pedanti”, che in modo polemico mirava a una restaurazione del classicismo, contro tutte le tendenze romantiche e modernizzanti. Nel ’57 stampò la sua prima raccolta di Rime; la sua situazione familiare divenne allora fortemente dura, anche in seguito a due gravi disgrazie: la morte del padre e del fratello Dante. Giosue così dovette farsi carico della madre e del fratello e si arrangiò compiendo studi filologici. Gli eventi del ’59 suscitarono il suo entusiasmo; si trasferì con la famiglia a Bologna, pur tra molte difficoltà economiche e pratiche, si immerse in un lavoro di insegnamento e ricerca critica e filologica. La delusione per la politica praticata dalla classe dirigente del nuovo Stato unitario, le stimolanti letture di quegli anni lo spinsero su posizioni di tipo giacobino e repubblicano, con acceso e violento tono polemico. Il suo originale fondo umano urtava però con le costrizioni della vita sociale, con il suo stesso ruolo di professore; egli nutriva anche la convinzione che la tradizione laica e repubblicana rappresentata da Garibaldi esprimesse al meglio i valori morali e nazionali. Nel 1870 la sua vita fu funestata da vari lutti: la perdita della madre e del figlioletto Dante, ma al dolore e all’insoddisfazione esistenziale si accompagnarono il successo poetico. Nel 1872 iniziò una relazione amorosa con una donna piena di ambizioni intellettuali: Carolina Cristofori Piva, moglie di un colonnello dell’esercito (sarà chiamata Lina o Lidia nelle lettere). Comunque dopo la liberazione di Roma Carducci si avviava ad accettare il ruolo della monarchia come garante dell’unità d’Italia; queste scelte dunque lo portarono ad un cambiamento di posizione e la cosa fu favorita anche dal fascino che esercitava su di lui la figura della regina Margherita e dall’apprezzamento che essa manifestò per la sua poesia. Nel ’78 scrisse un’ode Alla regina d’Italia e intorno al 1880 infittì i suoi riconoscimenti alla monarchia cercando sempre nuove celebrazioni ufficiali. Nel 1906 ricevette il premio Nobel per la letteratura e morì poi a Bologna nel 1907 per un attacco di broncopolmonite. 11.3 Le raccolte poetiche del Carducci È abbastanza difficile seguire lo sviluppo della poesia di Carducci perché egli organizzò i suoi componimenti più volte e in modi diversi. Dopo la pubblicazione del 1857 delle Rime giovanili, la prima vera organica raccolta del Carducci fu quella dei Levia Gravia, pubblicata nel ’68 con lo pseudonimo Enotrio Romano. Nel 1871 uscì un volume dal titolo Poesie, in tre parti: dopo il successo di questo volume, apparvero nel 1872 le Primavere elleniche, dedicate a Lidia; nel ’73 apparvero le Nuove poesie di Enotrio Romano; nel ’77 uscì il primo libro di versi costruiti secondo gli schemi della metrica barbara, le Odi barbare. Nel 1882 usciva Giambi ed Epodi; nel ’87 venivano pubblicate le Rime nuove; nel ’93 fu data alla luce la raccolta definitiva delle Odi barbare e nel ’99 usciva l’ultima raccolta, Rime e ritmi. 11.4 Metrica barbara A partire dall’umanesimo si sono avuti numerosi tentativi di rimettere in uso i metri classici. Questo tipo di poesia e di metrica fu chiamata “barbara” da Carducci che nelle sue Odi barbare tentò di metterne a punto alcune forme: il termine barbara intendeva sottolineare il fatto che quella riproduzione dei metri classici poteva solo essere approssimativa e parziale, come in un tentativo fatto dai “barbari” di appropriarsi delle forme classiche. Alcuni autori hanno cercato di ricreare una vera e propria metrica basata sulla quantità, attribuendo valore quantitativo alle sillabe volgari (considerandole lunghe o brevi come quelle latine); il primo a farne un tentativo è stato Leon Battista Alberti. Tra ‘500 e ‘600 ci furono vari esperimenti orientati a riprodurre non la diretta scansione metrica dei versi antichi, ma il loro ritmo attraverso usi e combinazioni di versi volgari che riproducessero il ritmo risultante dalla lettura dei testi latini. Carducci riprese e perfezionò il metodo usato per quel tipo di lirica, eliminando completamente l’uso della rima; ma il suo contributo più originale fu costituito dall’individuazione di una forma per i due versi fondamentali della poesia latina, che avevano un numero variabile di sillabe, l’esametro e il pentametro (sei e cinque piedi). 11.5 Svolgimento e caratteri della poesia carducciana La poesia di Carducci resta sempre fedele a un ideale di classicismo fiero e vigoroso. L’autore mira costantemente ad una letteratura che si accosti alla realtà e si opponga a ogni dissoluzione delle forme tradizionali. I miti e le forme classiche gli appaiono essenziali per vivere in modo sano il presente, per partecipare al progresso dell’umanità, per acquisire nuove conoscenze e ideali. A questo bisogno di armonico equilibrio si sovrappone il richiamo alla rude vita, il ricordo del mondo della sua infanzia e della sua adolescenza. Egli giudica i modelli classici come lo strumento idoneo a dar voce a questi impulsi e guarda al passato storico come a una fonte di vigore, che la poesia deve risuscitare contro lo squallore del presente, collaborando al progresso dell’umanità. Il celebre Inno a Satana che suscitò scandalo e diede luogo a vare polemiche, ha la forma di un’ode classicheggiante ma è un’esaltazione del libero pensiero laico che so è liberato dai vincoli della superstizione religiosa e si muove verso il futuro assumendo l’immagine del treno. L’importanza di tale inno sta anche nel fatto che esso mostra in tutta evidenza uno dei caratteri essenziali della poesia carducciana negli anni ’60 e i gran parte degli anni ’70: essa si risolve in un realismo classicistico, che si basa su immagini corpose e plastiche e fa irrompere negli schemi della poesia tradizionale frammenti di una materia nuova. Notevoli novità si hanno soprattutto nel lessico, anche se spesso Carducci non trova un vero equilibrio tra la retorica classica, i richiami mitologici e le formule storiche. Questo realismo esplode nel modo più violento nelle poesie politiche e satiriche, che si riferiscono spesso a occasioni precise. Questo realismo classicistico si nutre anche di una cauta attenzione alla moderna poesia europea. In esso non troviamo un respiro universale, quella forza radicale che caratterizzava il classicismo di Leopardi: la prospettiva culturale del Carducci è scolastica, professionale e formalistica. Di questo classicismo provinciale l’autore riesce a farne un modello nazionale, che si impone e resiste con successo nella media cultura borghese, fino agli anni del fascismo: il suo successo testimonia anche l’arretratezza di gran parte della cultura e delle classi dirigenti dell’Italia postunitaria, e da in ogni modo un’immagine concreta delle aspirazioni e delle velleità e incertezze di quel mondo. 11.6 Temi e risultati del Carducci poeta Benedetto Croce definì Carducci poeta della storia, sottolineando il vigore delle sue rappresentazioni storiche, il pathos e il calore con cui la sua poesia sa evocare momenti del passato e ricrearne i contorni. L’attenzione di Carducci non va soltanto al mondo degli antichi, ai modelli della bellezza greca e della virtù romana: egli sente il fascino anche di altre epoche, che però riconduce sempre a quella prospettiva di impronta classica; e particolare attenzione egli presta al medioevo comunale, in cui vede un respiro di libertà, una grande espressione di virtù laiche e un vigoroso esempio di vita repubblicana, anche se molte sue opere furono rivolte alla rivoluzione francese. La Maremma e gli anni trascorsi lì vengono incontro al poeta con la forza di un mondo violento, nel quale tutto si ripete secondo ritmi eterni e immobili. È un mondo a cui non si può tornare, un mondo arcaico che la nuova realtà in movimento allontana sempre di più e di cui la memoria vuole conservare alcuni bagliori: là infatti il poeta riconosce le ragioni della sua forza più autentica e genuina. In altre poesie delle Rime nuove si insinuano sfumature più intime e dolorose: soprattutto in Pianto antico (sulla morte del figlioletto Dante) la malinconia del poeta non trova più espressione in scatti polemici e in impeti di ribellione, ma in un doloroso ripiegamento su se stesso. Qualche prova originale si manifesta anche nell’ultima raccolta Rime e ritmi, dominata da testi celebrativi; ma la malinconia qui è troppo atteggiata e tende ad esibirsi in forma colta e sapiente, ad appoggiarsi su immagini erudite ed esteriori. 11.7 Carducci prosatore e critico Oltre all’opera in versi, Carducci ha lasciato una fittissima produzione in prosa, frutto di un lavoro quotidiano: essa si lega in gran parte alla sua attività di studioso della letteratura italiana. Spesso motivata da esigenze e da finalità pratiche, questa prosa presenta un impasto linguistico e stilistico di notevole interesse: libera da stretti vincoli classicistici che pesano sulla poesia dell’autore, essa intreccia con vivacità diversi modelli della tradizione italiana. Alla base c’è il toscano popolare acquisito da Carducci fin dalle sue origini familiari: un toscano aggressivo e teso, che nulla ha a che vedere con quello ripulito e pacato del Manzoni, contro cui Carducci polemizzò sempre. Gli scritti in prosa possono distinguersi fondamentalmente in tre gruppi: • Scritti storici e critici, legati al lavoro di studioso e di professore del Carducci, che si impegnò in un’analisi approfondita di autori, testi e generi letterari di tutti i secoli. Egli è attento al “fare” del poeta, ai modi con cui questo costruisce le sue opere. Dante, Petrarca, Poliziano, Ariosto, Tasso, Parini, Manzoni, Leopardi sono gli autori di cui più si occupò. Curò anche varie edizioni di testi: restano utili i suoi commenti su Poliziano e sulle Rime di Petrarca. • Scritti di polemica e di intervento, sia in materia letteraria, sia su altri temi. La prosa carducciana raggiunse le sue punte più alte di aggressività, ironia, di invettiva sempre tra ricordi e richiami alla propria condizione personale. Questi scritti sono frutto di una collaborazione alle più importanti riviste letterarie e furono raccolte inizialmente nelle tre serie di Confessioni e battaglie. • L’epistolario, esso ci mostra la varietà di atteggiamenti del Carducci, pronto ad accostarsi a quei modi della sensibilità contemporanea che egli tiene lontani dalla propria poesia, e spesso vittima di momenti di sconforto, di tetraggine e di malinconia, insofferente dalla fatica quotidiana e perfino dal suo ruolo ufficiale di professore. Grande interesse hanno le lettere scambiate con Carolina Piva, che costituiscono una sorta di romanzo d’amore: in quelle pagine il poeta insegue i modelli più diversi del linguaggio amoroso, proietta il suo rapporto con la donna in una sfera di gesti eleganti, di pose nobili e sublimi, che si contrappongono alla mediocrità del mondo quotidiano. 11.8 La critica positivistica e la “scuola storica” A Carducci si deve il più equilibrato modello di critica letteraria di fine ‘800. Lo studio della letteratura del passato è dominato dalla cosiddetta scuola storica, che si concentra sulla ricostruzione erudita, sulla ricerca di dati particolari, sul recupero di materiali d’archivio: questa critica spesso basa le sue ricostruzioni su schemi di tipo romantico o evoluzionistico: mira spesso a trovare le origini popolari di strutture e forme poetiche, tende a concepire i generi letterari come sistemi regolati da oggettive leggi di evoluzione, vede la letteratura come rigidamente condizionata dalla realtà sociale. 11.9 Tra realismo e classicismo: la poesia dell’età carducciana Nei decenni immediatamente successivi all’unità è presente una cauta ricerca di realismo; questa ricerca fu rappresentata da Carducci con una spetto teso e sublime. Altri poeti (apprezzati dallo stesso Carducci), si tennero su toni più bassi e colloquiali, tentando di aderire ai caratteri più quotidiani dell’esistenza contemporanea: questi non cercarono il sublime, bensì il canto leggero. 12. Giovanni Verga e il verismo 12.1 La narrativa naturalista Il terreno su cui la letteratura europea si impegna più compiutamente nella rappresentazione della realtà è quello della narrativa. Si vuole una narrazione oggettiva che riproduca in modo esatto le circostanze reali, così come esse si presentano. Per definire questo tipo di narrativa si tende ad usare il termine “naturalismo”, di solito esteso a tutte le forme narrative che si propongono di riprodurre la natura esterna in maniera precisa, quasi di fotografare il reale. La scrittura naturalistica mira quindi a concentrare l’interesse del lettore sulla materia della narrazione, più Con la novella Nedda Verga tenta di rappresentare il mondo contadino siciliano, narrando le disgrazie di una raccoglitrice di olive: il racconto viene presentato come frutto di una fantasticheria davanti al focolare, che porta il pensiero lontano. Questa attenzione alla realtà siciliana si acuiva nel bozzetto marinaresco Padron ‘Ntoni, primo abbozzo de I Malavoglia: scontento di questa prima stesura, Verga rinunciò a pubblicarlo. Dai documenti di questi anni appartenenti all’autore, risulta chiaro come i canoni dell’impersonalità si leghino strettamente alla necessità di guardare al mondo dei contadini o dei pescatori “da una certa distanza”: egli è convinto di poter dare forma alla verità di quel mondo osservandolo secondo un’ottica lontana. Verga inserisce questa dimensione narrativa nella propria visione globale dell’esistenza che si riassume nell’ideazione di un ciclo di cinque romanzi sotto il titolo complessivo I vinti: I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, La duchessa di Leyra, L’onorevole Scipioni, L’uomo di lusso. Verga inizia dalle classi più basse, da quel mondo popolare siciliano che per secoli era rimasto ancorato ai valori arcaici: la sua lontananza dal moderno mondo borghese e cittadino viene sottolineato nella novella Fantasticheria. L’autore sottolinea l’incommensurabilità tra il mondo “alto” (dei precedenti romanzi) e il mondo del “poveri diavoli”. 12.7 Verga novelliere: Vita dei campi La raccolta Vita dei campi comprende novelle apparse tra il ’78 e l’80 molto vicine all’elaborazione dei Malavoglia: in esse la nuova esperienza veristica si impone con uno scatto di vitalità che cambia radicalmente l’orizzonte della comunicazione narrativa. La vita della campagna siciliana si rivela attraverso i suoi ritmi sempre uguali, la costrizione della miseria e del lavoro più ingrato, la violenza reciproca degli uomini. La materia non viene più proiettata entro il linguaggio e la coscienza dell’autore: la narrazione viene da una voce popolare, che racconta i fatti dall’interno di quel mondo a cui i personaggi appartengono; essa procede in modo rapido e immediato e tende a entrare direttamente nelle situazioni concrete, senza troppe mediazioni. Ma la voce del narratore popolare non delinea i personaggi con simpatia: spesso essa descrive gli eroi protagonisti, il loro tragico destino con aggressività. Il sovrapporsi di tensione tragica costituisce uno dei caratteri essenziali di queste novelle: e in molte di esse il dramma sorge dallo scontro tra gli eroi, immersi nel loro mondo arcaico, e il mondo civile, che turba il difficile equilibrio della loro vita naturale. Quegli eroi comunque assumono una dimensione mitica. 12.8 I Malavoglia I Malavoglia costituisce la prima tappa del ciclo dei Vinti e deriva da un lungo lavoro di progettazione e di stesura, iniziato già con il bozzetto del Padron ‘Ntoni. Secondo il programma del ciclo, si comincia ora dal livello sociale più basso; si rappresenta la vita dei pescatori di Aci Trezza e si narra la vicenda della famiglia Toscano (detta Malavoglia, con nomignolo ingiurioso). La famiglia è guidata dal vecchio padron ‘Ntoni; la barca da pesca (La Provvidenza) e la casa patriarcale detta “del nespolo” costituiscono i suoi essenziali mezzi e valori di vita; ma una serie di disastri (che prende avvio dal tentativo di commerciare un carico di lupini e da un naufragio in cui muore il figlio di ‘Ntoni, Bastianazzo) porta alla rovina economica e alla disgregazione della famiglia. I Malavoglia perdono la barca e la casa; il nipote ‘Ntoni, venuto a contatto con il mondo moderno in seguito al servizio militare, rifiuta di tornare al duro lavoro tradizionale, si dà al contrabbando e a una vita dissipata, e finisce in carcere; l’altro nipote Luca muore nella battaglia di Lissa; la nipote Lia fugge a Catania dandosi alla prostituzione. Solo dopo lunghi sacrifici, il nipote Alessi riesce a riacquistare la casa del nespolo e a ricostruire gli essenziali valori familiari: ma questo ritorno è funestato dalla morte del vecchio ‘Ntoni in ospedale, lontano da casa, mentre il giovane ‘Ntoni, uscito intanto dal carcere, capisce di non poter più partecipare a quella vita antica che riprende, e abbandona tristemente e per sempre il suo paese. Per rappresentare questo mondo popolare Verga si basa su una rigorosa documentazione: ha raccolto informazioni e dati concreti sulla vita dei pescatori e dei contadini, su usi, tradizioni, proverbi e modi linguistici del popolo siciliano. Anche qui lo scrittore rappresenta il modello dell’impersonalità, dando la parola a un narratore popolare: ma qui la voce tende a coincidere con l’intera comunità di parlanti di Aci Trezza; gli eventi appaiono tutti proiettati entro un punto di vista collettivo, come se a parlare fosse una sorta di coro, in cui si intrecciano tutte le voci. Le vicende dei Malavoglia sono sempre pubbliche (o meglio, in questa comunità non esiste la distinzione tra pubblico e privato). Ma la stessa evidenza quasi magica della voce popolare mantiene uno scatto di ironia e di aggressività nei confronti dei personaggi e del loro destino: il coro che segue le vicende dei Malavoglia è sempre pronto a riconoscere che tutto ciò che accade è giusto, è come deve essere, e quindi a considerare le vittime come colpevoli di quanto loro accade; dal suo orizzonte è esclusa ogni pietà e ogni partecipazione sentimentale. Verga crea un organismo nuovo, che contiene il punto di vista popolare entro il punto di vista dello scrittore borghese. E ciò comporta un’eccezionale soluzione linguistica: Verga inventa una nuova lingua che si allontana radicalmente dalla tradizione manzoniana e che proietta entro le suture medie dell’italiano corrente le forme sintattiche, gli scatti colloquiali, le rapide condensazioni del dialetto siciliano. La sventura dei Malavoglia prende avvio proprio dalle prime novità che la rivoluzione e la formazione dello stato unitario hanno portato in quel mondo: ciò che spinge padron ‘Ntoni alla sciagurata iniziativa del commercio dei lupini è prima di tutto la difficoltà in cui si trova la sua famiglia in seguito alla partenza del giovane ‘Ntoni per il servizio militare, imposto dal regime unitario. Il comportamento del vecchio ‘Ntoni e quello del giovane incarnano due modi diversi, ma entrambi destinati alla sconfitta, di confrontarsi con le trasformazioni a cui il loro mondo va incontro: il vecchio cerca di difendere i valori e le sicurezze della famiglia; il giovane ‘Ntoni, una volta segnato dal contatto col mondo cittadino, perde le sue radici, non riesce più a riconoscersi nei valori della famiglia e del lavoro tradizionale, e percorre una lunga parabola che lo porta all’esclusione, alla partenza senza ritorno. La ricostruzione della casa del nespolo è possibile solo per il giovane Alessi, che non è mai stato tentato dai richiami del nuovo mondo, che è rimasto sempre ostinatamente e ingenuamente legato alle sue radici. Il lettore deve comprendere che per quel mondo si può provare un’inestinguibile nostalgia solo se si è altrove, solo se si avverte quanto in esso c’è di irrespirabile e soffocante, solo se si ha coscienza che da esso si deve ripartire, solo se si è in grado di intuire che in esso è già presente il germe della disgregazione. 12.9 Tra mondo contadino e mondo cittadino Le due raccolte del 1883, le Novelle rusticane e Per le vie, sono dedicate alla rappresentazione rispettivamente del mondo contadino siciliano e di quello popolare milanese. Nella prima raccolta la campagna catanese si presenta nei suoi colori più accesi e crudi, negli aspetti più ossessivi del paesaggio naturale e sociale: le novelle sono basate su situazioni collettive, che chiamano in causa numerose figure umane o interi gruppi sociali, legati tra loro da vincoli materiali, dalla durezza delle condizioni naturali e del lavoro agricolo. Le storie personali si prolungano nella ripetizione, spesso monotona, di gesti e situazioni. Il punto di vista della narrazione tende a coincidere con quello dei personaggi, traducendosi in un uso particolare dello stile indiretto libero, che già era presente nei Malavoglia, ma che qui diventa direttamente azione. L’esistenza di questi personaggi è esposta alle trasformazioni sociali, alle modificazioni dei poteri e dei modi di vita, al configurarsi di nuove forme di conflitto tra le classi. Le Rusticane sembrano seguire il corrompersi di un equilibrio arcaico e immutabili, l’instaurarsi di un nuovo ordine, ancora oscuro e inesplicabile, ma contrassegnato dagli stessi caratteri di irrazionalità e di cieca violenza del precedente. Ma le novelle più celebri della raccolta sono La roba, rapido scorcio sulla figura quasi mitica di un uomo che si è fatto da sé, Mazzarò, che dal nulla ha costruito un’immensa ricchezza agricola, che vive solo in funzione della sua roba e che, di fronte alla morte, vorrebbe portarla via con sé. Nelle dodici novelle di Per le vie Verga coglie momenti e frammenti di vita del mondo popolare milanese: trasferisce la sua curiosità per i poveri dalla sua terra d’origine alla città, tanto diversa, in cui si svolgeva la sua esistenza quotidiana. La vita milanese suscita suggestioni più vaghe e malinconiche nel narratore, che riduce il rigore della sua impersonalità e raffigura questo piccolo mondo urbano con toni anche patetici. Nel presentarci destini umani sospesi, personaggi travagliati da una sorda pena, che non deriva più dalla crudeltà di un mondo arcaico, ma piuttosto dal rapporto che nella vita della grande città si dà tra i borghesi e coloro che li servono. 12.10 Mastro-don Gesualdo Il secondo romanzo del ciclo dei Vinti ebbe un’elaborazione assai lunga, di cui si trovano le prime tracce già in alcune delle Novelle rusticane, mentre una prima fase di stesura si concluse nel 1884, e una prima redazione fu pubblicata a puntate sulla Nuova Antologia tra il luglio e il dicembre 1888. Nel suo assetto finale, l’opera rivela una costruzione saldissima, articolata in quattro parti: al centro è la corposa figura del protagonista, un muratore di una cittadina nei pressi di Catania, divenuto, con la sua abilità e il suo lavoro, padrone di una grande ricchezza economica, che gli consente di trattare da pari a pari con la nobiltà feudale (ciò gli ha procurato l’appellativo “don” che compete ai galantuomini). La passione di Gesualdo per il lavoro è radicata nel mondo contadino, ma l’ambizione e il successo lo portano lontano da questo suo mondo, lo legano alla corrotta nobiltà del paese. Le vicende del romanzo prendono avvio nel 1820 quando la brama di ascesa sociale spinge Gesualdo ad accettare il matrimonio con l’inquieta Bianca Trao, che appartiene ad una famiglia di nobili decaduti. Questo nuovo legame con il mondo aristocratico costringe Gesualdo a rinunciare alla relazione con la fedelissima Diodata e lo mette in contrasto con quasi tutti i membri della sua famiglia e senza che egli riesca a comunicare con la moglie, che vorrebbe amare. Nessuna gioia viene a Gesualdo nemmeno dal rapporto con la figlia Isabella: la bambina, inafferrabile e ostile, viene educata in collegio e divenuta donna intraprende un rapporto con un lontano cugino, coperto da un matrimonio di convenienza. Le ricchezze di Gesualdo vengono dilapidate dal genero, mentre la figlia duchessa si vergogna di lui e del suo mondo. Sempre più solo con se stesso, guardato ostilmente da tutti i concittadini, egli subisce le vicende del 1848, che i suoi nemici cercano di sfruttare sobillandogli contro il popolo, mentre muore la moglie Bianca. Ormai cosciente della vanità della sua lunga lotta per la roba, vecchio e malato, è costretto ad affidarsi all’ospitalità della figlia a Palermo. E nel palazzo di questa, che gli mostra estraneità ed astio, muore solo tra la servitù indifferente. Il metodo dell’impersonalità si traduce qui in uno stile asciutto ed essenziale, in una sintassi fatta di periodi brevi e incisivi, che trascina con sé ogni elemento lessicale, senza dar rilievo alle singole parole sparisce la voce del narratore popolare e la narrazione sembra fondersi su un’ottica totalmente oggettiva. I punti di vista dei personaggi e soprattutto quello del protagonista, sono espressi tramite il discorso indiretto libero. Tutta la rappresentazione converge sul protagonista, sulla dimensione economica della sua esistenza, che ha qualcosa di assoluto e di eroico: Gesualdo è un vero eroe della roba, l’immagine suprema della forza umana che accumula. Ma la sua forza viene contaminata e piegata dalla sottile vanità che lo induce a voler cambiare classe, ad abbandonare le sue origini contadine per entrare nel ceto più elevato, tra coloro che hanno sempre detenuto il potere: il suo è un dramma che incarna anche un fenomeno più vasto, quello dell’ascesa di una nuova borghesia imprenditoriale, che nella Sicilia trova ostacoli molto gravi. Proprio per queste sue radici Gesualdo ha bisogno di riconoscimenti che però gli sfuggono: aspira invano ad essere accolto dalla classe superiore e invano cerca l’affetto della moglie Bianca e della figlia Isabella. Egli è costretto a scoprire che l’uso che il mondo fa della roba esclude ogni tensione affettiva; il contatto con la nobiltà lo porta a chiudersi in se stesso come uno sconfitto, fino alla morte in solitudine. Non solo nei conflitti tra le classi, ma anche all’interno di ogni classe sociale vige una regola di egoismo cieco, che impedisce ogni reale comunicazione. Chi, come Gesualdo, si ostina a nutrire ambizioni spropositate e si getta nella mischia sociale, finisce inevitabilmente sconfitto. L’impassibile realismo di Verga delinea un’immagine negativa della realtà sociale, mostra con tragica potenza come nessun valore autentico sia praticabile in un mondo pieno di volgarità, nel quale domina il rancore di ogni uomo verso un altro uomo. Queste analisi negative avrebbero dovuto toccare anche gli strati superiori della società contemporanea negli altri romanzi progettati per il ciclo dei Vinti che dovevano riguardare rispettivamente l’aspetto nobiliare, quello parlamentare e quello della mondanità. Ma Verga non riuscì a continuare il ciclo e lavorò con fatica solo allo schema generale della Duchessa di Leyra. 12.11 Le ultime raccolte di novelle Non vanno trascurate le ultime novelle di Verga, che si allontanano dalla più rigorosa impostazione veristica delle precedenti, ma continuano una ricerca narrativa intensa, che troverà qualche sviluppo nella novellistica di Pirandello. La breve raccolta Drammi intimi, che cerca la strada dell’analisi psicologica, riferita a personaggi di classi e ambienti diversi. La raccolta Vagabondaggio in dodici novelle, presenta una narrazione che tocca esistenze scandite dal ripetersi di gesti e di atti sempre uguali. Al centro dell’ultima raccolta, Don Candeloro, è il mondo del teatro e degli attori, dove la vita reale non riesce in nessun modo a separarsi dalla finzione, dalla maschera e dalla scena. 12.12 Il teatro di Verga Fin dalla giovinezza Verga mostrò interesse per il teatro; ma l’autore sviluppò un più diretto impegno teatrale solo dopo l’affermazione della prospettiva veristica: la sua nuova narrativa mise a capo vari testi drammatici, con cui egli cercava anche un successo e un guadagno economico, benché giudicasse il teatro una forma d’arte più limitata. Nelle convenzioni sceniche egli vedeva ostacoli troppo forti alla piena realizzazione di quella forma “vivente”, oggettiva, a cui mirava nella narrazione: e forse per questo il suo teatro appare come qualcosa di strumentale e presenta esiti inferiori a quelli dei romanzi e dei racconti. Il successo di Cavalleria rusticana, l’atto unico ricavato dall’omonima novella, forniva della Sicilia
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