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FIABE - HANS CHRISTIAN ANDERSEN, Appunti di Letteratura

- L’acciaino - Il piccolo Claus e il grande Claus - La principessa sul pisello - L’ago da rammendo - Il tenace soldatino di stagno - I Cigni selvatici - I vestiti nuovi dell’imperatore - La pastorella e lo spazzacamino - Il guardiano dei porci - Mignolina - La Sirenetta - La piccola Fiammiferaia - Il brutto anatroccolo - La regina delle nevi - Ole chiudigliocchi - È proprio Vero! - Gianbabbeo - I fidanzati - Non era buono a nulla - Holger il Danese - L’usignolo

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 08/12/2022

alessandra-ricci
alessandra-ricci 🇮🇹

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Scarica FIABE - HANS CHRISTIAN ANDERSEN e più Appunti in PDF di Letteratura solo su Docsity! FIABE DI HANS CHRISTIAN ANDERSEN INDICE: FIABE DI HANS CHRISTIAN ANDERSEN ........................................................................................................................ 1 1. L’ACCIAINO ..................................................................................................................................................... 2 2. IL PICCOLO CLAUS E IL GRANDE CLAUS ................................................................................................... 3 3. LA PRINCIPESSA SUL PISELLO ................................................................................................................ 4 4. L’AGO DA RAMMENDO ........................................................................................................................... 4 5. IL TENACE SOLDATINO DI STAGNO ................................................................................................... 5 6. I CIGNI SELVATICI ...................................................................................................................................... 5 7. I VESTITI NUVI DELL’IMPERATORE ..................................................................................................................... 6 8. LA PASTORELLA E LO SPAZZACAMINO .......................................................................................................... 7 9. IL GUARDIANO DEI PORCI ..................................................................................................................... 7 10. MIGNOLINA ................................................................................................................................................... 7 11. LA SIRENETTA ................................................................................................................................................ 8 12. LA PICCOLA FIAMMIFERAIA ................................................................................................................. 8 13. IL BRUTTO ANATROCCOLO .................................................................................................................... 9 14. LA REGINA DELLE NEVI ............................................................................................................................ 9 15. OLE CHIUDIGLIOCCHI ............................................................................................................................ 10 16. E’ PROPRIO VERO! .................................................................................................................................... 11 17. GIANBABBEO .............................................................................................................................................. 12 18. I FIDANZATI ................................................................................................................................................. 13 19. NON ERA BUONA A NULLA .................................................................................................................. 14 20. HOLGER IL DANESE .................................................................................................................................. 17 21. L’USIGNOLO ................................................................................................................................................ 19 9 A SCELTA .......................................................................................................................................................... 20 22. LE SCARPETTE ROSSE ............................................................................................................................... 20 23. LA FANCIULLA CHE CALPESTO’ IL PANE ........................................................................................ 21 24. LA VERGINE DEI GHIACCI .................................................................................................................... 22 25. L’UOMO DI NEVE ...................................................................................................................................... 22 26. CINQUE IN UN BACCELLO .................................................................................................................... 22 27. IL BAMBINO CATTIVO ............................................................................................................................. 24 28. LA MARGHERITINA ................................................................................................................................... 25 29. L’ANGELO ..................................................................................................................................................... 27 30. LA CAMPANA ............................................................................................................................................. 28 1. L’ACCIAINO La fiaba narra di un soldato, che tornando dalla guerra incontra una strega; questa gli chiede di calarsi in un albero cavo dove, sul fondo, troverà tre camere. Superata questa prova, egli avrà tutto il denaro che vuole. Ogni camera è custodita da un cane: la prima da un mastino con gli occhi grandi come tazze che protegge un forziere pieno di monete di rame; la seconda da un cane con occhi grandi come macine di mulino che sorveglia un forziere con le monete d'argento; la terza da un cane con gli occhi grandi come l'Osservatorio di Copenaghen, che custodisce il forziere con le monete d'oro. La strega chiede al soldato di andare a recuperare un acciarino appartenuto alla sua nonna; in cambio, rende mansueti i tre cani il tempo necessario al soldato per riempirsi le tasche di monete. Una volta risalito, il soldato chiede alla strega cosa vuole fare dell'acciarino: ella non gli dà risposta, così lui, spazientito, le taglia la testa con la sciabola. Se ne va con le monete e l'acciarino. Da semplice soldato, ora si ritrova ricchissimo. Prende alloggio nella locanda più lussuosa del paese e un bel giorno, colto da un'indescrivibile curiosità, vuole andare a conoscere la principessa rinchiusa in casa per evitare che la profezia si avveri, ovvero che la fanciulla sposi un semplice soldato. Il soldato, sperpera tutto i soldi e si ritrova senza nulla, non ha più denaro neanche per una candela, allora si ricorda della strega e dell'acciarino, e scopre che se lo accende una volta compare subito il cane che custodiva il forziere con le monete di rame, se fa fuoco due volte quello che custodiva il forziere con le monete d'argento e, con tre scatti dell'acciarino, il cane del forziere con le monete d'oro. Capito il trucco, il soldato chiede subito il denaro necessario per la locanda, dopo di che chiede al cane con gli occhi come tazze di portargli la principessa la notte stessa, e la bestia obbedisce. Mentre la principessa dorme, il cane la porta dal soldato in volo, lui la bacia, e il cane la riporta al castello. Il giorno seguente, la principessa racconta al re e alla regina lo strano sogno: i regnanti decidono di far sorvegliare la camera della figlia da una dama, in modo da scoprire se sia realmente un sogno. Nella notte la dama vede il cane, lo segue fino alla porta del soldato, vi disegna sopra una croce con un gessetto per poterla riconoscere e poi torna al castello. Ma il cane si accorge del segno e fa una croce uguale su tutte le porte del paese. La regina allora escogita un altro piano: mette un sacchetto pieno di farina sulla schiena della principessa in modo che lasci una scia bianca durante il viaggio. Questa volta il cane non si accorge di nulla, così il soldato viene rintracciato e catturato. La sua sorte è di finire impiccato, ma mentre è sul patibolo chiede di poter esprimere un ultimo desiderio: prende il suo acciarino e fa fuoco tre volte. Compaiono i tre cani a cui chiede subito aiuto, ed essi attaccano gli spettatori, i giudici e anche i regnanti facendoli volare in alto e uccidendoli tutti. Alla fine il soldato conquista la principessa e i due si sposano con l'approvazione del popolo; i cani rimangono i loro più fedeli servitori. Ma non gli venne mal di mare e neppure si spezzò. «Crac» fece il guscio d'uovo, perché un carro pesante gli passò sopra. «Oh, come preme!» gridò l'ago da rammendo «ora mi viene il mal di mare! ora mi spezzo! mi spezzo!» ma non si spezzò, sebbene gli fosse passato sopra un carro pesante; si ritrovò disteso per terra e lì potrà anche rimanere! 5. IL TENACE SOLDATINO DI STAGNO Due bambini, fratello e sorella, ricevono in dono un castello di carta, con figurine di carta, tra cui una ballerina con un lustrino dorato sul petto e un gruppo di 25 soldatini di stagno. A uno dei soldatini manca un pezzo di gamba perché è stato fuso dopo gli altri, con lo stagno avanzato. Ogni notte, quando i bambini sono addormentati, i loro giocattoli prendono vita. Il soldatino senza una gamba si innamora della ballerina di carta. Fra i giocattoli c'è un pupazzo a molla a forma di diavolo, invidioso del soldatino di stagno, che lancia una maledizione sulla coppia, condannandola a non essere mai felice. Il giorno dopo, infatti, il soldatino cade fortuitamente dal davanzale della finestra. Trovato in terra da due bambini, viene messo su una barchetta di carta e spinto in mare; la barca stessa poi affonda e il soldatino viene mangiato da un pesce. Per tutto il tempo, il soldatino resta coraggiosamente sull'attenti, col chepì dritto in testa. Miracolosamente, il pesce viene pescato e finisce proprio nella cucina della casa da cui proviene il soldatino; recuperato dal cuoco, torna fra i giocattoli e dalla sua amata ballerina. La crudeltà del diavoletto però non è sconfitta; il soldatino finisce questa volta nel fuoco, e inizia a sciogliersi. Nella stanza dei bambini, però, viveva una buona fata. Impietosita dalla sventura del soldatino, la fata ordina che il soldatino sia per sempre felice. Ed ecco allora un colpo delicato di vento, che fa volare nel fuoco anche la ballerina. Il giorno successivo, dei due non rimane che un cuoricino di stagno e un lustrino annerito dal fuoco. 6. I CIGNI SELVATICI Elisa è una principessa, che vive felice con i suoi undici fratelli. Un giorno, però, il re si risposa con una matrigna cattiva, che mette Elisa a balia in una casa di contadini e lancia un sortilegio sui maschi, trasformandoli in cigni selvatici. Elisa cresce e quando compie 15 anni, il re, suo padre chiede di vederla. La matrigna, allora, le prepara un bagno e nasconde nell'acqua tre rospi avvelenati, che dovrebbero trasformarla in un essere brutto e malvagio. A causa della sua bontà, però, il maleficio fallisce e i rospi vengono trasformati in tre papaveri rossi. La matrigna, furiosa, tinge il viso di Elisa, la veste di stracci e le scompiglia i capelli cosicché il re, vedendola, ne sia inorridito e la scacci dal castello. Elisa vaga da diversi giorni per il bosco, dove incontra una vecchietta che le parla di undici cigni selvatici con la corona d'oro, che si vedono nel fiume lì vicino. Elisa segue il fiume e arriva al mare. Sul far della sera arrivano in volo gli undici cigni, che si ritrasformano nei suoi fratelli. I fratelli le raccontano dell'incantesimo che li rende cigni di giorno e uomini di notte, della loro vita al di là del mare, e del lungo e pericoloso viaggio che intraprendono una volta all'anno per tornare nella loro terra natale. Propongono ad Elisa di viaggiare con loro nella terra lontana, ed Elisa accetta con gioia. Durante il viaggio sopra le onde, Elisa intravede il grande castello di nebbia della fata Morgana, dove nessun essere umano può porre piede. Una volta giunti nella terra al di là del mare, Elisa si rifugia in una grotta e sogna la fata Morgana che le spiega come poter salvare i fratelli: deve raccogliere a mani nude le ortiche accanto alla grotta, oppure nel cimitero, pestarle a piedi nudi e tesserle in undici tuniche da far indossare ai fratelli; per tutto il tempo non deve dire una parola, pena la loro morte. Subito Elisa inizia questo lavoro, ma si presenta alla grotta il re del paese che, incantato dalla sua bellezza, la porta a palazzo con sé e organizza le nozze. L'arcivescovo è sospettoso nei riguardi di Elisa, credendola una strega, ma il Re non gli crede. Prepara ad Elisa una stanza tappezzata di seta verde, come la grotta in cui l'ha trovata e la sposa. Elisa è felice con il re, ma ogni notte va nella stanza verde a fabbricare le tuniche per i fratelli. Quando finisce le ortiche, è costretta a recarsi al cimitero infestato di lamie, per raccoglierne altre. Viene vista dall'arcivescovo che, la volta successiva, porta il re con sé e accusa apertamente Elisa di stregoneria, trascinandola in tribunale. Elisa è condannata a morte dal popolo. I fratelli tentano di parlamentare con il re nottetempo, ma quando egli li raggiunge è già l'alba, e sono costretti a volare via. In attesa dell'esecuzione, Elisa lavora febbrilmente per completare l'ultima tunica; sta per salire sul rogo quando giungono in volo gli undici cigni. Elisa getta le tuniche sul loro capo ed essi si ritrasformano, raccontando al re tutta la storia e scagionandola. 7. I VESTITI NUVI DELL’IMPERATORE C'era una volta un imperatore che amava così tanto la moda da spendere tutto il suo denaro soltanto per vestirsi con eleganza. « Quei due montarono due telai, finsero di cominciare il loro lavoro, ma non avevano nessuna stoffa da tessere. Nel frattempo tutti gli abitanti della città avevano saputo delle incredibili virtù di quella stoffa, e non vedevano l'ora di vedere quanto stupido o incompetente fosse il proprio vicino. »Manderò dai tessitori il mio vecchio e fidato ministro«, decise l'imperatore, »nessuno meglio di lui potrà vedere che aspetto ha quella stoffa, perché è intelligente e nessuno più di lui è all'altezza del proprio compito «.Così quel vecchio e fidato ministro si recò nella stanza dove i due tessitori stavano tessendo sui telai vuoti. »Santo cielo!«, pensò, spalancando gli occhi, »Non vedo assolutamente niente!« Ma non lo disse a voce alta. »Povero me«, pensava intanto, »ma allora sono uno stupido? Non l'avrei mai detto! Ma è meglio che nessun altro lo sappia! O magari non sono degno della mia carica di ministro? No, in tutti casi non posso far sapere che non riesco a vedere la stoffa!E allora, cosa ne dice«, chiese uno dei tessitori. »Belli, bellissimi!«, disse il vecchio ministro, guardando da dietro gli occhiali. Mi piacciono moltissimo, e lo dirò all'imperatore. Ah, bene, ne siamo felici«, risposero quei due, e quindi si misero a discutere sulla quantità dei colori e a spiegare le particolarità del disegno. Eppure continuavano a tessere sul telaio vuoto. Dopo un po' di tempo l'imperatore inviò un altro funzionario, assai valente, a vedere come procedevano i lavori. » Guardi la stoffa, non è magnifica?«, dicevano i due truffatori, e intanto gli spiegavano il meraviglioso disegno che non esisteva affatto. »Io non sono uno stupido!«, pensava il valente funzionario. »Forse che non sono all'altezza della mia carica! Davvero strano! Meglio che nessuno se ne accorga!« E così iniziò anche lui a lodare il tessuto che non riusciva a vedere, e parlò di quanto gli piacessero quei colori, e quei disegni così graziosi. »Sì, è davvero la stoffa più bella del mondo«, disse poi all'imperatore. Si fece accompagnare dalla sua scorta d'onore, nella quale c'erano anche i due ministri che erano già venuti, e si recò dai due astuti imbroglioni, che continuavano a tessere e a tessere... un filo che non c'era. »Ma cosa sta succedendo?«, pensò l'imperatore, »non vedo proprio nulla! Terribile! Che io sia stupido? O magari non sono degno di fare l'imperatore? Questo è il peggio che mi potesse capitare!« »Ma è bellissimo«, intanto diceva. L'imperatore consegnò ai due imbroglioni la Croce di Cavaliere da tenere appesa al petto, e li nominò Grandi Tessitori. Per tutta la notte prima della parata di corte, quei due rimasero alzati con più di sedici candele accese, di modo che tutti potessero vedere quanto era difficile confezionare i nuovi abiti dell'imperatore. » Che stoffa! È leggera come una tela di ragno! Sembra quasi di non avere indosso nulla, ma è questo appunto il suo pregio!Già«, dissero tutti i cavalieri, anche se non vedevano niente, perché non c'era niente da vedere. » » «Sono pronto», disse l'imperatore. Tra i tanti abiti dell'imperatore, nessuno aveva riscosso tanto successo. «Ma l'imperatore non ha nulla addosso!», disse a un certo punto un bambino. 8. LA PASTORELLA E LO SPAZZACAMINO Due figurine di porcellana, una pastorella ed uno spazzacamino, vivono fianco a fianco sopra ad un tavolo; sono felici ed innamorati. La loro storia d'amore purtroppo viene però presto minacciata dalla statuina di legno raffigurante un satiro, che vive su un mobile vicino e vuole la pastorella come propria moglie. Il satiro comincia ad importunare una porcellana cinese, che si dice esser il nonno della pastorella, perché dia il suo consenso al matrimonio. Quando il nonno acconsente, i due innamorati sono costretti a fuggire, scendendo fino al pavimento lungo una delle gambe del tavolo. Si nascondono poi all'interno d'un teatrino; qui vengono a sapere che la porcellana cinese è precipitata a terra nel tentativo d'inseguirli. Gli amanti in seguito si arrampicano con somma difficoltà attaccati al tubo della stufa, per poter giungere così sul tetto, finalmente liberi: prendono come guida una stella che brilla sopra di loro. Quando la pastorella giunge all'esterno il suo sguardo si posa sulla vastità del mondo e ne rimane impaurita, tanto da voler ritornare sopra il tavolo. Lo spazzacamino tenta di dissuaderla ma infine, amandola sopra ogni altra cosa, cede al suo desiderio e la conduce nuovamente al tavolo dove si trovavano inizialmente. Lì i due scoprono che la porcellana cinese è stata aggiustata, ma in modo tale che non possa più obbligare la pastorella a sposare il satiro contro la propria volontà. I giovani amanti sono così finalmente al sicuro per sempre. 9. IL GUARDIANO DEI PORCI Un povero principe che ha un piccolo regno vuole sposare la figlia dell'imperatore e le invia in dono un usignolo del bosco e una rosa che cresce presso la tomba di un re solo una volta ogni 5 anni. La principessa però respinge sdegnosa gli umili regali, in quanto cose realissime e naturali e non costruite artificialmente. Il principe allora si traveste ed assume il ruolo di porcaro al palazzo di lei. Una volta giunto sul posto di lavoro crea una casseruola musicale; la principessa corre attraverso il fango fino alla capanna del porcaro, disposta a pagare anche con 10 baci l'insolito strumento. Quando poi il guardiano dei porci crea un sonaglio, la principessa arriva a pagare addirittura con un centinaio di baci. L'imperatore, profondamente disgustato del fatto che la figlia si riduca a baciare un porcaro per ottenere gli strumenti musicali da lui creati, finisce con lo scacciarli in malo modo tutti e due. Il principe, dopo aver così giudicato la giovane principessa indegna del suo puro amore, si lava il viso, indossa il suo abito regale e nella sua nuova veste la rifiuta davanti a tutti, proprio come aveva fatto suo padre con lui. La principessa viene lasciata tristemente da sola fuori dal portone del palazzo di lui a cantare. 10. MIGNOLINA La storia inizia con una donna, amante dei fiori, che un giorno riceve una sorpresa inaspettata: una piccola ragazzina spunta da un bocciolo. Viene nominata Mignolina a causa delle sue dimensioni e rende felice la vita della donna, ora non più sola. Una notte, però, la piccola è portata via da una rana, attirata dalla sua bellezza. Risvegliatasi con quelle creature che per lei hanno le dimensioni di un ippopotamo, Mignolina apprende con orrore che dovrà essere la sposa del figlio dell'anfibio ma, grazie alle sue lacrime che commuovono i pesci dello stagno, riesce a fuggire. Dopo essere fuggita dal rospo, si ferma a riposare su di un giglio, prima di tornare a casa, quando all'improvviso viene catturata da un maggiolino. Successivamente, riuscita a scampare anche a questo pericolo, Mignolina viene travolta dall'inverno e trova riparo presso la casa di un topo, che le consiglia di sposarsi con il suo vicino, un talpone molto rinomato tra i roditori del posto, che si invaghisce di lei appena la incontra. Mignolina però si rifiuta di prendere come sposo il talpone e fugge via, volando verso una terra lontana a bordo di una rondine che aveva accudito durante l'inverno e divenuta sua amica. Su un campo di fiori, Mignolina incontra un principino delle fate e si sposa con lui. Infine riceve un paio di ali per accompagnare il marito nei suoi viaggi di fiore in fiore e per poter tornare eventualmente a casa da sua madre, per farle visita. Quinta storia. La figlia del brigante In questa sezione Gerda viene assalita dai briganti, a causa della carrozza e dei ricchi vestiti che le sono stati donati. I briganti vogliono ucciderla, ma vengono fermati dalla figlia del capo, che desidera che Gerda diventi la sua compagna di giochi. La figlia del brigante tiene prigionieri due colombi selvatici e una renna, i quali, dopo avere ascoltato la storia di Gerda, le dicono di avere visto Kay in Lapponia, nel palazzo della regina delle nevi. La figlia del brigante lascia liberi Gerda e gli animali, che partono per la Lapponia. Sesta storia. La donna di Lapponia e la donna di Finlandia Gerda trova ospitalità in Lapponia presso una povera donna. La donna di Lapponia le affida un messaggio - scritto su un pesce - per la donna di Finlandia, che potrà aiutarla. La donna di Finlandia, una maga, spiega a Gerda dove sia il palazzo della regina delle nevi, e le spiega che non avrà bisogno di altri poteri per sconfiggere la regina oltre quelli che ha già. Settima storia. Che cosa era successo nel castello della regina delle nevi e che cosa accadde in seguito Nella settima storia viene raccontato innanzitutto come Kay sia stato soggiogato dalla regina delle nevi e costretto a comporre all'infinito parole con alcuni frammenti di ghiaccio. Solo se riuscirà a comporre la parola "eternità" potrà arrivare a essere padrone della propria vita. Mentre Gerda sta arrivando al palazzo, la regina lo lascia solo. Gerda trova Kay, lo abbraccia e con le lacrime scioglie il ghiaccio nel cuore di Kay. Kay la riconosce e si mette a piangere, facendo così uscire dall'occhio il frammento di specchio. Mentre Kay e Gerda festeggiano e danzano, le vibrazioni dei loro passi fanno muovere i frammenti di ghiaccio sul pavimento, che compongono spontaneamente la parola "eternità", liberando Kay. I due intraprendono il lungo viaggio verso casa, durante il quale incontrano molti dei personaggi conosciuti da Gerda nel suo viaggio, tra cui la renna, la donna di Finlandia, la donna di Lapponia e la figlia del brigante, che li informa della morte della cornacchia. Giunti a casa, i due si rendono finalmente conto di essere cresciuti, mentre la nonna si crogiola al sole e legge un passo della Bibbia: "In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli". 15. OLE CHIUDIGLIOCCHI Ole Chiudigliocchi è un personaggio buono che concilia il sonno dei bambini, dapprima spruzzando con la sua siringa magica negli occhi di questi un po' di latte e, dopo, soffiando loro sul collo. Una volta che i bambini si sono addormentati, Ole Chiudigliocchi si siede ai piedi dei loro letti e comincia a raccontare le sue storie. Porta sempre con sé, oltre la siringa magica, due ombrelli: uno tutto disegnato che apre sulla testa dei bambini che sono stati buoni, in modo che questi facciano sogni bellissimi, un altro senza disegni che, invece, apre sui bambini che sono stati cattivi, in modo che questi dormano di un sonno privo di sogni. Ole Chiudigliocchi si reca da un bambino di nome Hjalmar per una settimana e, sera dopo sera, dal lunedì alla domenica, racconta lui sette storie, una ogni giorno. Di sera in sera e di sogno in sogno addobba la stanza del piccolo Hjalmar di bellissimi fiori e frutti, dà vita ai mobili con la sua siringa magica e consente al piccolo di entrare in un quadro e di viverlo, porta il bambino per mare su di una splendida nave, lo rimpicciolisce e gli fa vestire l'uniforme del soldatino di piombo in modo che possa presenziare al matrimonio di due topi sotto il pavimento della dispensa di casa e poi, la sera successiva, al matrimonio di due bambolotti di sua sorella. Al sabato Ole Chiudigliocchi ha un piccolo diverbio col ritratto del bisnonno di Hjalmar, che lo accusa di confondere le idee del suo piccolo nipote con le sue fantasticherie. Ole Chiudigliocchi spiega che dopotutto lui appartiene a un mondo pagano in cui era chiamato Morfeo, e la notte della domenica, fa affacciare Hjalmar dalla finestra e gli mostra il suo omonimo fratello: Ole Chiudigliocchi, chiamato Morte. Questo Ole Chiudigliocchi non si reca mai due volte da una stessa persona e, a seconda dei meriti e dei demeriti dei soggetti che prende con sé sul suo cavallo, racconta storie tanto belle da non poter essere neppure immaginate o, all'inverso, storie talmente brutte e spaventose da non poter neppure essere raccontate ed ascoltate. 16. E’ PROPRIO VERO! «È una storia terribile!» esclamò una gallina in una zona della città dove non era accaduto il fatto «uno spaventoso scandalo in un pollaio! Non me la sento proprio di dormire da sola questa notte! Per fortuna siamo in tante sulla pertica.» E intanto raccontò in modo tale che le galline drizzarono le penne e il gallo fece afflosciare la cresta. «È proprio vero!» È meglio cominciare dal principio, e il principio accadde in un pollaio in un'altra parte della città. II sole tramontava e le galline salivano sulla pertica; una di loro, con le piume bianche e le zampe corte, aveva deposto l'uovo regolarmente; era una gallina rispettabile in tutti i sensi e mentre saliva sulla pertica si beccò e così le volò via una piumetta. «È andata» disse. «Più mi spenno e più divento bella!» Naturalmente lo disse in tono scherzoso, perché era una gallina spiritosa, anche se molto rispettabile, come ho già detto. E così si addormentò. Tutt'intorno era buio; le galline stavano una accanto all'altra, ma quella che le stava più vicino non dormiva; sentì e non sentì, come si deve fare in questo mondo per poter vivere in pace; ma non potè fare a meno di dire all'altra sua vicina: «Hai sentito cosa hanno detto? Non faccio nomi, ma c'è una gallina che vuole spennarsi per sembrare più bella! Se io fossi il gallo la disprezzerei!». Proprio sopra la gallina si trovava la civetta col marito e i bambini; avevano un udito fino in quella famiglia, e sentirono ogni parola detta dalla gallina; stralunarono gli occhi e mamma civetta si fece aria con le ali: «Non ascoltate! ma avrete certo sentito quello che han detto! Io l'ho sentito con le mie orecchie e dovrò sentirne ancora molte altre prima che mi cadano! Una delle galline si è dimenticata a tal punto di quel che si conviene a una gallina che si è messa a beccarsi tutte le penne facendosi vedere dal gallo!». «Prenez garde aux enfants!» esclamò papà civetta. «Non è roba per bambini.» «Però devo raccontarlo alla nostra vicina civetta. È una civetta così stimata nel nostro ambiente!» e così volò via. «Uh-Uh! Uhuh!» gridarono tutti e due i colombi che abitavano la colombaia di sotto. «Avete sentito? Avete sentito? Uhuh! C'è una gallina che si è tolta tutte le penne per colpa del gallo! E ora sta morendo di freddo, se non è già morta!» «Dove? Dove?» chiesero i colombi. «Nel cortile qui vicino! È come se l'avessi vista con i miei occhi, è una storia quasi da non poter raccontare, ma è proprio vero!» «Lo credo, credo a ogni parola!» risposero i colombi e si chinarono verso il loro cortile. «C'è una gallina, anzi alcuni dicono due, che si sono tolte tutte le penne per essere diverse dalle altre e attirare l'attenzione del gallo. È un gioco rischioso si può morire di freddo, e loro sono morte entrambe.» «Sveglia! Sveglia!» cantò il gallo e volò sullo steccato. Aveva gli occhi ancora assonnati, ma cantava ugualmente: «Tre galline sono morte di amore infelice per un gallo! Si erano tolte tutte le penne! È una storia orribile, non voglio tenerla per me raccontatela, raccontatela!» e così la storia passò da un pollaio a un altro finché non tornò nel luogo da dove era partita. «Ci sono cinque galline» si diceva «che si sono tolte le penne per mostrare chi di loro si era più consumata d'amore infelice per il gallo; poi si sono beccate a sangue e sono morte, con vergogna e scandalo per le loro famiglie e grossa perdita per il padrone.» E la gallina che aveva perduto quella piccola e soffice piuma naturalmente non riconobbe la sua storia e poiché era una gallina rispettabile disse: «Io disprezzo quelle galline! Ma ce ne sono molte di quel genere! Un fatto simile non deve essere taciuto e farò il possibile affinché questa storia appaia sul giornale, così che si diffonda per tutto il paese; ben gli sta a quelle galline e alle loro famiglie!». E la storia arrivò davvero al giornale, fu stampata e è proprio vero: "Una piccola piuma si può trasformare in cinque galline!" 17. GIANBABBEO In campagna c’era una fattoria dove abitava un fattore con due figli, con tanto cervello che anche la metà sarebbe bastata. Volevano chiedere in sposa la figlia del re e avrebbero osato farlo perché lei aveva fatto sapere che avrebbe sposato chi sapeva tenere meglio una conversazione. I due si prepararono per una settimana, il periodo più lungo concesso, ma per loro sufficiente perché avevano già un certa cultura il che tornò loro utile. Uno conosceva tutto il vocabolario latino e le ultime tre annate del giornale del paese che sapeva recitare da capo a fondo e viceversa, l’altro si era studiato tutti i regolamenti delle corporazioni d’arti e mestieri e aveva imparato tutto quello che deve sapere il decano (grande capo) di una corporazione, così pensava di potersi pronunciare sui problemi dello stato, e inoltre imparò anche a ricamare le bretelle, dato che era di gusti raffinati e molto abile. “Io otterrò la figlia del re!” dicevano entrambi. Il padre dette a ognuno un bellissimo cavallo; l’esperto di vocabolario e di giornali lo ebbe nero come il carbone, quello che era saggio come un vecchio decano e che sapeva ricamare, bianco come il latte. Poi si unsero gli angoli della bocca con olio di fegato di merluzzo, in modo che scorressero meglio. Tutti i servitori erano andati in cortile per vederli montare a cavallo; in quel mentre sopraggiunse il terzo fratello; infatti erano in tre, ma il terzo nessuno lo teneva in considerazione perché non aveva la stessa cultura degli altri due e infatti lo chiamavano Gianbabbeo. “Dove state andando vestiti così a festa?” chiese. “A corte per conquistare con la conversazione la figlia del re. Non hai sentito quello che il banditore ha annunciato in tutto il paese?” e glielo raccontarono. “Accidenti! Allora vengo anch’io!” esclamò Gianbabbeo, ma i fratelli risero di lui e se ne partirono. “Padre, dammi un cavallo!” gridò Gianbabbeo. “Mi è venuta una gran voglia di sposarmi. Se mi vuole, bene, e se non mi vuole, la voglio io.” “Quante storie!” disse il padre. “Non ti darò nessun cavallo. Tu non sei in grado di conversare; i tuoi fratelli sì che sono in gamba!” “Se non posso avere un cavallo” concluse Gianbabbeo “mi prenderò il caprone, quello è mio e mi potrà certo portare.” E così montò sul caprone, lo spronò con i calcagni nei fianchi, e via di corsa per la strada maestra. Oh, come cavalcava! “Arrivo!” gridava, e si mise a cantare a squarciagola. I fratelli cavalcavano avanti a lui in silenzio; non dicevano una parola perché dovevano pensare a tutte le belle trovate che avrebbero avuto, per poter conversare con arguzia. “Ehi, là!” gridò Gianbabbeo “arrivo anch’io! Guardate cosa ho trovato per strada!” e mostrò loro una cornacchia morta. “Babbeo!” risposero i due “cosa vuoi farne?” “Voglio donarla alla figlia del re!” “Fai pure” dissero ridendo e ripresero a cavalcare. “Ehi, voi, arrivo! Guardate cos’ho trovato adesso, non è una cosa che si trova tutti i giorni sulla strada maestra!…” I fratelli si voltarono di nuovo per vedere che cos’era. “Babbeo!” dissero “è un vecchio zoccolo di legno a cui manca la punta! Anche questo è per la figlia del re?” “Certo!” rispose Gianbabbeo; i fratelli risero e cavalcarono via distanziandolo di un bel pò. “Ehi, eccomi qui!” gridò Gianbabbeo. “Oh, oh! va sempre meglio! Ehi, è una vera meraviglia!” “Cos’hai trovato adesso?” chiesero i fratelli. “Oh, una cosa incredibile!” disse Gianbabbeo “chissà come sarà contenta la figlia del re!” “Ma” esclamarono i fratelli “è fango appena preso dal fosso!” “Proprio così” rispose Gianbabbeo “e della migliore qualità, non si riesce neppure a tenerlo!” e si riempì la tasca. I fratelli cavalcarono via, spronando il più possibile i caval li, e giunsero un’ora prima di lui alla porta della città dove ricevettero un numero d’ordine, come tutti gli altri aspiranti man mano che arrivavano. Poi venivano messi in fila, sei alla volta, e stavano così stretti da non poter muovere le braccia; ma era meglio così perché altrimenti si sarebbero rotti le costole a gomitate soltanto perché uno si trovava davanti all’altro. Ho proprio bisogno di recuperare un po' le forze. Fa freddo nell'acqua, e sono già sei ore che sto qua. Mi hai portato qualcosa?» Il ragazzo tirò fuori la bottiglia che la madre si portò alla bocca, bevendone un sorso. «Ah, come va giù bene, e come riscalda! È come mangiare del cibo caldo, ma non è così caro! bevi anche tu, ragazzo mio! Sei così pallido, stai gelando con quei vestiti leggeri! E poi è già autunno. Uh, l'acqua è gelida! Speriamo di non ammalarmi! No, non c'è pericolo. Dammi un altro sorso e bevine anche tu ma solo un goccio, non ti devi abituare a bere, povero ragazzo mio!» Salì sul ponte dove si trovava il ragazzo e raggiunse la riva; l'acqua colava dalla stuoia che aveva intorno alla vita e gocciolava dalla gonna. «Sgobbo talmente che quasi mi esce il sangue dalle unghie, ma non mi importa, purché riesca a fare di te un bravo ragazzo, figlio mio!» In quel momento arrivò una donna più anziana, scarna e poveramente vestita, zoppa da una gamba e con un grosso ricciolo fìnto che le scendeva su un occhio guercio, per nasconderlo, rendendo in realtà il difetto più appariscente, i vicini la chiamavano "la zoppa col ricciolo."«Poveretta! Come ti affatichi nell'acqua gelida! Hai certo bisogno di qualcosa per riscaldarti, e pensare che la gente ti critica perché bevi un goccio!» e subito il discorso tenuto dal giudice al ragazzo venne riferito alla lavandaia, perché la vecchia lo aveva sentito e si era arrabbiata a sentir parlare in quel modo a un ragazzo di sua madre per quel poco che beveva; quando poi il giudice organizzava pranzi con vino a volontà. «Vini pregiati e vini forti, e quasi tutti bevono più del necessario! Ma per loro quello non vuol dire bere! Loro vengono rispettati, tu invece non sei buona a nulla!» «Ti ha parlato così, figlio mio?» chiese la lavandaia, le labbra tremanti. «Tua madre non è buona a nulla! Forse ha ragione ma non dovrebbe dirlo al ragazzo. Certo che ricevo molti dolori da quella casa!» «Già, hai servito da loro quando i genitori del giudice ancora vivevano! Quanti anni sono passati! E hai dovuto ingoiarne di bocconi amari da allora, puoi ben avere sete!» disse ridendo la vecchia. «Oggi c'è un pranzo importante dal giudice, doveva venire annullato ma ormai è troppo tardi e poi il cibo è già pronto. L'ho saputo dal servo. Meno di un'ora fa è arrivata una lettera che annunciava che il fratello più giovane è morto a Copenaghen.» «Morto!» gridò la lavandaia, impallidendo. «Come!» esclamò la donna «te la prendi tanto? Certo lo conoscevi dal tempo in cui prestavi servizio in casa.» «È morto! era l'uomo migliore del mondo, il più buono! Il Signore non ne ha tanti come lui!» e le lacrime le scorrevano sulle guance. «Oh Dio! mi gira la testa! Forse perché ho finito la bottiglia. Non lo sopporto più! Sto così male!» e si appoggiò al cavalletto. «Signore! stai proprio male!» disse la donna. «Cerca di riprenderti! No, stai proprio male. E meglio che ti porti a casa.» «E la biancheria?» «Me ne occupo io. Prendimi sottobraccio. Il ragazzo può restare qui a controllare finché non tornerò a lavare il resto: non è molto.» La lavandaia non si reggeva in piedi. «Sono stata troppo tempo nell'acqua gelata. Da stamattina non ho bevuto né mangiato. Mi sento la febbre in corpo! Oh, Signore Gesù, aiutami ad arrivare a casa! povero figlio mio!» e piangeva. Il ragazzo si mise a piangere anche lui e sedette in riva a ruscello vicino alla biancheria bagnata. Le due donne si avviarono lentamente, la lavandaia vacillava, camminarono lungo il vicolo, poi per la strada proprio davanti alla casa del giudice, e la donna cadde a terra. La gente le si affollò attorno. La vecchietta entrò in casa a cercare aiuto. Il giudice si affacciò alla finestra con i suoi ospiti. «È la lavandaia!» esclamò «ha bevuto troppo. È una buona a nulla! È un peccato per il suo bel figliolo, voglio molto bene a quel ragazzo, ma la madre non è buona a nulla.» La donna rinvenne e venne portata nella sua misera casa, e messa a letto. La vecchia amica andò a scaldare una scodella di birra con burro e zucchero, che secondo lei era la medicina migliore. Poi tornò al ruscello e sciacquò tutto molto male, ma con buona volontà, riportò la biancheria a terra e la mise in una cassa. Verso sera tornò nella misera casa della lavandaia. Aveva avuto dalla cuoca del giudice due patate rosolate con lo zucchero e un bel pezzo di prosciutto grasso per la malata, ma se lo mangiarono lei e il ragazzo; la malata si riprese sentendone l'odore. «È così sostanzioso!» disse. Il ragazzo andò a dormire nello stesso letto dove si trovava la madre, ma il suo posto era di traverso dalla parte dei piedi, con una vecchia coperta ricavata da strisce di stoffa azzurra e rossa cucite insieme. La lavandaia stava un po' meglio; la birra calda le aveva ridato forza e l'odore del buon cibo le aveva fatto bene. «Grazie, amica mia!» disse alla vecchia. «Ti dirò tutto, quando il ragazzo si sarà addormentato. Credo anzi che dorma già. Non ha una espressione dolce e beata, con gli occhi chiusi? Non sa che vita fa sua madre, che il Signore non glielo faccia mai provare! Io ero a servizio nella casa del consigliere il padre del giudice, e un giorno tornò a casa il più giovane dei loro figli, studente all'università. A quel tempo ero giovane e impetuosa, ma onesta, questo lo posso affermare davanti a Dio» raccontò la lavandaia. «Lo studente era così allegro e felice, aveva un carattere tanto buono e sincero. Non è certo esistito un uomo migliore di lui sulla terra. Lui era il figlio del padrone e io ero solo una cameriera, ma ci fidanzammo, restando puri e onesti. Un bacio non è certo un peccato quando ci si vuol bene. Lo raccontò a sua madre, che per lui era come il Dio in terra, così intelligente, affettuosa e amabile. Poi lui ripartì, ma mi mise l'anello d'oro al dito. Quando era ormai lontano, sua madre mi chiamò da lei, seria, ma con molta dolcezza, mi parlò, come avrebbe fatto il Signore; mi spiegò la differenza che c'era tra me e lui. "Ora lui vede solo che sei bella, ma la bellezza sfiorirà! Tu non sei istruita come lui, non riuscirete a comprendervi sul piano spirituale e proprio qui sta il male. Rispetto il povero" riprese "presso Dio avrà forse un posto migliore di molti ricchi, ma sulla terra non si può seguire un binario sbagliato quando si va avanti, altrimenti il carro si ribalta, e voi con lui! So che un uomo onesto, un artigiano ti ha chiesto in sposa, è Enrico il guantaio; è vedovo e non ha figli; e se la passa bene. Pensaci!" Ogni parola pronunciata era come un coltello che mi trafiggeva il cuore, ma quella donna aveva ragione e questo mi ossessionava e mi opprimeva; le baciai la mano e piansi lacrime amare, ma piansi ancora di più in camera mia quando mi buttai sul letto. La notte che venne fu una brutta notte, il Signore sa che cosa ho sofferto. La domenica andai all'altare del Signore, per far luce dentro di me. Fu come un segno della Provvidenza: uscendo dalla chiesa incontrai Enrico il guantaio. Allora non ebbi più dubbi, eravamo adatti l'uno all'altra per ceto sociale e condizione, e lui era anche benestante, così andai diretta da lui, gli presi la mano e gli chiesi: "Pensi ancora a me?." - "Sì, per sempre!" rispose. "Vuoi una ragazza che ti stima e ti rispetta, ma che non ti ama? L'amore potrà venire dopo." - "Verrà!" replicò e così ci prendemmo per mano. Tornai dalla mia padrona; quell'anello d'oro che suo figlio mi aveva dato, lo portavo sul petto; non lo potevo certo mettere al dito di giorno, ma lo facevo di notte, quand'ero a letto. Baciai l'anello finché mi sanguinò la bocca e poi lo diedi alla mia padrona dicendo che la settimana dopo sarebbe stato annunciato dal pastore il matrimonio tra me e il guantaio. Lei mi abbracciò e mi baciò; non disse che non ero buona a nulla, ma forse allora ero migliore, anche se non avevo ancora provato tante tribolazioni. Così venne celebrato il matrimonio, il giorno della Candelora - e il primo anno andò bene, avevamo un aiutante e un garzone e tu ci servivi in casa.» «Oh, eri un'ottima padrona!» le disse la vecchia «non dimenticherò mai quanto siete stati buoni, tu e tuo marito.» «Furono anni felici quelli. Figli non ne avevamo. E io non rividi mai più lo studente. O meglio, lo vidi, ma lui non mi vide. Era venuto per il funerale di sua madre. Lo vidi vicino alla tomba, era bianco come il gesso e tristissimo, ma certo a causa di sua madre. Quando poi morì suo padre, si trovava all'estero e non tornò a casa, e da allora non è più tornato. So che non si è mai sposato, credo che sia diventato procuratore. Di sicuro non si ricordava di me, e se anche mi avesse rivista, non mi avrebbe certo riconosciuta, sono così brutta adesso. Forse è stato un bene!» Poi raccontò dei duri periodi di sofferenza, della sfortuna che li aveva colpiti in continuazione. Possedevano cinquecento talleri e dato che nella loro strada c'era una casa che costava duecento talleri e che valeva la pena di demolire e ricostruire, la comprarono. Il muratore e il falegname fecero un preventivo di milleventi talleri: Enrico il guantaio aveva buon credito e ottenne un prestito da Copenaghen, ma la nave che lo doveva portare naufragò e con essa anche i soldi! «In quel tempo nacque il mio caro figliolo che ora dorme. Suo padre si ammalò di una lunga e grave malattia, dopo nove mesi dovevo vestirlo e svestirlo io. Andò sempre peggio per noi, facemmo debiti sempre più grossi, tutta la nostra merce andò perduta e infine mio marito morì. Io ho faticato molto, moltissimo per questo figlio; ho lavato scale, biancheria fine e grossa, ma il Signore non vuole che le cose mi vadano meglio, così un giorno si libererà di me e avrà cura del ragazzo.» Così dicendo, si addormentò. Il mattino dopo si sentì guarita e abbastanza in forze per tornare a lavare, così almeno credeva. Era appena entrata nell'acqua gelida quando le vennero i brividi e si sentì debole. Annaspò disperatamente, fece un passo per risalire e cadde in acqua. Aveva la testa sulla terra asciutta, mentre i piedi stavano nel ruscello; gli zoccoli di legno che aveva quand'era in acqua e che aveva riempito di paglia per tenersi calda galleggiavano spinti dalla corrente. Venne trovata così dalla vecchia Marietta che le stava portando un caffè. Il giudice le aveva detto che la lavandaia doveva recarsi immediatamente da lui, perché aveva qualcosa da dirle. Ma era troppo tardi. Venne chiamato il barbiere per fare un salasso; la lavandaia era morta. «È morta per il troppo bere!» commentò il giudice. Alla lettera che annunciava la morte del fratello era stata allegata copia del testamento: seicento talleri dovevano essere dati alla vedova del guantaio, che una volta era stata a servizio dai genitori. Il denaro poteva venir diviso, come meglio credevano, tra lei e il figlio. «C'è stato certo qualcosa tra lei e mio fratello!» disse il giudice. «Per fortuna che lei ormai se n'è andata, il ragazzo riceverà tutta la somma e io lo metterò a lavorare da gente onesta, così diventerà un bravo artigiano.» Il Signore benedisse quell'augurio. Il giudice chiamò a sé il ragazzo, gli promise che avrebbe avuto cura di lui e gli disse che era un bene che sua madre fosse morta, dato che non era buona a nulla. Fu portata al cimitero, al cimitero dei poveri. Marietta piantò una pianta di rose sulla tomba e il ragazzo le stava vicino. «La mia cara mamma!» esclamò tra le lacrime «è proprio vero: non era buona a nulla!» «Ti sbagli, era buona, invece» rispose la vecchia guardando verso il cielo. «Lo so da tanto tempo e soprattutto dall'ultima notte. Te lo dico io che era buona! e lo dice anche Nostro Signore che sta nel regno dei cieli. Lascia che gli altri dicano: "Non era buona a nulla!."» 20. HOLGER IL DANESE In Danimarca c’è un antico castello chiamato Kronborg. Sta sulla costa dell’OereSund, attraversato da centinaia di grandi navi – inglesi, russe, prussiane e molte altre. E quelle salutano l’antico castello con il loro cannone: « Bum!», e il castello risponde al loro saluto col cannone «Bum!», perché questo è il modo in cui i cannoni dicono «Buongiorno!» e «Molte grazie!». D’inverno però non passano le navi: tutto è coperto di ghiaccio fino alla terra svedese, ma tutto è ugualmente in ordine come una strada maestra; lì sventolano la bandiera danese e la bandiera svedese, e il popolo danese e quello svedese si dicono « Buongiorno!» e «Molte grazie!» ma non con i cannoni, no di certo, ma con una gentile stretta di mano, e l’uno va a prendersi il pane di frumento e le ciambelle dall’altro, perché il cibo degli altri è sempre più buono. Ma lo splendore di tutto questo è l’antico Kronborg, ed è nei suoi sotterranei profondi e bui, dove non va nessuno, che sta seduto Holger il Danese; è vestito di ferro e d’acciaio e appoggia la testa sulle braccia forti; la sua lunga barba pende dal tavolo di marmo al quale ormai si è attaccata, e lui dorme e sogna, ma in sogno vede tutto ciò che accade quassù in Danimarca. Ogni notte di Natale arriva un angelo di Dio e gli dice che tutto quello che ha sognato è vero, e che può addormentarsi di nuovo, perché la Danimarca non corre ancora alcun vero pericolo! Ma se dovesse trovarcisi, ebbene, allora il vecchio Holger il Danese si alzerà e spaccherà il tavolo, nel tirare la barba! Allora uscirà e i suoi colpi potranno essere uditi in tutti i paesi del mondo. Una cameriera delle cucine (unica a corte che sappia dove risieda) si dirige svelta nella foresta nel luogo dove l'uccello si trova. L'usignolo s'impegna a comparire a corte davanti all'imperatore. Questi si scioglie in lacrime ascoltando il canto dell'uccello, e decide di tenerlo in cattività, perché diventi la più grande attrattiva del suo palazzo. Un giorno, tuttavia, gli viene recapitato un pacco contenente un usignolo artificiale, in tutto simile a quello vero, tempestato di gioielli, rubini e diamanti. Un nastro attorno al collo del carillon reca la scritta: «Usignolo meccanico offerto in dono dall'imperatore del Giappone per l'imperatore cinese». Entusiasta, il sovrano fa esibire il finto uccello a corte, per confrontarlo con quello vero. Il carillon delizia i cortigiani - solo il pescatore riconosce che nel suo cinguettio manca qualcosa -, mentre quando giunge il turno del vero usignolo si scopre che questi è volato via. Tutti lo accusano di tradimento e lo dimenticano: la bestia artificiale, la cui melodia è perfetta ma sempre uguale, viene posta accanto al letto dell'imperatore. Dopo qualche anno, a causa dell'uso eccessivo, l'uccello meccanico si rompe; poco dopo l'imperatore s'ammala gravemente ed è ormai prossimo alla morte. Mentre si dibatte nel suo letto di dolore, assillato dal pensiero delle azioni compiute in vita, supplica il finto usignolo di scacciare i fantasmi e la morte con il suo canto, ma il giocattolo meccanico rimane muto. Improvvisamente, sopraggiunge il vero uccello. Persino la morte rimane talmente scossa dal suo canto da abbandonare in lacrime il corpo del malato, che così può prestamente guarire. Il sovrano, commosso, chiede al volatile come ricompensarlo, sentendosi rispondere che le lacrime di commozione versate un giorno a corte per lui dal sovrano lo hanno appagato assai più di qualsiasi ricchezza. Promette di tornare a cantare per l'imperatore in futuro, a patto che non riveli a nessuno da dove proviene la fonte della sua serenità e della sua rinascita. Così, alla fine della fiaba, i cortigiani entrano nella stanza dell'imperatore convinti di doverne constatare il decesso. Questi, in piena forma, augura loro il buongiorno. 9 A SCELTA 22. LE SCARPETTE ROSSE Karen è una bambina molto povera, costretta ad andare in giro scalza o al più con gli zoccoli; per aiutarla, la ciabattina del villaggio le confeziona un paio di scarpe rosse con degli stracci. Il destino vuole che le riceva proprio il giorno della morte della madre, e debba indossarle al funerale della donna. Passa di là una vecchia e ricca signora, decide di allevare Karen e la porta a casa propria, dandole nuovi abiti e buttando via le scarpette. Crescendo Karen diventa istruita, molto bella, ma anche vanitosa. Un giorno viene in visita in città la regina, e Karen rimane affascinata dalle scarpette di marocchino rosso indossate dalla principessina, infinitamente più belle di quelle fatte con gli stracci dalla ciabattina, e ne desidera un paio identiche. Con l'inganno riesce a indurre la madre adottiva a comprargliele per la cresima, complice la debole vista della vecchia signora. In chiesa Karen non segue la cerimonia, non riuscendo a pensare ad altro che alle proprie scarpette, nel frattempo i parrocchiani la osservano indignati, perché il rosso è indecente per una funzione religiosa. La madre adottiva si accorge dell'inganno solo in seguito, e ribadisce a Karen che in chiesa servono scarpe nere, ma la ragazza le disobbedisce la domenica successiva, il giorno della sua prima comunione. Prima di entrare in chiesa, se le fa pulire da un vecchio soldato storpio, che nota ad alta voce come siano delle "belle scarpette da ballo". Anche stavolta Karen si distrae pensando alle sue scarpe, dimenticandosi perfino di recitare il salmo e il Padre Nostro, anche stavolta nell'indignazione dei presenti. Ma all'uscita, il vecchio soldato ripete la frase, e improvvisamente Karen si mette a ballare senza sosta, come se le scarpe danzassero di loro spontanea volontà. Il cocchiere a fatica la carica sulla carrozza, ma il risultato è che le scarpette prendono a calci la signora, finché Karen non riesce finalmente a togliersele. Tempo dopo, la madre adottiva si ammala gravemente: Karen, anziché badare a lei, pensa di recarsi ad una grande festa da ballo, indossando le scarpette rosse. Ancora una volte le scarpe prendono il controllo delle sue gambe e la costringono a ballare incessantemente attraverso campi e valli, giorno e notte, e questa volta non riesce a togliersele. Giunta ad un cimitero, vede un angelo con una spada fiammeggiante che le ordina di danzare per sempre e di vagare di città in città, come monito per i giovani troppo vanitosi. Le scarpette la conducono a quella che era la sua casa, così che lei scopre che la sua anziana benefattrice è morta, ma poi la costringono a riprendere il suo viaggio. Un giorno Karen passa vicino alla casa del boia e lo implora di tagliarle i piedi con l'ascia: l'uomo esegue, e le scarpette incantate fuggono portandosi via i piedi mozzati della ragazza, e il carnefice le costruisce delle protesi in legno e due stampelle per consentirle di camminare. Karen si reca in chiesa a chiedere perdono, ma ogni volta appaiono le scarpette rosse che le sbarrano la strada danzando, ed ogni volta la ragazza fugge spaventata. Va allora alla casa del pastore e si mette al servizio della sua famiglia come domestica; ma ancora non vuole andare in chiesa, e resta chiusa nella sua stanza a pregare. Improvvisamente le appare nuovamente l'angelo, con in mano un ramo fiorito al posto della spada. Karen si ritrova per miracolo dentro la chiesa, senza capire se vi è stata portata dall'angelo o se è la chiesa stessa che è "venuta da lei". Il suo cuore è tanto pieno di gioia che si spezza, e la sua anima vola immediatamente in Paradiso, dove nessuno le chiede delle scarpette rosse. 23. LA FANCIULLA CHE CALPESTO’ IL PANE Inger è una bambina di umile origine ma molto orgogliosa e superba, fin da piccola inizia a manifestare cattiveria divertendosi a torturare gli insetti. Crescendo diventa una bella fanciulla e al contempo aumentano i timori della propria madre che teme di restare addolorata a causa del comportamento della figlia. Dopo essersi recata in campagna a servire in una famiglia molto distinta per circa un anno, la padrona la invita ad andare a trovare i propri genitori almeno una volta. Inger è stata accolta da quella famiglia come una figlia e tutta ben vestita accetta di andare a visitare i propri genitori, ma solo per mettersi in mostra di quanto era divenuta distinta. Giunta in paese vede la madre intenta a riposarsi dopo avere raccolto un fascio di legna nel bosco, decide così di tornare indietro, per vergogna di avere una madre stracciona. Passati altri sei mesi la padrona di casa invita nuovamente Inger ad andare a trovare i genitori, dandole un grosso pane bianco da portar loro in dono. Con indosso il vestito migliore e le scarpe nuove, la fanciulla si incammina verso il sentiero; quando lungo il percorso si imbatte in una zona paludosa e fangosa getta il pane sul fango per passarci sopra onde evitare di bagnarsi le scarpe. Ma pian piano, dopo avere messo un piede sul pane, Inger comincia a sprofondare fino a scomparire. La fanciulla è sprofondata fino ad arrivare dalla donna della palude che fa la birra, in un posto che è molto più ripugnante di una cloaca, pieno di vasche terribilmente maleodoranti, di rospi e grosse bisce. In quel momento il diavolo e la sua malvagia bisnonna stavano facendo visita alla donna della palude, e quando la bisnonna nota Inger e ne riconosce l'attitudine chiede di poterla portare all'inferno per usarla come statua all'ingresso del suo pronipote. La giovane viene a trovarsi in un luogo pieno di anime tormentate, e il suo stesso tormento consiste nello stare rigida come una statua fissata al pane che ancora si trova sotto i suoi piedi. Inger riesce a muovere solamente gli occhi e dopo un certo tempo comincia a patire la fame: ai suoi piedi si trova attaccato il pane ma lei, così immobilizzata, non può in alcun modo raccoglierne nemmeno un pezzetto. Nel frattempo sua madre piange addolorata la propria figlia e le sue lacrime la raggiungono fino all'inferno. Sopra, nel mondo terreno, si diffonde il racconto della fanciulla superba che calpestò il pane e viene pubblicamente biasimata per il suo comportamento malvagio. Un giorno una bambina, dopo avere udito la storia di Inger, si impietosisce scoppiando a piangere. Per la prima volta Inger non si era sentita incolpare e le parole di quella bambina innocente le toccano il cuore. Passati gli anni la madre di Inger, ancora addolorata per la figlia, muore e i padroni presso cui la giovane serviva diventano oramai vecchi. Quella bambina che tanti anni fa pianse amaramente per la sorte di Inger pure è invecchiata a adesso è in procinto di morire; dopo essere morta può vederla e scoppia in lacrime nel Regno dei Cieli come una bambina. Inger viene sopraffatta dall'amore divino, un raggio di luce brilla nell'abisso e tutto a un tratto Inger diventa un uccello che si alza in volo verso il mondo terreno rifugiandosi in buco in un muro diroccato. Può così ammirare in pieno tutta la bellezza del creato e quando va a mangiare le briciole di pane ne mangia solo un po' lasciando tutto il resto agli altri uccelli. Quando le briciole di pane che ha distribuito raggiungono il peso dell'intera pagnotta che Inger aveva schiacciato, l'uccello diventa una rondinella marina dalle ali bianche e sparisce nel cielo verso il Sole. 24. LA VERGINE DEI GHIACCI Viene narrata la vita di Rudy, un ragazzo che, avendo perduto entrambi i genitori, deve andare ad abitare insieme ad uno zio. La madre del giovane è rimasta uccisa cadendo in un crepaccio mentre stava tenendo in braccio Rudy, che poi è stato salvato attraverso un bacio della fanciulla dei ghiacci. Lungo tutto il corso dell'esistenza del bel Rudy, la giovane vergine dei ghiacci rimane incrollabile e fermamente protesa nei suoi tentativi di conquistarlo. Divenuto adulto, Rudy incontra e s'innamora di una ragazza benestante di nome Babette e stanno quasi per sposarsi quando la fanciulla di ghiaccio riesce finalmente a vincere il suo cuore. 25. L’UOMO DI NEVE La fiaba racconta di un pupazzo di neve che passa tutto il giorno a fissare l'interno della abitazione di chi l'ha costruito, potendo scorgere dalla finestra una stufa, di cui si dichiara innamorato con l'unica compagnia che sembra essere in grado di parlare con lui, un saggio cane. I giorni passano, e il pupazzo di neve continua a struggersi continuando a contemplare ed ammirare la stufa durante la notte (durante il giorno le finestre sono ghiacciate). Una volta che l'inverno finisce, l'uomo di neve si scioglie, ed il cane capisce finalmente il motivo del suo amore per la stufa. Il pupazzo era infatti costruito intorno ad un raschiatoio della stufa, e soffriva per la malinconia di non potersi riunire ad essa. 26. CINQUE IN UN BACCELLO C'erano cinque piselli in un baccello, erano verdi e anche il baccello era verde, così loro credevano che tutto il mondo fosse verde, e avevano pienamente ragione! Il baccello cresceva, e anche i piselli crescevano, così si assestarono secondo la conformazione della casa, mettendosi tutti in fila. Fuori il sole splendeva e riscaldava il baccello; la pioggia lo schiariva, c'era bel caldo e si stava bene, era chiaro di giorno e buio di notte proprio come doveva essere, e i piselli diventavano sempre più grossi e pensavano sempre di più: se ne stavano sempre lì seduti, qualcosa dovevano pur farla! «Dobbiamo restare qui per sempre?» si chiedevano «purché non diventiamo duri a star seduti così a lungo! Mi sembra quasi che ci sia qualcosa fuori di qui; ne ho la sensazione!» E passarono diverse settimane; i piselli ingiallirono e anche il baccello si fece giallo. «Tutto il mondo sta diventando giallo!» dissero, e ne avevano il motivo. Poi sentirono una scossa al baccello; era stato strappato dalla pianta preso in mano e messo nella tasca di una giacca insieme a molti altri baccelli ancora pieni. «Tra poco ci apriranno!» esclamarono, e si misero a aspettare. «Mi piacerebbe sapere chi di noi andrà più lontano!» disse il pisello più piccolo. «Tra breve si vedrà!» «Succeda quel che deve succedere!» replicò il più grande. 28. LA MARGHERITINA Ascolta un po'! Laggiù in campagna, vicino alla strada, si trovava una villa, l'hai certamente vista qualche volta. Proprio davanti c'è un giardinetto con vari fiori e un cancello dipinto; vicino al fossato, in mezzo a un bel prato verde, era cresciuta una margheritina; il sole splendeva caldo su di lei così come sui grandi fiori da giardino, e per questo il fiorellino cresceva molto in fretta. Una mattina era tutta sbocciata con i suoi piccoli petali bianchi luminosi, che sembravano raggi disposti intorno al piccolo sole giallo del centro. La margheritina non pensava certo che nessuno l'avrebbe notata lì nell'erba, e neppure pensava di essere un povero fiore disprezzato; no, si sentiva contenta e si voltò verso il caldo sole, volse lo sguardo verso l'alto e ascoltò l'allodola che stava cantando. La margheritina era così felice che le sembrava un giorno di festa; in realtà era solo lunedì e tutti i bambini erano a scuola; mentre quelli erano seduti nei loro banchi e imparavano qualcosa, il fiorellino se ne stava fermo sul suo piccolo gambo verde e imparava dal sole caldo e da tutto quel che la circondava quanto fosse buono Dio, e le piaceva che l'allodola cantasse così bene e così chiaramente tutto quello che lei stessa sentiva in silenzio; guardava con una certa riverenza verso quel fortunato uccello, che poteva cantare e volare, ma non era triste per il fatto di non poterlo fare lei stessa. "Io posso vederlo e ascoltarlo!" pensava. "Il sole splende su di me e il vento mi bacia! Oh, quanti doni mi sono stati concessi!." Dietro il cancello si trovavano molti fiori, rigidi e aristocratici, e quanto meno profumo avevano, tanto più si sentivano importanti. Le peonie si gonfiavano per diventare più grandi delle rose ma non era certo la grandezza che importava! I tulipani avevano i colori più belli e lo sapevano bene, e stavano ben diritti per farsi notare meglio. Tutti quei fiori non notarono affatto la giovane margheritina che si trovava fuori, ma lei invece li guardava continuamente e pensava: "Come sono belli e ricchi! Sicuramente quello splendido uccello volerà giù da loro! Grazie a Dio, io sono così vicina che potrò vedere quello splendore!" e mentre pensava così "quirrevit!" arrivò l'allodola in volo, che non si posò sulle peonie o sui tulipani, bensì giù nell'erba, dalla povera margheritina; e lei fu così turbata da quella gioia che non riuscì più a pensare. L'uccellino le danzò intorno cantando: «Oh! com'è tenera l'erba! e che grazioso fiorellino col cuore d'oro e l'abito argentato!». Il bottone giallo della margheritina sembrava proprio d'oro e i piccoli petali bianchi luccicavano come argento. Nessuno può immaginare quanto fosse felice la piccola margheritina! L'uccellino la baciò col suo becco, cantò per lei e poi volò di nuovo in alto, verso il cielo azzurro. Ci volle più di un quarto d'ora prima che il fiorellino si riprendesse. Un po' vergognosa, ma anche profondamente felice, la margheritina guardò verso i fiori del giardino: avevano visto l'onore e la beatitudine che le erano toccati, potevano certo immaginare quale gioia fosse per lei; ma i tulipani erano ancora più dritti di prima e erano arcigni e rossi in volto, perché si erano arrabbiati. Le peonie invece erano gonfie in viso, per fortuna non potevano parlare, altrimenti la margheritina le avrebbe proprio sentite! Il povero fiorellino capì che non erano di buon umore e se ne dispiacque molto. In quel momento giunse in giardino una ragazza con un grosso coltello, affilato e lucente; si diresse verso i tulipani e li recise tutti, uno dopo l'altro. "Uh!" sospirò la margheritina "è terribile, per loro è finita!" E così la ragazza se ne andò con i tulipani. La margheritina si rallegrò di trovarsi fuori dal giardino, tra l'erba, e di essere un povero fiorellino: se ne sentì riconoscente, e quando il sole tramontò, richiuse i petali e si addormentò sognando per tutta la notte il sole e l'uccellino. Il mattino dopo, quando il fiore riaprì i bianchi petali come piccole braccia verso l'aria e la luce, riconobbe la voce dell'uccello, ma come era doloroso il suo canto! E la povera allodola aveva ragione di essere così triste: era stata catturata e ora si trovava in una gabbia posta vicino a una finestra aperta. Cantava di poter volare libera e felice, cantava del giovane grano verde dei campi e dello splendido viaggio che poteva intraprendere nell'aria. Il povero uccello non era certo di buon umore, rinchiuso com'era nella gabbia. La margheritina avrebbe voluto aiutarlo, ma come poteva fare? Non era facile trovare il modo. Dimenticò subito le bellezze che la circondavano, il sole caldo che splendeva, dimenticò com'erano graziosi i suoi petali bianchi, pensava solo all'uccello rinchiuso, per il quale non era in grado di fare nulla. In quel mentre giunsero due ragazzetti dal giardino; uno di loro aveva in mano un coltello, grosso e affilato come quello usato dalla ragazza per tagliare i tulipani. Si dirigevano proprio verso la margheritina, che non riusciva a immaginare che cosa volessero. «Qui possiamo prendere una bella zolla d'erba per l'allodola» disse uno dei ragazzi, e cominciò a tagliare un quadrato di terra, proprio intorno alla margheritina, che così si trovò in mezzo alla zolla. «Strappa quel fiore» disse uno dei ragazzi, e la margheritina cominciò a tremare di paura, perché essere strappata significava perdere la vita e lei ora desiderava vivere e entrare nella gabbia dell'allodola con la zolla di erba. «No, lasciala» rispose l'altro ragazzo «ci sta così bene!» e così il fiore restò lì e giunse nella gabbia dell'allodola. Ma il povero uccello si lamentava a voce alta della libertà perduta e batteva con le ali contro le sbarre della gabbia; la margheritina non poteva parlare, non poteva dirgli una sola parola di conforto, come pure desiderava tanto. Così passò tutta la mattina. «Qui non c'è acqua» disse l'allodola prigioniera. «Tutti sono usciti e non mi hanno dato una sola goccia d'acqua; ho la gola secca e infuocata, c'è fuoco e ghiaccio dentro di me e l'aria è così pesante! Ah, devo morire, lasciare il sole caldo, il fresco verde, tutte quelle bellezze che Dio ha creato!» e intanto affondava il becco nella fresca zolla d'erba, per refrigerarsi un po'; in quel momento il suo sguardo si posò sulla margheritina e l'uccello le fece un cenno di saluto, la baciò con il becco e esclamò: «Anche tu dovrai appassire qui dentro, povero fiorellino! Mi hanno portato te e la piccola zolla d'erba al posto del mondo intero che avevo là fuori! Ogni stelo d'erba è per me come un albero verde, ognuno dei tuoi petali bianchi un fiore profumato! Ah, voi mi ricordate quanto ho perduto!» "Se solo potessi consolarlo!" pensava la margheritina, ma non poteva muovere neppure un petalo. Tuttavia, il profumo che i sottili petali emanavano era molto più intenso di quello che di solito hanno le margherite; e anche l'uccello lo notò tanto che, sebbene stesse morendo di sete e nella sua disperazione strappasse ogni filo d'erba, non toccò affatto il fiorellino. Venne sera, ma ancora nessuno portò acqua al povero uccello; l'allodola allora allargò le belle ali, le agitò convulsamente, e il suo canto divenne un malinconico cip-cip, la testolina si piegò sul fiore e il cuore dell'uccello si spezzò per inedia e nostalgia; e il fiore non potè chiudere i petali e dormire, come faceva ogni sera, ma si piegò malato e triste verso la terra. Solo il mattino dopo giunsero i ragazzi e, vedendo che l'uccello era morto, piansero, piansero a lungo e lo seppellirono in una graziosa fossa che ornarono con petali di fiori. Il corpo dell'uccello fu posto in una bella scatola rossa; doveva avere un funerale da re quel povero uccellino! Quando era vivo e cantava, lo avevano dimenticato, abbandonato nella gabbia a soffrire di nostalgia; ora ricevette onori e molte lacrime. Ma la zolla di terra con la margheritina fu gettata via, nella polvere della strada. Nessuno pensò a lei, che aveva sofferto più di tutti per l'uccellino e che avrebbe tanto voluto consolarlo. 29. L’ANGELO "Ogni volta che un bambino buono muore, scende sulla terra un angelo del Signore, prende in braccio il bimbo morto, allarga le grandi ali bianche e vola in tutti i posti che il bambino ha amato, poi coglie una manciata di fiori, che porta a Dio affinché essi fioriscano ancora più belli che sulla terra. Il buon Dio tiene i fiori sul suo cuore, ma a quello che ha più caro di tutti dà un bacio, e questo riceve la voce e può cantare col coro dei beati." Tutto questo veniva raccontato da un angelo del Signore, mentre portava un bambino morto in cielo, e il bambino lo sentiva come in sogno; e volavano per la casa, nei luoghi dove il bambino aveva giocato, e poi nei deliziosi giardini pieni di fiori bellissimi. "Quale dobbiamo prendere da piantare in cielo?" chiese l'angelo. Nel giardino si trovava un alto roseto, ma un uomo cattivo aveva spezzato il fusto, così tutti i rami, pieni di grandi gemme sbocciate a metà, si erano piegati e appassivano. "Povera pianta," disse il bambino, "prendi quella, così potrà fiorire presso Dio!" E l'angelo raccolse quella pianta, e diede un bacio al bambino, così egli aprì un po' gli occhietti. Colsero quei magnifici fiori, ma presero anche la disprezzata calendula e la selvatica viola del pensiero. "Adesso abbiamo i fiori!" disse il bambino, e l'angelo annuì, ma ancora non volarono verso Dio. Era notte e c'era silenzio; rimasero nella grande città e volarono in una delle strade più strette, dove si trovava un mucchio di paglia, cenere e spazzatura: c'era stato un trasloco; dappertutto c'erano pezzi di piatti, schegge di gesso, cenci e vecchi cappelli sgualciti, tutte cose molto brutte. E l'angelo indicò, in tutta quella confusione, alcuni cocci di un vaso di fiori; lì vicino c'era una zolla di terra che era caduta fuori dal vaso, ma che era rimasta compatta a causa delle radici di un grande fiore di campo appassito, che non valeva più nulla e per questo era stato gettato. "Portiamolo con noi!" disse l'angelo, "poi, mentre voliamo, ti racconterò perché." E così volarono e l'angelo raccontò: "Laggiù, in quella strada stretta, in un seminterrato, viveva un povero ragazzo ammalato; fin da piccolo era rimasto sempre a letto, quando proprio si sentiva bene poteva camminare per la stanza con le stampelle, ma non poteva fare altro. In certi giorni d'estate i raggi del sole arrivavano per una mezz'ora nella stanzetta del seminterrato, allora il ragazzino si metteva seduto a sentire il caldo sole su di lui e guardava il sangue rosso che scorreva nelle sue dita sottili, che teneva davanti al viso; in quei giorni si poteva dire: "Oggi il piccolo è uscito!." Conosceva il verde primaverile del bosco solo perché il figlio del vicino gli portava il primo ramo di faggio con le foglie e se lo alzavano sul capo e sognava di trovarsi sotto i faggi col sole che splendeva e gli uccelli che cantavano. Un giorno di primavera il figlio del vicino gli portò anche dei fiori di campo, e tra questi ce n'era per caso uno ancora con le radici: perciò fu piantato in un vaso e messo sulla finestra vicino al letto. Il fiore, piantato da una mano amorevole, crebbe, mise nuovi germogli e ogni anno fiorì. Questo divenne il giardino meraviglioso del ragazzo malato, il suo piccolo tesoro sulla terra. Lo bagnava e lo curava e si preoccupava che ricevesse anche l'ultimo raggio di sole, che penetrava dalla bassa finestrella; e il fiore cresceva anche nella fantasia del ragazzo, perché fioriva per lui, per lui emanava il suo profumo e gli rallegrava la vista. E quando il Signore chiamò il ragazzo, egli si volse, morendo, verso quel fiore. Da un anno è ormai presso Dio, e per un anno intero il fiore è rimasto abbandonato sulla finestra e è appassito. Per questo è stato gettato tra la spazzatura durante il trasloco. E proprio quel fiore, quel povero fiore appassito noi l'abbiamo messo nel nostro mazzo, perché quel fiore ha portato più gioia che non il più bel fiore del giardino reale." "Ma come sai tutte queste cose?" domandò il bambino che l'angelo portava in cielo. "Lo so, perché ero io stesso quel povero ragazzo malato che camminava con le stampelle!" spiegò l'angelo. "E conosco bene il mio fiore!" Il bambino spalancò gli occhi e guardò il viso bello e felice dell'angelo; in quel momento giunsero in cielo, dove c'era gioia e beatitudine. Dio strinse al cuore il bambino morto e subito gli spuntarono le ali, come all'altro angelo, e insieme volarono via, tenendosi per mano.
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