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file completo neuropsichiatria infantile di tutte le lezioni, Appunti di Neuropsichiatria infantile

TRASCRIZIONE DI TUTTE LE LEIONI in un file word in pdf creato da me completo di TUTTE le lezioni di neuropsichiatria infantile. Ben fatto, corretto, coerente e completo di tutte le immagini necessarie per il completamento e approfondimento dello studio utile per lo studio approfondito della materia. Spero possa essere utile a tutti! Un buono studio, se vi è stato utile lascia una recensione positiva!!

Tipologia: Appunti

2021/2022

In vendita dal 28/06/2023

_alice.ferrari_
_alice.ferrari_ 🇮🇹

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Scarica file completo neuropsichiatria infantile di tutte le lezioni e più Appunti in PDF di Neuropsichiatria infantile solo su Docsity! La neuropsichiatria infantile è una disciplina assai complessa che vede coinvolte scienze mediche e umanistiche, interessandosi di quadri psichiatrici e psicologici nell’ambito dell’eta’ evolutiva. Per affrontare con cura l’età evolutiva necessario avere una preparazione adeguata su infanzia e adolescenza dal punto di vista medico, pediatrico, anatomico e fisiologico, senza dimenticare la psicologia dello sviluppo. Ambiti di indagine: • Patologie neurologiche (epilessia, malattie neuromuscolari, ecc.) • Patologie psichiatriche (disturbi d’ansia, ossessioni, ecc.) Di per sé le ritroviamo anche nell’adulto, ma cosa ci spinge a questa specifica disciplina? Quando parliamo di età evolutiva parliamo di un sistema in crescita, in fase di attiva maturazione del sistema nervoso: questo determina importanti peculiarità nella diagnosi e nel decorso di malattie che possono vedersi anche nell’adulto. Ciò che si ritiene valido per l’adulto non è detto lo sia per il bambino, che non va trattato come un piccolo adulto, ma come soggetto con una struttura neurobiologi ca e neurofunzionale non ancora del tutto definita. Questo comporta necessariamente una modalità di approccio differente sia per quanto riguarda la diagnosi sia per la scelta dell’iter terapeutico (diverso in base all’esigenza del periodo). Il contributo della neuropsichiatria infantile è fondamentale per: Interfacciarsi con la rete di figure intorno al bambino Effettuare valutazione clinica Fare diagnosi Strutturare un percorso terapeutico (riabilitazione, neuropsicomotricità, logopedia, psicomotricità relazionale, psicoterapia, ecc.) Prescrivere trattamenti farmacologici in affiancamento alla riabilitazione Firmare la documentazione necessaria per attivare il sostegno scolastico (il neuropsichiatra infantile e’ la figura indispensabile per poter completare questa procedura) “Disturbo”, “malattia”, “sindrome” sono termini che incontrerete spesso in questo insegnamento, occorre pertanto fare una doverosa specifica prima di addentrarci nella materia: MALATTIE: causa chiara e riconoscibile DISTURBI: esternalizzanti o internalizzanti SINDROMI: NO causa chiara e riconoscibile (termine introdotto da Ippocrate, si riferisce ad un insieme di sintomi, che nella loro combinazione rimandano ad uno specifico e conosciuto quadro clinico) NON SONO LA STESSA COSA! (ATTENZIONE ALL’UTILIZZO SPESSO IMPROPRIO DI QUESTI TERMINI) Con il termine si indica lo stato di sofferenza di un organismo in toto o di sue parti, prodotto da una causa che lo danneggia, e il complesso dei fenomeni reattivi che ne derivano. Elemento essenziale del concetto di m. la sua transitorie, il suo andamento evolutivo verso un esito, che puo’ essere la guarigione, la morte o l’adattamento a nuove condizioni di vita. Con il termine si indica nel linguaggio scientifico e tecnico, perturbazione di più o meno grande entita’, del normale andamento di un fenomeno, del normale funzionamento di un dispositivo o di una macchina, e simili. Dal latino disturbare (e sturbàre), scompigliare, anche turbare oppure infastidire. Il termine indica stati d'animo o comportamenti temporanei relativi alle persone o all'ambiente. I disturbi possono essere esternalizzanti o internalizzanti. Si parla di disturbi esternalizzanti quando il bambino o l’adolescente proietta il suo malessere all’esterno attraverso comportamenti problematici. Si assiste pertanto a comportamenti connotatati delle seguenti caratteristiche: Aggressivita Oppositivita Trasgressione norme sociali Passaggi all’atto e aggressione verbale per soddisfare i propri bisogni, ritenuti prioritari rispetto a quelli altrui. Tali comportamenti possono rientrare in breve periodo o cronicizzarsi assumendo caratteristiche estreme e con conseguenze nocive non solo Il tema del sintomo del dolore è molto più ampio e complesso di quanto sembri, tanto da meritare un corso a sé, ma facciamo ancora l’esempio dei bambini. A tutti sarà capitato di vivere da bambini (se lo avete conservato in memoria) o di vedere un bambino farsi male: avrete notato che, in base al rimando emotivo che gli viene offerto, reagirà con un enorme ed incontenibile pianto (amplificazione del sintomo del dolore) o con indifferenza (minimizzazione del sintomo del dolore). La psichiatria è più attenta al segno, mentre la psicanalisi parte proprio dal sintomo connesso all’esperienza vissuta dal soggetto. Certo è che se non viene posta la giusta attenzione ai sintoni, possono diventare segni. Il sistema nervoso è composto da una serie di strutture che consentono l’interazione tra l’ambiente interno (corpo delimitato dalla pelle) e quello esterno (mondo che ci circonda). Tali strutture permettono alle informazioni di entrare attraverso i sensi e di essere elaborate dal punto di vista sensoriale, percettivo e cognitivo, consentendo, in definitiva, un continuo e costante adattamento tra l’interno e l’esterno del corpo. Ad esempio, la luce di per sé non esiste: esiste solo perché qualcuno è in grado di percepirla. L’universo è infatti buio senza l’essere, umano o animale, che riesce a elaborare le frequenze luminose. Su questo punto basti pensare a come vedono molti animali, ovvero in scala di grigi, e come vede l’essere umano, ovvero a colori. La percezione della luce e del colore è pertanto mediata dalle strutture nervose (si pensi ancora a come un daltonico vede un semaforo rispetto a una persona non affetta da daltonismo), senza le quali la luce cadrebbe su un oggetto inerte (ad es., un sasso) che non può elaborarla. In generale possiamo suddividere il sistema nervoso in centrale, periferico e autonomo, a sua volta suddiviso in simpatico e parasimpatico. In letteratura è stato proposto un’altra componente del sistema nervoso autonomo, quella enterica, ma non tutti gli anatomisti hanno convenuto con questa posizione e, pertanto, seguiremo la suddivisione canonica. A capo di tutto il sistema c’è l’encefalo, composto a sua volta da cervello, cervelletto e tronco dell’encefalo. Tutte queste strutture sono costituite da miliardi di neuroni, li riprenderemo in seguito. Il cervello è composto da due emisferi, destro e sinistro, collegati principalmente, ma non solo, dal corpo calloso. Ciascun emisfero è composto da una sostanza grigia a una sostanza bianca. La colorazione grigia è data dalla fitta densità di corpi neurali. La fitta densità di corpi neuronali che avvolgono gli emisferi prende il nome di corteccia cerebrale; la sostanza bianca è data dai prolungamenti dei neuroni, detti assoni. Il tronco dell’encefalo è composto da tre zone: mesencefalo, ponte e bulbo. Il cervelletto, chiamato così perché molto simile, seppur più piccolo, rispetto al cervello: è una struttura estremamente complessa dotata di due emisferi (cerebellari) Tutte queste strutture, a vario titolo, concorrono all’elaborazione dei segnali in ingresso e a produrre risposte. Risposte che possono essere chiaramente visibili, come può essere correre lontano da un pericolo, o non chiaramente visibili, come può essere l’aumento del battito cardiaco. Per trasferire le informazioni dall’encefalo a tutto il corpo e, in particolare, alle centinaia di muscoli, esiste il midollo spinale, alloggiato all’interno della colonna vertebrale, da cui partono i cosiddetti nervi spinali. Caliamo tutto in un rapido esempio. Supponiamo di avere la mano poggiata su un tavolo e di dover attendere una vibrazione a occhi chiusi. Quando questa arriva, dobbiamo aprire gli occhi, alzare la mano dal tavolo e premere un bottone posto all’altezza dei nostri occhi. Quello che accade è che l’informazione vibratoria dapprima entra nei recettori della nostra mano per poi raccogliersi in una serie di nervi spinali fino a raggiungere il midollo spinale. Da qui, l’informazione, attraverso vie molto complesse, risale verso il cervello. Solo a questo punto quella vibrazione diventa cosciente. Ricordiamo qual era il nostro compito e quindi apriamo gli occhi, alziamo la mano e premiamo il pulsante. Quest’ultima frase ci appare di una banalità sconcertante, ma invece è di altrettanta sconcertante complessità. Innanzitutto per fare ciò che dobbiamo fare dobbiamo ricordare il mandato e, per questo, il cervello deve già iniziare a mettere una serie di informazioni assieme: quella vibratoria che ha raggiunto un’area particolare, estrarre da altre aree l’informazione mnemonica, inviare le informazioni ad altre aree ancora deputate all’apertura degli occhi e ai complessi movimenti della mano: è necessario infatti non solo grossolanamente alzare la mano dal tavolo, ma anche a una certa altezza, con una certa velocità, flettendo determinate articolazioni e non altre, centrando con precisione il bottone. Per fare questo concorrono numerosissime strutture, tra cui il già citato cervelletto e i gangli della base. Questi ultimi sono ammassi di sostanza grigia posti all’interno di ciascun emisfero e sono deputati alla regolazione del movimento per forza applicata, intensità e finezza. Il cervelletto si preoccuperà, invece, di coordinare l’attivazione delle articolazioni (ad es., prima apriamo le dita e poi afferriamo un bicchiere; non ci avviciniamo al bicchiere con un pugno chiuso per poi aprire le dita e afferrarlo), di mantenere un corretto equilibro posturale e impedire, assieme ai gangli della base, che intervengano altri movimenti non necessari e, anzi, deleteri a completare il compito. Il cervelletto può essere inoltre paragonato a un’enorme biblioteca dove sono scritti tutti i nostri movimenti appresi e affinati nell’arco della vita. Per questo andare in bicicletta è difficile all’inizio, ma una volta imparato è possibile per tutta la vita senza doverlo riapprendere. Il cervelletto, in altre parole, “legge” il movimento che è stato “pensato” all’interno del cervello e grazie alle informazioni che derivano dall’esterno e verifica passo passo che quel movimento sia effettuato nel modo giusto. In alternativa si preoccupa, in prima battuta, di correggerlo. Se camminando inciampiamo e non cadiamo perché il corpo cerca un equilibrio rapidissimo lanciando l’altro piede in avanti al fine di allargare la base d’appoggio, lo dobbiamo al cervelletto. I gangli della base, invece, ci consentono in modo che ha quasi del magico di guardare, ad esempio, un bicchiere pieno d’acqua e di applicare l’esatta forza per alzarlo: né più né meno. E se nello stesso bicchiere qualcuno anziché versare dell’acqua versasse del piombo? Senza alcuno sforzo logico o di ragionamento applicheremmo la forza ora necessaria per alzarlo: né più né meno. Se scriviamo in modo così raffinato con la penna o con la tastiera dei nostri smartphone, se camminando alterniamo le braccia, se giochiamo con precisione estrema con un piccolo oggetto tra le dita, lo dobbiamo ai gangli della base. Bene, tutte queste informazioni, dicevamo, una volta elaborate, devono essere inviate ai muscoli. Per fare questo, viaggiano lungo il midollo spinale e, da qui, attraverso i nervi, i comandi motori ci consentono il movimento. Il midollo spinale è un’ininterrotta struttura che è però formata da 31 metameri spinali. Ciascun metamero spinale è composto da due radici anteriori e due radici posteriori. L’unione di una radice anteriore e una radice posteriore forma il nervo spinale che ha due componenti: una motoria e una sensitiva. Intuitivamente, ma anche fisiologicamente, quella motoria è deputata a trasportare le informazioni dal centro alla periferia, quella sensitiva dalla periferia al centro. Non abbiamo usato dall’esterno all’interno perché sarebbe stata solo una verità parziale. Ad esempio, il dolore che possiamo sentire dentro di noi a causa di un crampo a un muscolo è trasportato dai nervi sensitivi. Altri nervi sensitivi si occupano, invece, di raccogliere le informazioni dall’esterno, come può essere un tocco al piede, la luce o un suono. Un danno completo al midollo spinale è gravissimo e comporta l’interruzione delle informazioni da e verso il cervello. Può causare varie disabilità e perfino la morte. Fino a pochi anni fa si pensavano come danni permanenti, mentre ora le neuroscienze stanno facendo promettenti passi in avanti. Alcune persone sono tornate a camminare dopo un danno midollare, certo non come faremmo noi, ma questo apre molte speranze per il futuro. In totale possiamo contare 62 nervi spinali che, per convenzione, essendo speculari, sono enumerati a coppie. Abbiamo quindi 31 coppie di nervi spinali derivanti da 31 metameri spinali: 8 cervicali (C1-C8), 12 toracici (T1-T12), 5 lombari (L1-L5), 5 sacrali (S1-S5) e 1 coccigeo (Co1; si veda l’immagine precedente). Senza entrare in ulteriori dettagli, basti sapere che il midollo spinale non decorre per tutta la colonna vertebrale, ma si ferma un po’ prima, tra la prima e la seconda vertebra lombare. Questo fatto curioso è dovuto a una differente velocità e arresto di crescita di scheletro e midollo spinale. Danni al di sopra della prima vertebra lombare sono via via più gravi man mano che ci si avvicina, verso l’alto, al cranio. Ad esempio, un danno all’altezza della prima vertebra cervicale è incompatibile con la vita. alta. Più complesso è il sistema nervoso simpatico (che è anche formato da molti nervi distinti) poiché presenta anche numerosi plessi. Le fibre del simpatico nascono dalle porzioni dorso-lombari del midollo spinale (dal metamero T1 al metamero L3) e da ammassi di corpi cellulari posti appena al di fuori del midollo spinale. Da ciascun ganglio partono fibre nervose dette rami comunicanti se raggiungono i nervi spinali e viscerali se raggiungono direttamente un organo. Nella prossima immagine, tratta da treccani.it, è schematizzato il sistema nervoso simpatico. Come si potrà apprezzare ciascun nervo simpatico ha il compito di stimolare specifici organi. Il sistema nervoso simpatico è per lo più attivante e prepara il corpo alla fuga, all'attacco. Il ritmo cardiaco aumenta, le pupille si dilatano e la cute è sudata. Il sangue viene deviato dalla cute all'intestino e diretto verso i muscoli scheletrici. Gli sfinteri del tratto gastroenterico ed urinari rimangono chiusi. Aumenta la pressione arteriosa, dilata le arterie e le arterie coronarie, contrae i vasi sanguigni periferici, consente l’aumento della produzione di saliva e adrenalina. Come si sarà compreso i due sistemi agiscono su quasi tutti gli stessi organi con risultati opposti. Di seguito una tabella riassuntiva di questi effetti. La corteccia cerebrale può essere classicamente suddivisa in lobi, esattamente sei: frontale, parietale, temporale, occipitale, limbico, dell’insula. Gli ultimi due sono profondi e non visibili dall’esterno del cervello, come nell’immagine seguente. All’interno di ogni lobo è possibile riconoscere specifiche aree dedicate a specifiche funzioni. Ad esempio, nella corteccia frontale si possono trovare, davanti alla cosiddetta scissura di Rolando, l’area motoria primaria, necessaria a dare il via al movimento volontario o l’area della produzione del linguaggio (area di Broca). Nel lobo parietale, invece, è possibile rintracciare la corteccia somatosensitiva, area dove giungono, in prima istanza, tutte le nostre percezioni somatosensoriali come il tatto, la temperatura, la pressione ecc. Nel lobo occipitale sono rintracciabili le aree visive e in quello temporale le aree uditive o l’area della comprensione del linguaggio (area di Wernicke). Le cose sono enormemente più complesse e non si deve incorrere nel rischio di pensare al cervello come una struttura a compartimenti stagni: tutt’altro, le aree tra di loro sono fortemente interconnesse. La corteccia cerebrale, invece, che ricordo essere la parte più esterna del cervello, viene suddivisa anche a seconda dello spessore. Generalmente presenta sei strati, dove lo strato 1 è il più esterno e il 6 il più interno. Nella figura che segue (su gentile concessione del prof. De Giorgio Andrea ) è possibile osservare la sezione di corteccia cerebrale con le sueb suddivisioni dall’esterno (strato 1) all’interno (strato 6). Attraverso una complicata preparazione è infatti tecnicamente possibile colorare i corpi dei neuroni, evidenziarne la posizione e suddividere così gli strati corticali. Nella foto è visibile in modo netto il confine, ad esempio, tra lo strato 1 e gli strati 2-3 (sono sovente citati assieme per ragioni che è qui complesso descrivere), meno tra gli strati 2-3 e il 4, anche se, naturalmente, non sfuggono in modo evidente all’occhio allenato di un neuroscienziato. Grazie a studi neuroanatomici come questo è stato possibile definire così tre tipi di corteccia: • Corteccia agranulare : rappresentata dagli strati 4 e 5. Si tratta di una corteccia adatta a mediare le efferenze. Esempio ne è l’area motoria. • Corteccia granulare : caratterizzata soprattutto dallo strato 4. È un tipo di corteccia adatto a ricevere le afferenze (viene anche definita, infatti, talamo-recipiente). Esempi possono essere le aree somatosensitiva, uditiva e visiva primaria. • Corteccia associativa : vi è un sostanziale equilibrio tra gli strati ed i tipi cellulari. Non essendo particolarmente coinvolta in afferenze o efferenze essa si occupa nell'integrare le funzioni superiori. Hanno connessioni cortico-corticali, afferenz atalamiche ed efferenze sottocorticali. Quindi, in sintesi: Ad ogni modo, torniamo alla prima modalità di suddivisione. Questa è dovuta al neuroscienziato Brodmann e risale agli inizi del 1900. Brodmann ha suddiviso la corteccia in numerose aree seguendo criteri strettamente citoarchitettonici (cioè, come è organizzata la corteccia al suo interno, proprio seguendo l’andamento degli strati descritti in precedenza) e ha un corrispettivo funzionale talmente preciso che ancora oggi viene usato come base di studio per la corteccia cerebrale. Per fare un esempio, nell’immagine sotto, possiamo vedere l’area 6 (premotoria), l’area 4 (motoria primaria) e la 3-2-1 (anche se classicamente è 3-1- 2; area somatosensitiva primaria), l’area 17 (visiva primaria), aree 18 e 19 (associative visive). Nell’immagine è rappresentato l’emisfero sinistro, ma a destra troviamo una perfetta corrispondenza, anche se solo dal punto di vista macroscopico. Vista la sua enorme complessità, affrontiamo in modo sommario la trattazione di qualcuna di queste aree poiché tornerà utile lungo il corso. • Area motoria • Area somatosensitiva • Area visiva • Aree del linguaggio L’area motoria primaria è detta anche M1 o area 4 di Brodmann. La possiamo riconoscere facilmente perché è posta subito davanti alla scissura centrale. Da essa originano la maggior parte delle fibre nervose che costituiscono il fascio piramidale, quel complesso fascio di fibre nervose responsabile del trasporto delle informazioni dedicate al movimento volontario. Particolarità di questo fascio è che a un certo punto, a livello del bulbo, decussa, cioè cambia lato. Per questo motivo, l’emisfero cerebrale destro comanda la parte sinistra del corpo, mentre l’emisfero cerebrale sinistro controlla l’emicorpo di destra. Il motivo anatomico o fisiologico non è mai stato compreso, semplicemente la natura, che la pensiate in senso religioso, areligioso o spinoziano, ha voluto così. Avrebbe funzionato perfettamente anche senza decussazione. Curioso è che quasi tutto nel cervello subisce una decussazione: le informazioni visive, uditive, somatosensitive ecc. Questo dal punto di vista motorio e clinico ha una rilevanza decisiva: significa che la corteccia cerebrale di destra controlla in realtà la zona sinistra del nostro corpo. In altre parole, un danno, ad esempio, alla corteccia cerebrale di destra che controlla la mano provocherà disturbi motori della mano sinistra. A questo proposito, esiste il cosiddetto homunculus motorio, una vera e propria rappresentazione somatotopica del corpo. Anche in questo caso, è stato possibile ricostruire questa mappatura grazie a esperimenti neurofisiologici in vivo. Forse vi sarà capitato di sentire notizie di persone operate al cervello da sveglie, mentre suonano il violino o un altro strumento musicale. Ebbene, questo è possibile perché il cervello - sembra strano ma è così! - non ha recettori dolorifici. Così facendo, i chirurghi che devono operare parti vicine alla corteccia motoria possono rendersi conto, attraverso la stimolazione della corteccia, del risparmio chirurgico di una data area. L’homunculus motorio è sommariamente lo stesso per ognuno di noi, con alcune peculiarità. Ad esempio, per chi scrive con la mano destra, la mano rappresentata in corteccia motoria di sinistra è Prima di studiare le malformazioni del sistema nervoso centrale può essere utile approfondire o ripassare le fasi di sviluppo del cervello a partire dalla fecondazione (capitolo 9 del libro di teso obbligatorio). Di seguito una rappresentazione delle diverse fasi di sviluppo del cervello e della corteccia cerebrale prima della nascita. Come possiamo notare dalla figura, la formazione dei giri e dei solchi cerebrali avviene nelle fasi tardive della gravidanza. Il cervello per come lo abbiamo in mente, dunque giri, circonvoluzioni, scissure e solchi assume la sua conformazione nelle fasi tardive della gravidanza, la corteccia cerebrale inizialmente è piuttosto liscia. Quando descriviamo la maturazione del cervello dobbiamo necessariamente considerare diversi parametri: peso, sviluppo dendritico, densità sinaptica, densità neuronale, mielinizzazione. Le malformazioni del SNC riguardano anomalie morfologiche dello sviluppo embrionale e fetale del cervello. Le cause possono essere rintracciate tra fattori genetici, ambientali, infezioni, esposizione ai raggi x, assunzione di sostanze o alcuni tipi di farmaco, carenza di vitamine (acido folico). L’acido folico è una vitamina molto importante, indispensabile a impedire le malformazioni del sistema nervoso, si trova all’interno di alcuni alimenti e in molti paesi del mondo, ne viene consigliata l’assunzione di 400 mg al giorno durante i mesi di gravidanza. Altri fattori che contribuiscono ad un aumento di rischio sono casi di obesità, diabete o assunzione di farmaci antiepilettici da parte della madre. Dunque le anomalie morfologiche sono le responsabili di aborti spontanei e/o morte nei primi due anni di vita. Di seguito troverete la descrizione di alcune importanti malformazioni. • Assenza completa o parziale dell’encefalo • Anomalia della chiusura del tubo neurale • Decesso del feto poche ore prima o post parto (nascono privi di vita o la perdono nei primi mesi) • In rari casi sopravvivono alcuni anni in condizioni cerebrali e di coscienza molto limitate • Anomalia della chiusura del tubo neurale • Severi danni neurologici che provocano la paralisi degli arti inferiori, deficit sfinterici e neurologici • 4 tipi in base al danno anatomico: spina bifida occulta, difetto di chiusura del tubo neurale, meningocele, encefalocele • Aumento smisurato e patologico di liquor (iperproduzione o mancato assorbimento, letteralmente “acqua nella testa”) • Deficit dello sviluppo psichico (disabilità intellettiva) • Trattamento esclusivamente chirurgico • Anche conosciuta come sindrome di Arnold-Chiari • Dislocazione del cervelletto (spostamento verso il basso), parte del tessuto cerebrale passa nel midollo spinale • Paralisi, ipotonia, tetraparesi, apnee, deficit della deglutizione • Trattamento esclusivamente chirurgico volta a decomprimere il tronco dell’encefalo • Spesso associata alla malformazione di Chiari o all’idrocefalo • Può essere congenita, infiammatoria o traumatica • Sintomi ortopedici o neurologici (deficit motori, debolezza arti inferiori, incontinenza urinaria, alterazioni termodolorifiche) La prognosi delle malformazioni del sistema nervoso è sfavorevole, spesso infausta, infatti sono considerate malattie gravi. Molto spesso provocano decessi prima della nascita, durante o poche ore dopo, in molti altri casi provocano paralisi e/o disabilità. Per la diagnosi ci si deve affidare ad esami di diagnostica specifici. Esami del sangue materno e amniocentesi sono esami prenatali utili a rintracciare anomalie genetiche e del tubo neurale. Le malattie neuromuscolari vedono coinvolte una o più componenti dell’unità motoria (motoneurone, sinapsi neuromuscolare, fibre neuromuscolari). Si tratta di problemi di controllo a livello del sistema nervoso centrale che possono far insorgere diversi sintomi clinici, quali: • Ipotonia muscolare (riduzione del tono muscolare) • Ipostenia (riduzione della forza muscolare) • Iporeflessia (riduzione di intensità e ampiezza di uno o più riflessi) • Iperreflessia (aumento eccessivo di intensità e ampiezza di uno o più riflessi) • Spasticità (eccessivo o anomalo aumento del tono muscolare) • Paralisi (perdita totale o parziale di una struttura muscolare volontaria o involontaria) Questi sintomi sono associati a ritardo dello sviluppo motorio, con conseguente facilità alle cadute, difficoltà nella corsa e nella camminata, nella masticazione e deglutizione. La diagnostica dovrà necessariamente tenere conto di una valutazione clinica, coadiuvata da esame del tono e della forza muscolare oltre ad accurate indagini strumentali (tecniche di neuroimaging, indagini genetiche). Le distrofie muscolari sono le più comuni malattie neuromuscolari. Nella tabella che segue potete notare l’età di esordio e il decorso (lento, rapido, variabile, stazionario) delle principali distrofie che andremo a descrivere. • È una delle distrofie più gravi e frequenti in età evolutiva • A trasmissione recessiva legata al cromosoma X • Ha esordio 2-5 anni • Colpisce prevalentemente soggetti di sesso maschile (femmine portatrici sane) • Decorso rapido • Atrofia e debolezza muscolare • Coinvolgimento muscolatura cardiaca (aritmia, anomalie di conduzione, cardiomiopatia) • Variante più lieve della distrofia muscolare di Duchenne • A trasmissione recessiva legata al cromosoma X • Età di esordio 5-10 anni • Decorso lento, sopravvivenza fino all’età di 30-40 anni • Difficoltà nella deambulazione • Età di esordio 2-4 anni • Decorso rapido • A trasmissione recessiva legata al cromosoma X • Ipostenia e ipotrofia muscolare, anomalie cardiache (spesso tali da provocarne la morte improvvisa) • Età di esordio fino ai 30, i primi segni e sintomi possono comparire in adolescenza • Decorso lento • Debolezza e atrofia muscolare • Prende il suo nome dalle parti colpite: viso, scapole e braccia. • Età di esordio variabile • Decorso variabile • Debolezza prossimale dei cingoli pelvici e delle spalle • Atrofia progressiva dei muscoli volontari di spalle e anche • Età di esordio dalla nascita • Decorso lento o stazionario • Debolezza muscolare generalizzata Le malattie immunomediate sono caratterizzate da una disfunzione del sistema immunitario. Tra le principali malattie infettive che interessano il sistema nervoso citiamo encefaliti, meningiti, sclerosi multipla, sindrome di Guillain Barré, PANS, miastenia gravis, corea di Sydenham, malattie da prioni, infezioni da parassiti. Le meningiti si riferiscono ad infiammazioni (causate da virus o batteri) acute delle meningi, guaine che proteggono encefalo e midollo spinale. Molti bambini ne vengono colpiti e purtroppo si assiste ancora a casi di morte. I principali sintomi sono nausea e vomito, febbre alta, convulsioni, dolore nell’area meningea e rigidità della nuca e del rachide. Le encefaliti sono malattie infiammatorie che colpiscono appunto il cervello, anche esse possono essere provocate da virus o batteri. Si dividono in acute, lente (croniche) e autoimmuni. La sintomatologia più comune si presenta con febbre, cefalea, dolori muscolari e articolari, stati confusionali, turbe del comportamento, alterazioni dello stato di coscienza e soprattutto in questo stato, crisi convulsive. Per la diagnosi sono fondamentali strumenti di neuroimaging (TC, RM) e esame del liquor. La sclerosi multipla è una patologia infiammatoria demielinizzante che colpisce sostanza bianca e midollo spinale. È una malattia neurodegenerativa, dunque la fase infiammatoria iniziale può cronicizzare. Le cause sono ancora poco certe, nonostante le ipotesi vertano su ambiente, esposizione ad agenti infettivi e predisposizioni genetiche, sappiamo però che si assiste ad una risposta alterata del sistema immunitario: la mielina viene attaccata dal nostro sistema immunitario perchè riconosciuta come agente estraneo, dunque da combattere. I sintomi che presenta questa malattia possono essere diversi da persona a persona, quelli più frequenti coinvolgono la vista (calo o sdoppiamento) e la sensibilità (intorpidimenti e formicolio, termoregolazione). Le cause di insorgenza non sono certe, pertanto è difficile prevenire. Quello che però si può fare è ridurre i fattori che favoriscono l’infiammazione: inquinanti (fattori ambientali come pesticidi e telefoni cellulari), stress, fattor alimentari (per es. lo zucchero). Dunque possiamo rintracciare i seguenti fattori protettivi: • Alimentazione ricca di acidi grassi essenziali omega 6 • Riduzione assunzione di carne e derivati • Riduzione dello stress (stile di vita, mindfulness) Le paralisi cerebrali infantili (PCI) sono malattie neurologiche permanenti, responsabile una lesione che colpisce il cervello del feto o dell’infante. Gli esiti possono comportare deficit sensoriali, deficit cognitivi, difficoltà comportamentali, epilessia. Classificazione clinica: • Spastiche (lesione del sistema piramidale) • Atassiche (lesione del sistema cerebellare) • Discinetiche (lesione dei gangli della base) • - Emiplagia (deficit motorio di un lato del corpo) - Diplagia (deficit motorio degli arti inferiori) - Tetraplagia (deficit motorio degli arti superiori e inferiori) - Atassie pure - Sindromi atassiche - Atassie acquisite - Forma coreoatetosica - Forma distonica Le PCI possono essere classificate, come abbiamo visto poc’anzi, in base ai deficit neurologici, oppure in base alla gravità grossomotoria: il bambino è in grado di camminare senza ausili, con ausili, solo nell’ambiente famigliare, sia in ambiente famigliare che all’esterno, limitazioni anche con ausili. Si possono rintracciare cause pre-natali (fattori genetici, malattie croniche, infezioni, intossicazioni, disordini circolatori), cause perinatali (parto distocico, anomalie post-parto, ittero) e post-natali (infezioni, intossicazioni, traumi cranici). È volta a raggiungere la massima autonomia e indipendenza possibile del bambino, da un punto di vista fisico, psichico, e socio-emotivo. Nel progetto riabilitativo rientrano interventi fisioterapici, psicomotori, neuropsicomotori, logopedici, CAA e terapia occupazionale, coinvolgendo famiglia e scuola. Vengono utilizzati inoltre presidi utili alla riabilitazione e terapie farmacologiche abbinate. Le cefalee sono caratterizzate da dolore in alcune parti o in tutta la testa, talvolta cronico, diffuso anche tra bambini e adolescenti. A tutti sarà capitato di avvertire mal di testa almeno una volta nella vita, ma il dolore è molto variabile. Come già anticipato nelle prime lezioni, la neurofisiologia del dolore è molto complessa: dolore e la percezione di esso meriterebbero un insegnamento a sé. Cerchiamo di descrivere quanti tipi di cefalee esistono e come si presentano. Le cefalee possono essere: • Primarie (nessuna lesione cerebrale) • Secondarie (lesioni organiche, per es. infezioni, traumi, neoplasie) Secondo ICHD-III (classificazione internazionale cefalee) vengono riconosciuti 4 gruppi di cefalee: • Emicrania • cefalea tensiva • cefalea a grappolo • altre forme Si tratta di una cefalea primaria, il mal di testa riguarda una parte specifica del cranio (temporale o frontale), il dolore è pulsante (medio- forte), e accompagnato da nausea, vomito, mal di pancia, associato spesso a fono-foto e osmofobia. L’emicrania non viene sempre associata a lesioni cerebrali, può essere con aura o senza aura (forma più frequente, 85%). I fattori scatenati sono: stress psicofisico o rilassamento dopo una lunga e intensa fase di stress, deficit/eccesso di sonno, fattori ambientali (caldo/freddo, luci, rumori, fumo di sigaretta, viaggi in auto), fattori ormonali, alimenti contenenti nitrati o tiramina, craving da carboidrati. 48 ore prima dell’insorgenza del dolore possono comparire sintomi eccitatori (iperattività, irritabilità) o inibitori (rallentamento e difficoltà nella concentrazione) Ne è colpito prevalentemente il genere femminile. Si tratta della forma più frequente di mal di testa, caratterizzata da un dolore gravativo o costrittivo, ma pulsante. Possono presentarsi in forma episodica o cronica (rara nel bambino), ha esordio intorno ai 7 anni. I fattori scatenanti sono da ricondurre a ipercontrattura della muscolatura di capo e collo, elementi psicogeni. Presenta comorbidità con disturbi del sonno, obesità, scarsa o assente attività motoria. Si tratta di una cefalea caratterizzata da un forte e intenso dolore orbitale, temporale e sopraorbitale e che colpisce una parte del capo. Gli attacchi si presentano frequenti e ravvicinati (ecco da dove deriva la terminologia “a grappolo”), con conseguente lacrimazione ed edema della palpebra, durano da 15 min a 2 ore. • Emicrania emiplegica famigliare, • emicrania dell’arteria basilare, • emicrania cronica parossistica, • emicrania oftalmoplegica. Subito dopo la diagnosi viene suggerite e prescritto uno stile di vita il più possibile regolare, dal punto di vista delle corrette abitudini alimentari (alcuni cibi e/o l’eccesso di essi favoriscono le crisi), del sonno e dell’attività fisica, e la riduzione, ove possibile, di tutte quelle fonte di stress alle quali il bambino è sottoposto. Spesso viene abbinata una terapia farmacologica (il farmaco va assunto sull’insorgere della crisi e nelle dosi corrette) e/o una terapia profilattica. Dal verbo greco “prendere, cogliere di sorpresa”, le epilessie sono condizioni neurologiche caratterizzate dalla presenza di crisi epilettiche che si ripetono nel tempo. Si tratta di una patologia comune, con prevalenza di circa l’1% (500.000 pazienti) in Italia, frequente in età evolutiva, e nella maggior parte dei casi l’esordio è in infanzia o adolescenza. Va fatta una prima distinzione tra epilessia attive ed epilessia in remissione. EPILESSIA ATTIVA ha comparsa di 1 o più crisi negli ultimi 2-5 anni EPILESSIA IN REMISSIONE non ha nessuna crisi negli ultimi 2-5 anni Si verifica uno sbilanciamento dei meccanismi eccitatori e inibitori, dovuta ad un’alterazione del potenziale di riposo dei neuroni coinvolti. La crisi epilettica consiste in una scarica elettrica anomala e non controllata, localizzata o diffusa, che per un momento fa sì che si interrompa il normale funzionamento cerebrale; può provocare disturbi significativi o risultare asintomatica. Le crisi epilettiche vengono classificate in base alle differenti manifestazioni, caratteristiche e sintomatologia. - Crisi generalizzate - Crisi focali - Stato epilettico Sono caratterizzate da perdita immediata di coscienza, la scarica origina da strutture reticolari centroencefaliche. - Crisi a tipo assenza (piccolo male) - Crisi tonico-cloniche (grande male) Originano nella corteccia cerebrale e qui restano confinate, interessano una porzione limitata delle strutture corticali. - Crisi focali semplici (non c’è compromissione della coscienza) - Crisi focali con propagazione -complesse- (c’è alterazione della coscienza) Originano nella corteccia cerebrale e poi diffondono alle formazioni reticolari. Questo stato è caratterizzato da crisi epilettica che dura più di 20 min, è una condizione grave nella quale la condizione della vita viene messa a repentaglio. È necessario un intervento d’urgenza (ricovero ospedaliero). Di seguito riportate alcune delle forme epilettiche dell’età evolutiva: • Sindrome di West • Sindrome Lennox-Gastaut • Epilessie focali benigne • Sindrome di Landau-Kleffner • ESES (Stato di male a punta onda continue durante il sonno a onde lente) • Epilessia a tipo assenza • Epilessia con crisi generalizzate tonico-cloniche • Epilessia del lobo temporale • Epilessie riflesse • Epilessie sintomatiche • Convulsioni febbrili (che tanto spaventano mamme e insegnanti quando colpiscono i loro piccoli) Le troverete ampiamente descritte nel libro di testo che ricordo essere obbligatorio per lo studio. Ecco dosa dobbiamo sapere, e qui non intendo solo ai fini dell’esame. A chiunque può capotare di trovarsi davanti una crisi epilettica, dunque è bene conoscere alcune fondamentali azioni da compiere o da non compiere (è importantissimo sapere anche cosa NON fare). • Non cercare di impedire la crisi • Non tenere la persona ferma durante la crisi • Non impedire i movimenti • Rimuovere oggetti pericolosi presenti nello scenario • Evitare che il soggetto cada (prevenire eventuali traumi) • Proteggere il capo (materiale morbido, cuscini o indumenti per impedire l’urto violento col suolo o altre superfici pericolose) • Non mettere nulla sotto la sua testa: la flessione del capo, infatti, potrebbe compromettere la respirazione • Solo se il soggetto è in luogo pericolo (attenzione realmente pericolo, non poco idoneo), allora spostarlo in luogo sicuro • Non mettere mai le dita in bocca al paziente • Slacciare ciò che stringe • Non svegliare mai il paziente, osservarlo nella fase comatosa • Supporto psicologico quando sveglio • Al termine della crisi, posizionare il paziente in posizione laterale di sicurezza con la testa inclinata all’indietro • Recarsi in ospedale/dal medico per un controllo, chiamare 118 (112 se già attivo numero unico d’emergenza) o chiedere a qualcuno di farlo per noi se stiamo assistendo la persona con la crisi in atto. Di seguito a questo link un video che vi mostrerà una tipica crisi epilettica e le manovre svolte per soccorrerlo: https://www.youtube.com/watch?v=OZzS3by_Zpc&ab_channel=CroceRo ssaItaliana La neuropsicologia, unione di neurologia e psicologia, originariamente non si occupava di età evolutiva: la neuropsicologia dello sviluppo nasce infatti in seconda battuta, sviluppandosi a partire dalla neuropsicologia (Michel, 2001). L’età evolutiva comprende il periodo di crescita che va dalla nascita alla maggiore età. Durante lo sviluppo cerebrale si verificano le maggiori alterazioni microscopiche e macroscopiche delle regioni frontali e delle altre aree cerebrali; questo avviene entro i primi vent’anni di vita (Vicari & Caselli, 2017). La plasticità è la capacità di risposta di un sistema nei confronti di uno sviluppo normale o atipico o a cambiamenti indotti dalla lesione negli ambienti interni o esterni, adottando nuovi fenotipi o ripristinandone di vecchi. Più giovane sarà l’età o l’immaturità dell’organismo, maggiore sarà la plasticità neuronale (Dennis et al., 2014). La valutazione neuropsicologica in età evolutiva fornisce un’analisi delle aree di maggiore abilità e di quelle maggiormente deficitarie, aiuta ad individuare problematiche relative allo sviluppo che possono avere origine neurologica o di altra natura, fornisce una panoramica del neurosviluppo del bambino, evidenziando ed aiutando a comprenderne il funzionamento cognitivo, comportamentale ed emotivo (Vicari & Caselli, 2017). L’assessment è costituito da importanti fasi a partire dall’individuazione del motivo dell’invio fino a giungere al “now for next”; comprende la somministrazione di batterie testistiche preceduta da un colloquio clinico, accompagnati da un ragionamento clinico (Vicari & Caselli, 2017). I principali strumenti di indagine, attualmente utilizzati nella neuropsicologia dello sviluppo, per un’opportuna valutazione funzionale del bambino e per analizzare come l’anatomia e la funzionalità cerebrale si modifichino nel corso dello sviluppo sono (Vicari & Caselli, 2017): • Tecniche elettrofisiologiche: Elettroencefalografia (EEG), Magnetoencefalografia (MEG); • Tecniche di neuroimmagine: Ultrasonografia, Tomografia Computerizzata (CT), Risonanza Magnetica (RMI), Tomografia a emissione di positroni (PET); • Tecniche di stimolazione cerebrale non invasive: Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), Stimolazione Transcranica a corrente (tCS). Tali strumenti offrono un grande contributo sia ai fini diagnostici che alla ricerca. Il neuropsicologo somministra una serie di test standardizzati che presentano specifiche “age-norms” nel caso del bambino in modo da consentire un’analisi paragonabile, confrontabile con individui della stessa età (Michel, 2001). A differenza della diagnosi nell’adulto, andrà considerata l’evoluzione delle funzioni valutate nel corso dello sviluppo. Il neuropsicologo dello sviluppo parte dall’adulto e, andando a ritroso, concentra le sue indagini su caratteristiche ed elementi che hanno permesso il suo sviluppo (Michel, 2001). Infatti, la ricerca psicobiologica dello sviluppo parte analizzando le abilità del bambino contestualizzandole da un punto di vista socioculturale ed ecologico (Michel & Moore, 1995). A partire dallo scorso secolo veniva considerato l’ambiente culturale come fattore modellante lo sviluppo del cervello (Luria, 1966). Le interazioni sociali e le esperienze ambientali possono influenzare positivamente o negativamente lo sviluppo, così le prestazioni dei test sono influenzate dai contesti culturali, usi e costumi, stili cognitivi differenti da quelli in cui i test erano stati standardizzati (Arnold et al., 1994). Sebbene in maniera ridotta, sono state riscontrare differenze anche tra diverse popolazioni all’interno dello stesso paese, considerando la lingua, livello culturale, l’istruzione, l’alfabetizzazione e la condizione economica (Fuiji, 2017). Generalmente, maggiore è la discrepanza tra il contesto culturale di un individuo in assessment e la cultura dominante in quell’ambiente, più si incorrerà nel rischio che il test non rifletta ciò che si era posto di misurare (Casaletto & Heaton, 2017). Il risultato delle abilità valutate dipende dalle esigenze culturali: si pensi alla cultura statunitense in cui vi è una propensione all’accelerazione dei tempi che induce a pensare che prestazioni più veloci implichino migliori risultati; per contro, nella cultura ispanica un’esecuzione lenta implica risultai migliori (Ardila et al., 2005). Evidente è la necessità di validare le batterie per ogni popolazione; allo stesso modo non è così semplice validarle per, ogni parte del mondo, considerando la vastità dei paesi in via di sviluppo (Casaletto & Heaton, 2017). Attualmente, le misure sviluppate in Europa e negli Stati Uniti vengono applicate e adattate ai vari contesti culturali, nonostante notevoli sforzi (Casaletto & Heaton, 2017).. La selezione dei test rappresenta una fase fondamentale dell’assessment. Tale scelta terrà conto dell'età del paziente e dei dati anamnestici raccolti che consentono di identificare le aree di indagine e l'obiettivo preciso della valutazione. Costi, tempi di somministrazione e punteggi, oltre che validità ed affidabilità, sono elementi importanti da considerare alla base di ogni assessment. Il neuropsicologo, oltre a stabilire se e dove si è verificata la lesione, attraverso tecniche di neuroimmagine e altre indagini, si occupa di identificare deficit cognitivi e quantificare l’impatto sulla vita quotidiana del paziente (Chaytor & Schmitter-Edgecombe, 2003; Kibby et al., 1998). Un buon assessment dovrebbe avvalersi di validità ecologica, rilevando quelle che sono le difficoltà del paziente nella vita reale. Come afferma Gioia D.: “Quando un test di laboratorio viene somministrato, tutto il contesto del mondo reale viene rimosso in modo da completare il test con il minor numero di distrazioni possibile. Nella vita quotidiana, distrazioni e complicazioni abbondano anche nel compito più semplice, quindi la prestazione artificiale non ci dice molto " (D. Gioia, 2009, pag. 1495). Per validità ecologica si intende la correlazione tra i risultati ottenuti in un contesto controllato e quelli ottenuti in ambiente naturale, nell’ambito neuropsicologico, quindi, si intende la relazione tra le performance dei test e quelle nel mondo reale. La validità ecologica indica quanto i risultati ottenuti attraverso i test neuropsicologici possano prevedere il funzionamento in ambiente naturale, e sposa i concetti di verosimiglianza e veridicità. La verosimiglianza è il grado con cui le richieste di un test assomigliano a quelle in ambienti reali, mentre la validità è il grado in cui i test sono empiricamente correlati al funzionamento quotidiano. Una delle prime batterie contenente l’osservazione di alcuni aspetti comportamentali nella vita quotidiana fu la Behavioral Assessment of the Dysexecutive (BADS, Wilson et al., 1996). Alcuni esempi di test clinici volti ad aumentare la validità ecologica, che tentano di simulare attività quotidiane considerando attenzione e abilità esecutive, sono il Test of Everyday Attention (TEA; Robertson et al., 1996), il Rivermead Behavioral Memory Test (RBMT; Wilson et al., 1985) e il Behavioral Assessment of the Dysexecutive Syndrome (BADS; Wilson et al., 1996). In età evolutiva, inoltre, spesso si utilizzano il Rivermead Behavioral Memory Test (RBMT; Wilson et al., 1985), il Rivermead Behavioral Test for Children (RBMT-C; Wilson et al., 1991) l’Everyday Memory Questionnaire (Sunderland et al., 1983), il Subjective Memory Questionnaire (Bennett- Levy & Powell, 1980), il Behavioural Assessment of the Dysexecutive Syndrome (BADS; Wilson et al., 1996), il Tinker Toy Test (Lezak, 1982) e il Behavioral Rating Inventory of Executive Function (BRIEF; Gioia et al., 2000). Quest’ultimo è l’unico appositamente progettato per soggetti in età evolutiva e con validità ecologica; nasce in particolare per comprendere il funzionamento quotidiano in bambini con lesioni cerebrali (G. A. Gioia et al., 2000). Nonostante la valida strumentazione esistente, il rapporto tra i test neuropsicologici e il funzionamento della vita reale merita di essere approfondito. Numerosi studi a riguardo sono stati effettuati su popolazioni adulte, in maniera ridotta sui bambini; in età evolutiva si somministrano test volti a comprendere le difficoltà in ambito scolastico e per determinare piani riabilitativi che facilitino lo sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo (Olson et al., 2013). Gioia e Isquith riassumono molto bene i doveri nella neuropsicologia in età evolutiva: “Le richieste poste sulla neuropsicologia pediatrica sono particolarmente complesse, vengono indagati i punti di forza e di debolezza del bambino, insieme a domande su posizione accademica, interventi necessari, posti in cui vive, obiettivi dei programmi educativi individualizzati (IEP), implicazioni scolastiche e relative al funzionamento in comunità, comportamenti futuri e sviluppi emotivi che possono essere attesi durante lo sviluppo del bambino ” (Gioia & Isquith, 2004). Continui sono gli studi relativi a prove che abbiano validità ecologica; il tentativo è quello di non creare altri test, ma di rendere quelli esistenti più completi, adattandoli per esempio ad un contesto meno strutturato. Negli ultimi anni, con l’avvento della tecnologia, anche gli assessment neuropsicologici si avvalgono di tablet, piuttosto che computer, test online, smartphone. Quest’opportunità permette di valutare in modo frequente e costante, per esempio, le abilità cognitive. La tecnologia avvalora l’assessment anche dal punto di vista della precisione delle procedure e dei risultati, rendendolo altamente standardizzato e valido ecologicamente; vi è inoltre una riduzione di costi e un’agevolazione per coloro che mostrano difficoltà nel raggiungere le strutture ambulatoriali (Casaletto & Heaton, 2017). Parallelamente meritano considerazione alcune limitazioni, quali la corretta comprensione delle istruzioni da parte del paziente, le distrazioni e gli sforzi; integrare la tecnologia nell’assessment non è semplicemente un “plug-and-play ”, bensì qualcosa di più complesso (Casaletto & Heaton, 2017). L’aspetto qualitativo viene trascurato, la ricerca di informazioni relative al mondo reale, specialmente negli ambienti scolastici, merita più attenzione (Olson et al., 2013). Contribuisce inoltre all’assessment osservare il “come”: come viene svolto un test, come il bambino reagisce alla frustrazione, come esprime i propri sentimenti, indipendentemente dall’esito. Secondo Lezak “Osservare la modalità con cui i pazienti gestiscono il materiale testistico, la formulazione di risposte, la natura e la consistenza di errori o successi, oscillazioni dell’attenzione, stato emotivo, qualità della performance durante il tempo di interazione con l’esaminatore e con i diversi tipi di test sono dati qualitativi dei test di performance ” (Lezak et al., 2004). L’intervista assume grande importanza soprattutto nell’ambito dell’età evolutiva, dove si vedono coinvolti famiglia, scuola, medico e caregiver che forniscono rilevanti informazioni riguardanti lo sviluppo del bambino ed il suo funzionamento nella società; ciascuna di queste fonti ha la sua rilevanza e merita considerazione: il bambino può assumere comportamenti differenti a seconda del contesto, mettendo in atto strategie compensative sulla base delle proprie abilità cognitive (Olson et al., 2013). essere menzionati il Pediatric Psychosocial Preventative Health Model (PPPHM; Kazak, 2006) e il Psychosocial Assessment Tool (PAT 2.0). Kazak e colleghi (2015) studiano questo modello di screening applicato a diverse popolazioni pediatriche, quali tumori in età pediatrica, SCD, CHD, diabete e trapianto di organi. Hardy et al. propongono un modello preventivo di assessment neuropsicologico in età pediatrica che prevede diversi livelli a seconda del grado di rischio di compromissione neuropsicologica: monitoraggio universale, screening mirato, valutazione completa (Hardy et al., 2017). Si tratta di un modello flessibile applicabile ad una grande varietà di popolazione pediatrica che però non considera possibili ostacoli quali tempi, costi e modalità di monitoraggio (Hardy et al., 2017). L’assessment trascina con sé su potenzialità e criticità. Luria nel suo libro autobiografico "Making of Mind" analizza la complessità di una diagnosi: "Il punto di partenza non è un problema ben definito, ma un complesso sconosciuto di problemi: il paziente" (Yuri et al., 2018). È proprio dal paziente stesso che occorre partire, nello specifico dal bambino osservato nella sua interezza. Le moderne tecniche di neuroimmagine e la tecnologia forniscono un gran contributo all’assessment, ma devono essere necessariamente accompagnate da un progresso in termini di capacità valutative circa gli aspetti neuropsicologici in riferimento all’età evolutiva del paziente (Sabbadini, 1995). Così come per il trattamento riabilitativo e per la prognosi, anche per la diagnosi è cruciale il lavoro d’équipe che vede coinvolte, oltre alle figure specialistiche, quelle di riferimento per il bambino: famigliari, caregiver, educatori, insegnati. Il coinvolgimento dell’ambiente in cui il bambino vive è fondamentale nell’asssessment neuropsicologico, i criteri diagnostici internazionali indicano la necessità di considerare il funzionamento del bambino all’interno dei contesti di vita per lui più significativi, e valutare l’impatto del disturbo rispetto alle capacità di adattamento (DSM-5; APA 2013). Abbiamo visto come per validare un’assessment neuropsicologico sia necessario analizzare la validità ecologica e quella di performance. Restano alcune limitazioni: non è così semplice riprodurre l’ambiente reale e per quanto riguarda i PVT sono ancora poco utilizzati in età pediatrica. Inoltre vista l’importanza della prevenzione, si nota che i PVT non sono stati pensati per bambini con età inferiore a 5 anni, periodo di vita in cui si potrebbe investire molto sul recupero e sul potenziamento. Data la scarsità di strumentazione e preparazione adeguata per la fascia d’età prescolare, molti neuropsicologi hanno limitato il loro lavoro a partire dalla fascia scolastica. Secondo Lezak e colleghi osservare il “come” offre informazioni peculiari (Lezak et al., 2004), oltre all’osservazione della modalità e delle strategie adottate nello svolgimento di un test, si potrebbe associare l’osservazione delle modalità comportamentali al di fuori dello svolgimento testistico. Considerata l’importanza della prevenzione e la scarsità di strumenti applicabili alla fascia 0-5 anni, si propone l’osservazione del bambino durante il gioco, che in questa fascia d’età rappresenta la principale forma di comunicazione. Attraverso la spontaneità delle azioni ludiche, si coglierebbero aspetti comportamentali e del funzionamento utili da analizzare in un assessment completo. Inoltre, nonostante durante i test venga esplicitata l’assenza del giudizio, il setting d’osservazione del gioco spontaneo potrebbe risultare maggiormente favorevole. Interessante sarebbe poter aggiungere all’osservazione comportamentale del bambino, un momento di interazione con i pari, all’interno di un piccolo gruppo: si rileverebbero le dinamiche comportamentali non solo nella relazione duale e di disparità paziente-neuropsicologo, o riportate da terzi (membri famigliari, caregiver, insegnanti), bensì osservando direttamente le dinamiche relazionali con l’altro, e ancora come e se il bambino modifichi le proprie capacità adattive e le strategie compensative nell’interazione sociale. In questo modo anche gli aspetti emotivi potranno essere valutati in modo più esaustivo, non limitandosi ai dati anamnestici riportati dal genitore, ma attraverso l’osservazione diretta. Tale proposta potrebbe risultare di difficile realizzazione a causa di tempi, costi e spazi logistici. L’allestimento di setting così particolari negli ambulatori pediatrici risulta molto oneroso; l’inclusione di tali aspetti all’interno di un progetto di screening negli asili nido potrebbe essere agevolante in termini di tempi e costi, nonostante non includerebbe la totalità della popolazione. Altra criticità da considerare è la preparazione del neuropsicologo riguardo l’analisi del comportamento del bambino così piccolo: d’altra parte solo “entrando” nel suo mondo, più istintivo e primordiale, ci è permesso comprendere il grado di sforzo, di inganno e i suoi funzionamenti. Si consideri di ampliare la formazione neuropsicologia pediatrica o di avvalersi di professionisti specializzati. Vero è che la diagnosi in tenera età è complessa, in quanto il bambino è in rapida evoluzione, ma proprio questa rapida evoluzione può essere cruciale se si pensa in termini di ipotetici progressi durante un trattamento riabilitativo. La proposta è dunque quella di tener presente la multidimensionalità in sede di assessment, considerando il bambino nella sua interezza, con grande rilevanza all’aspetto ecologico e particolare attenzione all’interazione sociale. La neuropsicologia dell’età evolutiva chiede di tener conto dei disturbi del bambino in un’ottica di sviluppo, ricordando i processi di maturazione e la plasticità (Billard & Jambaqué, 2008). Nonostante le tecniche e gli strumenti standardizzati descritti, la riproduzione degli aspetti della vita reale devono ancora essere perfezionati, soprattutto in ambito pediatrico. La tecnologia ha offerto un grosso contributo in questo senso, tralasciando però l’aspetto qualitativi e quello relazionale. L’utilizzo di PVT per i bambini è ancora poco diffuso, meriterebbe maggior divulgazione, potrebbe essere pensato all’interno di modelli preventivi del sistema sanitario. Tuttavia, restano molte domande senza risposta e sfide future per supportare meglio gli strumenti di misurazione e tradurre i risultati della valutazione in raccomandazioni e trattamenti significativi (Casaletto&Heaton, 2017). L’affascinante campo della neuropsicologia dell’età evolutiva merita di essere ampliato nella ricerca, tenendo presenti proposte e limiti. Prima dell’esame neurologico chiaramente andrà raccolta un’attenta anamnesi che andrà a raccontare la storia famigliare, il decorso della gravidanza, travaglio e parto, senza tralasciare gli stati emotivo del periodo gestazionale. A questo punto si procede con l’esame neurologico del neonato per verificare l’integrità anatomica e funzionale del sistema nervoso. L’indice di APGAR (proposto da Virginia Apgar) viene valutato a 1-5 minuti dalla nascita e può assumere valori tra 0 e 10. Punteggi tra 0 e 3 richiedono un intervento salvavita immediato (manovre di rianimazione), mentre un punteggio di 10 indica la condizione ottimale del neonato per quanto riguarda i seguenti parametri: • Frequenza cardiaca • Respirazione • Tono muscolare • Reattività • Colorito Insieme all’indice di APGAR, verranno valutati peso del bambino e età gestazionale, ovvero settimane intercorse tra l’ultimo ciclo mestruale e nascita. Pretermine: meno di 37 settimane A termine: tra 38 e 41 settimane post-termine: più di 42 settimane I riflessi neonatali, conosciuti anche come arcaici o primitivi, rappresentano risposte sensorimotorie elementari che ci indicano la maturazione del Sistema Nervoso Centrale nel bambino. Ne esistono moltissimi, ma non tutti rappresentano correlazione con un danno neurologico. Ad esempio, il riflesso di Babinski, se pur non considerato un riflesso neonatale in senso stretto, ci consente di avere una buona dimostrazione di come il sistema nervoso maturi. Infatti, nel bambino appena nato, questo riflesso è positivo; in altre parole, passando un oggetto leggermente appuntito sotto l’arco plantare, otterremo, tra le altre cose, l’apertura a ventaglio delle di dita. Questo è dovuto all’immaturità del fascio piramidale, struttura nervosa deputata, in prima istanza, a inviare le informazioni motorie dal cervello ai muscoli volontari. Col passare dei mesi il fascio piramidale, così come il resto del sistema nervoso, andrà incontro a maturazione. Segno clinico evidente di questa maturazione è la negativizzazione di questo riflesso: il piede, sottoposto allo stesso stimolo, tenderà a chiudersi come ad afferrare un oggetto. Si tenga presente che un’altra evidenza della maturazione del fascio piramidale è la conquista della posizione eretta. Chiarita la differenza tra immaturità del sistema nervoso e danno in senso stretto, elenchiamo i riflessi arcaici, da non considerarsi patologici, ma come dice la parola stessa arcaici , cioè residui dalla nostra filogenesi e che non determinano alcuna diagnosi. Si tenga presente che la loro presenza ci dà degli importanti indicatori di crescita ontogenetica. • Riflesso di Moro • Riflesso di prensione palmare • Riflesso della marcia automatica • Riflesso di piazzamento • Riflesso di suzione • Riflesso dei punti cardinali • Riflessi di fuga • Riflesso tonico asimmetrico del collo Così come abbiamo visto per il neonato, si parte sempre da un’accurata raccolta anamnestica, per andare poi ad osservare la collaborazione del lattante e della figura di riferimento. La maggior parte dei riflessi arcaici subiscono un processo di regressione. Si iniziano ad osservare l’acquisizione di abilità statico-posturali: • 2-3 mesi: il lattante riuscirà a controllare il capo • 6-7 mesi: il lattante riuscirà a mantenere la posizione seduta • 8-10 mesi: il lattante riuscirà a mantenere la posizione quadrupedica • 10-12 mesi: il lattante riuscirà a mantenere la posizione eretta Parallelamente alle abilità statico-posturali il lattante acquisisce importanti abilità dinamiche: • 2-4 mesi: il lattante inizierà a compiere rotolamenti prono-supino • 3-5 mesi: il lattante inizierà a compiere rotolamenti supino- prono • 4-6 mesi: il lattante inizierà a strisciare • 7-9 mesi: il lattante inizierà a passare nella posizione seduta - Colloquio clinico - Osservazione - Strumenti di valutazione La valutazione della NPI si apre sempre, come abbiamo già detto, con l’instaurarsi della relazione e di un clima favorevole al colloquio. In prima battuta si andrà ad analizzare la storia famigliare, la struttura di personalità dei genitori ed il motivo che li ha spinti ad iniziare l’iter in NPI. Il motivo della consultazione ci racconta già molto del bambino, o meglio, ad essere più precisi, quali situazioni e comportamenti del bambino hanno spinto i genitori a chiedere una consulenza. Dunque si annoteranno sintomi, stato di mentalizzazione, attaccamento riportati dalle descrizioni genitoriali. Oltre ai sintomi, è utile far emergere dai racconti dei genitori le situazioni in cui il bambino fatica e le aree in cui risulta essere adeguato, come si relaziona con i pari, quali sono le modalità comportamentali in ambito scolastico. Questo permette di farsi un’idea sulla struttura di personalità del bambino. Ci si può avvalere di questionari, interviste semi-strutturate, ricordando sempre che NON è un interrogatorio! Si osservano anche sequenza espositiva, associazioni di idee e temi ricorrenti. Prima di concludere il momento di colloquio con i genitori, dovranno essere date loro alcune istruzioni in merito al secondo incontro che avverrà con il bambino (bambino-esaminatore) I genitori sono il ponte essenziale per questo secondo incontro: dovranno preparare il bambino, spiegandogli di cosa si tratta, descrivendo l’esaminatore e l’ambiente che deve essere percepito dal bambino come luogo confortevole e sicuro. L’esaminatore preparerà il setting con materiale adatto al bambino, materiale che possa favorire la sua libera espressione: fogli, matite, pennarelli, plastilina, costruzioni, marionette, pupazzi, ecc. Sarebbe importante, ma non sempre possibile, ritagliare un momento di osservazione genitori-bambino. In questa fase ci si concentra ad indagare: • Come il bambino entra nella stanza • Come e quanto investe lo spazio • Come e quanto investe gli oggetti • Come e quanto interagisce con l’osservatore • Prende iniziativa? Risponde alle richieste/proposte? • Come risponde/non risponde alle richieste d’interazione L’osservazione di questi parametri varierà a seconda dell’età del bambino. Durante questa fase l’esaminatore dovrà cercare di essere empatico, mettere a suo agio il bambino e non esprimere giudizio. Il gioco assume un ruolo fondamentale per il bambino al quale viene offerta la possibilità di esprimersi attraverso un linguaggio non verbale molto più vicino al “suo mondo”. Ci offre ottimi indicatori per conoscere il bambino ed il suo funzionamento. Si andrà ad osservare: • Come il bambino entra nella stanza (rifiuto, inibizione, disinibizione) • Come e se il bambino si separa/allontana dalle figure di riferimento • Quanto il bambino gioca con determinati oggetti • Come utilizza questi oggetti • Che significato fa assumere al suo gioco • Come organizza il suo gioco • Sequenza delle attività • Tematica del gioco (aggressività, impulsi distruttivi) • Abilità motorie • Grado di verbalizzazione • Come e quanto gestisce la frustrazione • Come gestisce conflitti • Meccanismi di difesa • Attività esplorativa • Attività ludica Il gioco ci permette di capire le dinamiche interne del bambino (un po' come libere associazioni per l’adulto), traduce i processi di crescita dei bambini. Di seguito una tabella descrittiva delle sequenze di sviluppo del gioco nei suoi aspetti cognitivi e sociali. Le prime forme di gioco che vediamo nel bambino sono forme di gioco tonico-emozionale (primi momenti di scambio attraverso il contatto col corpo), fino ad arrivare alla forma più evoluta del gioco col gioco di rappresentazione. Nelle lezioni precedenti abbiamo visto come l’osservazione sia uno degli strumenti d’indagine maggiormente utilizzati soprattutto per il bambino, così come il gioco. Esistono altri strumenti non basati su intervento spontaneo, sull’osservazione libera. • Colloquio • Test • Strumenti di livello • Strumenti proiettivi • Questionari • Interviste semi-strutturate • Osservazioni strutturate • Disegno spontaneo o su richiesta (figura umana, famiglia) L’indagine può essere svolta per arrivare ad una diagnosi oppure no: si pensi alla prevenzione. Spesso vengono messi in atto programmi di screening per individuare eventuali indicatori e situazioni sospette, ma non sempre si giunge a diagnosi. La diagnosi può portare alla luce patologia, deficit, disturbo (si parla di diagnosi vera e propria) oppure descrivere un funzionamento adattivo in una particolare area (diagnosi funzionale). Il disegno è uno strumento di valutazione che ci offre importanti informazioni sull’evoluzione del bambino. È uno strumento facilmente utilizzabile, senza particolari dispendi economici, può essere somministrato su richiesta o osservato nell’esecuzione libera. Può fungere da strumento di livello o da strumento proiettivo. • Informazioni su tratto e organizzazione spaziale e temporale • Informazioni sullo schema corporeo (quali parti disegna e come le disegna) • Sviluppo del disegno in linea con lo sviluppo cognitivo I bimbi prima dei 18 mesi possono iniziare ad afferrare ed utilizzare lo strumento grafico, i segni/tratti prodotti non sono guidati dagli occhi. Dopo i 20 mesi inizia ad essere consapevole di una causalità, dunque esiste correlazione tra movimento e segno prodotto sul foglio, muove la mano in modo differente con l’intento di produrre effetti differenti sul foglio (tratti orizzontali, verticali, diagonali, curve). Intorno ai 3 anni, iniziano a produrre “scarabocchi” senza attribuirne significato, successivamente a “chiudere” gli scarabocchi circolari a formare un cerchio (testa del così detto “uomo girino”). Intorno ai 3-4 anni i disegni iniziano a assomigliare a cose, persone, oggetti del mondo reale e anche i segni ancora senza somiglianze evidenti iniziano ad assumere un particolare significato che il bambino verbalizza. A partire dai 5 anni (ultimo anno di materna) in avanti (è un elemento proiettivo usato anche nel mondo adulto) l’attività grafica del bambino ci racconta qualcosa di lui, del suo mondo interno, assume valenza narrativa. Potremo osservare cosa e quanto disegna, se ci sono temi ricorrenti, come usa lo spazio e quali colori predilige. Può trattarsi di un disegno libero, ma anche di richieste specifiche: vedremo di seguito il disegno della figura umana e della famiglia usati anche per le diagnosi. Questo test mantiene una buona validità anche per bambini provenienti da diverso contesto culturale. Fu Machover nel 1949 a proporre il disegno della figura umana come test proiettivo. Verrà chiesto al bambino di disegnare due personaggi, dopo che ha disegnato il primo si chiede di disegnare il secondo di sesso opposto. Vengono osservate le parti rappresentate (in che ordine, con che proporzioni, dimensioni) e quelle omesse. Abbiamo detto che il primo abbozzo di figura umana è l’uomo girino rappresentato da un cerchio al quale vengono via via attaccate dei segmenti a rappresentare braccia e gambe. Inizieranno poi a comparire sempre più dettagli: naso, bocca, occhi, orecchie, capelli; inizierà a comparire il tronco e dettagli relativi al vestiario. Fornisce indicazioni utili su come il bambino si percepisce all’interno nel nucleo famigliare e come percepisce i rapporti con gli altri componenti (genitori, fratelli, ecc.). Anche in questo caso, sono importanti i dettagli, le proporzioni, le distanze, l’auto-eliminazione (alcuni bimbi tendono a non rappresentarsi graficamente col la famiglia). Un componete della famiglia può essere disegnato per primo, con molti dettagli, più grande, con più cura, e può rappresentare il membro con il quale è più legato affettivamente o con il quale si identifica. Allo stesso modo un membro della famiglia con il quale è meno in sintonia, in conflitto, può essere raffigurato con meno cura e per ultimo. Spesso i bambini dicono “volevo fare anche mio fratello, ma lo faccio la prossima volta” e omettere un membro o disegnare solo i contorni del volto senza dettagli (bocca, naso, occhi, ecc.). venga prestato un reale ascolto; è presente una elevata distraibilità (ipersensibilità a minime variazioni ambientali) e vi sono criticità nell’organizzazione di compiti e attività (difficoltà a tenere in ordine oggetti e materiale, difficoltà a gestire il tempo e le scadenze ecc.). Inoltre è presente una importante fatica nell’impegnarsi in compiti e attività che richiedono uno sforzo mentale prolungato. L’iperattività si manifesta con un costante stato di agitazione in cui è evidente la difficoltà a controllare il proprio comportamento, motivo per cui i bambini con ADHD sono spesso definiti ‘difficili da gestire’. L’impulsività si traduce nel compiere azioni senza una precedente riflessione. Nello specifico sono presenti: agitazione motoria (es. dimenarsi sulla sedia, difficoltà a restare seduti ecc.); difficoltà nel giocare e svolgere attività tranquillamente; difficoltà nell’aspettare il proprio turno, anche nell’attività comunicativa; difficoltà nelle relazioni interpersonali (es. interruzione di conversazioni o attività, tendenza ad interrompere e ad utilizzare oggetti altrui senza permesso ecc.). Il disturbo può presentarsi in maniera combinata, ossia sono clinicamente presenti sia la disattenzione sia l’iperattività/impulsività oppure può essere preponderante uno solo dei due aspetti. La diagnosi avviene tendenzialmente dopo i 6-8 anni di età, dato che dopo questo periodo vi è un maggiore consolidamento degli apprendimenti e un fisiologico processo di maturazione delle aree frontali e pre-frontali (fondamentali per il controllo emotivo, cognitivo e comportamentale); molto spesso però, già durante la prima l’infanzia può essere presente una eccessiva attività motoria non distinguibile da comportamenti normali per quell’età. In età scolare le caratteristiche cliniche tendono a diventare più evidenti e invalidanti, mentre durante l’adolescenza il disturbo acquista una relativa stabilizzazione; con la crescita e in età adulta i sintomi legati all’iperattività motoria risultano essere meno presenti, mentre persistono difficoltà attentive, di impulsività e di pianificazione. I bambini con ADHD hanno solitamente un buon funzionamento cognitivo: sono spesso molto intelligenti e brillanti, ma hanno oggettive difficoltà nell’autoregolazione, nella gestione programmata di attività e nella risoluzione di eventuali problemi, così come difficoltà di programmazione e pianificazione. A tal proposito, numerosi studi in letteratura hanno dimostrato la presenza di un deficit a livello delle funzioni esecutive, ovvero di quelle abilità che ci consentono di dirigere e mantenere la nostra attenzione, fare programmi e previsioni, pianificare e controllare il nostro comportamento. Il trattamento prevede un lavoro specifico diretto: • alla persona affetta da ADHD integrando attività psico- educative, psicologiche, psicomotorie e, quando necessario, l’inserimento di una adeguata terapia farmacologica; • alla famiglia tramite interventi di Parent Training , con l’obiettivo di acquisire maggiori conoscenze sul disturbo così da imparare a gestire comportamenti disfunzionali e a valorizzare le risorse presenti; • alle insegnanti tramite interventi di Teacher Training, con l’obiettivo di acquisire una serie di informazioni e strumenti fondamentali per poter gestire la sintomatologia durante le attività scolastiche. “Ognuno è un genio, ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi, lui passerà l’intera vita a credersi stupido” (Albert Einstein) I Disturbi specifici dell’Apprendimento (DSA) sono disturbi del neurosviluppo e riguardano le abilità di scrivere, leggere e compiere calcoli in modo corretto e fluente. Vengono classificati sulla base della specifica capacità compromessa, rispettivamente: Disturbo specifico della lettura: caratterizzato dalla difficoltà ad effettuare una lettura fluente e accurata a livello di correttezza e velocità; tale difficoltà spesso comporta una non adeguata comprensione di ciò che viene letto. Di seguito alcuni esempi: • errori di anticipazione (lettura delle prime lettere “tirando ad indovinare” la parola); • saltare alcune parole e/o righe del lesto; • lettura lenta; • difficoltà nella lettura di parole nuove; • facile affaticabilità; • difficoltà nelle lingue straniere cosiddette “opache” come l’inglese (discrepanza tra come si legge e si scrive la parola, a differenza di quanto accade per la lingua italiana). Disturbo specifico della scrittura: riguarda gli aspetti costruttivi della scrittura con difficoltà nelle competenze ortografiche e fonografiche. Di seguito alcuni esempi: • errori ortografici (es. uso dell’h, dell’apostrofo ecc.); • errori fonetici (es. non vengono messe le doppie o gli accenti); • lessico limitato. Disturbo specifico della grafia: si manifesta con difficoltà nello scrivere in modo veloce, fluido e adeguato; riguarda quindi le componenti motorie ed esecutive legate alla scrittura. Di seguito alcuni esempi: • tratto grafico non chiaro e poco leggibile (migliore lo stampatello); • utilizzo non adeguato dello spazio sul foglio; • grafia confusa con frequenti cancellature; • errori di copiatura dalla lavagna o da altri supporti; • non acquisizione dell’uso funzionale della scrittura (es. difficoltà nel prendere appunti, compilare il diario scolastico ecc.); Disturbo specifico dell’abilità di numero e di calcolo: caratterizzato dalla difficoltà a manipolare e operare con i numeri. Di seguito alcuni esempi: • difficoltà nella scrittura di numeri e nel riconoscere i simboli matematici; • cambi di decina e/o omissioni di numeri; • difficoltà nell’apprendimento delle tabelline e nel recupero dei risultati nei calcoli rapidi; • non recupero delle procedure (es. calcoli incolonna, espressioni ecc.); • mancata gestione dello spazio (es. difficoltà di incolonnamento nelle operazioni); • difficoltà nella risoluzione di problemi (le abilità logiche sono mantenute), nel calcolo algebrico e nella geometria. E importante specificare quali sono le abilita compromesse e identificare la gravita del disturbo che varia tra lieve, moderato e grave. I DSA non sono dovuti ad un danno organico ma sono causati da un diverso funzionamento delle reti neurali deputate ai processi di scrittura, lettura e calcolo che necessitano di tempi piu lunghi e di un carico attenzionale maggiore. Va ricordato che tale funzionamento ha base innata, pertanto accompagnera la persona per tutto il corso della vita. Oltre alle competenze strumentali degli apprendimenti scolastici, sono spesso sono presenti altre criticita tra cui: difficolta delle abilita mnesiche, con particolare riferimento alla memoria di lavoro, ossia quel tipo di memoria che ci consente di tenere in mente informazioni e contemporaneamente utilizzarle; difficolta nell’organizzazione e nella pianificazione (anche del materiale scolastico); difficolta di orientamento spazio-temporale e talvolta della motricita. Doveroso sottolineare che, nonostante le difficolta presenti, le persone con DSA presentano numerosi punti di forza, tra i quali: - intelligenza; - capacita di apprendere e lavorare per immagini; - abilita nel fare collegamenti non convenzionali; - creativita a capacita di produrre idee nuove; - approccio non usuale alle materie di studio. Il normale processo di sviluppo delle capacita di lettura, scrittura e calcolo puo variare da soggetto a soggetto, pertanto per porre diagnosi di DSA si deve attendere: • la fine della classe seconda della scuola primaria per quanto riguarda dislessia e disortografia; • tra la seconda e la terza classe della scuola primaria per la disgrafia; • alla fine della classe terza della scuola primaria quando si parla di discalculia. I Disturbi Specifici dell’Apprendimento non sono quindi causati da disabilita sensoriali, neurologiche o intellettive: le persone con DSA sono dotate di un quoziente intellettivo (QI) sufficiente (≥ 85) per poter svolgere in modo adeguato i compiti scolastici. La diagnosi deve essere sottoscritta da un neuropsichiatra e/o da uno psicologo, con l’eventuale partecipazione del logopedista; deve essere effettuata dal Servizio Sanitario Nazionale, da specialisti o strutture accreditate, se previste dalle Regioni, e deve comprendere: • la diagnosi con i relativi codici del Manuale ICD10 (Manuale diagnostico internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanita); • la valutazione neuropsicologica (competenze cognitive, linguistiche e specifici test legati alle abilita di scrittura, lettura, calcolo e comprensione del testo); • aspetti legati all’area affettivo-relazionale; • suggerimenti per l’intervento; • strumenti dispensativi e compensativi I DSA sono regolamentati dalla legge n° 170 del 2010, la quale tutela il diritto di bambini e ragazzi allo studio e affida alla scuola la responsabilità e l’opportunità di utilizzare metodologie per favorire tutti gli studenti sulla base delle loro singole differenze e del proprio potenziale. Tale impegno si concretizza tramite la stesura di un Piano Didattico Personalizzato (PDP) all’interno del quale, per ogni materia, devono essere evidenziati: • strategie e metodologie didattiche; • strumenti compensativi (es. uso di mappe concettuali, formulari, libri digitali, sintesi vocale ecc.) • strumenti dispensativi (es. evitare lettura ad alta voce e la scrittura in corsivo, sostenere interrogazioni programmate in forma orale ecc.) • modalità di verifica • criteri di valutazione La gestione dei DSA necessita di una presa in carico integrata utilizzando metodi e strategie per favorire l’apprendimento e migliorare le capacità organizzative. Oltre al contesto scolastico è spesso era presente la frase, che si era sviluppata tra i 3 e i 5 anni in modo agrammatico, nonostante il bambino presentasse una buona comunicazione gestuale 1 genitori, alla luce di tali difficoltà, dopo una consultazione presso l'assistenza sa- nitaria del Paese di origine, hanno progettato una migrazione in Italia, allo scopo di assicurare a Olaf le maggiori risorse possibili per quanto riguarda il trattamento del linguaggio, anche perché sotto il profilo motorio e cognitivo il bambino non sem- brava presentare alcun problema. Il padre, quindi, si trasferisce in Italia trovando lavoro come imbianchino, mentre la madre e Olaf rimangono in Polonia, in attesa di un ricongiungimento definitivo, quando il bambino avrà raggiunto i 3 anni e mezzo circa di età. Nel periodo successivo, Olaf e la mamma vengono a visitare il padre per la prima volta dopo 7 mesi dalla sua partenza, fermandosi per alcune settimane. In seguito faranno una visita ogni 3 mesi, finché all'età di 5 anni e mezzo del bambino si ha il ricongiungimento di tutta la famiglia in Italia Poco dopo il suo arrivo in Italia, sulla base del tipo di progetto migratorio concepito dai genitori, Olaf viene condotto e valutato dal servizio territoriale. La valutazione del linguaggio viene svolta in italiano e fornisce risultati molto negativi. Analogamente l'osservazione generale appare del tutto negativa: il bambino sembra rispondere poco alle sollecitazioni e presenta inoltre alcune carenze alimentari AI termine della valu- tazione, viene stilata una diagnosi di disturbo relazionale e viene attivato il sostegno scolastico, senza porre in essere alcun tipo di trattamento. Olaf viene scolarizzato dopo pochi mesi e inizia il percorso scolastico insieme all'insegnante che lo seguirà per i due anni successivi, la quale richiederà una revisione diagnostica in quanto sempre meno convinta che il disturbo del bambino sia relazionale. Il bambino ripete la prima classe della scuola primaria per due volte. La biografia linguistica di Olaf rileva come la cor- retta esposizione all'italiano sia iniziata all’età di 5 anni e 3 mesi. Durante i periodi di visita al padre in Italia, il bambino è stato esposto solo al polacco, non ha frequentato la scuola dell'infanzia perché non ancora residente in Italia e non ha ‘avuto contatti con coetanei italiani, in quanto trascorreva le sue giornate con la mamma e alla sera con il papà, spesso al parco o in casa. Rientrato in Polonia per i periodi trimestrali, ha perso naturalmente anche quella scarsissima competenza lessicale in italiano che aveva ma- turato durante il soggiorno trimestrale in Italia, legata a sporadici contatti con la L2. Quando viene valutato in italiano, è arrivato da pochissimo tempo nel nostro Paese e quindi non si sono realizzate le condizioni minime di esposizione alla L2, pertanto è risultato del tutto incapace di affrontare le prove, che sono risultate ovviamente altamente deficitarie, visto che oltretutto sono stati utilizzati i dati normativi stan- dardizzati per la popolazione infantile monolingue italiana. Non sono state indagate in alcun modo le abilità nella lingua polacca e le eventuali cause non psicologiche delle condotte alimentari ristrette. Sia la pediatra che il medico del servizio che ha effettuato la prima diagnosi hanno raccomandato ai genitori di parlare con il bam- bino solo in italiano per facilitarne l'inserimento. È presente familiarità per disturbi dell'area linguistica, visto che il padre ha sofferto di un'intensa balbuzie infantile, per la quale ha seguito il trattamento logopedico in Polonia fino all’età di 10 anni. Durante la valutazioni di revisione diagnostica, gli operatori che seguono il caso sono ‘ovviamente colpiti dal fatto che la madre, laureata in lingue, presenti così tante difficol- tà in italiano, dopo che sono trascorsi ormai quasi 3 anni dal suo arrivo in Italia. Deci- dono quindi di affidare al mediatore culturale un compito che, oltre alla traduzione dei colloqui con il genitore, quelli da e per il bambino in L1, cerchi di ricavare gli elementi utili a comprendere questa discrepanza. Nella donna emerge un fattore di tipo ‘repul- Sivo' nei confronti del proprio progetto migratorio che, se da un lato è stato intrapreso igli i ha comportato un grande stress da transc; per il bene del Lr un i di italiano nonostante abbia rina zione Ca, ao ‘he al suo livello di istruzione, e non frequenta persone ipa personali legate anehe 2 3.0, inizia invece lo sviluppo lessicale in L2 Pet] feb So parmamenia in Italia, conosce un numero maggiore dj Do dopo il primo anno i unto di insegnarle alla madre che lo segue nei compIR LE prpetto ci Lia mediaore tutta la propria difficoltà quando deve capire o parlare tevere io Il ; i la logopedista può osservare direttamente come lej dive È italiano, e durante i col “E ressiva quando può esprimersi nella propria lingua Riel Sei frerenza nel dover usare una lingua che conosce poco è che inoltre, tutta la Poe dare in pieno la propria affettività nei confronti del bambino Je;tmpedie SI ont li to la valutazione con una certa ritrosia, appare improvvisa. (ata ° ho ai i coraiazione che si sta svolgendo tra il mediatore, la mamma e Te CES È le Mini tradotto il contenuto dal polacco all'italiano, rispondendo È DSi caseina io non viene direttamente sollecitato. Il bambino partecipa con Oo O n de ione perché questa viene condotta per prima in LI, presentan. Siaccne, Sp ve di ai ancininio del polacco da parte della logopedista stessa si pen ima di iducia all'interno di queste relazioni: Olaf vorrebbe continuare Cn be le lingue per dimostrare quanto è bravo, visto che è a svolgere tante prove in entrambe le lingue pi EE alese che la logopedista non riesce a imparare nulla del polacco, e G i fasi AI termine della valutazione emerge una quadro di disturbo di ngueggio ne | la L1 polacco che si è trasferito nella L2 italiano, con maggiore espressivi! ae su, visto che si tratta di un bilinguismo al limite tra quello sequenziale e quel : D Î È nonostante siano trascorsi 3 anni dall'arrivo in Italia. Viene svolta anche la valu e in relazione alle abilità oromotorie riguardanti la consistenza dei cibi ed ame quadro di disprassia orale, che ha portato il bambino ad accettare solo Re per ; e conseguente conformismo alimentare. Erano presenti infatti precoci di ficol RO cazione, di soffio, di esecuzione prassica di una serie di movimenti del distretto bu e linguale, ipersensibilità termica e tattile endorale. i aa AI termino della revisione diagnostica, la diagnosi del bambino è quella di un ca bo del linguaggio in bambino bilingue con abilità cognitive nella norma, con pia disprassia orale”. L'indicazione per il servizio territoriale è quella di iniziare un se mento logopedico per il linguaggio e la disprassia orale, con attivazione di un ec Si tore che aiuti la mamma a casa nella gestione dei cibi, all'interno di un program si specifico per il passaggio dai cibi morbidi ai cibi consistenti. Vengono fornite sr indicazioni per l‘apprendimento all'insegnante di sostegno. In accordo con la le! È ratura internazionale, è stato raccomandato ai genitori di esprimersi in polacco, © A era diventata la lingua minoritaria, per restituire equilibrio al bilinguismo, parmatao al bambino il mantenimento dei contatti sociali con i parenti e la cultura di Spare: nenza, restituire alla madre la possibilità di esprimersi al meglio in senso relaziona D e psico-affettivo, fornire una possibilità maggiore di maturare strutture che palesa) essere oggetto di transfer all’interno del trattamento logopedico bilingue o cross-lin guistico. La mamma di Olalf è stata incoraggiata a seguire un corso di italiano. le Questo caso presenta tutta la serie di elementi che sono stati presentati nella par teorica del presente capitolo quali l'importanza di rilevare lo stress da transcultu- razione nei genitori, il ruolo della valutazione linguistica in entrambe le lingue, !8 necessità dell'accuratezza della biografia linguistica, la delicatezza della gestione | Mediatore culturale, l'utilità di un approccio dinamico del tipo “osserva, stimola € 05 serva di nuovo” adottato inconsapevolmente dall'insegnante, che è risultato poi molto I disturbi del linguaggio sono una patologia spesso frequente in età evolutiva. Nella maggior parte dei casi si verifica un disturbo da appropriazione del linguaggio, conosciuto anche come disturbo evolutivo del linguaggio o disfasia evolutiva, in assenza di difficoltà sensoriali, intellettive o neurologiche. È importante analizzare brevemente come funziona il sistema linguistico e quali aree cerebrali sono deputate a tale funzione. Grazie alle ricerche di due importanti studiosi, Pierre Paul Broca (1861) e Carl Wernicke (1874), sono state individuate due aree cerebrali principalmente coinvolte nel linguaggio che hanno preso i nomi dei due autori: • l’area di Broca è localizzata nel piede della terza circonvoluzione frontale situata nell’ emisfero cerebrale dominante (solitamente il sinistro); ha un ruolo chiave soprattutto nella produzione e comprensione della prima parte linguaggio parlato e scritto; • l’area di Wernicke è invece situata nella confluenza delle aree associative temporale, parietale e occipitale; ha un ruolo fondamentale nella comprensione del linguaggio, sia scritto sia parlato, nella gestione della semantica del linguaggio e nella pianificazione del discorso. Sulla base degli studi dei due autori è stata elaborata la classificazione dei disturbi del linguaggio (afasie) negli adulti che comprende sei principali tipi di afasia rispettivamente: - afasia di Broca; - afasia di Wernicke; - afasia di conduzione; - afasia transcorticale motoria; - afasia transcorticale sensoriale; - afasia globale (TAB. 11). Come è possibile notare dalla tabella sopra riportata, ciò che varia nei diversi tipi di afasia sono le abilità di produzione, comprensione e riproduzione verbale. Ad esempio, nell’afasia di Wernicke la comprensione verbale e la ripetizione sono molto compromesse mentre la produzione verbale è preservata anche se sono presenti numerose parafasie fonemiche (scambio di fonemi all’interno della stessa parola) e neologismi (uso di parole inventate o di parole già esistenti usate arbitrariamente con valore simbolico). L’afasia globale risulta essere quella più grave: l’eloquio è molto stentato o assente e la capacità di comprensione verbale è notevolmente compromessa. Grazie agli studi di neuroimaging, così come per le vie visive, anche per il linguaggio è stata proposta l’esistenza di due vie cerebrali: • sistema ventrale del linguaggio (area di Wenicke, porzioni anteriori del lobo temporale di entrambi gli emisferi) che si occupa dell’elaborazione semantica e lessicale delle parole; • sistema dorsale del linguaggio (area di Wernicke, scissura parieto-temporale, area di Broca), responsabile della memoria fonologica, dell’apprendimento di nuove parole e dell’esecuzione verbale. Il linguaggio è un sistema molto complesso ed è espressione di abilità comunicative, sociali e cognitive. Come precedentemente accennato i disturbi del linguaggio possono essere primari (anche detti ‘puri’), in cui non sono identificati fattori causali noti, oppure secondarim ossia dovuti ad altre patologie (es. ipoacusia, lesioni cerebrali, disabilità intellettiva ecc.). Possono essere classificati in modo diverso a seconda del grado di difficoltà e rispetto a quali componenti linguistiche sono coinvolte: componenti formali linguistiche (fonetica, fonologia, semantica, morfologia, sintattica). componenti funzionali (pragmatica, dialogica, discorsiva, narrativa). È possibile suddividere i disturbi che compaiono tipicamente in età evolutiva, detti Disturbi Specifici del Linguaggio (non secondari) in: • ritardo semplice del linguaggio • disturbo specifico del linguaggio • balbuzie • disturbo della comunicazione sociale (pragmatica) Il DSM-V descrive i disturbi della comunicazione e li classificazione nel seguente modo: • disturbo del linguaggio • disturbo fonetico-fonologico • disturbo della fluenza con esordio nell’infanzia (balbuzie) • disturbo della comunicazione sociale (pragmatica). Un tic è una vocalizzazione o un movimento, rapido, improvviso, ricorrente, motorio non ritmico e spesso involontario, ossia che la persona compie senza averne il controllo. I disturbi da tic sono disturbi del neurosviluppo, frequenti in infanzia ma, nella maggior parte dei casi, transitori; a tal proposito secondo Vardellen e colleghi (2016), circa il 10% della popolazione manifesta tic nel corso dell’età infantile e/o adolescenziale. I tic si distinguono: • Tic motori, ad esempio: colpi di tosse, chiudere gli occhi, ammiccare, smorfie del viso, movimenti del collo ecc. • Tic vocali , ad esempio: schiarirsi la gola, sbuffare, emettere vocalizzazioni ecc. Possono inoltre essere distinti in tic semplici o complessi . I tic motori semplici hanno una durata breve (nell’ordine dei millisecondi) e possono comprendere scrollare le spalle, estendere le estremità del corpo, battere gli occhi; i tic motori complessi hanno invece una durata maggiore (nell’ordine dei secondi) e racchiudono una combinazione di tic semplici come ad esempio scrollare le spalle e girare la testa contemporaneamente. I tic vocali semplici comprendono tirare su con il naso, schiarirsi la gola e spesso sono dovuti alla contrazione dei muscoli dell’orofaringe o del diaframma. I tic vocali complessi hanno una durata maggiore e possono manifestarsi con la ripetizione di propri suoni e parole (palilalia ), con il pronunciare parole socialmente inaccettabili, ad esempio insulti, oscenità ecc., (coprolalia ) o con la ripetizione dell’ultima parola o frase ascoltata (ecolalia ). Il DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) classifica i Disturbi da tic come di seguito riportato: È un disturbo neurologico che deve il suo nome al neurologo francese, George Gilles de la Tourette, che lo descrisse per primo nel 1885. L’esordio avviene prima dei 18 anni di età e comporta la manifestazione di sia di una serie di tic motori multipli sia di uno o più tic vocali (non necessariamente concomitanti). Tali tic possono avere una frequenza differente durante il decorso ma sono persistenti per più di un anno dall’esordio del primo tic. Sono presenti tic motori o vocali, singoli o multipli, durante la malattia ma non sia tic motori che vocali (sono presenti solo tic motori o tic vocali). L’esordio deve avvenire prima dei 18 anni di età e i tic possono avere oscillazioni sintomatologiche nella frequenza ma sono persistiti per più di un anno dall’esordio del primo tic. È pertanto importante specificare se il disturbo si presenta con ‘solo tic motori’ o solo ‘tic vocali’; non devono essere soddisfatti i criteri per la sindrome di Tourette. Sono presenti tic motori e/o vocali singoli o multipli. Anche in questo caso l’esordio deve avvenire prima dei 18 anni di età e i tic possono avere oscillazioni sintomatologiche nella frequenza ma sono persistiti per più di un anno dall’esordio del primo tic. Non devono essere soddisfatti i criteri per il disturbo persistente cronico da tic motori o vocali e per la sindrome di Tourette. Per tutti i disturbi da tic, i sintomi non possono essere attribuiti agli effetti fisiologici di una sostanza (es. cocaina) o ad un’altra condizione medica (es. encefalite postvirale ecc.). Vengono inoltre aggiunti i disturbi da tic con altra specificazione e senza altra specificazione. Tipicamente i disturbi da tic iniziano in età infantile, con una media di età di esordio che si aggira intorno ai 4-6 anni; durante l’adolescenza si assiste ad una riduzione della gravità del disturbo così come nell’età adulta. A tal proposito una bassa percentuale di persone adulte continua a manifestare sintomi persistenti e gravi o un loro peggioramento; inoltre, un nuovo esordio di disturbo da tic in età adulta è molto raro e spesso associato ad un danno a livello del sistema nervoso centrale o all’uso eccessivo di sostanze. I tic possono cambiare nel tempo in riferimento ai gruppi muscolari coinvolti e alle vocalizzazioni emesse, così come la gravità della sintomatologia può presentare delle oscillazioni. In alcuni casi i tic possono essere associati a una sensazione somatica che precede il tic detta ‘impulso premonitore’ e sono seguiti da una sensazione di riduzione della tensione; i tic associati ad un impulso premonitore possono essere percepiti come non totalmente involontari poiché, in qualche modo, è possibile resistervi. Alcuni esempi di impulso premonitore sono: un disagio nella zona delle spalle o la sensazione di avere qualcosa in gola che conducono al conseguente tic, ossia muovere le spalle o schiarirsi la gola. Si assiste ad un peggioramento dei tic se vi è la presenza di stanchezza, ansia o eccitazione, mentre migliorano nelle situazioni di calma o durante attività in cui l’attenzione è focalizzata. Eventi particolarmente stressanti come esami, attività eccitanti ecc. possono esacerbare i tic. Non sono chiare le cause alla base del disturbo da tic; alcuni studi sostengono che fattori genetici e ambientali possano influenzarne l’espressione sintomatologica e la gravità ma non sempre vi è una correlazione diretta e causale tra predisposizione genetica e insorgenza del disturbo. Secondo Vardellen e colleghi (2016), una educazione particolarmente rigida e scarsamente emotiva possono portare la persona a non esprimere ciò che sente e prova con la percezione di un senso di insicurezza, inadeguatezza e necessità di controllo. Il trattamento dovrà essere personalizzato e più o meno integrato rispetto alla gravità e alla compromissione funzionale causata dal disturbo. In alcuni casi è necessario un trattamento farmacologico che aiuti l’individuo ad avere un maggiore controllo rispetto ai tic. A livello psicologico è importante intervenire: • sia con la persona stessa, integrando attività psico-educative, psicologiche (utilizzando anche tecniche specifiche quali l’esposizione e la prevenzione della risposta) e psico-motorie con il fine di ridurre la sintomatologia. Gli interventi saranno adattati sulla base dell’età; • sia con il nucleo familiare con l’obiettivo di acquisire maggiori conoscenze sul disturbo così come sulla comprensione del significato dei comportamenti del bambino. Il lavoro sarà centrato sul fornire strategie adeguate e sul porre attenzione riguardo atteggiamenti e comportamenti dei familiari stessi che possono avere una ricaduta diretta sulla sintomatologia. Ad esempio, risulta controproducente arrabbiarsi e sgridare il bambino in seguito alla manifestazione del tic anzi, questo atteggiamento non farà che aumentare sensazioni spiacevoli e conseguentemente anche i sintomi. Fondamentale sarà cercare di mantenere nel contesto domestico un clima il più sereno e tranquillo possibile, monitorando le situazioni in cui i sintomi compaiono maggiormente. I disturbi della nutrizione e dell’alimentazione sono caratterizzati da un persistente disturbo dell’alimentazione oppure da comportamenti che riguardano l’alimentazione che hanno come risultato un alterato consumo e/o assorbimento di cibo e che portano ad una compromissione significativa della salute fisica o del funzionamento psicosociale. Secondo il DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) tali disturbi comprendono: Persistente ingestione di una o più sostanze senza il contenuto alimentare (non commestibili), per almeno un periodo di tempo di un mese. Le sostanze possono essere: carta, sapone, stoffa, capelli, lana, gesso, vernice, gomma ecc. Ripetuto rigurgito del cibo dopo la nutrizione o l’alimentazione per un periodo di almeno un mese. Il cibo ingerito in precedenza, che può essere parzialmente digerito, è rigurgitato in bocca senza apparente nausea o conati di vomito; il cibo può essere rimasticato e poi nuovamente sputato o inghiottito. Tale categoria sostituisce ed estende la diagnosi del DSM-IV relativa ai disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia e della prima infanzia. La caratteristica principale del disturbo è l’evitamento o la restrizione nell’assunzione di cibo che determinano a livello clinico una significativa incapacità nel soddisfare i requisiti per la nutrizione o un apporto energetico non sufficiente derivante dall’assunzione orale del La bulimia nervosa è un quadro psicopatologico caratterizzato da ricorrenti episodi di abbuffata con la presenza dei seguenti aspetti: • mangiare in un determinato periodo di tempo (es. per due ore), una grande quantità di cibo significativamente maggiore di quella che la maggior parte degli individui mangerebbe in circostante simili e nello stesso arco di tempo; • sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (es. sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta mangiando). Sono inoltre presenti condotte compensatorie quali vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici, farmaci, digiuno, eccessiva attività fisica, per prevenire l’aumento del peso. Le abbuffate e le condotte compensatorie appena descritte si verificano in media almeno una volta alla settimana per un periodo di 3 mesi. Generalmente il vomito rappresenta la condotta inappropriata più comune e i suoi effetti immediati riguardano la riduzione della sensazione di malessere fisico (causa dall’abbuffata) e della paura di ingrassare. Vi è una eccessiva enfasi sulla forma e sul proprio peso corporeo che diventano elementi chiave nella valutazione di sé e nel determinare i livelli di autostima. A differenza dell’anoressia nervosa il peso corporeo si mantiene nei limiti di norma o lievemente maggiore. La prevalenza del disturbo è più alta tra i giovani adulti, con un picco nella tarda adolescenza e nella prima età adulta; l’esordio nella pubertà o dopo i 40 anni è raro. Spesso le abbuffate hanno inizio durante o dopo un periodo di restrizioni dietetiche. Il decorso può essere cronico o intermittente con fasi di remissione alternate a fasi in cui le abbuffate ritornano. Le complicazioni più importanti riguardano i disturbi dell’equilibrio idro- elettrolitico e i danni a livello del cavo orale dovuti all’azione ripetuta del vomito. Una minoranza di persone può riferire una compromissione di ruolo, dove la sfera sociale diviene quella maggiormente compromessa dal disturbo. Il trattamento dovrà essere personalizzato e prevederà l’integrazione di più interventi sulla base delle necessità (psico-educativo, psicoterapeutico, farmacologico ecc.); a livello psicologico sarà importante incrementare la motivazione al cambiamento, attribuire un senso e un significato alla sintomatologia in atto, sostenere i livelli di autostima diminuendo l’eccessiva preoccupazione per la forma e il peso corporeo. Il termine ansia deriva dal latino anxia, termine che si riferisce a una condizione di agitazione e preoccupazione. Per poter comprendere cosa si intende per ansia è importante descrive una delle nostre emozioni primarie: la paura. La paura è una emozione geneticamente predeterminata e non appresa, che la persona avverte di fronte ad un pericolo reale o potenziale. Grazie agli studi di neuroimmagini è stato possibile identificare quali sono le aree coinvolte quando proviamo paura; sono stati evidenziati due sistemi di elaborazione legati a questa emozione, rispettivamente: • il sistema veloce: ha come centro di integrazione l’amigdala (area cerebrale profonda responsabile delle risposte automatiche agli stimoli che provocano paura e della loro memorizzazione implicita), che è in grado di prendere decisione automatiche, rapide e al di fuori della consapevolezza, al fine di produrre reazioni immediate utili alla sopravvivenza; tale sistema riceve informazioni dirette dagli organi di senso e le trasforma in risposte corporee di attacco, fuga o inibizione. Quando ci troviamo di fronte ad un pericolo quindi, il nostro sistema veloce ci predispone a: fuggire, attaccare o immobilizzarci (fenomeno tipico di alcune specie animali che fingono la morte per sfuggire alle prede); • il sistema lento: è costituito da un maggior numero di connessioni sinaptiche poiché sono coinvolte altre strutture profonde quali il talamo, l’ippocampo e le strutture corticali per consentire una valutazione più dettagliata; è quindi possibile inibire le risposte automatiche e prendere delle decisioni volontarie. Grazie al sistema lento possiamo divenire consapevoli delle reazioni viscerali e automatiche messe in atto dal sistema veloce. Tali circuiti sono frutto dell’evoluzione e fondamentali per la nostra sopravvivenza. Quali sono allora le differenze tra paura e ansia? L’ansia è una reazione di paura di fronte a un evento che normalmente non viene considerato spaventoso. È importante sottolineare come l’ansia non sia immotivata e senza senso ma causata da valutazioni che trasformano qualcosa di apparentemente innocuo in un possibile evento pericoloso. Quando si prova ansia infatti, i pericoli o le potenziali situazioni temute sono distanti o ipotetiche: la persona ansiosa fatica a vivere nel presente ed è continuamente proiettato in un futuro che avverte come potenzialmente minaccioso o preoccupante. L’organismo si mette in moto, con una vera e propria attivazione somatica (‘sento fisicamente di avere l’ansia’) per rispondere a eventuali eventi allarmanti (possono essere sia interni che esterni); pertanto oltre a fenomeni soggettivi lo stato d’ansia presenta dei segni fisiologici sovrapponibili alle condizioni di iperattivazione del sistema autonomo simpatico: tachicardia, tremore, dilatazione delle pupille, sudorazione, secchezza delle fauci, irrequietezza ecc. Come per la paura, vi è una attivazione neuro-fisiologica in assenza di un reale pericolo. Di seguito la classificazione dei disturbi d’ansia secondo il DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali): • disturbo d’ansia da separazione; • mutismo selettivo; • fobia specifica; • disturbo d’ansia sociale (fobia sociale); • disturbo di panico; • agorafobia; • disturbo d’ansia generalizzata; • disturbo d’ansia indotto da sostanze/farmaci • disturbo d’ansia dovuto ad altra condizione medica; • disturbo d’ansia con altra specificazione • disturbi d’ansia senza altra specificazione. Le cause dei disturbi d’ansia sono complesse. Diverse ricerche hanno dimostrato come fattori genetici possano giocare un ruolo importante ma non definitivo. Stili educativi e tipiche modalità relazionali con le figure di riferimento possono influenzare il senso di sé e della propria vulnerabilità, così come la capacità di far fronte a difficoltà e imprevisti a cui tutti prima o poi si è esposti. Di seguito verranno trattati in maniera più approfondita i seguenti disturbi d’ansia: • disturbo d’ansia da separazione; • mutismo selettivo; • disturbo d’ansia sociale (fobia sociale). Una delle prime situazioni stressanti che il bambino deve affrontare è la separazione dalle figure significative (caregiver); manifestazioni di disagio anche intense sono comuni nei bambini più piccoli: a circa 8 mesi è frequente osservare quella che viene definita ‘angoscia per l’estraneo’ e tra i 12 e i 18 mesi i bambini mostrano reazioni molto intense allontanamento del caregiver. Nel tempo tali manifestazioni tendono a ridursi fino a scomparire intorno ai 5 anni di età. In alcuni bambini però, tale disagio invece di ridursi si intensifica fino ad a diventare un vero e proprio disturbo. Si sviluppano così una paura o ansia eccessive e inappropriate rispetto allo stadio di sviluppo che riguardano la separazione dalle persone care; possono essere presenti tre o più dei seguenti elementi (DSM-V): • disagio eccessivo e ricorrente quando si prevede o si sperimenta davvero la separazione dalla propria casa o dalle figure di attaccamento; • eccessiva e persistente preoccupazione rispetto alla possibile perdita delle figure di attaccamento o alla possibilità che possa capitare loro qualcosa di dannoso (malattie, ferite, morte ecc.); • persistente ed eccessiva preoccupazione che un evento imprevisto possa comportare una separazione dalle figure di riferimento (es. perdersi, ammalarsi, essere rapiti ecc.); persistente rifiuto o riluttanza ad uscire di casa per andare a scuola, al lavoro o altrove per la paura della separazione; • persistente paura o riluttanza a stare da soli o senza le principali figure di attaccamento a casa o in altri contesti; • persistente rifiuto o riluttanza a andare a dormire fuori casa o senza avere vicino una delle principali figure di riferimento; • ricorrenti incubi il cui tema è quello della separazione; • ripetute lamentele di sintomi fisici (es. mal di testa, dolori addominali, nausea ecc.), • quando si ipotizza o si verifica la separazione dalle principali figure di attaccamento. La paura, l’ansia e l’evitamento sono persistenti e devono durare per un periodo di almeno 4 settimane nei bambini e adolescenti e tipicamente 6 mesi o più negli adulti. Il disturbo causa disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti e non è meglio spiegato da altre condizioni mediche o da altri disturbi. La prevalenza del disturbo diminuisce dall’infanzia all’adolescenza e all’età adulta; è il disturbo d’ansia più diffuso nei bambini con meno di 12 anni. A livello relazionale, per ridurre l’ansia, il bambino tende ad esercitare un controllo molto intenso nei confronti del genitore, richiedendo costantemente la sua attenzione e disponibilità con modalità che possono variare con l’età e lo sviluppo. Solitamente anche il sonno è disturbato, interrotto da brutti sogni e di frequente, il bambino lascia il proprio letto per andare a dormire in quello dei genitori. Cosa accade quando la figura di riferimento è lontana, ad esempio a scuola? Il bambino piò manifestare il suo disagio e le sue difficoltà assumendo un atteggiamento controllato e sottomesso o, al contrario, oppositivo e provocatorio. Nel contesto scolastico è possibile che si manifestino i seguenti comportamenti/atteggiamenti: • frequenti ritardi; • pianti; • difficoltà di concentrazione e attenzione; • basso rendimento scolastico; • lentezza nell’esecuzione dei compiti; • frequenti domande e richieste di rassicurazione; • evitare di svolgere attività con i coetanei dopo l’orario di scuola; • bassa autostima in situazioni sociali e in ambito scolastico. Qualora il disturbo permanga in adolescenza, può essere ‘mascherato’ da comportamenti di tipo provocatorio – anche gravi – che hanno la funzione di mantenere su di sé l’attenzione dei genitori. È un disturbo d’ansia caratterizzato da (DSM-V): una costante incapacità di parlare in situazioni sociali specifiche in cui ci si aspetta che si parli (es. contesto scolastico), nonostante si sia in grado di parlare in altre situazioni. Il termine “selettivo” si riferisce proprio al fatto che il bambino riesce ad esprimersi solo con determinate persone delle quali si fida e in alcune circostanze nelle quali si sente più tranquillo (solitamente il contesto familiare), ma mostra notevoli difficoltà in ambienti sociali in cui non si sente a proprio agio (in particolar modo nel contesto scolastico); la selezione degli interlocutori può essere più o meno ampia fino ad arrivare anche ad un solo genitore. Tale condizione deve essere presente da almeno un mese (non il primo mese di scuola) e interferire con i risultati scolastici o lavorativi e con la comunicazione sociale. L’incapacità di parlare non è dovuta al fatto che non si conosce o non si è a proprio agio con il linguaggio o con la situazione sociale. Nelle interazioni sociali spesso i bambini con mutismo selettivo non iniziano un discorso o non rispondono quando gli altri si rivolgono e parlano con loro; solitamente parlano in casa con i familiari ma spesso accade che non parlino nemmeno davanti ad amici stretti o parenti quali nonni o cugini. Rifiutano spesso di parlare a scuola tanto che questo comporta una compromissione a livello educativo e una difficoltà di valutazione degli apprendimenti da parte degli insegnanti. Per comunicare utilizzano spesso altri canali o strumenti non verbali ad esempio, scrivono, indicano, usano suoni senza articolarli in parole ecc. e possono essere desiderosi di partecipare alle situazioni sociali qualora non sia richiesto l’uso del linguaggio; alle volte però la situazione può essere molto grave tanto da inficiare notevolmente la sfera sociale. A causa della forte paura delle interazioni sociali, anche le loro espressioni facciali possono risultare meno espressive, faticano a mantenere il contatto visivo con l’interlocutore e sono estremamente sensibili nei confronti dell’ambiente circostante. Il linguaggio del corpo può essere impacciato e goffo quando si rivolge loro attenzione (es. voltano la testa o guardano a terra durante una conversazione, si toccano i capelli oppure si nascondono). Inoltre, lamentano spesso sintomi fisici quali: mal di stomaco, mal di testa, nausea, manifestazioni di pianto o di collera. A scuola molti bambini/ragazzi hanno difficoltà a I disturbi dell’evacuazione sono disturbi caratterizzati dall’evacuazione inappropriata di urine o feci e vengono generalmente diagnosticati durante la prima infanzia (dopo i 4/5 anni) o in adolescenza. Nel DSM-V la classificazione dei disturbi dell’evacuazione è: • Enuresi • Encopresi • Disturbo dell’evacuazione con altra specificazione • Disturbo dell’evacuazione senza specificazione L'enuresi, anche nota come incontinenza urinaria notturna, è un disturbo che si verifica quando una persona non riesce a controllare la fuoriuscita di urina durante il sonno. Questo problema può essere estremamente imbarazzante per i pazienti di tutte le età e può avere un impatto significativo sulla loro qualità della vita. L'enuresi può essere classificata come primaria o secondaria. L'enuresi primaria si verifica quando un bambino non ha mai raggiunto il controllo della vescica durante la notte, mentre l'enuresi secondaria si verifica quando un bambino ha iniziato a controllare la vescica durante la notte ma ha poi ricominciato a bagnare a letto. L'enuresi può anche essere classificata come monosintomatica o non monosintomatica. L'enuresi monosintomatica si verifica quando la fuoriuscita di urina è l'unico sintomo presente, mentre l'enuresi non monosintomatica si verifica quando ci sono altri sintomi associati, come il dolore durante la minzione o l'aumento della frequenza urinaria. Esistono 3 sottotipi di enuresi: • Enuresi solo notturna: generalmente monosintomatica, è la più frequente e avviene nella fase del sonno REM quando spesso il bambino sogna di fare pipì. • Enuresi solo diurna: chiamata anche incontinenza urinaria, si verifica più tipicamente nel primo pomeriggio durante i giorni di scuola e può essere associato a sintomi di comportamento dirompente. • Enuresi notturna e diurna: generalmente è non monosintomatica. Ci sono diverse cause dell'enuresi, tra cui fattori genetici, anomalie del tratto urinario, problemi di sonno e fattori psicologici. L'enuresi primaria è spesso associata a un ritardo nello sviluppo del controllo della vescica, mentre l'enuresi secondaria può essere causata da una serie di fattori, come il diabete, le infezioni urinarie o l'apnea del sonno. La diagnosi di enuresi viene di solito effettuata attraverso una valutazione medica completa e l'esame delle urine. Una valutazione psicologica può anche essere utile per identificare eventuali fattori psicologici che potrebbero contribuire al problema. Il trattamento dell'enuresi dipende dalla causa sottostante del disturbo. Nei casi in cui la causa non è nota, i medici possono prescrivere farmaci o terapie psicologiche per aiutare a migliorare il controllo della vescica durante la notte. In conclusione, l'enuresi è un disturbo che può avere un impatto significativo sulla qualità della vita dei pazienti. Tuttavia, con una diagnosi precoce e il trattamento appropriato, la maggior parte dei pazienti può raggiungere un controllo adeguato della vescica durante la notte. L'encopresi, anche conosciuta come incontinenza fecale, è un disturbo che si verifica quando un individuo non riesce a controllare la fuoriuscita di feci. Questo disturbo è spesso associato a un senso di vergogna e può avere un impatto significativo sulla qualità della vita del paziente. Come l’enuresi, anche l'encopresi può essere classificata come primaria o secondaria: primaria se un bambino non ha mai raggiunto il controllo delle feci, secondaria se un bambino ha iniziato a controllare le feci ma ha poi ricominciato a avere episodi di incontinenza fecale. L'encopresi può anche essere classificata come volontaria o involontaria: l'encopresi volontaria si verifica quando un individuo sceglie di non controllare le feci, mentre l'encopresi involontaria si verifica quando un individuo non ha alcun controllo sulla fuoriuscita delle feci. Le cause dell'encopresi possono essere diverse, tra cui problemi fisici come la stitichezza, il megacolon o anomalie anatomiche del retto. L'encopresi può anche essere causata da problemi psicologici come l'ansia, la depressione o il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD). In alcuni casi, l'encopresi può essere causata da una combinazione di fattori fisici e psicologici. La diagnosi di encopresi di solito viene effettuata attraverso una valutazione medica completa e l'esame fisico: gli esami del sangue e delle feci possono anche essere effettuati per identificare eventuali problemi fisici che potrebbero essere la causa dell'encopresi. Inoltre, una valutazione psicologica può essere utile per identificare eventuali problemi emotivi o comportamentali che possono contribuire al problema. Il trattamento dell'encopresi dipende dalla causa sottostante del disturbo: • Nei casi in cui la causa è fisica, il trattamento potrebbe includere l'uso di lassativi o la chirurgia. • Nei casi in cui la causa è psicologica, il trattamento potrebbe includere la psicoterapia o la terapia farmacologica. In conclusione, come l’enuresi, l'encopresi è un disturbo che può avere un impatto significativo sulla qualità della vita del paziente. Tuttavia, con una diagnosi precoce e il trattamento appropriato, la maggior parte dei pazienti può raggiungere un controllo adeguato delle feci e migliorare la loro qualità della vita. I disturbi del sonno-veglia sono disturbi caratterizzati da una insoddisfazione lamentata dalla persona sulla quantità o qualità del sonno con una conseguente compromissione delle attività diurne e un aumento dei livelli di stress. Questi disturbi rappresentano un fattore di rischio per lo sviluppo di malattie mentali o per disturbo da uso di sostanze ma possono anche esserne una conseguenza. Infatti, i disturbi del sonno possono anticipare o essere una diretta conseguenza di malattie fisiche o mentali. Il DSM-V definisce diversi disturbi del sonno: • Insonnia: É il disturbo del sonno più comune e si verifica quando un individuo ha difficoltà a dormire o a rimanere addormentato. L'insonnia può essere causata da problemi medici, psicologici o ambientali, come lo stress, l'ansia, la depressione, il rumore o la luce. • Disturbo da Ipersonnolenza: è un disturbo del sonno-veglia caratterizzato da un’eccessiva sonnolenza nonostante la persona abbia dormito almeno 7 ore. Una persona con disturbo da ipersonnolenza fa fatica a risvegliarsi, ritiene che il sonno non sia stato ristoratore e fa quasi tutti i giorni sonnellini diurni per recuperare il senso di stanchezza. • Narcolessia: È un disturbo caratterizzato da attacchi di sonno improvvisi e da sonnellini diurni ricorrenti che si verificano lo stesso giorno. La narcolessia è causata da un'alterazione nella regolazione del sonno e della veglia del cervello. La narcolessia si può presentare in comorbilità con: disturbo bipolare, disturbo depressivo, disturbi d’ansia e in casi rari anche con la schizofrenia. • Disturbi del sonno correlati alla respirazione: Una categoria di disturbi del sonno che comprende: APNEA OSTRUTTIVA DEL SONNO: è un disturbo del sonno che si verifica quando la respirazione viene interrotta ripetutamente durante il sonno a causa di un blocco delle vie respiratorie superiori. Tali apnee si verificano dalle 5 alle 15 volte per ogni ora di sonno. Questo disturbo del sonno può causare sonnolenza durante il giorno e può aumentare il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari. APNEA CENTRALE DEL SONNO: è, invece, caratterizzata da 5 o più apnee centrali. IPOVENTILAZIONE CORRELATA AL SONNO: è disturbo molto raro caratterizzato da una riduzione dei livelli di emissione di CO2 durante la respirazione. • Disturbi del ritmo circadiano del sonno-veglia: Questi disturbi sono causati da un'alterazione del ritmo circadiano naturale del corpo. Questo disturbo del sonno può causare sonnolenza durante il giorno e difficoltà a dormire la notte. • Parasonnie: sono caratterizzate da eventi o comportamenti inusuali durante il sonno, che possono portare a risvegli intermittenti e a difficoltà a riaddormentarsi. Tuttavia sono questi eventi comportamentali, piuttosto che l'insonnia stessa, a dominare il quadro clinico. Di questo gruppo fanno parte il sonnambulismo, il terrore notturno o il comportamento violento durante il sonno. Questi disturbi possono causare ansia e interferire con la qualità del sonno. Il trattamento dei disturbi del sonno dipende dal tipo e dalla gravità del disturbo. Il trattamento può includere terapia comportamentale, terapia farmacologica o una combinazione di entrambi. I disturbi depressivi sono un insieme di condizioni mentali che influiscono negativamente sulla salute psicologica e sulla qualità della vita quotidiana di una persona. La depressione è uno dei disturbi depressivi più comuni e si caratterizza per un umore persistentemente triste o vuoto, perdita di interesse per le attività che una volta erano piacevoli, cambiamenti nell'appetito e nel sonno, perdita di energia e concentrazione, sensazione di inutilità e di colpa, pensieri di morte o di suicidio. Nel DSM-V la classificazione dei disturbi depressivi è: • Disturbo da disregolazione dell’umore dirompente • Disturbo depressivo maggiore • Disturbo depressivo persistente (distimia) • Disturbo disforico premestruale • Disturbo depressivo indotto da sostanze/farmaci • Disturbo depressivo dovuto ad altra condizione medica Il trattamento dei disturbi depressivi può includere terapia psicologica, farmaci antidepressivi, supporto da parte di amici e familiari, ed infine cambiamenti nello stile di vita, come una dieta sana e l'esercizio fisico regolare. Il disturbo da disregolazione dell'umore dirompente, noto anche come disturbo bipolare dell'infanzia o dell'adolescenza, è un disturbo mentale che si manifesta durante l'infanzia o Non esiste una singola causa identificata per il disturbo bipolare, ma molte ricerche suggeriscono che una combinazione di fattori genetici, biologici, ambientali e psicologici possono contribuire allo sviluppo di questo disturbo. 1. Fattori genetici: la ricerca ha dimostrato che il disturbo bipolare è ereditario e che i geni hanno un ruolo importante nella sua insorgenza; infatti, se un familiare ha il disturbo bipolare, la probabilità che un altro membro della famiglia lo sviluppi è maggiore. 2. Anomalie cerebrali: alcune ricerche hanno dimostrato che le persone con disturbo bipolare possono avere anomalie nella struttura e nella funzione del cervello, come ad esempio un'alterazione nella regolazione dei neurotrasmettitori quali la serotonina, la dopamina e la noradrenalina. 3. Stress e traumi psicologici: gli eventi stressanti della vita, come la perdita di un caro, un evento traumatico o un evento di vita stressante, possono scatenare un episodio maniacale o depressivo. 4. Uso di sostanze: l'uso di alcool e droghe può peggiorare i sintomi del disturbo bipolare e aumentare la probabilità di episodi maniacali o depressivi. 5. Altri fattori ambientali: alcuni fattori ambientali, come la carenza di sonno, possono peggiorare i sintomi del disturbo bipolare e aumentare la probabilità di un episodio. Il trattamento dei disturbi bipolari può includere farmaci stabilizzatori dell'umore, farmaci anticonvulsivanti, terapia psicologica e supporto da parte di amici e familiari. È importante che una persona con disturbi bipolari riceva un trattamento adeguato e tempestivo, poiché questi disturbi possono interferire significativamente con la qualità della vita e possono aumentare il rischio di comportamenti a rischio, traumi e suicidio. I disturbi di personalità sono un gruppo di disturbi mentali che influiscono sul modo in cui una persona pensa, sente e si comporta in modo persistente e duraturo. Questi disturbi possono causare problemi significativi nella vita quotidiana, compresi problemi relazionali, instabilità emotiva e impulsività. I disturbi di personalità sono divisi in 3 cluster in base ad alcune somiglianze descrittive. Il Cluster A è caratterizzato da comportamenti eccentrici e tendenza all’isolamento: • Disturbo di Personalità paranoide: è caratterizzato da una diffidenza eccessiva e persistente verso gli altri che spesso si manifesta come sospetto eccessivo e irrazionale nei loro confronti. Le persone con questo disturbo spesso sospettano che gli altri stiano complottando contro di loro o che siano male intenzionati nei loro confronti: proprio per questo tale disturbo di personalità può essere difficile da trattare, poiché i pazienti non confidano negli altri e possono essere riluttanti a cercare aiuto professionale. • Disturbo di Personalità schizoide: è un disturbo psicologico caratterizzato da una marcata difficoltà nell'avere relazioni interpersonali e dalla tendenza ad evitare attivamente il coinvolgimento emotivo con gli altri. Le persone con questo disturbo tendono ad essere indifferenti e distaccate, preferendo trascorrere il loro tempo da soli o impegnati in attività che non richiedono interazioni sociali significative. • Disturbo di Personalità schizotipica: si caratterizza per una serie di comportamenti ed esperienze insolite, tra cui la tendenza a credere in pensieri o credenze irrazionali o eccentriche e la difficoltà nel rapportarsi con gli altri in modo sociale e comunicativo. In molti casi, le persone con questo disturbo possono sperimentare percezioni e sensazioni insolite e avere un linguaggio o un comportamento bizzarro. Il disturbo di personalità schizotipica può essere associato a un rischio maggiore di sviluppare una malattia mentale come la schizofrenia; tuttavia, questo non significa necessariamente che chi ne soffre svilupperà una psicosi. Il Cluster B è caratterizzato da egocentrismo, una forte emotività che porta a comportamenti drammatici, e scarsa empatia: • Disturbo Borderline di Personalità (BPD): è una condizione psicologica che si caratterizza per la presenza di comportamenti e pensieri instabili e intensi. Questo disturbo può avere un effetto significativo sulla qualità della vita delle persone che ne sono colpite, interferendo con le relazioni e la capacità di gestire le emozioni. Il DBP è spesso associato a una storia di abuso emotivo o fisico e a un'infanzia difficile: queste esperienze possono avere un effetto negativo sul modo in cui le persone con DBP percepiscono sé stesse e gli altri, e possono causare difficoltà nella gestione delle emozioni e delle relazioni interpersonali. I sintomi del DBP possono includere emozioni intense e instabili, comportamenti impulsivi, pensieri distorti e un'immagine negativa di sé. Questi sintomi possono portare a comportamenti distruttivi e autolesionisti, come il taglio o il tentato suicidio. Il trattamento per il DBP di solito comporta la psicoterapia, come la terapia di supporto o la terapia cognitivocomportamentale. Queste forme di trattamento possono aiutare le persone a gestire le emozioni, a migliorare le relazioni interpersonali e a sviluppare una più positiva immagine di sé. Inoltre, alcune persone con DBP possono trovare utili farmaci come gli stabilizzatori dell'umore per aiutare a gestire i sintomi. Tuttavia, è importante che questi farmaci siano prescritti e monitorati da un professionista del settore medico. È importante che le persone con DBP ricevano un trattamento precoce e continuo per aiutare a gestire i sintomi e migliorare la qualità della loro vita. • Disturbo Narcisistico di Personalità (NPD): è caratterizzato dalla necessità di essere al centro dell'attenzione, dalla percezione di superiorità rispetto agli altri e dalla mancanza di empatia verso gli altri. Gli individui con NPD hanno un'immagine distorta di sé stessi e hanno spesso una bassa autostima, che cercano di compensare con un'esibizione di potere, bellezza o successo. Tuttavia, al di sotto della maschera di autostima e di sicurezza, questi individui sono estremamente vulnerabili alle critiche e all'umiliazione. I sintomi del NPD comprendono: un senso eccessivo di importanza personale, bisogno di ammirazione, sfiducia e sospetto verso gli altri, arroganza e presunzione, poca empatia verso gli altri, mancanza di interesse verso i sentimenti degli altri, bisogno di controllare gli altri, mancanza di autocritica e incapacità di accettare la responsabilità per i propri errori. Il trattamento del NPD può essere difficile a causa della negazione del problema da parte del paziente e della loro scarsa motivazione a cambiare. La terapia individuale con un terapeuta esperto è considerata la forma più efficace di trattamento. • Disturbo Istrionico di Personalità: è un disturbo psicologico caratterizzato da comportamenti e atteggiamenti emotivi, teatrali e seduttivi. Le persone con questo disturbo tendono a cercare costantemente l'attenzione degli altri e a fare di tutto per ottenere la loro approvazione e ammirazione. Le persone con disturbo istrionico di personalità possono essere particolarmente sensibili al rifiuto e alla critica, e possono reagire in modo esagerato a situazioni di conflitto o di stress. Tuttavia, possono anche essere molto carismatiche e amichevoli, e avere un grande fascino e una grande capacità di persuasione. La terapia psicodinamica può aiutare a comprendere e ad affrontare i motivi dietro i comportamenti istrionici, spesso radicati in traumi infantili o in esperienze passate di abuso o di abbandono. In alcuni casi, possono essere utilizzati farmaci per trattare i sintomi associati al disturbo istrionico di personalità, come l'ansia o la depressione. • Disturbo Antisociale di Personalità: è caratterizzato da un comportamento antisociale e disprezzo per le regole e i diritti degli altri. Le persone con questo disturbo tendono ad avere difficoltà a rispettare le norme sociali e legali, e possono essere impulsive, manipolative e prive di empatia. Le persone con disturbo antisociale di personalità possono essere particolarmente pericolose per gli altri, poiché possono essere violenti o mettere in pericolo la vita delle altre persone senza alcun rimorso o senso di colpa. Tuttavia, non tutte le persone con questo disturbo diventano criminali o violenti. Infine, Cluster C è caratterizzato da comportamenti timorosi, vissuti ansiosi e scarsa autostima: • Disturbo Evitante di Personalità (APD): caratterizzato da una paura intensa di essere respinto o criticato, che porta a una tendenza a evitare le relazioni interpersonali e le situazioni sociali. Questo disturbo della personalità è caratterizzato da una profonda insicurezza interiore e da un bisogno intenso di essere accettati dagli altri. Le persone con APD evitano le situazioni sociali e le relazioni intime per paura di essere giudicate o rifiutate. Questo evitamento può limitare significativamente la loro vita sociale e interpersonale, rendendo difficile sviluppare e mantenere relazioni significative con gli altri. I sintomi del Disturbo di Personalità Evitante includono: insicurezza cronica, paura di essere giudicati o criticati dagli altri, difficoltà a esprimere emozioni e pensieri, bisogno di essere accettati dagli altri, evitamento di situazioni sociali e relazioni intime, mancanza di fiducia in sè stessi, e insoddisfazione nella vita personale e lavorativa. • Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità: è caratterizzato da una rigidità nei pensieri e nei comportamenti, una necessità di controllo e una tendenza a essere perfezionista. Il Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità è un disturbo della personalità caratterizzato da pensieri e comportamenti ossessivi che interferiscono con la vita quotidiana e le relazioni interpersonali. I pazienti sono spesso preoccupati per l'ordine, la perfezione e la pulizia, e queste preoccupazioni possono impedire loro di portare a termine le attività quotidiane e di stabilire relazioni significative con gli altri. I sintomi del Disturbo Ossessivo-Compulsivo di Personalità includono: ossessioni per l'ordine e la perfezione, comportamenti ripetitivi e compulsivi, difficoltà a delegare compiti ad altri, rifiuto di fare cose che potrebbero causare disordine, paura di contaminazione, e rigidità mentale ed emotiva. • Disturbo di Personalità Dipendente: è un disturbo psicologico caratterizzato dalla dipendenza emotiva e psicologica da una figura di riferimento esterna, solitamente un'altra persona. Le persone affette da questo disturbo hanno una grande difficoltà a prendere decisioni autonome e ad affrontare la vita in modo indipendente in quanto dipendono dalle altre persone per soddisfare i loro bisogni emotivi e di autostima, e temono la separazione o il rifiuto. Sono spesso presenti difficoltà a livello lavorativo, sociale e sentimentale. Queste persone possono anche essere vulnerabili alla manipolazione e allo sfruttamento da parte degli altri, e possono finire per vivere in relazioni tossiche o abusanti. Le cause specifiche di un disturbo di personalità possono variare in base al tipo di disturbo, ma molte ricerche suggeriscono che una combinazione di fattori genetici, biologici, ambientali e psicologici contribuiscono allo sviluppo di questi disturbi. 1. Fattori genetici: la ricerca ha dimostrato che i disturbi di personalità hanno una componente genetica e che i geni possono influire sullo sviluppo di questi disturbi. 2. Storia di infanzia e abusi: eventi traumatici o stressanti nell'infanzia, come abusi o negligenze, possono avere un impatto negativo sul modo in cui una persona percepisce sé stessa e gli altri e possono contribuire allo sviluppo di un disturbo di personalità. 3. Anomalie cerebrali: alcune ricerche hanno dimostrato che le persone con disturbi di personalità possono avere anomalie nella struttura e nella funzione del cervello, come ad esempio un'alterazione nella regolazione dei neurotrasmettitori quali la serotonina. 4. Modelli di comportamento appresi: le persone possono sviluppare disturbi di personalità come risultato di modelli di comportamento appresi dalla famiglia o da altri gruppi di riferimento. 5. Fattori ambientali: il contesto sociale e culturale in cui vive una persona può influire sul suo sviluppo psicologico e contribuire allo sviluppo di un disturbo di personalità. approccio personalizzato al trattamento e un continuo monitoraggio e adattamento del piano terapeutico. La schizofrenia è causata da una combinazione di fattori genetici, ambientali e biologici. I ricercatori stanno ancora cercando di comprendere appieno le cause precise della malattia, ma è stato dimostrato che i fattori ambientali come lo stress, le infezioni o l'uso di droghe possono contribuire a peggiorare i sintomi. I filoni di ricerca principali sono: • Ipotesi genetiche: secondo i ricercatori vari geni potrebbero portare alla malattia. La schizofrenia ha infatti una buona familiarità come si può vedere dai valori di concordanza tra gemelli omozigoti (50%). • Ipotesi biochimiche e neurotrasmettitoriali: tali ipotesi eziologiche si sono concentrate soprattutto sul ruolo della dopamina, in quanto gli studi post-mortem su pazienti schizofrenici hanno spesso rivelato alti livelli di dopamina in alcune aree cerebrali a discapito di altre. Questa disparità potrebbe anche spiegare i sintomi positivi (dovuti ad un eccesso di dopamina nel circuito mesolimbico) e quelli negativi (dovuti ad una carenza di dopamina nel circuito mesocorticale). • Ipotesi della vulnerabilità allo stress: una teoria psicologica largamente accettata è che la schizofrenia sia causata da una combinazione di fattori di vulnerabilità e stress. Le persone con una storia familiare di schizofrenia o con una predisposizione genetica possono essere più vulnerabili allo sviluppo della malattia, mentre lo stress biologico, come ad esempio una infezione, un danno cerebrale o un'alterazione delle funzioni cerebrali, può scatenare i sintomi della schizofrenia. Inoltre, anche lo stress psicologico causato da relazioni familiari disfunzionali può rappresentare un fattore di rischio, mentre l’essere inseriti in una buona rete familiare, scolastica e sociale rappresenta un fattore di protezione. • Ipotesi psicogenetiche: dopo Freud, molti autori hanno provato a dare una spiegazione psicologica e familiare della schizofrenia suggerendo che la malattia possa essere causata da fattori psicologici e ambientali, come stress, traumi infantili, relazioni familiari disfunzionali e problemi di comunicazione interpersonale. Queste ipotesi suggeriscono che la schizofrenia sia una risposta adattativa ad un ambiente stressante e sfidante, piuttosto che una malattia biologica. Tuttavia, anche se i fattori psicologici e ambientali possono contribuire allo sviluppo della schizofrenia, non sono la causa unica della malattia e queste teorie sono da ritenersi superate. La schizofrenia è una condizione complessa, influenzata da una combinazione di fattori genetici, biologici e ambientali. Nel DSM-V la schizofrenia è classificata sotto “Disturbi dello spettro della schizofrenia e altri disturbi psicotici” e deve rispettare i seguenti parametri: Primo criterio (A) Due o più dei seguenti sintomi, presenti per una parte di tempo significativa durante il periodo di un mese (almeno uno dei primi tre deve essere presente): 1. Deliri. 2. Allucinazioni. 3. Eloquio disorganizzato (per esempio deragliamento, incoerenza ecc..). 4. Comportamento grossolanamente disorganizzato o catatonico. 5. Sintomi Negativi. Secondo criterio (B) Per una significativa parte di tempo dall’esordio del disturbo, il livello di funzionamento in una o più delle aree principali, come il lavoro, le relazioni interpersonali, o la cura di sé è marcatamente al di sotto del livello raggiunto prima dell’esordio. Terzo criterio (C) Segni continuativi del disturbo persistono per almeno sei mesi. Questo periodo di sei mesi deve comprendere almeno un mese di sintomi che soddisfano il criterio A, e può comprendere periodi di sintomi prodromici o residui. Quarto criterio (D) Sono stati esclusi il disturbo schizo-affettivo, il disturbo depressivo e quello bipolare in quanto non sussistono gravi episodi depressivi o maniacali, il DPTS, il DOC. Quinto criterio (E) Il disturbo non è attribuibile all’uso di sostanze o a una condizione medica. Sesto criterio (F) Se i pazienti con disturbo dello spettro autistico presentano da almeno un mese deliri o allucinazioni importanti, può essere fatta diagnosi di schizofrenia. La diagnosi di schizofrenia viene effettuata da un professionista sanitario, solitamente uno psichiatra, che valuterà i sintomi, la storia medica e la storia familiare. Non esiste un solo test per diagnosticare la schizofrenia, ma è importante che la persona venga valutata da un professionista che abbia esperienza con questa condizione. Tipicamente, il decorso della malattia si articola in tre fasi: 1. Fase prodromica: in questa prima fase si assiste ad un progressivo ma notevole cambiamento della persona coinvolta che porta spesso ad un significativo calo del rendimento scolastico/lavorativo. I sintomi più comuni in questa fase sono: una notevole ansia che la persona non riesce a identificare bene, la comparsa improvvisa di interessi bizzarri e totalizzanti, e infine lo sviluppo di preoccupazioni somatiche immotivate quali dolori poco definiti e dismorfofobie. Possono anche manifestarsi alcune prime esperienze di depersonalizzazione e vi è una generale prevalenza di sintomi negativi con conseguente ritiro sociale. L’esordio di questa fase può essere acuto e durare pochi giorni, o essere subdolo e lentamente progressivo con una durata che può essere di anni. 2. Fase attiva: caratterizzata dalla comparsa dei sintomi psicotici tipici della malattia ovvero deliri, allucinazioni, disorganizzazione del pensiero e sintomi negativi. L’efficacia della terapia rende la durata di questa fase molto variabile, ma a livello diagnostico sono richieste almeno quattro settimane per poterla differenziare dal Disturbo psicotico breve. 3. Fase residua: l’ultima fase è caratterizzata da un attenuarsi dei sintomi positivi, i quali rimangono presenti, ma in forma tale da essere considerati bizzarri o atipici più che abnormi e chiaramente patologici. I sintomi negativi tornano ad essere predominanti e rimane difficile aver un buon funzionamento in ambito scolastico, lavorativo e sociale. Come scritto precedentemente, la schizofrenia insorge tra i 18 e i 25 anni per i maschi e qualche anno più tardi per le femmine, ma sono conosciute sia forme ad insorgenza precoce (EOS ovvero Early onset schizophrenia ) con esordio prima dei 18 anni, sia forme ad insorgenza precocissima con esordio prima dei 13 anni (VEOS, Very early onset schizophrenia ). La differenza tra queste varie forme riguarda esclusivamente l’età d’esordio e non le caratteristiche della patologia. L’evoluzione della schizofrenia, generalmente, non è positiva. La prognosi della schizofrenia varia in base a diversi fattori, tra cui la gravità dei sintomi, la durata del disturbo, la risposta al trattamento e la presenza di comorbidità. In generale, la maggior parte delle persone con schizofrenia presenta sintomi durante tutta la vita, anche se con un adeguato trattamento molti possono vivere vite significativamente migliori. Il trattamento tempestivo e la continuazione a lungo termine sono fondamentali per migliorare la prognosi della schizofrenia: la terapia farmacologica è il trattamento di base e può aiutare a controllare i sintomi, mentre le terapie psicologiche, come la terapia cognitivocomportamentale, possono aiutare le persone con schizofrenia a gestire i loro sintomi e a migliorare le loro abilità sociali e di problem solving . Nonostante questi trattamenti, alcune persone con schizofrenia potrebbero avere difficoltà a gestire i loro sintomi e a integrarsi nella società: ad esempio, alcune persone potrebbero avere difficoltà a mantenere un lavoro o a stabilire relazioni sane e significative. Tuttavia, con il supporto continuo e la comprensione, molte persone con schizofrenia possono vivere vite piene e significative. In generale, la prognosi della schizofrenia è più positiva per le persone che ricevono un trattamento tempestivo e continuo, che hanno una rete di supporto solida e che sono impegnate attivamente nel loro recupero. La casistica è ancora ridotta, ma dalle ricerche svolte fin ora si evince che le forme precoci di schizofrenia (EOS e VEOS) hanno una prognosi significativamente peggiore rispetto a coloro che sviluppano la malattia in età adulta. La prevenzione primaria è utile quando sono note storie di familiarità, basso QI. Riconoscerla precocemente permette di intervenire altrettanto precocemente, favorendo non certo una guarigione, ma sicuramente un miglior decorso. Spesso dopo l’esordio acuto è utile il ricovero ospedaliero, così da stabilizzare il paziente e impostare una corretta terapia farmacologica accompagnata da sostegno psicologico. I farmaci utilizzati sono gli antipsicotici tipici (clorpromazina e aloperidolo) che bloccano i recettori della dopamina o gli antipsicotici atipici (risperidone, clozapina, olazapina) con azione su recettori dopaminergici e serotoninergici. La schizofrenia è una malattia cronica che richiede un trattamento a lungo termine comprensivo di farmaci antipsicotici, psicoterapia, interventi educativi e supporto sociale, ma molti pazienti con il trattamento adeguato possono migliorare significativamente e condurre vite funzionali. La disabilità intellettiva, o disturbo dello sviluppo intellettivo, è un disturbo con esordio durante il periodo dello sviluppo; secondo il DSM- V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) è caratterizzato da deficit del funzionamento sia intellettivo che adattivo, negli ambiti concettuali, sociali e pratici. Prima di descrivere nello specifico il disturbo, è necessario descrivere cosa si intende per intelligenza e per abilità adattive. L’intelligenza è un costrutto complesso, difficilmente spiegabile in una unica definizione; in linea generale può essere descritta come una facoltà mentale che comprende il pensiero astratto, la comprensione di idee complesse e consente di elaborare concetti e apprendere dati dell'esperienza per poter risolvere in modo efficace svariati problemi e mettere in atto comportamenti adeguati al contesto; è inoltre influenzata dalla motivazione e dall’affettività. Le abilità adattive sono l’insieme delle capacità necessarie per un adeguato funzionamento nella vita quotidiana. Fatta questa premessa, affinchè si possa parlare di disabilità intellettiva, devono essere sodisfatti i seguenti criteri: • deficit delle funzioni intellettive quali problem solving, ragionamento, pensiero stratto, pianificazione, capacità di giudizio, apprendimento scolastico e apprendimento dall’esperienza. Tali difficoltà devono essere confermate da apposita valutazione clinica sia da test di intelligenza standardizzati; • deficit a livello del funzionamento adattivo che porta al non raggiungimento degli standard di sviluppo e socioculturali di autonomia e responsabilità sociale. Tali deficit sono presenti in diversi contesti (es. casa, scuola, lavoro ecc.) e limitano il Prima addentrarci nel tema della plusdotazione, partiamo definendo il talento: predisposizione, dote innata presente in una o più aree che verranno utilizzate a discapito di altre; questo permette di fare meno fatica e di ottenere prestazioni più elevate rispetto a quelle standard. Sicuramente contesto e ambiente giocano il loro ruolo nello sviluppo di queste “doti speciali”. Dobbiamo non confondere questi bambini con dei geni, e viceversa non tutti coloro che raggiungono risultati esorbitanti sono necessariamente geni o plusdotati. Spero che dopo questo approfondimento sia più chiara la mia affermazione. Con plusdotazione (o giftedness) si definiscono quei bambini dotati di abilità straordinariamente superiori alla media oppure dotati di un particolare talento (per es. nel campo della musica). Nella storia della Gifted and Talent Education incontriamo tre grandi scuole di pensiero che hanno identificato 3 approcci per gli studenti gifed: Accelerazione (verticalizzazione degli apprendimenti, lo studente procede ad un ritmo più veloce rispetto ai pari) Arricchimento (espansione orizzontale del curriculo, lo studente procede come i pari con aggiunta di approfondimento) Differenziazione (organizzazione classe strutturata per includere tutti gli studenti, con compiti soddisfacenti per ognuno) La tematica dello sviluppo del talento è internazionalmente conosciuta come Gifted and Talented Education. Negli ultimi 40 anni numerosi studi scientifici hanno dato vita a proposte educative e strategie didattiche con l’intento di avvalorare la formazione degli studenti e di promuovere le potenzialità di ognuno. Da qui l’importanza di formare il personale docente per rispondere ai bisogni individuali di ogni bambino, in particolare citiamo il modello SEM utilizzato nell’ambito di studenti con potenziale sopra la norma. Il modello SEM (Schoolwide Enrichment Model) anche conosciuto come Modello di Arricchimento Scolastico di Joseph Renzulli e Sally Reis, offre un arricchimento generale per lo sviluppo del talento di tutti gli studenti proponendo attività avanzate per studenti gifted nell’ottica inclusiva. Come possiamo notare da questa rappresentazione il SEM prevede una combinazione combinata dei tre approcci di cui abbiamo appena parlato: accelerazione, differenziazione, arricchimento. Questo modello trova applicazione in molte scuole del mondo, e di recente anche in Italia. Renzulli e Reis ci raccontano che “le scuole dovrebbero essere luoghi per lo sviluppo del talento e che a tutti gli studenti devono essere offerte le opportunità, le risorse e l’incoraggiamento per sviluppare i loro talenti, secondo una visione inclusiva per cui l'alta marea innalza tutte le barche.” “L’alta marea che innalza tutte le barche” bellissima metafora dell’ottica inclusiva che prevede una spiccata sensibilità (purtroppo non sempre riscontrata nel nostro paese, ma per fortuna esercitata da tanti) che dovrebbe essere affiancata a qualunque metodo proposto. Modello SEM • Differisce dagli altri metodi tradizionali (integrazione di accelerazione, differenziazione, arricchimento) • Approccio inclusivo • Prevenzione sottorendimento scolastico • Riconversione del processo di sottorendimento scolastico • Prevenzione dell’abbandono (drop out) • Supporto studenti doppiamente eccezionali (vedremo tra poco di cosa si tratta) • Disponibilità e gratuità dei materiali Normalmente gli studenti gifted non sarebbero predisposti al fallimento scolastico, tuttavia la mancata relazione tra impegno e risultati positivi predispone al sottorenimento. Per fa sì che ciò non accada dovrebbero essere garantiti adeguati stimoli e riconoscimenti fin dal principio della loro vita scolastica. Vediamo come: • Fare complimenti specifici che riconoscono la crescita e promuovono una growth mindset • Documentare i progressi degli studenti e le loro competenze • Evitare di offrire assistenza non richiesta • Valutazione degli obiettivi “Quanto è importante per me?” • Prestare attenzione all’interesse degli studenti • Offrire esperienze di apprendimento autentiche • Percezioni ambientali “Posso avere successo in questo ambiente?” • Sviluppare connessioni significative con gli studenti • Essere un insegnante competente (assenza di pregiudizi) Bandura introduce e descrive l’autoefficacia, come la fiducia nelle proprie capacità per svolgere un determinato compito. Molti bambini iniziano la loro vita scolastica con molti successi, man mano che vanno avanti possono iniziare a dubitare delle loro capacità, si interrogano su quanto siano intelligenti e soprattutto se lo siano abbastanza per raggiungere i risultati richiesti. Dunque molti studenti gifted nella prima fase di approccio alla scuola non vivono la sfida, proprio dovuta alla facilità di raggiungere i risultati. Quando il lavoro si fa più duro e complesso, questi studenti possono “spegnersi” o per una stabilizzazione della loro “intelligenza” e paura di non essere in grado di stare nella sfida, oppure “per proteggere” la loro giftedness (mi metto in gioco e poi? Se non raggiungo i risultati?) Siegle ci racconta che: [Gli studenti gifted] con una mentalità fissa possono essere riluttanti a mettere a rischio la loro giftedness, che vedono come definita, evitando di impegnarsi in situazioni competitive e difficili. Per questi studenti, non impegnarsi è meno rischioso che impegnarsi e fallire. Per loro, ogni compito difficile è un test sulla loro giftedness, e molti diventano underachiever semplicemente perché non sono disposti a correre questo rischio. Per alcuni ciò significa non completare il compito. Per altri, significa procrastinare e poi nascondersi dietro affermazioni quali «Avrei potuto fare di meglio se avessi avuto più tempo» (Sigle, 2018, p. 289- 290). A questo proposito, di seguito riporto il modello di orientamento al successo scolastico Notiamo come le abilità adeguate siano sicuramente il punto di partenza, ma senza la lunga catena di variabili non sarebbe possibile il raggiungimento del successo. La fiducia in sé stessi da parte degli studenti si compone di percezioni ambientali, autoefficacia e valutazione degli obiettivi. Queste tre dimensioni supportano e regolano la motivazione, dunque il rendimento scolastico. Le dinamiche interne sono influenzate dal mondo esterno: insegnanti, coetanei e famiglia che hanno un ruolo cruciale in questo processo. Spesso genitori e insegnanti parlano di bambini brillanti, ma questo è molto diverso da una plusdotazione. Riducendo didatticamente possiamo definire il “bambino brillante” quel bambino attento, interessato che lavora molto e ha sempre la risposta corretta, ha buon rapporto e si diverte con i pari. Sempre riducendo didatticamente “il bambino plusdotato” pone domande, ha idee bizzarre ed è molto curioso, estremamente autocritico, ha ottime intuizioni, preferisce relazionarsi con il mondo adulto, spesso per lui più “interessante intellettivamente”, richiedono ambienti ricchi di opportunità esplorative. Doppia eccezionalità Con questo termine ci riferiamo a quei bambini che da una parte presentano elevate abilità, in particolari aree, dall’altra difficoltà che possono riguardare la sfera emotiva, sociale, comportamentali e di natura accademica. Questi bambini presentano profili complessi che necessitano di approcci educativi non tradizionali. È evidente la difficoltà di doppia diagnosi, dunque la difficoltà di identificare doni e talenti, servizi di educazione specializzati. A volte nello studente doppiamente eccezionale il dono e il disturbo si mascherano a vicenda. Di seguito una rappresentazione della doppia eccezionalità Per comprendere meglio chi sono questi studenti e come vanno trattati, usiamo la metafora del colore: pensiamo alle difficoltà come gialle e abilità come blu, danno origine al colore verde, a quel punto non più separabile in giallo e blu. Nella metà di sinistra delle immagini soprastanti vediamo raffigurato il concetto di uguaglianza: tutti hanno lo stesso rialzo per vedere la partita e tutti partono dalla stessa altezza per raccogliere i frutti dalla pianta. In questo modo sia il bambino più basso che la persona in carrozzina non potranno vedere la partita/raccogliere i frutti. Nella metà di destra delle stesse immagini viene raffigurato il concetto di equità: a tutti viene offerta la possibilità di guardare la stessa partita e di raccogliere i frutti, dunque se pur con mezzi diversi (due cassette al posto che una/piano con diversa inclinazione) tutti possono raggiungere lo stesso obiettivo. Quando si parla di disabilità occorre distinguere: • Deficit fisici • Deficit intellettivi • Disabilità dalla nascita • Disabilità acquisita L’inclusione non va immaginata come utile solo a chi deve essere incluso, ma al gruppo intero, che può giovare di molti benefici: • Utilizzo e progettazione di strategie cooperative • Educazione prosociale • Strategie comunicative • Stimolazione del pensiero e del ragionamento • Problem solving • TOM In Italia è stato fatto un immenso lavoro nell’ambito dell’integrazione delle disabilità, anche se molti contesti meriterebbero attenzione e applicazione dell’ottica inclusiva. Si parla di integrazione scolastica, dalle scuole dei livelli più bassi ai più alti gradi di istruzione (università), e nel mondo del lavoro, restano ancora da approfondire gli ambiti sportivi (non agonistici) e hobbistici e nella vita quotidiana. Concludiamo questa sessione di studio con la speranza e l’augurio che la cultura inclusiva venga sempre più vissuta ad ampio raggio. Partiamo da un fatto: la morte è parte della vita stessa. Il lutto, ovvero quel complesso sistema di elaborazione che ne consegue, è un argomento estremamente complesso e può essere affrontato in senso intimamente religioso e spirituale, ma anche pedagogico, psicologico, antropologico e filosofico. Noi cercheremo di affrontarlo dal punto di vista strettamente relazionale, poiché è necessario tenere a mente che chi si occupa della relazione, del senso e del significato che il lutto assume, deve rispettare i tempi del bambino. Riflessioni sul lutto Un amico del Camerun mi disse “siete strani voi, quando muore qualcuno vi fermate solo un paio di giorni, poi basta. Noi stiamo insieme alla persona 40 giorni, mangiamo insieme, ecc. Ma voi come fate? ” Nel nostro mondo frenetico, più evoluto per certi aspetti, si è ancora indietro rispetto al tema della “morte” e del “lutto”. Gli adulti hanno fretta, hanno bisogno di riprendere le cose, le attività, le modalità precedenti, ma le cose non sono più come prima. È fondamentale ragionare su tali aspetti e provare a comprendere dove ci poniamo rispetto a questi temi: solo se li abitiamo possiamo incontrarci con il bambino ed affrontare con lui le stesse tematiche. Noi per primi dobbiamo interrogarci e riflettere su certi temi che sono universali; anche qualora non avessimo subito una perdita familiare, il tema stesso del lutto appartiene a chiunque. Dobbiamo prima essere in grado di parlare di morte, poi, allora, potremmo parlarne coi i bambini. Quest’ultimi spesso fanno domande, chiedono anche se a noi adulti sembra non ci sia nulla da chiedere, nulla da dire; per questo è importante essere pronti, pronti ad ascoltarli, ad accogliere le loro domande, a restituire delle “non risposte” che possono però essere ‘confezionate’ per loro; spesso non esiste alcuna spiegazione, ma anche solo mettersi in una posizione di ascolto, dire “non lo sappiamo” per il bambino assume il valore di risposta, lo contiene. Il “non si sa” che spesso per noi adulti è qualcosa di molto aticoso, per il bambino, è una risposta davvero importante. Se pensiamo al lutto è di facile associazione (culturale) la morte biologica, in realtà lutto è molto altro e le dinamiche luttuose si ingenerano e vanno elaborate anche nelle seguenti situazioni: • Malattia • Guarigione dalla malattia (lo so sembra un paradosso, ma se avrete voglia di approfondire sarà interessante) • Rottura arto, gesso, stampelle • Disabilità di un figlio/figlio idealizzato • Trasferimenti • Cambio casa • Morte animale domestico (non pensiamo sono al cane, animale domestico per eccellenza, ma anche ad una tartaruga, un pesce rosso che è stato con il bambino per qualche tempo) • Bocciatura scolastica • Bocciatura di compagno/a che non sarà più in classe con noi • Cambio di scuola • Lasciare casa dei genitori per andare a vivere solo o in coppia • Nascita di un figlio (anche questo sembra un paradosso, ma la dinamica di coppia “muore” per lasciar spazio alla triade e alla “nuova coppia”) • L’arrivo di un secondo figlio, terzo, ecc. • Il non poter diventare genitori • Il divorzio • La separazione dei genitori • Un licenziamento • Gestione del genitore anziano e/o malato che perde le autonomie (inversione ruoli) La morte lascia spazio al nuovo, ma è un processo lungo e spesso doloroso. La malattia e la morte sono temi universali: prima o poi tutti noi ne veniamo a contatto o ci ritroviamo a riflettervi su. Il lutto può essere definito come il processo dell’esperire reazioni psicologiche, comportamentali, sociali e fisiche legate alla perdita. Infatti, quando viene a mancare una persona cara è possibile che compaiano una serie di sintomi che sono ritenuti normali e sono l’esito di quello che viene definito ‘lutto fisiologico’. Possono presentarsi: sintomi cognitivi: • difficoltà di attenzione e concentrazione; • lievi stati confusionali; • disorientamento; • pensieri anti-conservativi (che scompaiono rapidamente); • pensieri relativi al proprio caro e alle circostanze della sua morte (stato mentale problematico e pervasivo nel quale la persona si sente immersa). sintomi emotivi: • paura: intesa come disorientamento a livello emotivo con la sensazione di sentirsi fragili, vulnerabili, di aver perso i punti di riferimento intorno a sé; • rabbia; • solitudine; • tristezza • disperazione • colpa • stordimento (direttamente connesso ai pensieri problematici) sintomi comportamentali: • pianto; • molto vivide; • diminuzione delle attività quotidiane; • isolamento e ritiro sociale o tendenza all’essere dipendenti da altri. sintomi somatici e neurofisiologici: • disturbi del sonno con una maggiore presenza di insonnia centrale e esperienze oniriche; • alterazione dell’alimentazione; • diminuzione dell’energia; • sintomi ansiosi (tachicardia, vertigini, cefalea ecc.). È importante sottolineare come a livello neurobiologico si verifichino modificazioni transitorie quali: • alterazioni neurotrasmettitoriali con un minor funzionamento dei sistemi noradrenergico e serotoninergico; • disregolazione del sistema degli oppiodi; • modificazioni della memoria a breve e a lungo termine; • un ipofunzionamento sia delle aree corticali superiori sia di alcune strutture cerebrali più profonde quali il talamo e i nuclei subtalamici, così come una alterazione dell’asse ipotalamo- ipofisi-surrene. Qualora i sintomi sopra descritti si protraggono per un periodo di 12 mesi dopo la perdita della persona è possibile parlare di ‘lutto complicato’. In ogni caso, il lutto è una esperienza fortemente impattante e frammentante: non è possibile ‘guarire’ da un lutto ma è possibile adattarsi alla perdita. È quindi necessaria una attività di ri- orientamento rispetto: • al defunto, con l’idea che la persona cara non ci sarà più; • a sé stessi: “chi sono io ora?”, “come farò?”; è richiesto un grande sforzo per ridefinire il proprio aspetto identitario; • al mondo esterno: ritornare a investire in un mondo dove la persona cara non ci sarà più. Facendo riferimento alla teoria a cinque fasi di Kübler Ross (1990; 2002), è possibile definire l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso diverse fasi: • Fase della negazione o del rifiuto costituita da uno shock immediato per quanto accaduto e da una negazione della realtà, con pensieri simili a: “Non è possibile, non è vero” ; NB: se perdura per più di due settimane può essere un indicare di un lutto complicato. • Fase della rabbia o della collera: costituita da ritiro sociale, sensazione di solitudine e necessità di dirigere il dolore e la sofferenza esternamente (verso una forza superiore, all’operato di dottori, alla società, ecc.) o internamente (colpevolizzando sé stessi per non essere stati presenti, non aver fatto abbastanza, ecc.). Tali emozioni sono spesso funzionali poiché fanno in modo che la persona sia attiva, ma se protratte possono diventare controproducenti rinforzando la non accettazione di quanto accaduto e accrescendo nella persona una importante ostilità verso il mondo esterno. Inoltre possono essere presenti diversi tipi di rabbia: da rifiuto, da protesta e da abbandono. • Fase della contrattazione o del patteggiamento: costituisce la fase elaborativa vera e propria ed è caratterizzata da una rivalutazione delle proprie risorse e da un lento recupero dell’esame di realtà; la persona accetta che ora le cose stanno così e vi è un patteggiamento con la realtà esterna mentre l’ostilità viene messa da parte. In un qualche modo le carte sono rimesse in tavola, tenendo conto sia di quelle ormai perse, ma anche di quelle che restano. • Fase della depressione: costituita dalla progressiva presa di consapevolezza che non si è gli unici ad avere quel dolore e che la morte è qualcosa di inevitabile. • Fase dell’accettazione del lutto: costituita dalla totale elaborazione della perdita e dall’accettazione della differente condizione di vita presente. È come se la persona ‘deponesse’ le armi e recuperasse una immagine di sé senza la persona cara e una immagine degli scenari esterni che divengono di nuovo possibili e desiderati. vecchi ricordi, aneddoti ed episodi di vita passata del defunto che il bambino difficilmente conosce e che lo aiuteranno nel processo di elaborazione. In sintesi e qualche altro consiglio: ➢ dare al bambino informazioni vere circa la morte, sempre rispettando il suo profilo cognitivo ed emotivo; ➢ lasciare che il bambino possa esprimere le proprie emozioni liberamente in un ambiente sicuro, protetto, accogliente; ➢ ristabilire una routine il più presto possibile, in modo tale da minimizzare le paure che il bambino avrà circa la perdita; ➢ aiutare il bambino a mantenere i legami coi coetanei, offrendo possibilità di incontro senza alcuna pressione; ➢ assicurarsi di non derogare eccessivamente alle regole generali che già il bambino ha interiorizzato, non devono esserci eccessive compensazioni (ad esempio, abituato ad andare a letto dopo un’ora di tv gliene si concedono 2 o 3 per mesi); molti bambini, se non tutti, ma anche per ragioni antropologiche e culturali, possono trovare giovamento dal lasciare un proprio oggetto o un oggetto fabbricato ad-hoc sulla tomba del defunto, anche semplicemente un disegno. Sarà capitato di notare che non tutte le persone riescono a manifestare le proprie emozioni legate al dolore del lutto; come mai accade? Ripercorrendo le dinamiche di attaccamento e i modelli di comportamento della famiglia in cui il bambino cresce, potrà aver appreso che il pianto (così come altre manifestazioni) a seguito del dolore sia qualcosa di deplorevole, vergognoso, da perdenti. Oggi sappiamo essere semplicemente una dinamica di rifiuto di elaborazione. Per Bowbly, evitare il lutto rappresenta un’importante variante patologica del dolore che deve essere rifuggita aiutando il bambino – o la persona adulta – a esprimere liberamente le proprie emozioni. Sempre secondo l’autore esistono delle condizioni favorevoli all’elaborazione del lutto nei bambini: 1. abbia goduto di un rapporto sicuro con i genitori, prima della perdita; 2. lo si informi in modo tempestivo e preciso di quanto è successo, lasciando che il bambino faccia tutte le domande che desidera, rispondendogli onestamente e lasciandolo partecipare al dolore del lutto dell’intera famiglia; 3. abbia il sollievo della presenza del genitore superstite (nel caso sia morto uno dei due) o, qualora non possibile, un sostituto che il bambino riconosce come riferimento, di cui abbia fiducia e con il quale il rapporto possa prolungarsi nel tempo. Come abbiamo già detto, questi i consigli nelle epoche di vita. • Infante: mantenere le routine e il bambino nella casa, anche se lì è occorso il lutto; è importante che riceva attenzioni, coccole e cure da chi può fornirgliele; • Toddler: attraverso un linguaggio adeguato all’età, spiegare che la persona non c’è più. Usare il termine morte senza timore (è parte della vita!); rispondere alle domande in un ambiente sicuro, caldo, protetto; lasciare che esprima, giustamente, le sue emozioni; coinvolgerlo, se possibile, nella preparazione dei riti funebri; • 6-9 anni: affiancare il bambino e sostenerlo in tutte le domande che può porre, rispondendo sempre sinceramente; usare il temine morte senza timore e non negargli il gioco; • 10-12 anni: sempre con la massima onestà, dare i dettagli laddove richiesti, coinvolgerlo nei preparativi del funerale, offrire supporto, calore e comprensione; • Teens: parlare senza paura della morte, anche laddove fanno fatica a parlare coi genitori, cercare spazi, luoghi e occasioni adeguate per farlo; incoraggiare i genitori a non vergognarsi di piangere davanti al figlio; ricordagli che è utile esprimere il dolore, ma non negargli la privacy (in altre parole, non obbligare a farlo davanti ai genitori). Coloro che vivono il lutto normale riescono, nel tempo: ➢ ad accettare che la morte è parte della vita e che è semplicemente irreversibile; ➢ a vivere e affrontare il ventaglio di sentimenti che un lutto provoca; ➢ adattarsi ai cambiamenti che inevitabilmente, piccolo o grande che sia, il lutto porta nella vita; ➢ sviluppare nuove relazioni o approfondire quelle preesistenti con amici e familiari ➢ investire in nuove attività; ➢ quando il defunto è il partner, riuscire a investire anche in un nuovo amore, mantenendo, comunque, un legame continuo con la persona deceduta attraverso pensieri e ricordi. Il “modello ecologico” di Bronfenbrenner, sottolinea l’importante influenza dell’ambiente sociale nello sviluppo degli individui; pertanto, il nostro modo di pensare, le emozioni che proviamo le nostre preferenze sarebbero determinati da diversi fattori sociali. Nella sua teoria, l’ambiente viene concepito come un insieme di sistemi collegati tra loro, rappresentati da una serie di cerchi concentrici: microsistema, esosistema, mesosistema, macrosistema. Il bambino è quindi inserito al centro di questi sistemi organizzati a partire da quelli più vicini al bambino e raggiungendo quelli più distanti: bambino à famiglia à operatori sanitari à istituzioni sanitarie àreti sociali à cultura. Diventa evidente quanto una malattia cronica possa essere un evento profondamente impattante. La famiglia viene letteralmente travolta dalla diagnosi: inaspettata, imprevedibile e dolorosa; inoltre, la reazione emotiva dei genitori alla diagnosi infantile è strettamente associata ai tempi della comunicazione della diagnosi stessa. Pertanto, un elemento fondamentale che incide sullo stato psicologico dei genitori è la qualità della comunicazione con i curanti. Si ricorda che comunicare non è un momento, bensì un processo, un percorso che spesso è necessario preveda più tappe visto il grande impatto del contenuto che viene comunicato. Quando vi è la comunicazione di una diagnosi importante chi ascolta recepisce una bassissima percentuale delle informazioni che gli vengono fornite: è bene che queste siano ripetute in momenti differenti e con parole diverse affinché possano essere, un po' alla volta, comprese e assimilate. Esistono quindi un tempo di parola e un tempo di ascolto: quasi sempre chi parla ha un ritmo più veloce di colui che ascolta, se si crea una eccessiva distanza cognitiva colui che ascolta rimane indietro e «perde» una parte di contenuto. Inoltre, i curanti utilizzano un linguaggio altamente specializzato, basti pensare a termini quali: diagnosi, prognosi, stazionario, parametri, acuzie, situazione critica, ematochimici ecc. L’uso di un determinato vocabolario spesso consente ai professionisti sanitati di sentirsi bravi professionalmente, presenti nel Riassumendo il bambino malato ed il nucleo famigliare malato rappresentano la stessa cosa, i comportamenti della famiglia si ripercuotono sul bambino e viceversa. La malattia, come tutte le esperienze traumatiche può dar luogo a mal adattamento o a buon adattamento (ambiente famigliare positivo). Sarà molto importante attivare delle strategie di fronteggiamento (coping) improntate alla risoluzione del problema: • ricerca di informazioni; • acquisizione di nuove abilità per prendersi cure del bambino; • monitoraggio delle decisioni dello staff medico; • ricerca attiva di sostegno formale e informale. Abbiamo parlato del bambino e del genitore, ma l’altro protagonista all’interno dello scenario di cura è sicuramente l’operatore sanitario che, insieme alla famiglia, svolge un ruolo fondamentale dalla comunicazione della diagnosi alle cure fornite nel bambino, oltre ad essere direttamente responsabile della cura del bambino. L’operatore sanitario svolge una complessa relazione di aiuto, non esente da un forte impatto emotivo. A tal proposito, nel lungo periodo e senza adeguato supporto, è possibile che i professionisti della salute vadano incontro al cosiddetto burn out sindrome. Tale espressione, venne coniata negli Stati Uniti negli anni ’70, e si riferiva a una risposta psicofisiologica nei confronti di una attività lavorativa capace di causare stress cronico. Il soggetto ha l’impressione di aver ‘bruciato’ tutte le energie (di qui il termine inglese “burnout”), per far fronte al lavoro; tale condizione è percepita come immodificabile e ne consegue un senso di impotenza oltre che sostanziali conseguenze per gli utenti e per l’organizzazione stessa. Uno degli autori che maggiormente se ne occupò fu Maslach individuando diverse dimensioni del burnout: esaurimento emozionale, spersonalizzazione (SENSO DI COLPA), ridotta realizzazione personale. Questo dipende dalle caratteristiche del lavoro e da quelle personali. Nel testo della Di Blasio viene riportata la metafora della teiera descritta da un assistente sociale. Si paragona ad una teiera sul fuoco con l’acqua che bolle, l’acqua che bolle è il lavoro sodo e stressante: “dopo molti anni l’acqua era evaporata, tuttavia io ero ancora sul fornello: una teiera bruciata che rischia di spaccarsi”. Ecco questo accade non tanto perché la teiera è sul fuoco (è il lavoro che si è scelto) piuttosto perché non si è pre-occupato (in termini proprio di occuparsi prima) di riempire di tanto la teiera d’acqua. Come si può fare a riempire la teiera? Esistono diverse forme di supporto sociale che fungono da fattore protettivo, sia in termini di prevenzione che di intervento. Una delle forme di supporto più efficaci è la supervisione, una grande risorsa, uno spazio privilegiato per pensare, in opposizione alla compulsività del fare. Viene avviato, in questo spazio, un processo che permette di compiere riflessioni critiche sulle proprie azioni, sui processi, sulle persone e sul contesto in cui si svolge la propria attività lavorativa. Assume una funzione di protezione, in chiave riparativa, rispetto alla spersonalizzazione avvertita dall’operatore, contenitiva rispetto all’esaurimento percepito, si lavora sul sentimento emotivo percepito come in esaurimento, e si rinnova la ricerca di significato rispetto alla realizzazione professionale persa. Vassalli definisce 3 forme di malessere: • Disfunzione del sistema • Contatto diretto colla sofferenza altrui • Aspetti emotivi propri degli operatori Secondo Davis, per tenere sotto controllo le emozioni, gli operatori mettono in atto l’iperidentificazione e/o il congelamento, ovvero strategie psicologiche difensive. L’operatore non è così in grado di riconoscere le emozioni e, per questo, non può neppure entrare in contatto con esse, cosa che sarebbe utile per utilizzarle al meglio nel lavoro con la famiglia. Attraverso la metafora nominiamo l’innominabile e spieghiamo l’impossibile! Narrare significa raccontare qualcosa di realmente accaduto o che ha a che fare con l’immaginario, e che in qualche misura ci mette in contatto con qualcosa di reale. Un popolo si sente unito certo dalla lingua, ma anche dalle storie che raccontano “la storia” di quelle persone, della cultura, dei popoli che hanno abitato quei luoghi. La fiaba narra le tradizioni culturali ed è atemporale e aspaziale, non conosce tempo, non conosce spazio. Le fiabe non parlano di fatti concreti, usano simboli e, attraverso questi, permettono a ciò che è dentro di venir fuori, attraverso parole, simbolizzazioni, narrazioni. Le trame rispondono a domande interne di ognuno di noi, dai più piccini ai più grandi; si tratta di domande alle quali spesso non “vogliamo” dare/sentire risposte dirette. Le fiabe esprimono con un linguaggio semplice processi della nostra psiche, contengono simboli e archetipi che ci riportano ad una saggezza antica, ci offrono parole e ci permettono di dare nome alle emozioni. I personaggi che incontriamo, la strega cattiva, il lupo, il drago, il principe azzurro, il re e la regina, rappresentano parti di noi; così come le avventure che essi vivono (ostacoli, prove da superare) rappresentano passaggi importanti della nostra vita e del nostro percorso di crescita. Nell’identificazione con un determinato personaggio il bambino andrà ad incontrare parti di sé ancora poco conosciute o addirittura mai esplorate. Le fiabe nel tempo toccano un aspetto di noi, piuttosto che un altro. Può essere che mi sia sempre identificato con un determinato personaggio, ma oggi io mi identifichi con qualcun altro. A volte non è nemmeno necessario leggere tutta la fiaba, ma al bambino basta ascoltare il pezzo in cui si identifica. La voce di chi narra rappresenta un contenitore psichico, dunque attenzione non soltanto alla scelta della fiaba, ma soprattutto a chi e a come leggerà quella fiaba. L’involucro sonoro della voce ci contiene, ci culla fin dai primi momenti in cui veniamo al mondo. Lo strumento fiaba è molto usato e conosciuto per i bambini, ma ricordiamoci che nascevano per essere ascoltate dai grandi, tutt’oggi continuano ad usarsi anche nel setting clinico dell’adulto. Non è semplice scegliere quella giusta, o forse non esiste la fiaba “giusta”, ma vediamo come si può scegliere. Innanzitutto il narratore deve averla già letta, deve conoscerla, e deve essere in linea col suo gusto, deve essere parte di un terreno che ha già esplorato: immaginate di essere su un sentiero sconosciuto, senza coordinate, potrete condurre qualcuno? Se invece siete su un sentiero che avete già percorso, di cui possedete alcune coordinate, allora sarà più facile coordinare su un terreno conosciuto. Una volta accertati del nostro contesto, di quello culturale in cui ci troviamo a narrare e di come questi siano in linea, andremo a porre attenzione sul tema. Deve trattarsi di un tema del quale noi per primi riusciamo a parlare, poi il bambino, per esempio la classica strega: sarà pronto quel bimbo a sentirla nominare? Saremo pronti noi a fargliela sentire nominata? Fiabe con o senza immagini? Le immagini sono importanti stimoli visivi, sono piene le librerie di libri illustrati, ma ricordiamoci che la fiaba, la narrazione, serve a stimolare l’immaginario, il pensiero, la creatività, così che ogni bambino possa e sia stimolato a crearsi la SUA immagine. La fiaba favorisce: ➢ Creatività ➢ Autonomia di pensiero ➢ Fantasia ➢ Immaginazione ➢ Identità ➢ Autonomia ➢ Problem solving ➢ Rielaborazione ➢ Dialogo ➢ Regolazione delle emozioni ➢ Identificazione coi personaggi ➢ Accettazione del diverso ➢ No all’omologazione ➢ Rottura degli schemi ➢ Pensiero divergente Le fiabe ci insegnano la vita, ce la raccontano, ci fanno immaginare la nostra, ci fanno immaginare le soluzioni alle sfide che essa ci propone. Attraverso le fiabe comunichiamo con il linguaggio più profondo del linguaggio stesso. La lettura condivisa rappresenta un momento magico fin da quando i bimbi sono avvolti dal liquido amniotico. Man mano che il bambino crescerà si approprierà di questo strumento prezioso, diverrà “inventore” (ruolo attivo), staccandosi a poco a poco dal ruolo passivo di ascoltatore e riappropriandosene solo quando ne avrà voglia. Leggete, ascoltate, inventate e fate inventare dai bambini! All’interno della narrazione esiste un aspetto ludico, si tratta di un gioco che si avvale del verbale, ma pur sempre di gioco. Come giocare dentro le storie? Rodari ci racconta con la “Grammatica della fantasia” come giocare con le storie e con le parole, con il pensiero. L’autore propone: ➢ L’errore creativo ➢ Il prefisso arbitrario ➢ Le favole al rovescio ➢ Le favole sbagliate ➢ Insalata di favole ➢ Il sasso nello stagno ➢ Il gioco del cantastorie ➢ Che cosa succederebbe se ➢ Le carte di Propp Proviamo a fare una piccola analisi, ad esempio, del sasso nello stagno. Rodari scrive: “Un sasso gettato nello stagno crea onde concentriche che si allargano sulla sua superficie coinvolgendo nel loro moto, a distanza diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore”. Allo stesso modo una parola lanciata nella mente (stagno) in maniera casuale provoca infinite possibili associazioni libere, rievocando ricordi, sogni, desideri, esperienze e fantasie inconsce. Per esempio la parola onde trascina con sé tutte le parole che iniziano con ogni singola lettera, formano una breve storia; come: O – Oggi N – Nonna D – Donava E – E-book Un altro esempio è “Che cosa succederebbe se”; sempre Rodari scrive: “Novalis dice: ‘Le ipotesi sono reti: tu getti la rete e qualcosa prima o poi ci trovi”. Dunque si parte da un’ipotesi per costruire una narrazione. Altro esempio è “L’errore creativo”. Una storia che nasce da un errore ortografico (lapsus) che può generare racconti ironici. Infine, un adagio di Rodari: Sbagliando s’impara; ma potremmo dire che sbagliando s’inventa. Come messo in evidenza da Taylor, Zubrick & Christensen (2016), la lettura ad alta voce rappresenta una tra le principali attività che il genitore può svolgere al fine di produrre benefici in termini di sviluppo linguistico del bambino, alfabetizzazione precoce e ‘apprendimento permanente (Kalb & van Ours, 2014; Mistry et al., 2010; Thomas, 2006; Foster et al, 2016). Uno studio di Davidse et al. (2010) mette in luce la relazione esistente tra le pratiche di lettura condivisa a casa e i livelli di alfabetizzazione precoce del bambino, sottolineando come le prime rappresentino importanti indicatori predittivi e riportando una correlazione positiva tra lo sviluppo del vocabolario e l'esposizione al libro. Attraverso questa pratica, il bambino viene esposto a nuovi vocaboli che sono notevolmente più rari e complessi rispetto a quelli utilizzati nella comunicazione orale (Cunningham & Stanovich, 1998; Hayes & Ahrens, 1988), sviluppando abilità ricettive, in particolare relative all'ascolto, e produttive, nello specifico legate al parlato (Sénéchal & LeFevre, 2001). Evidenze scientifiche hanno confermato che l'esposizione precoce a pratiche di lettura condivisa risulta positivamente associata all’apprendimento dell'abilità di lettura (Bus et al., 1995; Samuelsson et al., 2005; Connor et al., 2009; Price & Kalil, 2019); inoltre risulta un'attività utile anche per l'apprendimento dei primi concetti numerici (Godwin et al., 2015). A tal proposito la National Academy of Education (USA) ha identificato la pratica di lettura ad alta voce come lo strumento più efficace e allo stesso tempo accessibile per favorire l'apprendimento della lettura (Anderson, et al., 1985). L'ambiente domestico ricopre un ruolo determinante per lo sviluppo linguistico e cognitivo del bambino (Sénéchal & Young, 2008; Sénéchal & LeFevre, 2014; Crosby et al., 2010). Infatti, è stato possibile osservare come contesti stimolanti e interazioni di qualità risultino correlati al successo in ambito scolastico e accademico (Hart & Risley, 1995). Inoltre, le abitudini degli adulti rispetto alla lettura agiscono da stimoli positivi ed efficaci per strutturare le abitudini di lettura del bambino nel futuro (Chandler, 1999; Clark & Hawkins, 2010). Si parla di alfabetizzazione domestica, lome literacy: l'insieme di pratiche educative non necessariamente formali che contribuiscono allo sviluppo cognitivo, linguistico e di altre competenze trasversali e che vengono promosse e messe in atto all’interno del contesto familiare, mediante gli adulti di riferimento (Senechal & LeFevre, 2002). Il recente studio di Romeo e colleghi (2018) ha sottolineato l’importanza dell'ambiente domestico per lo sviluppo delle competenze linguistiche e cognitive dei bambini, evidenziandone i correlati neurali. Attraverso valutazioni effettuate mediante l'utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), sono emerse delle differenze nella risposta cerebrale durante compiti legati all'ascolto di storie: i bambini provenienti da ambienti linguistici ricchi hanno evidenziato una maggiore attivazione della zona frontale inferiore sinistra dell'area di Broca, una parte del cervello coinvolta nella produzione e nell’elaborazione del linguaggio. Allo stesso modo, come già sottolineato da Taylor, Zubrick & Christensen (2016), pratiche abituali di lettura condivisa in famiglia agiscono sulla riduzione del rischio di insuccesso scolastico, a cui sono correlate condizioni di svantaggio socio-economico e, di conseguenza, un'esposizione al rischio psicosociale (Duncan et al., 2007; Lugo-Gil & Tamis-LeMonda, 2008; Mistry et al., 2010; Australian Bureau of Statistics, 2015). Sul piano relazionale, la pratica di lettura ad alta voce si configura come un potente mezzo di interazione e condivisione tra genitore e bambino, che fa forza sul binomio piacere e apprendimento (Sannipoli, 2017) e permette di costruire e negoziare insieme significati (DeBruin-Parecki, 1999). Come già puntualizzato da Aram e colleghi (2017), attraverso la lettura del libro, il bambino ha modo di sperimentare indirettamente i propri sentimenti (Dyer, Shatz & Wellman, 2000; Zeece, 2004), anche venendo guidato dall’adulto nella comprensione e nell'acquisizione di una maggiore consapevolezza delle emozioni (Howe, Rinaldi & Recchia, 2010). Inoltre, per mezzo della lettura è possibile sviluppare abilità sociali (Laible, 2004), comprendere le motivazioni che sottendono un comportamento (Aram & Shapira, 2012) e sperimentare situazioni che prevedono scelte morali (Tomlinson & Lynch-Brown, 2001). Evidenze scientifiche sottolineano come la pratica di lettura ad alta voce in età prescolare e all’interno dell'ambiente domestico agisca sullo sviluppo delle competenze emotive del bambino, e sia, inoltre, positivamente correlata all'aumento di comportamenti prosociali (Garner, Dunsmore & Southam-Gerrow, 2008) e risposte d'aiuto (Denham & Auerbach, 1995). L'incontro con i libri e con la lettura condivisa, pertanto, costituisce un'occasione in grado di favorire il successo formativo del bambino nella sua totalità (Causa, 2002). Metodi Obiettivo di ricerca L'obiettivo della presente revisione è quello di raccogliere evidenze scientifiche che mettano in relazione i benefici dell'esposizione precoce del bambino all'attività di lettura ad alta voce con il ruolo dell'adulto di riferimento, mediante un'analisi dei contributi delle ricerche nelle quali è stata analizzata questa pratica all’interno del contesto familiare. In particolare, si vogliono indagare i vantaggi in termini di sviluppo cognitivo, linguistico e dell'insieme delle competenze trasversali che la lettura condivisa è in grado di sostenere, focalizzando l’attenzione sull'ambiente domestico entro quale il bambino è inserito e quindi sull'impatto del ruolo del genitore, che può sperimentarsi come primo promotore e mediatore di tale attività. Fasi della ricerca e criteri di inclusione La ricerca bibliografica (l'ultima ricerca sul database è stata effettuata in data 10/04/2020) è stata condotta utilizzando la banca dati ERIC (Education Resources Information Centre), in quanto il tema trattato nel presente studio si riferisce prettamente all'ambito educativo. Le parole chiave utilizzate per la ricerca nel database sono state: reading aloud, role of parents, role of family, family literacy. In particolare, la prima stringa di ricerca utilizzata è stata la seguente: (reading OR reading aloud) AND (parents OR family), limitandone il range temporale agli ultimi dieci anni (dal 2011). Considerato il corpus molto ampio di pubblicazioni (3426 risultati) e al fine di delimitare il tema d'interesse, in un primo momento si è scelto di applicare criteri di esclusione riguardanti condizioni di disabilità o disturbi di apprendimento, applicando la seguente stringa di ricerca: (reading OR reading aloud) AND (parents OR family OR home) NOT (diseases OR brain loss OR disability OR autism spectrum OR syndrome OR disorder OR dyslexia). Dal momento che molti dei 3241 risultati emersi erano riferiti all'ambito prettamente scolastico e non a quello familiare, si è deciso di considerare il contesto scolastico come criterio di esclusione, restringendo i risultati a 2967. Infine, si è deciso di impostare il tema del bilinguismo e dell’apprendimento della seconda lingua come ulteriore ed ultimo criterio di esclusione, in quanto tema ricorrente tra le precedenti ricerche. Si è giunti quindi alla stringa di parole chiave definitiva, che viene riportata di seguito: “(reading OR reading aloud) AND (role of parents OR role of family) AND (read aloud experience OR reading aloud at home OR family literacy OR home literacy) NOT (diseases OR brain loss OR disability OR autism spectrum OR syndrome OR disorder OR dyslexia) NOT (teachers OR teaching strategies OR classroom OR students OR school context) NOT (second language OR bilingualism)”. 938 articoli individuati dalla 897 articoli esclusi: nessun ricerca sul database ERIC riferimento alle pratiche di lettura all’interno del contesto domestico 41 articoli 14 articoli esclusi: analizzati - Valutazioni di performances di lettura (0=4); Studi su relazioni tra lettura e comprensione (n=1); - Nessun riferimento all'associazione tra lettura ad alta voce e ruolo del genitore 9). 21 articoli inclusi nella revisione FIG.1: DIAGRAMMA DI FLUSSO. I risultati acquisiti (938) sono stati sottoposti ad una prima analisi sulla base della lettura del titolo e dell’abstract. Sono state incluse le pubblicazioni in lingua inglese riguardanti ricerche sperimentali e quasi-sperimentali, studi longitudinali, ricerche qualitative e indagini coerenti con il tema da trattare, quindi con riferimenti alla lettura condivisa all'interno del contesto domestico. Sono stati invece esclusi dal campione i contributi che sono risultati non pertinenti con gli obiettivi della ricerca e con la tematica in oggetto, che presentavano le seguenti caratteristiche: assenza del riferimento al ruolo del genitore o all'adulto significativo nell'attività di lettura ad alta voce; focus sulla lettura individuale del bambino o del ragazzo, ma non in relazione agli effetti della lettura condivisa; focus su dispositivi digitali come alternativa al testo stampato o di supporti tecnologici alle attività scolastiche, ma privi di relazioni con la famiglia; articoli prettamente divulgativi. AI termine di questo processo di selezione, si è giunti ad un totale di 41 articoli; questi ultimi sono stati sottoposti ad una lettura integrale del testo, che ha permesso di escluderne altri 14, sulla base dei criteri esplicitati precedentemente: infatti, nonostante gli argomenti trattati fossero potenzialmente confacenti all'obiettivo dello studio (ad esempio alfabetizzazione emergente, lettura e comprensione del testo, valutazione della performance di lettura), in nessuno di questi articoli emergeva una relazione tra lettura ad alta voce e genitorialità. Risultati Nell’Appendice viene presentata una rassegna descrittiva degli articoli inclusi ed analizzati ai fini della seguente revisione, sulla base delle caratteristiche degli studi, quali range d'età e caratteristiche del campione, tipologia di disegno di ricerca, pratiche implementate e principali risultati. Di seguito, sono descritte le evidenze emerse dagli studi presi in esame, i quali hanno come oggetto d'indagine il tema della lettura condivisa e le pratiche di alfabetizzazione all'interno del contesto familiare. Analizzando i risultati complessivi dei principali contributi analizzati, è possibile delimitare le evidenze emerse in tre categorie tematiche relative al tema della lettura condivisa in famiglia: 1) la promozione dello sviluppo delle abilità di alfabetizzazione del bambino; 2) gli effetti delle interazioni madre-bambino durante e a seguito della lettura; 3) i fattori predittivi delle pratiche di lettura all'interno del contesto familiare. In ultimo, viene presentata una sezione relativa a studi ed indagini su programmi di lettura volti ad incentivare pratiche di lettura tra genitori e figli. Per organizzare al meglio i risultati, sono stati scomposti i concetti emersi con maggior frequenza dai contributi esaminati (alfabetizzazione precoce, alfabetizzazione domestica, interazioni genitore-bambino durante la lettura, sviluppo di competenze trasversali attraverso l’attività di lettura condivisa) e sintetizzati all’interno della Tabella 1. TABELLA 1- CONCETTI EMERSI NEGLI STUDI ANALIZZATI Studio Alfabetizzazione precoce !!l Alfabetizzazione domestica (21 Interazioni genitore bambino BI Sviluppo competenze trasversali (41 Erkel, Abregu Del Pino & Bayer, 2019 x x Godwin et al., 2015 Hashimoto, 2012 Davidse et al., 2010 Foster ct al., 2016 Harvey, 2016 xx x x x Son & Tineo, 2016 Kuchirko et al., 2015 Waldron, 2019 x | x x Aram et al., 2017 Tucker-Drob & Paige Harden, 2012 Dice & Schwanenflugel, 2012 Sagkes et al., 2016 Chou & Cheng, 2015 Marjanovi®= Umek, Hacin & Fekonja, 2017 Levy, Hall & Precce, 2018 Hall, Levy & Preece, 2018 Wambiri & Ndani, 2015 Kucirkova & Messer, 2012 Taylor, Zubrick & Christensen, 2016 Colgate, Ginns & Bagnall, 2016 Brown et al., 2019 Cheng & Trai, 2016 Ritchie, Bates & Plomin, 2015 Prins, Stickel & Marquez, 2020 Kotaman & Balci, | X x 2016 Price & Kalil, x x x 2019 {) emergent literacy, sviluppo del linguaggio, sviluppo del vocabolario; pratiche educative familiari, livelli di scolarizzazione, abitudini di lettura, disponibilità materiale libresco; 5) lettura dialogica, livelli di attenzione, interazioni verbali; (4 sviluppo competenze socio-emozionali, attentive, creative ed estetiche, empatia. Lettura condivisa e interazioni genitore-bambino In cinque degli studi esaminati (Marjanovi+Umek, Hacin & Fekonja, 2017; Kuchirko et al., 2015; Son & Tineo, 2016; Chou & Cheng, 2015; Aram et al., 2017) è stata messa in luce la relazione esistente tra le pratiche di lettura ad alta voce tra genitore e bambino e le interazioni tra le due parti durante l’attività: uno di questi studi ha rilevato che scambi verbali di qualità nel corso della lettura condivisa sono correlati positivamente con le competenze linguistiche e narrative del bambino (Marjanovi-Umek, Hacin & Fekonja, 2017). Tale modalità di lettura condivisa trova accordo con il filone di ricerca avviato dal pediatra e psicologo americano Grover Whitehurst, il quale ha coniato per primo l'espressione di lettura dialogica, con riferimento ad una modalità di lettura tra adulto e bambino in grado di promuovere un'interazione efficace tra i due partecipanti. Durante l’attività, infatti, l'adulto, in veste di narratore, stimola il bambino ad imere un ruolo attivo: pone lui domande inerenti la storia, esorta ad immaginare ed anticipare gli eventi. L'efficacia di tale pratica è stata riscontrata in uno studio che ha messo in evidenza come la lettura in forma dialogica abbia un impatto positivo sul linguaggio e sulla capacità di alfabetizzazione precoce (Whitehurst & Zevenbergen, 2003). Uno studio longitudinale ha analizzato le domande e le interazioni delle madri nel corso di sessioni di lettura ad alta voce, in diverse età del bambino: è emerso come gli interventi delle madri, coerenti con lo stadio evolutivo del bambino, offrano a quest'ultimo importanti opportunità per praticare il linguaggio orale e sviluppare competenze linguistiche legate all’alfabetizzazione (Kuchirko et al., 2015). Uno studio ha rilevato che gli input verbali utilizzati dalla madre per richiamare l’attenzione del bambino durante la lettura sono associati allo sviluppo linguistico, ma anche ad un maggior coinvolgimento del bambino a maggiori interazioni verbali dello stesso (Son & Tineo, 2016); inoltre, le interazioni con i genitori svolgono un ruolo significativo per favorire lo sviluppo di competenze sociali e relazionali, di abilità estetiche e creative, di espressione delle emozioni (Chou & Cheng, 2015). A sostegno di questo, uno studio ha dimostrato come la mediazione dell'adulto nella lettura di libri su tematiche socio-emotive, e quindi la rielaborazione di queste ultime, sia associata a maggiori livelli di comprensione sociale e più alte probabilità di mettere in atto comportamenti prosociali da parte del bambino (Aram et al., 2017). Predittori di pratiche di lettura all’interno del contesto domestico Alcuni articoli analizzati (Sagkes ct al., 2016; Wambiri & Ndani, 2015; Taylor, Zubrick & Christensen, 2016; Levy, Hall, & Preece 2018; Hall, Levy & Preece, 2018) hanno preso in esame le motivazioni che spingono o, al contrario, impediscono ad un genitore di includere le
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