Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Filosofia del Diritto: Intro, Croce e Kelsen. Completo di riassunto, sbobine e libro, Dispense di Filosofia del Diritto

Riassunto del corso 2020/2021 integrato da sbobinature delle lezioni, libri di testo Kelsen e Croce, ricerche e materiale esterno. Completo.

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 29/06/2024

marialaio
marialaio 🇮🇹

5

(1)

4 documenti

1 / 54

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Filosofia del Diritto: Intro, Croce e Kelsen. Completo di riassunto, sbobine e libro e più Dispense in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! INTRODUZIONE FILOSOFIA DEL DIRITTO Lineamenti di dottrina pubblica del diritto (1934): Di Hans Kelsen. Illustra il Positivismo giuridico. Riduzione della filosofia del diritto a filosofia dell’economia (1907): Di Benedetto Croce. Momento diverso da quello di Kelsen. In entrambi i testi vi sono domande che ancora non hanno trovato risposta, ancora aperte per i giuristi contemporanei. Quelli di Croce e di Kelsen sono due libri che trattano entrambi di diritto e di morale. Per Kelsen il diritto è diverso dalla morale, in quanto è inoltre un prodotto della società, uno specifico fenomeno sociale. Kelsen si parla infatti di separazione tra diritto e morale, a differenza di Croce che intende il rapporto in base all’istanza della distinzione: questi due termini in filosofia del diritto non sono la stessa cosa, e non sono sinonimi. Ma cos'è la filosofia del diritto? Nella Critica della ragion pura Immanuel Kant distingue la domanda del giurista (quid iuris?) dalla domanda del filosofo (quid ius?). Per i giuristi è facile rispondere alla domanda "Quid iuris?" indicando, positivisticamente, le leggi in vigore in un certo luogo o in un certo tempo (riferibile quindi a un ordinamento peculiare)—> Una simile risposta, però, non dice affatto quale sia il criterio universale che ci permette di conoscere lo iustum et iniustum, cioè il giusto e l'ingiusto in senso giuridico. La filosofia del diritto quindi si occupa di dare una risposta al quid ius. Non ritroviamo in Kelsen nessun riferimento alla filosofia del diritto. Kelsen non si ritiene un filosofo del diritto, ma un giurista, teorico generale.
 La teoria generale del diritto è un segmento della filosofia del diritto.
 Benedetto Croce programma una riduzione della filosofia del diritto la filosofia dell’economia: riduzione per Croce significherà assorbimento, un tentativo di portare all'interno della filosofia dell'economia la filosofia del diritto. Questa riduzione è la sua ragion d'essere a partire da una determinata concezione del diritto: è il diritto che si riduce ad economia e conseguentemente e la filosofia, che ha come oggetto il diritto, diversità in filosofia che ha come oggetto l'attività economica. Nel corso della metà del XIX secolo non manca nelle facoltà di giurisprudenza un approccio filosofico, teorico al diritto e questo studio aveva fino al XIX secolo un'altra denominazione: era chiamato diritto naturale.
 Ad occuparsi del diritto naturale erano coloro che oggi definiamo filosofi del diritto.
 Cosa significa pensare filosoficamente il diritto? Significa innanzitutto occuparsi di rispondere al problema di cosa sia il diritto. Si prende in prestito la definizione di Kant o meglio la domanda che Kant si poneva con riguardo ad una sorta di divaricazione che distingueva il modo in cui il giurista positivo si occupa del diritto dal modo in cui il giurista teorico si occupa di diritto (vedi sopra). Pensare filosoficamente il diritto vuol dire porsi il problema di cosa sia il diritto, ma non porsi il problema di cosa sia il diritto come quel diritto nazionale, positivo quindi non porsi la domanda di cosa sia il diritto dal punto di vista storico ma cosa sia questo strumento artificiale creato dagli umani per regolare la propria condotta e la società e garantire la pacifica convivenza nella stessa. La possibilità di rispondere alla domanda che cos'è il diritto è la grande questione della filosofia del diritto. Nella storia del pensiero giuridico non si è mai data una risposta univoca a questa domanda. La necessità di rispondere a questa domanda della modernità viene avvertita come necessità specificata, ci si comincia a interrogarsi su quali siano i caratteri che devono riferirsi al diritto e che consentono di dire che questo prodotto sociale chiamato diritto è qualcosa di diverso, qualcosa di “distinto” come dirà Croce, dotato di una sua autonomia tale da non sovrapporsi con altri ambiti della normatività in cui ciascuno di noi come individuo, come animale sociale (da Aristotele), è immerso. Questa concezione si diffonderà nella modernità con il radicamento delle teorie giupositivistiche e la sensibilità nella cultura di giuristi. La filosofia del diritto poteva dirsi metafilosofia, una metateoria del diritto cioè ci consente di guardare dall'alto il discorso di giuristi fanno sul discorso che i decisori politici fanno. I decisori politici pongono le norme, i giuristi (scienziato sociale umano) compongono e costruiscono discorsi su quello che è il discorso del legislatore. E’ in tali discorsi che la filosofia del diritto riconosce i quadri concettuali, che orientano i discorsi degli stessi. Ogni quadro concettuale ha una propria conseguenza, nel senso che muovere dal punto di vista giuspositivistico piuttosto che dal giusnaturalismo o un quadro concettuale, non produce le medesime conseguenze in termini di soluzioni che il giurista porrà, aspetti interpretativi dei giuristi andranno pure nei confronti il discorso del legislatore. La filosofia del diritto ci consente di riconoscere questi quadri concettuali. 
 Le dottrine del diritto naturale costituiscono il primo quadro di teorie di diritto e costituiranno nella modernità il giusnaturalismo, diventando terreno, il laboratorio dentro il quale lo stesso positivismo giuridico si andrà ad affermare.
 Giusnaturalismo: atteggiamento l'atteggiamento prevalente, un metodo conoscitivo non scientifico—> nessuno si domanda cosa sia il diritto (stiamo parlando del diritto positivo), nessun giusnaturalista intende conoscere il diritto scientificamente, ma vuole valutarlo. Cioè esprimere giudizi di valore e parametrare la forza normativa. Nomina (leggi in greco) e Leges (leggi in latino): comandi dell’autorità politica. Nessun filosofo li conosce, ma tutti si limitano a valutarli. Ma come si può valutare una legge senza prima conoscerla? Conoscere una legge non significa conoscere il contenuto, come ci mostra Kelsen ( a differenza dei giusnaturalisti) Non possiamo prescindere dal pensiero greco nel momento in cui ci occupiamo di che cosa sia la famiglia di dottrine che definiamo giusnaturalismo che si sono radicate nell'Atene del V secolo, nell'Atene di Pericle, caratterizzata da forte partecipazione politica. Non si può prescindere da questo momento di avvio per un tipo di relazione necessaria che si istituisce quando vengono a maturazione determinati temi, questioni, preoccupazioni che si insediano in quel momento storico nella polis per eccellenza, nella città stato cioè una città che si costituisce come Stato e comincia con le riforme di Pericle darsi delle leggi, delle regole che orientano i comportamenti dei cittadini. In quel momento storico si istituisce una relazione alla quale nessuna dottrina del diritto naturale sfugge. Nessuna dottrina del diritto naturale si occupa del diritto naturale in autonomia. Pensare al diritto dentro il dualismo è tratto tipico di tutte le dottrine del diritto naturale. Nessun autore si è sottratto a questo dualismo. DUALISMO (di cui si occupano tutte le dottrine del diritto naturale): 
 Quando parliamo del radicamento di queste dottrine del V secolo a.C. non possiamo non partire da un urgo tragico greco, Sofocle uno dei più importanti poeti tragici, il quale partecipa attivamente anche nella vita politica di Atene. L’Antigone è una delle sue opere più importanti per la cultura umane occidentali. Quest’ultima è infatti una tragedia, caratterizzata come femminismo giuridico, che evidenzia la contrapposizione tra leggi positive e leggi non scritte, tra nomos (quindi il diritto scritto, storico, la legge scritta) e fiusis (dimensione della natura intesa come ordine delle relazioni umane). GRAPTA NOMINA: legge scritta, emanata da un’autorità politica. AGRAPTA NOMINA: pensiero critico E’ infatti indicata come la tragedia che affronta in maniera molto chiara questo dualismo, questo dilemma, una contrapposizione che nella modernità, sia dal naturalismo moderno che dal pensiero positivistico, viene fatta tra legge e diritto. 
 Nell’Antigone la contrapposizione tra nomos e fusis diventa un momento in cui dal punto di vista narrativo esplode un dilemma tragico in cui la protagonista si ritrova. TRAMA: l figlio più giovane di Edipo, Eteocle, esilia il fratello maggiore Polinice. Questi attacca Tebe ma né l’uno ne l’altro l’ hanno vinta perché muoiono entrambi in battaglia. Eteocle riceve le onoranze funebri, che invece vengono rifiutate a Polinice, dichiarato traditore della città dallo zio Creonte.Apprendendo questa notizia, Antigone - sorella di Eteocle -,nonostante il consiglio dell’altra sorella, più giovane, Ismene, si ostina a pretendere che il corpo del fratello venga sepolto già nel pensiero antico attraverso l’Antigone: questa infatti fa appello al sentimento di ingiustizia, e cioè alla sua coscienza che genera tale avvertimento. Generalmente l'appello alla coscienza implica pluralismo, in quanto implica che prevalga il disaccordo dato dalle varie valutazioni, radicate in una realtà moderna che differisce per contesto storico, culturale, politico ecc . Ma nella società antica ciò non si verifica in quanto la visione del mondo è una visione condivisa. Quindi attingere alla coscienza significa attingere a dei valori condivisi, come la sacralità della sepoltura nell’Antigone. Pietro Piovani dimostrerà che tale visione condivisa verrà a frantumarsi con l'età moderna, processo che si palesa con il passaggio dal teorizzare del diritto naturale a dei diritti naturali. GIUSNATURALISMO NATURALISTICO: fa leva sull'intuizione dell'individuo consentendogli di accedere al contenuto delle leggi naturali. Quest’ultima è una questione prettamente antica. GIUSNATURALISMO RAZIONALISTICO: questo afferma che il contenuto delle leggi naturali è razionale come lo è l'essere umano: per cui il punto di contatto tra il contenuto delle leggi e l'individuo è la ragione. Questo tipo di giusnaturalismo fa quindi leva sulla categoria della ragione. Inoltre non incide solo sul contenuto della legge naturale ma anche su quello della legge positiva, la quale è una legge che, in quanto razionale, può o aver frainteso la legge di natura o averla intesa bene - ed è la ragione che definisce il carattere di continuità tra l’una e l'altra questione. Nel “De Legibus” di Cicerone, appartenente al genere dello stoicismo (filosofia che nasce in età tardo antica e che trova a Roma la sua fondamentale affermazione, il cui esponente è lo stesso Cicerone), ritroviamo elementi che conducono ai vari giusnaturalismi. C'è una grande narrazione che si riferisce alle dottrine del diritto naturale.
 I primi autori che cominciano a lavorare sul tema di diritti naturali, che cominciano a mettere a fuoco la posizione dell'individuo anche nella società politica, sono autori che lavorano, consapevoli o non consapevoli, ad un processo di laicizzazione del diritto. 
 PROCESSO DI LAICIZZAZIONE DEL DIRITTO: è un processo storico, di trasformazione delle società politiche. Si tratterà, a partire da Grozio, di leggi naturali che non sono più leggi che hanno la propria origine in Dio: ciò accade quando le dottrine del diritto naturale si vanno a radicare nel pensiero cristiano ( quanto emerge soprattutto nella speculazione di Tommaso D’Aquino). Nel 1500 si cerca di privare le leggi naturali di tale fondamento divino. Questi autori danno il proprio contributo: UGO GROZIO: Il processo di laicizzazione in Grozio si traduce in un’operazione volta a privare di questo fondamento divino il tema del diritto naturale per attivare quei processi di riforma della società politiche del cinquecento e del seicento, quando buona parte dei paesi dell'Europa sono già società statuali. Quindi il diritto si sottrae all'esclusività della morale delle varie dottrine religiose basandosi sulla ragione e sulla razionalità. Ciò viene a precipitare nell'Illuminismo con una visione totalmente laica della religione. Grozio è un autore di un'opera importante (De Iure Belli Ac Pacis) nella storia del pensiero moderno ma è anche un giurista. L'opera di Grozio è indicata come uno dei primi trattati del diritto internazionale (ripreso poi da Hobbes e Locke nel ‘600), cioè trattati che mettono in evidenza il modo in cui il diritto naturale può intervenire a garantire la pace tra gli Stati. Il tema del diritto naturale è quindi un espediente per i giusnaturalisti moderni perché il loro problema era quello dei fondamenti di legittimità dell'autorità politica. Un passaggio molto importante affermato dall’opera di Grozio (anticipata da Alberico Gentili in “de iure belli”) afferma che: il diritto naturale ha carattere vincolante indipendentemente dall'esistenza di Dio—> “etiamsi non daretur” : anche se Dio non ci fosse. Questo risulta essere il primo grande passaggio verso la laicizzazione, che vedrà la avvenuta realizzazione con l’illuminismo—>anche se nel ‘600 vi è già una rappresentazione emblematica in Hobbes e in Locke. Hobbes: autore del ‘600, secolo in cui si assiste alla nascita del metodo scientifico moderno naturale (Newton—> Mela). Hobbes da un'impronta decisiva al Giusnaturalismo moderno, il cui primo grande tema è la natura. 
 Vi è mentalità razionalistica e scientifica della modernità in seguito alla diffusione del metodo scientifico adoperato da Galilei e Newton che è un metodo in cui l'ideale di conoscenza ha a che fare con l'osservazione e la descrizione della realtà. È un metodo sperimentale che fa nascere dall'osservazione della realtà la domanda, che sviluppa questa domanda in termini di ripetizione del fenomeno e quindi procede a formulare la legge che presiede quel fenomeno. I problemi nasceranno quando oggetto di studi diverranno le scienze umane sociali, non più le scienze naturali. Thomasius: Benedetto Croce fa nascere la filosofia del diritto da Tomasio, autore antesignano dell'Illuminismo giuridico, studioso prussiano, maestro di Kant, pensatore preilluminista. E’ da lui che si scorge il primo passaggio dal diritto naturale al diritto positivo. Scrive a cavallo tra il ‘600/‘700, e nel 1705 pubblica la sua opera “Fundamenta Iuris Naturae et Gentium”— “fondamenti del diritto della natura e delle genti”. In quest’opera viene posta la grande questione, un tema ricorrente: quali sono le condizioni per immaginare un fondamento degli ordinamenti giuridici e politici giusto e in linea col diritto naturale. Inoltre quali siano le condizioni affinché agli individui sia dato di realizzare il massimo grado di felicità individuale, compatibilmente al benessere della comunità. Egli prova a rispondere alla questione mettendo in relazione il modo in cui diverse norme possono contribuire a dare un equilibrio tra queste due tensioni di felicità individuale e felicità collettiva. 
 Thomasius individua tre grandi aree di obblighi, di norme—> ogni area accompagnata da una massima: Così facendo Tomasio mette relazione il carattere vincolante della norma giuridica con il carattere altrettanto vincolante delle altre regole, cioè regola sociale e morale. - Obbligo morale: che viene definito HONESTUM—> la massima impone degli obblighi. Tratta dal vangelo. - Obbligo sociale: definito DECORUM —> la massima impone degli obblighi. Tratta dal vangelo. - Obbligo giuridico: definito IUSTUM —> la massima per l'obbligo giuridico è una massima negazione, cioè una massima che è un elemento di differenza in quanto inizia con una negazione “non fare agli altri ciò che non vorresti che gli altri facessero a te”. [qui troviamo i due caratteri distintivi dell’obbligo giuridico: la coattività - l’esteriorità (intersoggettività)]; Questa è una regola che secondo Thomasius si riferisce ai comportamenti esteriori, che ognuno tiene in società; non riguarda in alcun modo la coscienza. Nel secondo dopo guerra l'attenzione per tali teorie sembra essere messa da parte, per varie ragioni tra cui per il trionfo del giuspositivismo. Il Giusnaturalismo è sicuramente una dottrina del diritto considerata come morta. Una delle opere più importanti che sono pensate ed edite nel secondo dopo guerra è “Giusnaturalismo ed etica moderna”: di Pietro Piovani (prima filosofo del diritto, poi della morale), fu scritto nel 1961 in un momento particolarmente delicato della dottrina giuridica italiana. Piovani interpreta la traccia italiana, in particolare quella meridionale (in quanto egli è napoletano) della filosofia del diritto. Attraverso l'opera porta avanti una tesi di tipo provocatoria: per Piovani le dottrine del diritto naturale, che egli rinomina giusnaturalistiche, muoiono con la modernità, e quindi con il seicento (secolo della rivoluzione scientifica), in seguito alla nascita del metodo scientifico moderno: metodo che si fonda sull’osservazione e intende la conoscenza come osservazione verifica dell’ipotesi che nasce dall’osservazione e conseguentemente formulazione della legge. Ci sono due definizioni che ci consentono di andare al cuore della tesi di Piovani. Prima di tutto Piovani distingue il giusnaturalismo in giusnaturalismo antico (che va dal V secolo al medioevo, particolarmente discusso è Tommaso D’Aquino): si connota per lo studio della legge, sviluppando un legalismo e quindi un oggettivismo, quindi una visione di contenuto oggettivo. E il giusnaturalismo moderno: nel mondo della modernità l’etica, che non è etica della legge) si sostituisce alla legalismo, il cui carattere oggettivo tramonta—> la visione del mondo è basata sul soggettivismo e quindi sull’individualismo. La legge naturale nella modernità viene messa nelle mani degli individui cioè sono loro che ne interpretano il contenuto nei termini di pretesa individuale. Con Tommaso D’Aquino ci troviamo ancora all’interno di un mondo antico e ci troviamo in un momento storico in cui si sono accumulate già dall’anno 1000 delle prove che hanno visto protagonisti soprattutto i monaci di conventi e monasteri nei quali trascorrevano la maggior parte del proprio tempo a riscrivere le opere dell’antichità, dalle quali lo stesso Tommaso apprende. Tommaso D’Aquino: (ambito del giusnaturalismo antico) - fa parte della patristica (dottrina della Chiesa e filosofica) - Scrive la SUMMA TEOLOGIAE: Tommaso attua un’articolazione della legge naturale come legge oggettiva e quindi conoscibile. Il tema della legge viene affrontato in un modo mai fatto prima: viene infatti meno il concetto monolitico della legge stessa.T ommaso distingue la legge in tre tipi (prevale in lui la necessità di articolare la legge di natura): • Legge o Lex Divina—> sommo grado della legge naturale e meno accessibile in quanto alberga nella conoscenza di Dio. E’ una legge non conoscibile, imprescindibile. • Legge o Lex Eterna—> la legge comincia a contenere elementi di razionalità al suo interno, è conoscibile, è possibile ricavarne un contenuto oggettivo. Dalla lex eterna deriva la legge naturale. (Carattere razionale) • Legge o Lex humana —> il terzo grado della legge è rappresentato dalla legge umana che rappresenta il diritto positivo, in coerenza con il diritto naturale cioè la legge eterna. —> esistono due itinerari logici per garantire che la legge umana sia in linea con quella eterna: 1) per modo della conclusione. 2) Per modo della determinazione. Tommaso è consapevole che è necessario individuare la modalità del ragionamento che consente di assicurare alla legge umana cioè alla legge del diritto positivo di essere in linea con i precetti del diritto naturale. norma giuridica rispetto alle altre norme e questa è la ragione per cui questi autori, tra cui Thomasius fino a Kelsen, non pensano al diritto come un insieme di norme poiché il problema da risolvere era quello della definizione del diritto: è a partire dalla definizione dell’oggetto che si costruisce la sua teoria. Questa filosofia del diritto che sarà coltivata poi dal Giuspositivismo si costruisce su un oggetto laicizzato: rendere autonomo il diritto significa laicizzarlo, cioè definirlo come una regola che non ha altra forma di legittimazione che non sia nel potere politico.
 Dirà successivamente Croce si ricercano i “differenziali” che rendono la regola giuridica un qualcosa di non confondibile con le altre norme. La ragione per la quale Croce farà nascere la filosofia del diritto da Thomasius sta esattamente in questa opera di chiarificazione che egli fa rispetto al problema della definizione del diritto, al problema giuridico. FUNDAMENTA IURIS NATURAE ET GENTIUM (1705): opera in cui vengono illustrati i principi dell’onesto, del giusto e del decoro, i tre obblighi da distinguere al fine di isolare i fondamenti del diritto di natura e delle genti, il diritto positivo. Thomasius si rende conto che la pacifica convivenza si genera sul piano della sfera pubblica però non si può dire che solo sul piano della sfera pubblica ci siano tutte le condizioni affinché effettivamente si venga a garantire la pacifica convivenza.
 Il tema della felicità individuale è integrato in termini molto chiari all’interno della sua opera perché Thomasius sente la necessità di specificare questa domanda circa quali siano le condizioni per garantire un ordinamento giusto dicendoci che quando ci si pone questa domanda bisogna necessariamente porsi da un punto di vista utilitaristico. L’utilitarismo è una dottrina filosofica che si pone il problema dell’utilità e quindi di quelli che sono i comportamenti e le attitudini individuali e sociali in vista della felicità e del benessere sociale. La pacifica convivenza è un fine che si può perseguire misurando il rapporto tra il modo in cui ciascuna di queste norme è in grado di contribuire al sommo bene o al sommo male: ricerca delle condizioni alla base di una pacifica convivenza della comunità -il sommo bene coincide con la pace interiore, la pace della coscienza, del foro interno. è la norma morale
 -il sommo male è tutto ciò che contribuisce a turbare la pace esteriore. Nell’opera dì Thomasius vi è un mutamento di paradigma basato sul fatto che i fondamenti del diritto naturale si possono ricercare in un’opera di bilanciamento tra l’esigenza di perseguire il sommo bene e l’esigenza di evitare il sommo male.
 Nel momento in cui prevale l’uno in termini assoluti si ritrae l’altro, non possono avanzare entrambe alla luce del radicamento nella coscienza individuale della ragion d’essere del sommo bene. Il tema della norma morale è declinato da Thomasius in termini individualistici che trovano nella coscienza la sede di elaborazione delle condizioni che garantiscono la pace. RICAPITOLANDO: Fundamenta Iuris Naturae et Gentium (Opera di Thomasius, 1705). E’ un’opera in cui Thomasius (tardo giusnaturalista) fa vedere un chiaro mutamento di paradigma, già in luce in una parte della riflessione giusnaturalistica moderna, ma che diventa più evidente con quest’opera. Anticipa tematiche del giuspositivismo ma va anche a sovvertire l’ordine stesso in cui il tema giusnaturalistico trova spazio nella riflessione filosofica. Non è più il diritto naturale ad essere il fondamento del diritto positivo, il problema è la ricerca del modo in cui il diritto positivo, come la norma sociale e morale, possano contribuire ad offrire un bilanciamento tra di loro. E’ da questa opera di secernimento, che troviamo la possibilità di dedurre il contenuto del diritto naturale che è sempre lo stesso: La ricerca della pacifica convivenza, l’armonia della comunità politica, la felicità sociale.
 In questo problema trova spazio la autonomia dell’obbligo giuridico che Tomasio denomina “Iustum” rispetto agli altri obblighi. Deriverà da ciò una definizione del diritto che Tomasio ci darà già dotata almeno di due dei caratteri a cui ancora oggi noi ricorriamo nel definire il diritto. Con Tomasio c’è per la prima volta la distinzione fra diritto e morale, conseguentemente il posto che il diritto naturale occupa nella riflessione della filosofia del diritto cambia radicalmente. E’ come se retrocedesse di importanza, ci si focalizza ora sulla realtà storica e sulle tre norme:
 Onesto (Norma religiosa) Giusto (Norma giuridica)
 Decoro (Norma sociale) SLIDE
 Ci troviamo in una modernità (600) nella quale il pensiero giusnaturalistico costituisce ancora il quadro di riferimento dei filosofi del diritto e della politica quindi dei pensatori europei, però si tratta di un quadro ormai svuotato del significato e della forza che aveva avuto fino all’alba della modernità. POSITIVISMO GIURIDICO: non nasce ex abrupto, ma nasce in seno alla sensibilità e alle questioni del Giusnaturalismo, per il quale il diritto e la morale non sono separati—> il positivismo è la questione che nasce proprio per la negazione di tale rapporto. È la regola che orienta e ascrive all'ordinamento politico e sociale. L'unico diritto per i positivisti è la forma che ha la regola imposta dall'autorità politica. Il positivismo sei una dottrina recente, non vanta una storia millenaria come le altre dottrine del diritto naturale ed è quindi una dottrina della modernità giuridica. Anche per il positivismo possiamo dire che piuttosto che un’unica monolitica dottrina sia più opportuno parlare di famiglie di teorie del diritto, teorie spesso contrastanti ma è possibile trovare comunque dei nuclei comuni che costituiscono la trama strutturale su cui si muove ogni dottrina giuspositivistica. I) quando datare l’origine del positivismo: come dottrina teorica e compiuta il XIX secolo è il secolo del trionfo del positivismo, ma quando invece ci si interroga sulla nascita del Giuspositivismo dal punto di vista delle questioni che pone bisogna dire che il trionfo del Giuspositivismo nel diciannovesimo secolo ha una fase di preparazione e sedimentazione di problemi e questioni che convergono a definire il quadro teorico e epistemologico ovvero il quadro della teoria della conoscenza del diritto che il giuspositivista fa proprio: la questione di come conoscere il diritto e quindi di quali strumenti ha a disposizione il giuspositivista per conoscere il diritto. Questo quadro ha subito diverse trasformazionali nel corso del tempo e una delle più importanti cesure che intervengono nel quadro epistemologico del positivismo è senz’altro quella che sarà rappresentata dalla dottrina pura del diritto di Kelsen. II) Positivismo giuridico/filosofico: il positivismo filosofico emerge nello stesso secolo del positivismo giuridico, ma quello giuridico considera il diritto come un prodotto reale politico e sociale che il giurista si impegna a studiare: una parte della realtà. Quello filosofico attua un culto per la realtà, considerando la realtà in sé attraverso un principio di realtà, in un atteggiamento antimetafisico. 1] IL POSITIVO GIURIDICO E LA CONCEZIONE DEL DIRITTO.
 Il positivo giuridico è quella teoria del diritto che studia e teorizza il diritto positivo cioè il diritto posto dal legislatore (dal latino positus).
 Quale concezione di base accomuna tutte le dottrine del diritto positivo? Certamente una concezione unitaria del diritto che respinge le ipotesi dualistiche. Il positivismo teorico considera il diritto positivo nella forma di legge, diversamente invece ragionerà un positivismo più maturo che intende come diritto positivo tutte le espressioni di esso quindi non solo la forma legge. Per la concezione kelseniana il diritto è un diritto positivo ma non si tratta del diritto di un determinato stato/ ordinamento, ma è la forma diritto positivo e per Kelsen questa forma in realtà è la formulazione della norma giuridica. 2] LA SEPARAZIONE TRA DIRITTO E MORALE.
 È comune a tutte le tesi del giuspositivismo l’affermazione di un principio di separazione tra diritto e morale. Definire il diritto è cosa diversa dal definire la morale, i contenuti del diritto non sono o non sono necessariamente coincidenti con quelli della morale. Questa separazione è la ricerca di un’autonomia del diritto rispetto alla morale.
 Kelsen sarà profondamente critico nei riguardi del modo in cui la dottrina ottocentesca aveva pensato di rispondere a questa esigenza. Per Kelsen il Giuspositivismo ottocentesco non ha davvero separato questi due nuclei e questo spiega anche il mutamento di paradigma che sarà apporta da egli stesso nel corso del ‘900. 3] LE FONTI SOCIALI DEL DIRITTO.
 Il diritto è un fenomeno sociale derivante da fonti sociali e questo significa negare implicitamente che fonte del diritto possa essere ad esempio la metafisica, cioè un sistema di verità rivelate, eterne e immutabili che è un sistema che il giuspositivista, in particolare modo il giuspositivista metodologico, non considera in quanto non lo ritiene conoscibile perché la riflessione della metafisica e l’idea che ci sia quindi un sistema di verità astratte che deve essere inteso come origine del diritto non ha ragion d’essere in quanto non è razionalmente e scientificamente conoscibile. 4] IL DIRITTO COME FORZA.
 Possiamo intendere la forza come ciò che origina il diritto evocando il giuspositivismo di matrice ideologica o legalismo etico, ma in realtà il giuspositivista classico indipendentemente dal fatto che aderisca o meno ad un modello di legalismo etico, puntualizza della forza che agisce come fatto all’interno del diritto soprattutto l’aspetto della COERCIZIONE: il diritto è una tecnica di orientamento della condotta sociale ed è una tecnica che si nutre della forza.
 Il diritto è quindi una norma coattiva cioè può essere imposta a qualcuno tramite sanzione. L’aspetto caratterizzante è quindi la reazione dell’ordinamento che non è necessariamente una reazione sanzionatoria che stigmatizza il comportamento non conforme.
 Si può parlare anche di sanzione positiva in termini di premialità del diritto. Bobbio riconoscerà le origini di questa premialità all’interno del positivismo inglese. Autori come Jeremy Bentham avevano già, tra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo, trattato questo tema. • L’obbligo giuridico diversamente dall’obbligo morale vincola il comportamento e quindi l’azione sociale: non richiede un’adesione della coscienza, ma del comportamento. 
 • Lo iustum e l’honestum sono due obblighi separati che non hanno nulla in comune. Nel corso del ‘900, dopo Kelsen, si ritorna a ragionare sulla netta separazione tra diritto e morale. I giuspositivisti della seconda metà del ‘900 non hanno negato che definire il diritto è un’operazione che va compiuta con gli strumenti di cui si dota la scienza giuridica= il diritto è un oggetto autonomo. Avrebbero inoltre accettato che nella realtà storica si sarebbe potuto accettare che talvolta sul piano contingente diritto e morale potessero o addirittura dovessero coincidere. GIUDIZIO (critica) DI CROCE SU THOMASIUS: giudizio ambivalente, che contiene una nota di positività e di negatività: un giudizio che definisce questi una contraddizione -giudizio positivo: in quanto. Croce riconosce l'importanza dell'impostazione di Thomasius. Croce riconosce che sei una domanda la filosofia del diritto sia una domanda che si interroga sulla attività giuridica, la cui risposta è che sicuramente differisce dall'attività morale ma ha comunque qualcosa in comune con questa. -giudizio negativo: Croce ritiene che la sua trattazione sia fallace, che non regga sotto il profilo teorico. Sostanzialmente Croce afferma che Thomasius sia stato capace di vedere la giusta prospettiva, ma che non sia stato in grado di portare avanti il discorso coerente con tale prospettiva. Un dei primi argomenti intrapreso come obiezione (filo rosso) è che Thomasius ritiene che la coazione e l’esteriorità siano caratteristiche dell'obbligo giuridico, in quanto tale siano elementi differenziali, cioè elementi che differenziano l’obbligo giuridico dall’obbligo morale. Per Croce in realtà sono delle formule: elementi fuorvianti. Inoltre il principale limite (della filosofia del diritto) che Croce riscontra anche in Thomasius di essersi soffermato in maniera eccessiva sulla ricerca degli elementi differenziali senza senza aver prestato adeguata attenzione agli elementi di connessione, non essendo perciò R.I.S. riuscito a sciogliere il problema della distinzione tra diritto e morale. —> vedi file Riduzione su percorso di decontrazione di Thomasius RIDUZIONE DALLA FILOSOFIA DEL DIRITTO ALLA FILOSOFIA DELL’ECONOMIA INTRODUZIONE: La “Riduzione” è una memoria Pontaniana, cioè una relazione orale che Croce ha tenuto all’ Accademia Pontaniana di Napoli, che è una delle più antiche accademie scientifiche italiane, nella primavera del 1907 e pubblicata nello stesso anno negli atti dell’Accademia stessa. Questa, carica di esempi che rimandano alla vita concreta (del diritto), nel 1907 acquisisce la prima forma di pubblicazione immediata, accompagnata però da un'avvertenza: Croce afferma infatti che il testo (che nasce come memoria orale) è un'anticipazione di un libro che stava preparando in quel periodo dedicato alla filosofia della pratica, pubblicata nel 1909. Croce ritiene che non sia più necessario ripubblicare la memoria Pontaniana del 1907, poiché questa è inclusa all’interno della “Filosofia della Pratica”, quindi questo libro non entra a far parte del “corpus” delle opere di Benedetto Croce. Il filosofo è stato un attentissimo editore delle proprie opere, egli stesso infatti, ha progettato una articolata sistemazione della propria produzione scientifica. Ciascuna di queste opere ha avuto una nuova edizione, la quale aveva la funzione di correggere errori presenti nelle precedenti edizioni o semplicemente per aggiornarli. Agli inizi degli anni 80, un gruppo di studiosi ha messo in piedi una impresa scientifica che è “L’edizione Nazionale delle opere di Benedetto Croce”, la quale, cosi come tutte le altre edizioni Nazionali, è approvata e poi sostenuta dalla Presidenza della Repubblica; si tratta di una nuova edizione critica delle opere di Croce, che tiene conto del disegno che l’autore stesso aveva fatto della sua opera. Ma neanche all’interno dell’edizione Nazionale l’opera ha trovato fortuna. E’ successo invece che nel 1926 (negli anni venti) servendosi della collaborazione del giovane studioso Adelchi Attisani, Salentino di nascita ma Siciliano di formazione, Croce decide di pubblicare una nuova edizione (acconsente su richiesta di Attisani Adelchi), sostanzialmente una ristampa della Riduzione, all’interno di un volumetto èdito da un editore Napoletano che si chiamava Ricciardi, con una piccola nota di lettura scritta da Attisani e una piccola appendice di alcuni saggi che secondo Croce e Attisani avrebbero opportunamente accompagnato la “Riduzione”. L’ipotesi del perché Croce volle ripubblicare la “Riduzione” nel 26 trova probabilmente il suo fondamento nella rottura dei rapporti con Giovanni Gentile (frattura intellettuale-politica). Probabilmente per rivendicare l'essenziale autonomia del suo pensiero nei riguardi delle tesi avanzate contro di lui dagli ambienti dell'attualismo che gli erano ostili che affermavano che la sua filosofia fosse di matrice GENTILIANA. Inizialmente (prima dell’affermazione di Mussolini nel 22) tra i due vi era un rapporto di continuità (sono entrambi amici ed esponenti del neoidealismo), Croce inviava infatti molte lettere a Gentile (EPISTOLARIO), cui Gentile rispondeva in tempi brevi, attraverso le quali avveniva lo scambio di vedute: in alcune definiva la Riduzione un Excursus, cui Gentile controbatte trovandosi perciò i due in una polemica antitetica: nel 24/25 avviene infatti la rottura dei loro rapporti in seguito alla stesura dei Manifesti degli intellettuali fascisti e antifascisti: Croce è un intellettuale di riferimento per il movimento antifascista, Gentile l’opposto. La questione nasce principalmente riguardo due obiezioni avanzate da Gentile: 1. Croce aveva affermato che non fosse possibile definire l'istituto giuridico come autonomo: deve essere ricondotto all’economia. Fatto giuridico—> fatto economico Diritto (attività giuridica dell’individuo)—> economia Attività giuridica—> attività economica Gentile invece ritiene che questa soluzione non sia in grado di definire l'attività giuridica. 2) Punto di vista filosofico/stilistico: nel testo infatti abbondano gli esempi, elementi empirici, che Gentile ritiene non siano consoni a una trattazione filosofica. Nel 26, portato a compimento il suo progetto (decennio) ripubblica una sorta di ricomposizione nella storia delle memorie, pubblicando nuovamente la Riduzione accompagnata da memorie che introducono ESTETICA e LOGICA (due delle grandi opere appartenenti al suo compiuto sistema filosofico: SISTEMA DELLO SPIRITO). Il sistema dello spirito di articola su 3 grandi opere: l’Estetica (1900), la Logica (1905) e la Pratica (1909); le prime due fulcro dell’attività teoretica, l'ultima dell’attività pratica, nella quale viene affrontato il tema delle Leggi, solo abbozzato nella Riduzione. Il 1907 è un momento in cui “Il forno di cottura della filosofia dello spirito è alla sua massima temperatura”, Croce sta progettando la terza edizione dell’estetica del 1908 che costituirà il primo volume della “Filosofia dello spirito”, sta pensando di dover fare una seconda edizione della logica nel 1909 che costituirà il secondo volume e ha nel 1907, appena iniziato a progettare ed elaborare la “Filosofia della pratica”; questo libro che a differenza dei libri dell’Estetica e della Logica contiene in se la Filosofia della pratica, sia le pagine relative al primo grado pratico e cioè all’azione economica, sia le pagine relative al secondo grado pratico e cioè l’azione etica. Sono questi allora i mesi e gli anni in cui Croce sta pensando con grande impegno alla struttura del suo sistema filosofico e ciò si riversa sulle pagine della “Riduzione”. Croce nel periodo di composizione delle sue opere più importanti vi dedica molto tempo e l’inizio del 1907 è dedicato alla “Filosofia della pratica”, precisamente Croce inizia gli studi per la Filosofia della pratica il 16 Febbraio 1907; a partire da questa data quindi Croce è impegnato nelle letture filosofiche che gli servono a preparare quest’opera. Accade però molto presto che la sua attenzione inizi a riorientarsi verso gli studi della Filosofia del diritto i quali hanno a che fare con il volere con l’agire e quindi sono assolutamente parte della “Filosofia della Pratica”. Inizia quindi a leggere libri e a riflettere sui problemi della Filosofia del diritto. Da un certo momento in poi, precisamente il 30 Marzo, Croce inizia a pensare che questi appunti che stava prendendo sulla filosofia del diritto li avrebbe fatti convergere in uno scritto da presentare all’ Accademia Pontaniana. Questa presentazione si avrà di lì a breve, il 21 Aprile dello stesso anno legge la prima parte della Riduzione e il 5 Maggio la seconda, chiudendo la presentazione. Parte degli studiosi è stata indotta a pensare alla “Riduzione” come una specie di divagazione su un tema specifico, quello del diritto, che Croce si sarebbe concesso per animare una sorta di polemica contro la Filosofia del diritto e i Filosofi del diritto; Questa lettura ha di fatto accreditato un’interpretazione, forse errata, della “Riduzione”, come di un testo vivace, essenzialmente polemico, di battaglia contro la Filosofia e i Filosofi del diritto. In realtà la “Riduzione” si presenta come un vero e proprio libro di Filosofia del diritto in cui vengono tematizzati i problemi centrali ed essenziali della Filosofia del diritto. All’inizio del 900 la filosofia del diritto vive una crisi epocale; emergono infatti polemiche che mettono in questione che tale filosofia possa dirsi una disciplina: la polemica vede gli stessi filosofi del diritto avanzare queste critiche. Croce polemizza a sua volta contro tali crociano significa UNITÀ/ COMUNIONE e DIFFERENZA), ma delle differenze tra diritto e morale tralasciando gli elementi di comunione. Formule: mal riusciti tentativi di definire la differenza tra diritto e morale, risultato di una cattiva capacità di risolvere il problema. 1 PARTE: pag 9, paragrafo 2 Nella prima pagina del primo capitolo del testo Croce scrive che le trattazioni di filosofia del diritto sono essenzialmente dei vari punti della trattatistica comune che toccano aspetti diversi: questi vengono considerati trattati, trattati filosofico giuridici. Quando si adotta il punto di vista della distinzione tra diritto e morale vi sono due principali generi: ⁃ TRATTATISTICA ETICA: una trattatistica di filosofia del diritto che adotti una determinata soluzione sui rapporti tra diritto e morale ⁃ TRATTATISTICA POLITICA: una trattatistica che adotti una soluzione diversa, opposta a questo problema. Si affronta da un diverso punto di vista il tema dei due riduzionismi:
 • Trattati di etica: hanno offerto come soluzione la riduzione del diritto alla morale. Sono trattati che si possono ascrivere a una tradizione giusnaturalistica. (riferimento a Giambattista Vico pagina 11) • Trattati di politica: considerano la morale come una categoria del diritto. Pag 14/15, paragrafo 6 Croce inizia un itinerario di decostruzione di Thomasius, considerato iniziatore e primo traditore della filosofia del diritto. Thomasius, che è un giusnaturalista già proiettato verso l’anticipazione del giuspositivismo, affida il problema della questione alla costruzione di caratteristiche differenziali, cosa che viene giudicata da Croce essere un modo a metà di affrontare tale questione. Nella sua opera Croce è immediato e diretto— > paragrafo 6: demolizione della categoria della coazione (che per Croce non è altro che una formula). COAZIONE: Thomasius fa derivare il carattere di coattività dall’aspetto negativo della massima che è un divieto che implica di per se che vi sia prefigurata una reazione dell’ordinamento nei riguardi dell’ipotesi in cui quel divieto venga disobbedito. L’obbligo giuridico è un obbligo coattivo in quanto, se disatteso, da origine a una reazione dell’ordinamento di tipo sanzionatorio. Intesa quindi la coazione come una sanzione, una reazione all’illecito, la si va a definire come un concetto empirico, con rinvio cioè ad un fatto dell’esperienza. Ed è questa la prima obiezione che Croce muove, affermando prima di tutto che i concetti empirici stanno bene nelle scienze empiriche (fisica, chimica ecc), mentre la filosofia del diritto è una scienza razionale. Nell’esperienza un fatto può verificarsi o meno, quindi non necessariamente si verifica: quando osservo una tempesta e noto un fulmine o un lampo, so che dopo necessariamente arriverà il tuono. Questo non regge per le scienze umane e sociali, cioè le scienze razionali dello spirito, però, per le quali manca l'aspetto della necessità. Infatti l'empirico è il luogo dell'incertezza, in cui la legge trova esclusiva validità nella realtà. Riaffermando quindi il non necessario verificarsi degli eventi—> Possono esserci diversi fattori che intervengono su questo aspetto. Alcuni sono stati definiti dalla scienza del diritto e un’ipotesi tipica potrebbe essere quella della perdita di vincolatività della norma = norma ineffettiva colta da DESUETUDINE. Una norma pur essendo valida dal punto di vista formale, essendo colpita da condizione di ineffettivitá, non è più in grado di orientare il comportamento dei consociati che non eseguono più i dettami. Quando però questa ineffettivita è diffusa all’interno di una comunità giuridica non c’è reazione dell’ordinamento poiché vi è questo fenomeno che la dottrina giuridica definisce desuetudine che mette in questione la validità stessa della norma.
 [Es: la coazione è la possibilità (non la necessità) che il debitore insolvente sia chiamato a onorare il proprio debito o che il ladro sia messo in carcere]. 
 La coazione come la intende Thomasius è una costrizione la cui esistenza viene percepita effettivamente se viene osservata nella realtà: la coazione implica un aspetto che sta fuori dalla norma. La costrizione non è già implicita nella norma come obbligo, ma è prefigurata come una conseguenza successiva e che sta esteriormente alla norma. L’esteriorità ricade su un dato dell’esperienza = ricade sulla dimensione dell’efficacia, di ciò che accade o non accade. Per Croce quindi la coazione non può fondarsi sull'esperienza, la quale risulta essere terreno instabile—> un modus di ragionamento non idoneo. Secondo Croce in questa definizione di coazione vi è una fallacia logica: Thomasius pretende di definire l’obbligo giuridico in virtù di un carattere che non si sostiene sotto il profilo teorico in maniera autonoma, ma ha bisogno sempre di essere sostenuto da un’evidenza empirica e se questa manca il carattere viene meno. Nessun concetto può essere dimostrato, secondo Croce, nella sua validità attraverso il rinvio ad un dato dell’esperienza in quanto risulta essere un dato incerto. L’incertezza non è sufficiente per dire che l’obbligo giuridico è sempre un obbligo coattivo. Coazione caratteristica del diritto? Come afferma Thomasius—> obiezioni avanzate da Croce La coazione caratterizza l'obbligo giuridico per Thomasius, cioè è un tratto caratteristico del diritto, se si parla dell'attività dell'adempimento rispetto alla norma. Croce però gli muove delle obiezioni, affermando—> non si può però dire la stessa cosa rifacendosi all'attività del legislatore (creatore stesso del diritto), la quale non è coattiva, perché quest'ultimo agisce liberamente. Inoltre non è possibile neanche dire che gli uomini sono spinti dalla coazione all'osservanza della legge, in quanto gli individui si sono dati delle leggi per vivere in società, e quindi si le rispettano perché obbligati, ma obbligati da una propria scelta. Dopo di ciò si può arrivare a dire che sotto il profilo psicologico la coazione è propriamente la pressione/costrizione psicologica, cioè lo stato di costrizione che l'individuo avverte per il fatto della minaccia—> quindi l’obbligo giuridico si caratterizzerebbe come obbligo coattivo nella misura in cui costringe e rappresenta una pressione psicologica in quanto si imprime con la sua forza sulla volontà dell’individuo. Il concetto generale, utilizzato da Thomasius, al quale fa rinvio questa definizione rigorosa di coazione è che l’individuo è costretto psicologicamente poiché subisce la forza della norma, e quindi l’obbligo è coattivo in quanto costringe la volontà degli individui, i quali si comportano in un certo modo pur non volendolo. Affermando ciò si verrebbe a determinare una scissione tra il piano dell'intenzione e il piano della volontà: la dimensione psicologica interiore, cioè l’intenzione (cosa si vuole e cosa non si vuole fare), verrebbe quindi scissa completamente dalla dimensione esteriore (ciò che poi viene fatto), e l’attività si caratterizzerebbe come costretta, quindi passiva: in questo modo verrebbe a definirsi un concetto falso di azione. Perciò tutto questo è insostenibile per Croce, il quale ritiene si tratti di una vera e propria FILOSOFIA DELL’AZIONE FALSA: infatti si darebbe per scontato che esistesse una dimensione nella quale gli individui possoano agire in un certo modo anche se non vorrebbero—> ma per Croce non si può pensare ad un'azione che non sia libera e volontaria: non esiste infatti volontà senza azione né azione senza volontà, indipendentemente dal fatto che si consideri l’azione come adempimento alla norma—> per tale motivo si parla di volizione, e cioè il reciproco compenetrarsi di azione e volontà. Questo termine compare per la prima volta che Croce muove a Thomasius (è infatti un lemma filosofico del linguaggio crociano), e indica che non esiste volontà individuale che non si esprima nel concretizzarsi di un’azione.—>non esiste una dimensione in cui l’azione differisca dalla volontà in quanto ogni azione è volontà e ogni volontà è azione 
 La massima a cui Croce ricorre per esprimere al meglio la sua tesi è «coacti amen volunt»—> quindi la coazione non esclude l’iniziativa o la volontà. Vi è qui la prefigurazione di una categoria alla quale successivamente Croce affiderà la risoluzione del problema della distinzione tra diritto e morale: l’UTILE = l’individuo che si piega alla volontà altrui che lo costringe a compiere una determinata azione lo fa, non perché si lascia intimidire annullando la sua volontà, ma perché riconosce che piegarsi alla volontà altrui è il meglio che possa fare. Pertanto ogni azione dell'individuo è una volizione, cioè una valutazione che l'individuo compie delle circostanze date: l'azione dell'individuo è forza tra le forze nelle circostanze date; è il modo in cui tale individuo ricerca di inserire la sua determinazione in un contesto pieno di forze, in quanto non esistono libertà e azione che agiscono nel vuoto. Nel fare ciò l'individuo si ritrova ad adempiere all’utile (es: si può uccidere un uomo ma non si può costringerlo ad uccidere, l'azione ricade nella volizione cioè la determinazione attraverso la valutazione e quindi l’utile). L'individuo quindi adempie alla norma perché costretto vuole—> nell'affermare ciò Croce riprende Hegel, in quanto esponente del neoidealismo, nella definizione del rapporto schiavo-padrone, la cui colpa dell’origine di tale rapporto è di ambo le figure, in quanto anche lo schiavo si è lasciato fare schiavo, cioè si è piegato alla volontà altrui (facendola propria) ritenendo che fosse il meglio che potesse fare. Ma non solo i rapporti di dominio, anche i rapporti politici si basano sull’utile: cioè una dimensione pratica che sfugge alla morale, nella quale iscrivo la mia azione. La coazione intesa come pressione psicologica non è un carattere distintivo del diritto ma è posto su un piano di simmetria con la morale. Tale pressione può essere, dunque, sia conseguenza di un obbligo giuridico, sia di un obbligo morale. Sia l’adesione del comportamento all’obbligo, sia la non adesione del comportamento all’obbligo possono essere considerate attività qualificabili giuridicamente perché assumono l’obbligo giuridico come parametro della propria determinazione. Nell’ambito delle teorie dell’azione e quindi delle teorie di libertà individuale esistono due grandi scuole di pensiero: ⁃ una teoria DETERMINISTICA in base alla quale l’azione individuale è il prodotto delle circostanze esterne = l’azione individuale è l’effetto di una causa. Il principio di causalità, cioè il rapporto di necessità che si istituisce nell’ambito delle scienze naturali per spiegare i fenomeni naturali, può essere preso e trasferito anche nel campo delle scienze sociali e umane. [Es: Scuola positiva del diritto penale di Lombroso che nella quindi a definirsi una scissione tra elemento fisico ed elemento psichico (foro interiore), sottratto all'incidenza dell'obbligo giuridico. Croce afferma che questa distinzione rinvia ad una geometria degli spazi di cui ha governo la scienza fisica, e inoltre sempre questa stessa scissione implicherebbe l'ipotesi di una realtà giuridica che astrae dalle intenzioni: ciò ovviamente non esiste, in quanto la realtà giuridica fa delle intenzioni elemento qualificante. Pag.32/33/34 In questa pagina, al paragrafo 14, Croce sta tirando le fila del discorso che ha svolto fino a quel momento evocando la metafora (seconda utilizzata, dopo del Capo Horn) del morbo che affligge e ha afflitto i filosofi del diritto, inteso come stato di contraddizione (insoluta) tale da poter essere paragonato a malattia (ciò che nel mondo dello spirito è contraddizione, nel mondo organico diventa malattia). La contraddizione è generata dall'intuizione propria dei filosofi del diritto che, da circa due secoli, non ha trovato adeguata trattazione: cioè la filosofia del diritto ha compreso che c'è una distinzione tra diritto e morale, ma non è riuscita a trovarla. Croce giunge alla definizione della condizione morbosa in seguito ad una equazione per cui: la contraddizione teorica equivale alla malattia, come stato pervaso da condizione di lotta o di conflitto, dato dall’interazione tra il morbo e il tentativo di rispondere all’attacco. Infatti il filosofo del diritto riconosce che il diritto ha a che fare con la morale, ma non sa spiegare in che modo e inoltre sente che c’è un rapporto con la morale, ma sente che questo non è un rapporto d’identità e quindi non sa stabilire in cosa il diritto sia identico alla morale e in cosa diverso, posto che la sua confusa coscienza gli dice che non è del tutto identico e non è del tutto diverso, “sembra identico e diverso insieme”. Il problema quindi nasce dalla mancata risoluzione del problema stesso: il filosofo del diritto intuisce che i rapporti tra diritto ed etica (T.—> iustum e honestum) sono complessi, grazie alla intuizione della non identità del diritto all’etica. Per cui nonostante la riconosciuta condizione di non identità (sappiamo quindi che il diritto non è etica), risulta impossibile riuscire a cogliere il rapporto -che è un rapporto non lineare e complesso, basato su comunanza e differenza- anche dicendo che il diritto effettivamente è diverso: il diritto non è identico ma non è semplicemente diverso dall’etica. Ed è proprio su questo punto (il non aver saputo adeguatamente spiegare) che naufraga la filosofia del diritto. Quindi: diritto ed etica non sono identici ma sono simili. L'essere simili non esclude un elemento di continuità tra i due, che non possono neanche però essere sovrapposti perché non identici: il filosofo del diritto evidenza solo i caratteri differenziali e perciò cade in contraddizione, una contraddizione da cui la filosofia del diritto non esce, perché attua una vera e propria ricerca della differenza. Croce ha un atteggiamento diagnostico (in questa prima parte della riduzione), che infatti individua tra le manifestazioni del “morbo” un sintomo che si è già preso in considerazione, cioè l’antico dualismo di diritto naturale e diritto positivo, che è proprio della filosofia del diritto e non trova infatti riscontro nelle altre scienze filosofiche. Quindi dice che se il problema fosse solo un problema di parole, cioè se si sta parlando di diritto e di giustizia chiamandoli rispettivamente diritto positivo e diritto naturale semplicemente vuol dire che nell’ambito del discorso si sta passando da una considerazione propriamente giuridica ad una considerazione propriamente morale adoperando forse parole non particolarmente precise. Ma se si sta facendo filosofia del diritto questi concetti devono essere due concetti del diritto e questo non è possibile (anche la logica insegna che un determinato aspetto della realtà è pensabile in un solo unico concetto), salvo il caso di trovarci in una contraddizione logica, perché o è diritto l’uno o l’altro e per stabilire quale dei due lo è, bisogna ritenere risolta la questione della definizione del diritto che però non è stata ancora risolta perché non ancora risolta è stata la distinzione del diritto dalla morale. Per mitigare il suo giudizio severo, Croce chiude il capitolo affermando che quella dei filosofi (“uomini egregi” cit) è una ingenuità, frutto di una formulazione incompiuta. I filosofi infatti per comprendere la natura dell'atto giuridico hanno ritenuto di doversi concentrare esclusivamente sui tratti che distinguono diritto e morale. Questa esigenza nasce propriamente nella modernità, in cui risulta necessario andare a definire la regola di convivenza (che è appunto la regola giuridica). I filosofi infatti devono trovare le caratteristiche per far prevalere tale norma, facendo sì che sia questa ad orientare i comportamenti e non più la norma sociale, come avveniva nell'antichità, quando mancava il privilegio della regola giuridica. Il prezzo di questa esigenza però è stato non aver adeguatamente indagato, ragionando per comparti stagni cosa che per Croce non è possibile in quanto impossibile è pensare al diritto come attività al di fuori di una possibile connessione con la morale. II PARTE IL DIRITTO COME PURA ECONOMIA Questo titolo comincia a chiarire il significato del titolo dell’intera memoria pontaniana, perché se il diritto è pura economia, allora la filosofia del diritto deve essere ridotta a filosofia dell’economia. Pag.35 (Il problema, i filosofi del diritto non sono riusciti a risolverlo, hanno prospettato soluzioni sempre contraddittorie e tuttavia il problema rimane, poiché il filosofo diritto non aveva fino a quel momento i principi necessari per risolverlo). Quando la soluzione si rivela contraddittoria e la domanda permane (sospesa) è da supporre che negli strumenti teorici a cui attingono i filosofi del diritto ci sia qualcosa che non va. Per capire cosa è successo in questa storia durata due secoli è bisogna andare a definire il principio (di essenziale importanza, mostrato nei suoi lavori, fino a quel momento mancato) necessari per Croce alla base della risoluzione del problema. Partendo da una diversa formulazione della domanda Croce arriva a considerare l'economia con sguardo filosofico definendo quello che è il principio economico, a cui Croce dedica pagine nelle lettere indirizzate ad un importante esponente della nuova scuola economica che è Vilfredo Pareto, che è un interlocutore privilegiato di Croce su un tema delicato come quello della definizione del fatto economico. Il principio economico essenzialmente è il principio dell'utile che consente di capire che c'è un momento dell'azione individuale che è autonomo, che è appunto l'economia elevata la scienza filosofica. Il problema della filosofia giuridica nasce dal non aver capito che la questione che si è trovata a discutere è una questione centrale della filosofia pratica: di cui Croce individua due principi, o forme: (non irrelate reciprocamente e cioè non prive di relazioni) FORME CHE PUO’ ASSUMERE L’AGIRE UMANO (proiezioni della filosofia della pratica)—> sistema dell’agire pratico I) FORMA ECONOMICA: primo grado dell’azione pratica, che si determina nella realtà dell'utile, definita secondo convenienza. La volizione dell’individuo è immediata e trova concretizzazione nell’individuale. Questa si basa sul principio individuale, per cui l'individuo agisce secondo volizione. II) FORMA MORALE: secondo grado dell’azione pratica, per cui il soggetto è l'uomo inteso nella sua astrazione che realizza una convenienza universale, allineando la sua azione a dei valori che si astraggono e che possono dire l'umanità. Azione che risponde al principio dell’universale. Infatti questa si basa sul principio dell’universale. Quindi diritto ed etica non sono identici ma neanche di simili perché entrambi sono forma dell'agire pratico. La vera domanda non è quindi trovare ciò che distingue diritto e morale, ma se il diritto è parte dell’economia o dell’etica. Bisogna quindi capire se l’azione giuridica è nella sua natura attività economica o etica. Croce dice che la mancanza del principio economico ha danneggiato più di tutti proprio la filosofia etica, perché la mancanza di una adeguata conoscenza del principio dell’utile non ha consentito all’etica di criticare nel modo filosoficamente più adeguato l’utilitarismo e cioè questa dottrina che ha creato confusione nella filosofia della pratica, perché – dice Croce – l’unico modo per criticare l’utilitarismo è riconoscere le giuste esigenze che l’utilitarismo cerca di veicolare. Quindi la mancanza di un principio economico ha impedito da un lato la costruzione di una filosofia dell’economia e di conseguenza ha impedito di risolvere il problema della filosofia del diritto, dall’altro lato ha creato un problema alla stessa filosofia della morale, cioè all’etica, perché non ha consentito alla stessa di liberarsi dall’utilitarismo. Utilitarismo: è un indirizzo del pensiero etico, politico, economico, affermatosi in Inghilterra tra 18 e il 19 secolo, i suoi maggiori esponenti furono Jermy Bentham e John Stuart Mill. Le tesi dell’utilitarismo: pretende di trasformare l’etica in una scienza della condotta umana, e che questa sia calcolabile, che sia esatta e pretende di fare ciò sostituendo il riferimento al fine dell’uomo che nell’etica tendenzialmente coincide con il bene, con un riferimento che sia il movente dell’agire umano, cioè il piacere, riconoscendo questo, appunto, come il motivo per cui l’uomo agisce e ritiene che il piacere privato, quindi l’utilità privata, coincida con quella pubblica. Quindi l’utilitarismo riconosce un carattere super individuale al piacere come movente dell’agire. In questa tesi sull’utilitarismo ci si può accorgere di due cose: la prima è che l’utilitarismo fagocita l’etica e quindi cadono i termini della distinzione, perché l’utile ha fagocitato il bene e questo è il problema che Croce denuncia; oltre questo però vi è un altro aspetto e cioè in questa dottrina propria dell’utilitarismo si riconoscono degli elementi a cui Croce stesso ha fatto riferimento parlando del fatto economico. In questa pagina della riduzione quindi Croce afferma che solo se noi riconosciamo all’interno dell’utilitarismo quegli elementi di verità che la dottrina ha intravisto, possiamo allora riconoscere la falsità complessiva dell’utilitarismo che ha fagocitato l’etica facendo cadere i termini della distinzione e rimettere finalmente a posto il rapporto tra l’economica e l’etica e quindi riordinare la filosofia della pratica. Pag.36, 37 (§2) La prima è un’affermazione di cui ormai si comprende il significato e cioè il fatto che ci sia voluto così tanto tempo a chiarire il principio economico e quindi ad elevare la scienza economica a scienza filosofica, ha prodotto una serie di conseguenze e la più rilevante l’abbiamo davanti agli occhi considerando proprio la contraddizione, il groviglio di difficoltà in cui si avvolge la filosofia del diritto. Ma non è questo il punto centrale, bensì quello che segue. L’uso delle locuzioni filosofia pratica e filosofia morale, vanno intese come filosofia della pratica e filosofia della morale. Questa esigenza di individuare il momento dell’agire economico accanto e precedente rispetto al momento dell’agire etico è definito da Croce in questa pagina come una esigenza irrefrenabile (ricerca di una forma della filosofia pratica che non sia di necessità filosofia morale) e uno dei sintomi di questa esigenza deve essere rinvenuto nell’essere stato nei tempi moderni ( appunto perché la storia della filosofia del diritto è una storia recente, perché non comincia prima che con Thomasius) ed è dato dal fatto che si sia ricercata così tenacemente la differenza della filosofia del diritto rispetto alla filosofia della morale attraverso la riflessione circa la distinzione del diritto dalla morale. Quando Croce dice che. “nei tempi moderni è stata riconosciuta in qualche modo...una filosofia del diritto” sembra riecheggiare quel senso di non chiara coscienza, di incerta determinazione del rapporto tra la filosofia del diritto e della morale che si sono già incontrate precedentemente nelle pagine della riduzione, come ad esempio a pag. 13, quando si riconosce che “il diritto è qualcosa di più o qualcosa di meno rispetto alla morale”, oppure a pag. 10 “se non si è riusciti a trovare la distinzione probabilmente questa non esiste e che allora la filosofia del diritto deve essere semplicemente assorbita nell’etica” ma a proposito di quest’ultima affermazione Croce scrive che a questa conclusione resiste “una certa confusa coscienza” che è in tutti dell’elemento differenziale che il diritto contiene rispetto alla morale. Che la contraddizione alla base della filosofia del diritto sarebbe una conseguenza della tardiva determinazione dello spirito pratico è ormai un risultato acquisito. L’elemento di novità è reso esplicito nella notazione che si è letta a pag. 37 della posizione accanto alla filosofia morale, “prima o dopo, sopra o sotto di una filosofia del diritto”. La tematizzazione della differenza tra diritto e morale in altre parole, sarebbe l’effetto della percezione diffusa nella coscienza filosofica moderna ma non ancora metabolizzata dell’esistenza di un momento premorale dello spirito pratico. Questa interpretazione ripropone su un piano diverso e più articolato la questione storiografica alla base della ricostruzione della recente affermazione di una filosofia del diritto. Interessa però adesso soffermarsi sull’affermazione secondo la quale nello sforzo intellettuale volto a intendere lo specifico rapporto tra l’attività giuridica e l’attività etica, sarebbe possibile riconoscere la peculiare fisionomia assunta nei tempi moderni dal Quindi esistono pretese giuridiche soggettive che se valutate alla luce del giudizio morale sono immorali. Se l'attività giuridica fosse un'attività etica non potrebbero esserci principi immorali che contraddicono la morale. Il terzo esempio passa per una pagina del libro di Santi Romano (1918), che è una pagina notoriamente sintetizzata, in cui si riconosce natura giuridica all'associazione a delinquere. Questo tema è anticipato da Croce 10 anni prima (è infatti un luogo comune della filosofia giuridica, proposto anche da Levi) il quale afferma che il diritto delle associazioni a delinquere è riconosciuto come diritto nella misura in cui spinge l'individuo ad agire analogamente a come fa l'apparato statale. Le associazioni a delinquere sono da considerarsi come diritto perché all'origine c'è un fatto giuridico. Come l'associazione a delinquere, così anche una setta scismatica. Questo perché sono entrambi portatrici di una giuridicità. Ma cosa intendiamo per giuridicità? La giuridicità è un campo molto ampio, in cui gli autori indagano sull'origine del diritto. Non possiamo affermare che il diritto sia una norma statuale, perché questa sarebbe una risposta positivista e formalista; parliamo inoltre di una tesi che esclude una serie di regole sociali ma non totalmente statuali. Per Croce dobbiamo considerare come diritto un fatto che si produce come risoluzione pratica dell'agire dell'individuo di fronte una norma ( che non è solo quella dello stato). Questa è sicuramente una definizione del diritto polemica, per cui il diritto è l’esito della risoluzione pratica ad agire sotto la norma: il diritto è la norma (unità elementare che la compongono) nella sua formulazione linguistica. Pag.40 Differenza praticamente/scientificamente Dopo aver proposto il terzo esempio, Croce introduce l’argomento: la natura giuridica delle associazioni a delinquere. Egli intende questi ultimi come fatto giuridico, nel campo più esteso di di giuridicità, inteso come diritto in quanto fatto, questione pratica (filo rosso che accompagna tutta la sua riflessione). Quelli delle associazioni a delinquere sono comunque atti giuridici anche se criminali. Infatti la mafia, la camorra, sono società che si istituzionalizzano per il tramite di regole che i componenti ritengono vincolanti. Croce sta dicendo che se accettiamo la tesi per cui la moralità non è un carattere necessario della giuridicità, allora questo significa che dobbiamo riconoscere carattere giuridico anche agli statuti, ai complessi di regole delle associazioni a delinquere. Quello delle associazioni a delinquere è un diritto che si pone contro il diritto degli ordinamenti statali (cioè quello di società più ampie). Questi si troveranno a confliggere tra loro e probabilmente e sperabilmente l’ordinamento dello Stato avrà la meglio rispetto all’ordinamento delle associazioni a delinquere, in quanto diritto più forte. In ogni caso quello delle associazioni a delinquere finché vivrà lo farà come diritto e, quando invece sconfitto dall’ordinamento Statale soggiacerà come diritto—> soggiace e vive come diritto. In sintesi: c'è possibilità che vi siano determinazioni giuridiche in contrasto con le esigenze della coscienza morale; ciò è riconosciuto nei detti “dura lex, sed lex”— “summum ius, summa iniuria”. Pag. 38 Quindi cosa succede all'individuo quando decide di osservare quella che per lui è una regola? Il problema che per Croce si viene a porre: momento in cui l'azione giuridica si viene a collocare all'interno di un campo in cui si connota come vincolo? E cioè, in una prospettiva antiformalistica (dal punto di vista della risoluzione pratica che spinge l’individuo ad agire) : qual è la natura dell'attività che l'individuo compie quando riconosce una regola? Il momento giuridico non è l'atto di riconoscimento della norma ma la concretizzazione della risoluzione pratica della norma: la risoluzione dell’azione, come volizione, pratica che l'individuo assume in seguito al riconoscimento della norma, riconosciuta come forza capace di esercitare un vincolo. L’atto giuridico è la risoluzione pratica che si esprime in una volizione che ha tutti i caratteri dell'azione economica (valutazione sull’attività). Croce si domanda se nel momento in cui ci si trova dinanzi ad un diritto immorale questo sia un diritto o un non diritto => sono pretese giuridiche a tutti gli effetti come lo sono le pretese giuridiche che sono esercitabili all’interno di un’associazione a delinquere che, in ogni caso, sono diritto sebbene nel rapporto con il diritto della società statuale queste siano destinate a soccombere perché immorali—> Quindi quelle dei diritti morali sono pretese giuridiche, anche se destinate a soccombere. Pag. 40/41 L’affermazione di Croce a piè di pag. 40 ha almeno due lati dai quali può essere osservata: uno filosofico e l’altro storico-sociale e analizziamo quest’ultimo. Non si fa alcuna fatica a rendersi conto che se dal punto di vista teorico, distinguendo il diritto dalla morale, si può affermare che si danno esperienze giuridiche anche di carattere non morale e che quindi la moralità non sia un carattere necessario della giuridicità (il diritto ha una natura che non coincide con la morale), ma ciò non vuol dire che diritto e morale siano necessariamente in contrasto—> significa semplicemente che non sono necessariamente d’accordo. A metterli d’accordo sono la coscienza e la morale del genere umano: la maggior parte delle azioni giuridiche sono infatti azioni morali. Dal punto di vista della vita materiale degli ordinamenti è evidente che tendenzialmente diritto e morale vanno in accordo tra loro. Una società che registrasse una dissonanza tra diritto e morale avrebbe vita breve, perché i conflitti esploderebbero in ogni momento poiché di fronte ad ogni regola il cittadino si troverebbe nella posizione difficilissima se seguire la regola morale o la regola giuridica. Per cui Croce non sta dicendo che il diritto è immorale, ma semplicemente che non è necessariamente attività morale: non c'è una coincidenza costante, non è un carattere strutturale.—> La seconda osservazione ha a che fare con la parte conclusiva di questo testo e cioè: stiamo discutendo della prima delle due dimostrazioni che Croce ci vuole offrire quindi della distinzione tra diritto e morale, che l’attività giuridica non sia di necessità per se presa, attività morale. Ciononostante già nell’ambito di questo discorso, viene naturale cominciare a riconoscere l’identità dell’attività giuridica con l’attività economica perché nel momento in cui si è letto che “l’attività giuridica si rivela come un’attività pratica... che per sé presa è amorale o aetica”, si è riconosciuto immediatamente che l’attività giuridica ha in sé natura pratica che non è necessariamente etica o non etica, ma Croce individua il campo dell'agire pratico della pre moralità. Così si definisce la soluzione: l'agire pratico è attività economica. Permane però il problema della distinzione: tra economica e etica c'è una relazione univoca e non biunivoca, nel senso che il giudizio morale si può esercitare in un secondo momento, ma non possiamo dire l’inverso. Ciò significa che ogni attività economica non è riconoscibile attività etica nella sua insita natura, ma ogni attività etica ha un nucleo di attività economica. Cioè ogni attività etica è connotata moralmente ma comunque dentro di sé ha una attività economica, non posso dire lo stesso di quest'ultima. In sintesi: ogni attività etica è economica, non ogni attività economica è etica. Questo consente di affermare che quella che nella parte conclusiva di questo testo Croce denomina Identità dell’attività giuridica con l’economica, finora consiste in questi tre punti: 1) Il fatto giuridico è un fatto di volontà cioè è un fatto pratico, relativo al volere e all’agire dell’uomo non è quindi un fatto teoretico e quindi relativo alla sua conoscenza. 2) L’azione giuridica è dunque quell’azione dell’uomo volta al conseguimento dell’utile, è la volizione di un fine particolare, non di un fine universale o razionale perché altrimenti andrebbe a coincidere con l’azione morale. 3) Il fatto giuridico non si trova in antitesi con il fatto morale, quindi questo non è un fatto egoistico o immorale, ma è un fatto amorale cioè un fatto che in sé considerato per astrazione, è indifferente rispetto al giudizio morale. Queste pagine lette vogliono spiegare che tra le difficoltà, che in qualche modo sarebbero di ostacolo alla perfetta identificazione di diritto ed economia, rileva in primo luogo la tenacia e resistenza, largamente diffusa anche tra gli studiosi nei confronti di una connotazione amorale del diritto. Viene quindi risolto il problema della natura del fatto giuridico. Paragrafo 8: DOPPIO ASPETTO DEL PROBLEMA PRATICO.
 Il diritto per Croce è pure economia: Croce assorbe un potenziale argomento che potrebbe derivare dalla sua conclusione (attività giuridica è attività economica). Pone quindi un falso problema: qualcuno potrebbe pensare infatti che, se l’attività giuridica equivale all’attività economica, allora anche la legge giuridica equivale alla legge economica. Tale presunta identità però non ha ragion d'essere, è un idolo dell'immaginazione e cioè una falsa rappresentazione della realtà, una trasposizione senza fondamento. Croce afferma che legge giuridica e legge economica non hanno nulla in comune, se non la parola legge, unica identità possibile; tra queste vi è un rapporto di assoluta differenza, non di distinzione. La ragione di ciò sta nel fatto che se la legge economica è il prodotto di un’attività del pensiero e dunque alla formulazione della legge economica si giunge attraverso un’attività di tipo teoretico, nel caso della legge giuridica dobbiamo considerare un’attività nella sua immediatezza: la legge giuridica ha a che fare con la volontà e per tanto è un atto che prende in considerazione questa volontà nella sua immediatezza. Croce scrive: Legge economica: (teoria) fa riferimento al fatto mediato, sta nel dominio teoretico. Rappresenta le relazioni tra due fenomeni di carattere economico—>es: Keins: individuazione del rapporto tra l’aumento della spesa pubblica e la domanda di consumo (dei singoli cittadini). La legge economica per Croce è il risultato dell'attività di osservazione della realtà, nel caso di specie la realtà economica. E’ un atto conoscitivo, in quanto prodotto di un’attività conoscitiva. E’ frutto di un’attività di teoresi. Legge giuridica: (prassi) fa riferimento al fatto immediato, è un comando, un atto di volontà in un dominio pratico. La legge giuridica è il fatto nella sua immediatezza, non è il risultato di un'attività teoretica. E’ un atto volitivo, un comando: il legislatore compie un atto volitivo—> la volizione è la libera determinazione dell'individuo nelle circostanze date che orienta l'individuo a perseguire l'individuale, cioè l’utile. Tra legge giuridica e legge economica vi è un rapporto di totale disparità: paragonare la legge dell’economia a quella del diritto sarebbe come voler trovare l’identità tra una scarica elettrica e la fisica dell’elettricità: l’uno è il fatto immediato che si ha davanti, l’altro è la sua spiegazione. Parliamo di una (legge economica) che si pone come teoria rispetto alla prassi dell’altra (legge giuridica). Quindi: Le leggi giuridiche sono comandi o atti di volontà => si collocano nell’orizzonte volitivo. L’atto volitivo in Croce è compiuto dall’individuo inteso nella sua singolarità e concretezza. “La legge giuridica è un atto volitivo”: autentico differenziale legge giuridica/attività giuridica 1) da questa definizione, il primo problema a cui si va incontro è un problema di ordine soggettivo: a compiere l'atto volitivo è il legislatore, e cioè un soggetto generale e astratto, non un individuo. La legge infatti non si caratterizza per la sua individualità, ma si rivolge alla generalità, in quanto il suo stesso contenuto è generale e astratto. Ha un contenuto generale poiché si rivolge a una generalità di soggetti, i quali sono o tutti indeterminati o in parte determinabili. Il contenuto è astratto perché l'azione comandata non è l’azione del singolo individuo ma è la fattispecie, cioè il fatto considerato nella sua immediatezza che è in realtà oggetto dell'operazione di astrazione e di tipizzazione. Infatti in una molteplicità di fatti simili, nella legge viene assunto il tipo e cioè la fattispecie. In Croce la generalità è una categoria ibrida: si pone infatti a metà strada tra ciò che è propriamente individuale (volizione) e ciò che è universale (attività morale). Quindi definire la legge HANS KELSEN
 LINEAMENTI DI DOTTRINA PURA DEL DIRITTO Sintesi per punti: -profilo del giurista Kelsen + fondamento storico che si riversa sull’opera -questioni sostanziali: 1) purezza (come risultato di operazione epistemologica)—> l'unica scienza del diritto è depurata: le altre non sono scienza del diritto. 2) conoscenza del diritto (che è uno specifico fenomeno sociale) come norma—> no fatti spirituali né fisici 3) Questione diritto/natura—> capitolo più gravido di conseguenze 4) Atto qualificativo della norma 5) Rapporto: scienza del diritto = conoscenza scientifica del diritto 6) Sociologia del diritto e la sua ricerca: cause e effetti del fenomeno giuridico all'interno della società Hans Kelsen è stato uno dei maggiori giuristi del ‘900, nato a Praga nel 1981 e trasferitosi da giovane a Vienna dove ha compiuto i propri studi scolastici e Universitari di giurisprudenza, conseguendo la laurea nel 1906. La sua vita è stata una vita travagliata (caratterizzata infatti da un triplice esilio), che ha coperto tutti gli anni significativi del secolo scorso. Dopo un primo studio dedicato alla dottrina dello Stato di Dante Alighieri, i temi che lo hanno interessato maggiormente sono legati alla dottrina del diritto pubblico: studia il diritto pubblico dell'impero austroungarico (nel quale è nato), ed è pertanto classificabile come giuspositivista. Ha condotto soggiorni all’estero, in particolare in Germania, ad Hidelberg dove ha conosciuto George Gellineck, uno dei grandi pubblicisti tedeschi di allora, con il quale non nacque un grandissimo feeling. Nel 1911 pubblica un’opera importante che segnerà l’inizio della sua riflessione sulla dottrina pubblica del diritto, opera che si intitola “I problemi fondamentali della dottrina del diritto pubblico”. Nel 1918 ha una occasione importante, ovvero quella di collaborare alla redazione della Costituzione Austriaca che sarebbe entrata in vigore nel 1920 e con l’Istituzione della Corte Costituzionale Kelsen viene eletto giudice Costituzionale e, dal 1921, relatore permanente della corte, incarico che conserverà fino al 1930 (carriera che lo avrebbe potuto portare alle più alte cariche dello Stato). Nel 1919 diventa anche professore nella facoltà giuridica nell’ateneo di Vienna nel quale insegnerà per dieci anni il diritto pubblico. Nel 1929 si verifica in Austria una riforma Costituzionale che è il frutto dell’attacco politico del partito cristiano – sociale contro il partito socialdemocratico (polarizzazioni di estrema destra e sinistra), e nel momento in cui il Parlamento approva questa riforma e quindi la riorganizzazione della Corte Costituzionale Kelsen , escluso, decide amareggiato di lasciare l’Austria. Nell’estate del 1930 accetta la chiamata dell’Universià di Colonia, una dei più prestigiosi atenei Tedeschi e che vanta anche una delle migliori scuole giuridiche della Germania. La chiamata a Colonia è una chiamata particolare perché vincolata all’insegnamento del diritto internazionale e Kelsen, che nasce giuspubblicista con una fortissima vocazione verso la filosofia e la teoria del diritto, aveva iniziato a partire dal 1920 ad occuparsi anche di diritto internazionale, e risale proprio a questi periodo la pubblicazione di un importante studio sul problema della sovranità e la teoria del diritto internazionale. Il periodo di Colonia è un periodo molto felice, di intenso lavoro scientifico e di importanti relazioni accademica, nel 1932 viene eletto preside della facoltà giuridica di Colonia. Questo periodo però si interrompe bruscamente nella primavera del 1933, con l’affermazione del partito nazionalsocialista. La vita di Kelsen diventa più difficile, quando con Hitler nel ruolo di cancelliere, viene promulgata la legge sull’epurazione dei dipendenti pubblici e Kelsen è tra i primi professori destituiti: viene quindi escluso dall’università di Colonia. Questo non fu un fulmine a ciel sereno, infatti era ben chiaro quello che stava accadendo in Germania, che è proprio il contesto politico e culturale che sta alla base del libro. L'opera infatti viene scritta in un momento particolare della sua vita, in quanto (durante l’ascesa al potere di Hitler) l'autore ha ascendenze ebraiche. Costretto a lasciare la Germania e non potendo tornare in Austria, deve guardarsi intorno, rifiuta una proposta della scuola economica di Londra, non prende in considerazione importanti offerte provenienti dagli Stati Uniti e decide infine di trasferirsi in Svizzera, scelta che sembra di ripiego perché il livello degli studi giuridici è certamente inferiore rispetto all’Università di Colonia ma in compenso non è pressato dalle esigenze della didattica, quindi si ritiene soddisfatto. Il suo nome era molto noto, ma al contempo la sua dottrina non era altrettanto conosciuta, questo perché le sue opere non sono state tradotte, quindi erano riservate ad una ristrettissima cerchia che era in grado di comprendere il diritto. Nel 1932 Kelsen capisce che le cose potrebbero rapidamente mettersi male per lui in Germania e gli viene in mente un’idea: visto che corre il rischio di dover lasciare la Germania senza poter tornare in Austria, vorrebbe che la sua dottrina fosse meglio conosciuta in altri paesi con lingua differente dal tedesco e decide così di scrivere un piccolo saggio, chiaro, in cui spiega gli elementi essenziali della sua dottrina del diritto, soffermandosi sul diritto positivo (descrizione senza giudizi di valore) che può servire al lettore non di lingua tedesca, per farsi una idea dettagliata ma allo stesso tempo semplice, dei tratti fondamentali della dottrina pura del diritto e chiede a degli studiosi di aiutarlo a far circolare questo saggio, tradotto nelle diverse lingue, nei loro paesi di provenienza. Se si leggono le prefazioni a questo volume di Kelsen si incontra una testimonianza diretta di un giovane studioso, Renato Treves, che ha trascorso l’estate del 1932 a Colonia con Kelsen. Treves è uno studioso della scuola Torinese di filosofia del diritto, ebreo, collega stretto di Norberto Bobbio, con il quale viene spedito in Germania per studiare il tedesco e per conoscere gli autori delle varie opere di cui stavano parlando e Treves incontra appunto Kelsen per discutere con lui della dottrina pura del diritto. Treves ci racconta delle preoccupazoni di Kelsen e della sua idea di preparare il piccolo saggio. In procinto di dover lasciare Colonia (aneddoto della moglie a colazione mentre lui legge il giornale), Kelsen ha ultimato il suo saggio. Nel maggio del 1933 Kelsen scrive a Giorgio Del Vecchio, filosofo italiano fondatore della rivista internazionale della filosofia del diritto, chiedendogli di poter pubblicare questo suo saggio spiegandogli che si tratta di una concisa esposizione della sua teoria del diritto. Del Vecchio accoglie la proposta di Kelsen ma gli ricorda le regole della rivista, dicendogli che il contributo pubblicato deve rimanere inedito almeno per un anno dalla sua pubblicazione, condizione che diventa troppo onerosa perché l’idea di Kelsen è quella di far uscire questo saggio nel minor tempo possibile per diffondere la conoscenza della dottrina pura del diritto in altri paesi Europei. Kelsen scrive nuovamente a Del Vecchio pregandolo in qualche modo di consentire almeno per questa volta di permettere una deroga a questa regola, considerando le condizioni eccezionali, Del Vecchio non accetta ma gli propone una soluzione alternativa: Del Vecchio è direttore, insieme ad altri studiosi, di una rivista giuridica Italiana chiamata “Archivio giuridico Filippo Serafini”, rivista molto prestigiosa in Italia le cui regole sono meno rigide rispetto a quelle della rivista internazionale di filosofia del diritto e proponendo a Kelsen di affidare la traduzione del suo scritto a Renato Treves ed è quello che accade, infatti nell’ottobre del 1933 questo viene pubblicato nelle pagine dell’ “archivio”. Accade però che nello sforzo di sintetizzare il proprio pensiero Kelsen si accorge che questo esercizio ha prodotto in realtà un avanzamento del proprio pensiero, costringendosi a precisare i passaggi essenziali e riducendo l’argomentazione al minimo. Sempre nel 1933 avviene la sua seconda migrazione: da colonia migra infatti verso Ginevra (la Svizzera è neutrale, imprendibile), dove richiede di insegnare diritto internazionale (in francese) a Praga fino a che gli studenti nazionalsocialisti lo minacciano di morte. Nel momento in cui arriva a Ginevra rilegge e integra quel lavoro svolto in precedenza, aggiungendo un capitolo che mancava sullo Stato e il rapporto con il diritto Internazionale e pubblica questo libro anche in tedesco nel 1934. Renato Treves aveva pubblicato nel ’33 la traduzione del libro in Italia, insieme a Bobbio che afferma che la fortuna di Kelsen in italia si afferma da Treves—> quando questi insegna in Italia filosofia del diritto all’Università di Milano predilige come libro di testo il libro di Kelsen, con traduzione italiana, dell’edizione del 1934, controllata da lui e con l’aggiunta di una sua prefazione. Nel 1952 questo libro si intitolava “La dottrina pura del diritto”. Kelsen intanto ha continuato a lavorare a Ginevra, ma con lo scoppio della II Guerra mondiale temendo che la Svizzera potesse essere coinvolta nel conflitto, (Ginevra infatti era possibile di presa) decide, nel 1940, di trasferirsi negli Stati Uniti (terza migrazione), con non poche difficoltà. Dopo due anni Kelsen riesce ad ottenere una chiamata in California nel 1945, dove continua a lavorare alla dottrina del diritto. Nel 1960 pubblica la seconda edizione della dottrina (20 anni dopo l’esilio in Austria), che è un libro completamente diverso dalla prima edizione perché è un libro molto corposo e riflettendo la posizione intellettuale di Kelsen, conteneva due temi distinti: ⁃ il grosso del volume vero e proprio riguardava la teoria generale del diritto proposta da Kelsen
 ⁃ l’appendice riguardava il problema della giustizia, che assume ora vita autonoma. La giustizia non deve essere un elemento con cui si valuta o si prepara il diritto positivo che si valuta indipendentemente dal valore di giustizia a cui esso fa riferimento. La seconda edizione viene tradotta in italiano da Mario Losano, allievo di Treves, nel 1966; non ha più il pregio della prima, quindi la sua semplicità, la facilità di impiego nella didattica. L’editore Einaudi, in accordo con Treves e Losano, decide di scindere il problema della giustizia e pubblicarlo a parte, mantenendo così entrambi i libri nel proprio catalogo e in accordo con Kelsen di modificare il titolo della prima edizione da “La dottrina pura del diritto” a “Lineamenti di dottrina pura del diritto”. Treves quindi scrive una nuova prefazione nel ’67 per questa nuova edizione, il libro quindi si ritrova due prefazioni di Treves (una del ’54 e una del ’67) e una prefazione scritta da Kelsen. OPERA: Opera miliare che affronta il problema del metodo della conoscenza delle scienze sociali. Cenni storici e concettuali L’opera: opera classica, fondamentale per gli sviluppi del pensiero giuridico novecentesco, pubblicata nel 1934, volume a cui l'autore affida un'esigenza specifica. Già nell'anno della sua pubblicazione, che è il Kelsen era già sicuramente un giurista celebre e studiato dell’occidente, il più attuale dell’Europa degli anni ‘30. Negli anni della pubblicazione inoltre stava conducendo delle ricerche presso un istituto svizzero in merito al diritto internazionale, nonostante ciò ricordiamo che egli nasce come giurista di diritto pubblico. Infatti Kelsen si rende famoso anche per la polemica con Karl Smith in merito al tema della codificazione, nello specifico delle codificazioni costituzionali. Il dibattito verterà sulla dotazione di alcuni paesi, tra cui l'Austria, di costituzioni nelle quali si mostrerà propensione all'adattamento di ordinamenti di stampo democratico. Questo episodio ci fa capire che Kelsen si occupa essenzialmente di ambiti gius- pubblicisti, fino a Lineamenti, che è un’opera dedicata alla filosofia del diritto, nella quale si analizza la teoria generale del diritto, elaborata durante le sue ricerche in Svizzera. Kelsen si colloca a sua volta, nella sua trattazione, nel solco della grande domanda che attanaglia i filosofi del diritto: che cos'è il diritto? QUID IUS? Per rispondere alla domanda, dobbiamo concentrarci sulle costruzioni di carattere epistemologico che ci permettono di dare una costruzione scientifica della domanda: viene a definirsi pertanto l'epistemologia giuridica, e cioè una filosofia che si occupa di analizzare le condizioni della conoscenza scientifica e i metodi per raggiungerla. Kelsen vuole formulare una teoria della conoscenza fatta di premesse conoscitive che secondo lui servono a rispondere alla domanda (quid ius) e a definire il diritto dal punto di vista scientifico (lineamenti è un'opera di teoria del diritto che segna un passaggio fondamentale sul punto che riguarda la costruzione di una dottrina giuridica che abbia la presunzione di essere scientifica). Anche la ricerca appunto, deve essere delineata in termini scientifici. L'obiettivo è quello di definire un modello ideale di scienza in base alla quale si può perseguire la conoscenza della realtà. CONCETTO DELLA SCIENTIFICITA’ Per capire la definizione del metodo di scientificità, dobbiamo ovviamente risalire al metodo scientifico nato nel 1600, il quale era così costituito: -osservazione della realtà, formulazione dell'ipotesi, verifica dell’ipotesi, formulazione della legge generale. definiscono la società e la natura e che sono altrettante forme del ragionamento umano, modi di pensiero, modalità attraverso cui l’uomo si relazione con ciò che gli sta intorno: 1) Principio di casualità: quando lego due eventi per causa-effetto e denomino l’ordine di connessione NATURA. La natura è il modo in cui il pensiero umano mette in ordine quando deve mettere in forma le cose che sta osservando, in base al principio (o nesso) casualistico (fattore di definizione della natura) che si nutre della necessità. Quindi: la natura è l’ordine delle connessioni necessarie tra cause ed effetti, non l’insieme dei fatti naturali. 2) Principio di imputazione: quando l’ordine degli eventi viene denominato società, muovendo da un’interpretazione di significato. Es: il femminicidio—> non è possibile costituire tra le due azioni un nesso di casualità necessaria. Kelsen poi arriva a definire il diritto: affermando che questo è uno specifico fenomeno sociale: rifiutando così il sincretismo metodologico poiché ribadisce che la società è completamente diversa dalla natura. Questa differenza però non è una differenza ontologica (concernente gli aspetti essenziali, l’essere), ma una diversità di principi. Kelsen torna sulla premessa (diritto come fatto sociale) soffermandosi sull’autoqualificazione del fatto sociale (del fatto che ha un significato) attuata dal soggetto che compie l’atto circa il significato di quell’atto. L’autoqualificazione quindi deriva da un’attribuzione che è il soggetto stesso a dare: es: omicidio—> l’assassino può dire di aver compiuto il fatto perché preso dall’ira per aver scoperto un tradimento. + Possiamo dire che ciascuna azione sociale porta in sé un significato che ha a che fare con le motivazioni per le quali si è compiuto quell’atto. Il significato può essere di due tipi: 1) Significato di matrice soggettiva: tipico delle azioni sociali, la autoqualificazione dei fatti che si compiono deriva da un’ attribuzione di un significato che è dato dal soggetto stesso; talvolta questo significato è meramente individuale e talvolta questo significato incrocia anche significati sociali, talvolta tra i fatti sociali ci sono fatti che hanno significato giuridico, che è oggettivo. 2) di matrice oggettiva: il diritto, il significato dell’atto che definisco giuridico. In questo caso il significato non ha a che fare con le rappresentazioni individuali, ma si ritrova in un fondamento ben preciso che è la struttura qualificativa della norma: la quale si impone e mette ordine e prevale sui fenomeni sociali, oppure rafforza un significato sociale. Il significato soggettivo può ma non deve coincidere con quello oggettivo nel sistema del diritto. Piè di pagina 49: qui Kelsen ci propone come esempio un caso di cronaca noto ai più, quello del capitano von Koepenik (il traduttore Treves sbaglia in quanto intende Koepenik come il cognome del capitano, ma in realtà è il municipio dove si svolgono i fatti). Il capitano è un militare che entra nel municipio, occupando l’edificio, ed inizia ad agire da sindaco, pur non essendolo, compiendo degli atti amministrativi (significato soggettivo, fatto sociale) che in realtà sono privi di legittimazione oltre che del rispetto del carattere procedimentale, e quindi oggettivamente compiendo un delitto. Pag. 50 Dal discorso sul diritto, Kelsen passa al discorso sulla norma (vedi sopra): la norma per Kelsen è una struttura artificiale che si impone conferendo un significato oggettivo ai fenomeni sociali, destituendo di fondamento il significato soggettivo che in determinati casi può essere affermato dal fenomeno sociale, ma non necessariamente perché può esserci anche il caso in cui la norma rafforzi il significato soggettivo del fatto sociale.
 L’atto giuridico si qualifica come specifico atto sociale in virtù di quel significato oggettivo che esso deriva dalla struttura qualificativa della norma. Per Kelsen il diritto è la norma. Essa trasforma il fatto sociale in fatto giuridico. //Spiegazione Quando ci si pone l’interrogativo su quale siano i processi, le cause che hanno fatto si che un legislatore normasse in un determinato modo quel fenomeno sociale e cioè irrigidisse in quel significato oggettivo i significati sociali che si trova davanti, per Kelsen la stessa formulazione di tale domanda adotta uno schema causalistico: non si interroga sul significato in se, ma sul significato inteso come effetto di una causa. Per Kelsen la dottrina pura del diritto, nell’istanza di separazione tra diritto e morale, è una dottrina che, anche dal punto di vista dell’atteggiamento conoscitivo che ha rispetto all’oggetto, deve tenere separati gli influssi naturalistici => si depura dagli influssi naturalistici quando rifiuta di adottare lo schema causalistico per interpretare la realtà che ha di fronte.// A Kelsen non interessa interrogarsi su determinati aspetti della norma che reputa naturalisitici, che pertanto si inquadrano in uno schema di tipo naturalistico: questioni genetiche quali cosa ha prodotto il diritto, quale sia il fenomeno sociale conseguenza della norma che si sta considerando ecc… Ritiene infatti che queste questioni siano oggetto di studio di una scienza non giuridica, una scienza di cui è cultore il traduttore italiano Renato Treves, la cosiddetta sociologia del diritto. Per Kelsen la sociologia del diritto non è una scienza normativa (cioè una dottrina che studia il diritto come norma), ma è una scienza non normativa, la quale mette sì in campo un metodo conoscitivo che però è di tipo casualistico—> è per tanto una scienza naturalistica. Come il realismo giuridico americano, di cui Kelsen però tratterà più avanti, che a sua volta risulta essere una scienza del diritto che a sua volta rivendica il suo approccio naturalistico al fenomeno giuridico: un metodo rivendicato, adottato, dagli studiosi del 1930 che si impongono sulla scena statunitense per i quali il diritto è positivo: portano avanti in principio per cui il diritto è un artificio, cioè l’aspetto dell’imperatività/prescrittività che il diritto porta con sé è un’ideologia, una categoria vuota, che vive nell’esperienza. La norma è il prodotto della decisione del giudice. Per Kelsen questi sopracitati autori, i realisti, rivendicando la prospettiva naturalistica (dimensione reale che si contrappone a quella del positivismo giuridico) (a differenza dei sociologi che si illudono di star esercitando una scienza giuridica) negano il dover essere. Il rapporto con il realismo ripropone il tema del rapporto tra diritto e natura che può essere espresso da Kelsen anche in un altro modo: rapporto tra ESSERE (ZEIN si legge SEIN) e DOVER ESSERE (ZOLLEN si legge SOLLEN). - Per i realisti la dimensione del diritto è legata al SEIN = dimensione dell’essere - Per Kelsen la dimensione del diritto è legata al SOLLEN = dover essere. SEMINARIO REALISMO GIURIDICO Una teoria delle fonti del diritto cerca di descrivere le caratteristiche che le componenti del diritto presentano in una data cultura giuridica => la teoria delle fonti svolge, quindi, un lavoro descrittivo che fa parte del contenuto ontologico della delimitazione del concetto di diritto. Nel descrivere le caratteristiche del diritto vengono stabiliti anche i criteri per identificare le sue componenti => si può dire che la descrizione delle fonti del diritto è un altro presupposto dell’identificazione del diritto poiché completa la descrizione di esso. Per identificare una qualsiasi entità come giuridica è necessario qualificarla apertamente come una determinata fonte del diritto, come un tipo di diritto. Definire una teoria delle fonti del diritto corrisponde a un tentativo di definire il diritto per un certo numero di destinatari. 
 • Il problema ontologico dell’identificazione del diritto presenta due problemi successivi: - IDENTIFICARE QUALI SONO LE FONTI DEL DIRITTO
 - IDENTIFICARE GLI ELEMENTI CHE COMPONGONO CIASCUNA DELLE FONTI = riconoscere una legge - 
 Una teoria delle fonti del diritto descrive le condizioni sul diritto di un gruppo sociale, che esiste e opera in quella comunità, sulla sua forza relativa e sulla sua validità spaziale e temporale => si tratta di una teoria METAGIURIDICA in quanto tratta del diritto ma non del diritto in se: le nostre condizioni su ciò che è il diritto non sono condizionate da ciò che il diritto dice.
 TEORIA STANDARD DELLE FONTI DEL DIRITTO => tradizionalmente presentata sotto l’etichetta generale di teoria delle fonti del diritto, è la concezione della natura del diritto che quasi tutti i giuristi condividono. Tale teoria condivide una tesi centrale secondo la quale il diritto è formato principalmente dalla legge intesa in senso ampio come diritto scritto per i poteri pubblici, gli usi, i costumi e i principi generali. Questa tesi molte volte viene complementata con l’affermazione che esiste anche un diritto naturale.
 La teoria standard risponde, quindi, alla domanda su quale siano le fonti del diritto. Di fronte alla domanda sul perché le fonti siano quelle e non altre, le diverse teorie filosofiche hanno formulato criteri per poter determinare ciò che è giuridico che si basano su credenze come quella secondo la quale le fonti del diritto sono quelle create da organismi con potere giuridico e il diritto è ciò che è conforme con un diritto naturale o con l’idea di giustizia.
 Un criterio formulato dal positivismo che ha avuto molto successo, riguarda il fatto che le fonti del diritto sono quelle indicate dal diritto stesso. Kelsen elabora una teoria del sistema dinamico che sta alla base del sistema gerarchico kelseniano e si basa sulla tesi che il diritto è prodotto in conformità con il diritto stesso => nel nostro ordinamento giuridico le fonti del diritto sono tali perché sono quelle indicate nell’articolo 1 del codice civile o nella Costituzione stessa. Questo criterio è anche molto problematico dal punto di vista teorico: - porta a una definizione circolare => la legge è il diritto perché la legge stabilisce così e per spezzare il cerchio sarebbe necessario stabilire che la legge è diritto perché è così detta da una norma superiore - la concezione standard riconosce l’esistenza di fonti extralegali => usi, costumi e principi generali per cui non è sufficiente solo il riferimento alla Costituzione. Dal punto di vista della concezione standard la funzione e il risultato dell’identificazione del
 diritto saranno simili qualunque sia il tipo di fonte. La natura giuridica di un’entità è affermata sia come una legge, sia come un uso, sia come un principio permettendo ai suoi destinatari di adeguare il loro comportamento a ciò che è regolato e indicato dalla regola che deve essere applicata. Non c’è differenza tra identificare una legge o identificare un principio.
 Una teoria delle fonti è soprattutto un punto di vista riguardo come è il diritto per noi, quindi presuppone un’ontologia giuridica. L’impegno ontologico presenta diverse caratteristiche:
 - TEORIA NON NORMATIVISTA => il diritto non è composto soltanto di norme
 - FREQUENTE AMMISSIONE DEL DIRITTO NATURALE => sostiene qualcosa di molto vicino ad un oggettivismo giuridico
 - TEORIA IDEALISTA => tutte le entità che compongono il diritto sono entità ideali. L’uso, che si basa sull’abitudine di un comportamento, è equiparato al diritto consuetudinario, ma in tal caso il comportamento reiterato non può essere considerato come diritto consuetudinario => Il diritto consuetudinario è composto da norme che indicano come si deve agire quindi ciò che si cerca non è soltanto un comportamento ripetuto. L’identificazione dell’entità ideali è un’operazione qualitativamente diversa dall’identificazione dell’entità materiali.Non è sufficiente solo l’osservazione sensibile, è necessario uno speciale processo cognitivo che richiede la conferma del giudice di avere la condizione per la quale l’uso obbliga e tale condizione è anche condivisa con il gruppo sociale a cui appartiene e consiste nella ricerca dell’OPINIO IURIS, una proprietà di natura ideale che solo i costumi giuridici possiedono. I principi non sono formulazioni scritte nonostante il fatto che alcune disposizioni legali, soprattutto nella Costituzione, possano essere considerate espressione di principi giuridici; essi SINTESI: la realtà giuridica, quale intesa dal positivismo, è ideale e artificiale e va a coincidere con i giudizi che noi formuliamo con l'osservanza della realtà—> la realtà giuridica si costituisce con l’interpretazione. Alternativa realista: realtà oggettiva, fuori dalla nostra mente. Pag.51 La purezza di cui, ad avviso di Kelsen, la dottrina giuridica deve essere dotata per essere scienza del diritto autentica, è intesa come un risultato di un’operazione epistemologica tramite un processo di depurazione che si articola in due principali direzioni: diritto/natura- diritto/morale 1) tema del diritto e della natura (I cap): la prima strategia di depurazione della dottrina del diritto consiste nel considerare gli elementi naturalistici che devono essere allontanati dalla dottrina giuridica per poter guadagnare una conoscenza del diritto come norma—> intendere cosa sia l’ordine dei rapporti che si istituisce fra diritto e natura consente di conoscere il diritto come specifico fenomeno sociale che ha nel significato oggettivo istituito dalla norma, l’oggetto della conoscenza del teorico del diritto che studia il diritto come norma. Il fatto, rivolgendosi nella natura e nello spazio, è un elemento del sistema della natura (perciò determinato secondo legge di casualità) e in quanto tale non è nulla di giuridico. E’ la norma a trasformare il fatto in atto giuridico conferendogli significato g i u r i d i c o - > l a n o r m a f u n z i o n a c o s ì c o m e s c h e m a q u a l i fi c a t i v o . La norma dice Kelsen, se si intende com’è intesa dalla dottrina pura del diritto quindi come specifica struttura qualificativa, è qualcosa di diverso dall’atto psichico col quale essa è voluta, ciò vuol dire che la dottrina pura del diritto rivolge la propria attenzione alla norma come struttura qualificativa e quindi come quell’apparato di senso che conferisce significato giuridico ai fatti (atti giuridici o illeciti), disinteressandosi completamente dall’atto psichico che l’ha voluta—> la dottrina pura infatti non si rivolge né a fatti spirituali né a fatti fisici (introduzione del tema diritto/morale- II cap, seconda strategia di depurazione). La dottrina anzi rivolge la propria attenzione ai fatti giuridici, che sono atti naturali qualificati come processi giuridici in quanto ricevono il loro specifico significato da norme il cui contenuto è in una certa corrispondenza con l’avvenimento effettivo. Quindi la natura ci consente di dire che il diritto, pur essendo un'esperienza naturalistica, non è una realtà fisica—> lo stesso teorico del diritto deve essere capace di mettere da parte tale aspetto naturalistico per accogliere il diritto come norma. In sintesi quindi, il diritto è una struttura qualificativa che attribuisce carattere oggettivo ai fenomeni sociali su cui va ad insistere. Kelsen infatti parla ti ho diritto anche dei rapporti che a suo avviso debba restituirsi tra la scienza del diritto (come dottrina pura) e la sociologia, che non è una scienza normativa ma naturalistica, perché non conosce il diritto come norma ma ricerca le cause e gli effetti del fenomeno giuridico all'interno della società, considerando il diritto come fatto naturale, nella coscienza degli uomini che pongono, eseguono o violano norme giuridiche. Pag. 52: validità della norma Mentre per Croce la norma è attività dell’individuo, per Kelsen la norma è propriamente una realtà artificiale, in quanto il significato della norma non coincide necessariamente con il significato che l’individuo attribuisce al fatto che sta compiendo. Perciò K. afferma che la norma, e quindi il diritto, ha tutti i canoni dell’artificialità e si impone sulla realtà fisica naturalistica con la struttura del significato che essa qualifica. Paragrafo 6: cosa si intende per validità? Quella della validità della norma è un concetto centrale di ogni teoria generale del diritto. La validità è il predicato di esistenza della norma. Dire che una norma è valida o dire che esiste, in teoria generale, è la stessa cosa. Il giudizio di validità equivale quindi ad un giudizio di esistenza, in quanto quando si dice che il diritto è valido si fa essenzialmente riferimento al fatto che esso sia dotato di tutti quelli che sono i suoi canoni formali che lo fanno esistere all’interno dell’ordinamento giuridico. Il giudizio di validità noltre il giudizio sovrano riguardo la norma, cioè riguardo all'esistenza specifica della norma come schema di qualificazione. Infatti il giurista dinanzi al diritto può esprimere anche giudizi di efficacia—> la norma è potenzialmente in grado di produrre effetti? All’interno della dottrina Kelseniana, non c’è spazio per il giudizio di efficacia, la categoria dell’efficacia viene infatti assorbita in quella del valore (una norma valida è di per sé efficace). Perché per Kelsen infatti il giudizio di efficacia proietta la norma in una dimensione dinamica ed esterna, facendola interagire con la realtà sociale. Pag. 53: 3 livelli di validità Kelsen afferma che la validità può avere varie declinazioni, che sono elementi che ci servono per considerare il diritto come prodotto del pensiero umano. Validità Spaziale e Temporale: solitamente la validità delle norme che regolano il comportamento umano (norme giuridiche), in quanto hanno per contenuto fatti spaziali e temporali. Spazio e tempo in questo caso sono parte integrante del qualificare. Questa sfera della validità può essere illimitata o delimitata (quindi valere per spazio e tempo determinati o meno). • ⁃  validità SPAZIALE => es: legge regionale 
 ⁃  validità TEMPORALE => es: capacità di agire (si ottiene con la 
 maggiore età) Validità Reale o Materiale: non si riferisce al comportamento umano, ma a sue determinate condizioni. Anche questa validità può essere illimitata o delimitata—> una norma determinata può riferirsi a qualsivoglia oggetto o solo a oggetti completamente determinati. • ⁃  validità REALE/MATERIALE => si riferisce a particolari oggetti, a diverse direzioni 
 del comportamento umano che sono regolate dalle norme. Es: comportamento religioso, politico, economico ecc. Validità personale: anche questa può essere illimitata o delimitata, sia che si rivolga a tutti gli uomini (norme di morale universale) o a una determinata categoria di questi. • - validità PERSONALE: la componente personale è oggetto della struttura qualificativa. Es: norma imposta a determinati cittadini; diritto di famiglia. Per Kelsen la specifica esistenza della norma è data dalla struttura qualificativa di essa che non si riferisce solo al significato soggettivo oggettivato dalla qualificazione, ma anche a quella serie di elementi naturalistici e sociali ( si definisce a partire da società e natura) che diventano altrettante realtà artificiali. E la stessa natura ovviamente in Kelsen non assume il significato che nella storia del pensiero giuridico ha assunto come natura umana razionale all’interno delle dottrine del diritto naturale (natura =/ giusnaturalismo). II capitolo: 2) SEPARAZIONE DIRITTO E MORALE: nel secondo capitolo Kelsen sta entrando in un discorso che ci porta a separare i giudizi di valore da quelli di validità, in quanto i giudizi di validità riguardano la scienza del diritto che è tale nel momento in cui si depura dei giudizi di valore, differendo quindi dalla scienza della morale. Così facendo il diritto si distingue dalla morale, sebbene siano entrambi di carattere spirituale ( fenomeni dello spirito) perché l’uno e l’altra si riferiscono ad oggetti che esistono nella realtà. - La scienza del diritto rivolgendosi al diritto formula giudizi di esistenza. - La scienza della morale rivolgendosi alla morale formula giudizi di valore. I giudizi di valore sono giudizi ideologici, in quanto non guardano all'oggetto quale esso è, ma formulano giudizi rispetto a quello che l'oggetto dovrebbe essere. Non si vuole mettere in dubbio che il diritto debba essere morale cioè buono, ma se respinge la concezione per cui il diritto faccia parte integrante della morale, che ogni diritto sia in un certo qual grado morale. Ma cosa tiene congiunta la dottrina giuridica quella morale? La Giustizia (ha consentito al diritto di stare unito alla morale)—> tale termine ha introdotto un velo ideologico. Assumendo quello che è un ragionamento di tipo giuridico, si afferma che la norma è valida solo quando supera un giudizio di valore, non quando esiste basta—> è infatti la Giustizia, che rappresenta la commistione tra diritto e morale, che concede al giurista di dire che una norma è valida quando è anche accettabile la morale sotto il profilo morale. Questa ha un significato articolato, da cui derivano varie problematiche: c'è un uso di questa parola che rende porosi i confini tra i sistemi del diritto e della morale, e cioè quando questa detiene un contenuto che aspira ad essere oggettivo, aspirando essa stessa ad essere una categoria metro di giudizio e ad imporsi dall’esterno sul diritto, rischiando però così di subordinare il diritto alla morale. Rischia infatti di fare del diritto una categoria della morale, un giudizio che rientra nel giudizio più grande della morale, privandolo della sua autonomia. La separazione tra diritto e morale implica la liberazione dal legame chi ha sempre congiunto il diritto e la morale: per Kelsen il fine epistemologico è quello di separare il diritto dalla morale. Quando usiamo la parola giustizia non la intendiamo: usi linguistici riguardo la parola giustizia a cui facciamo riferimento sono due, che mantengono la connessione tra diritto e morale: 1) come attributo dell’ordinamento, un ordinamento sociale o giuridico giusto, che raggiunge il suo scopo in quanto soddisfa tutti. La parola viene impiegata per definire una tendenza che appartiene all’individuo, e cioè la tendenza alla felicità (sul piano pubblico e sociale), un'aspirazione umana condivisa che si verifica nella società al di fuori dall'ambito della dottrina giuridica. Quest'idea di giustizia rappresenta una tensione (individuale) psicologica, che nulla va a ledere rispetto alla concezione del diritto in quanto non ha incidenza sul legame, e pertanto per Kelsen non rappresenta un problema, ma è giustificabile. (FELICITA’ SOCIALE, benessere sociale). Proietta sul piano comune della vita collettiva l’aspirazione individuale alla felicità. Aspirazione che può quindi essere raggiunta attraverso il collettivo, la società e quindi anche per il tramite del diritto. 2) quando viene detto giusto per dire legale, cioè quando viene considerato un comportamento che sia o meno in coerenza con un dettato normativo, considerando pertanto la conformità delle azioni al dettato della norma. Anche in questo caso la parola giustizia viene adoperata in un significato che non le è proprio, e cioè quello di LEGALITA’. A questa parola quindi si attribuiscono altri significati, che non costituiscono un problema sotto il profilo di connessione tra diritto e morale. Il problema della giustizia nasce perché o la esalta o la deforma, ha fondamento nel volere e non nel conoscere, nasce da interessi che sono diversi dall’interesse della verità. L’ideologia è l'accettazione di un punto di vista deformante: Kelsen assume invece un punto di vista anti-ideologico. La dottrina depurata è necessariamente anti-ideologica, in quanto la dottrina giuridica è una scienza avalutativa. (Monostatica Kelseniana). La dottrina pura vuole rappresentare il diritto com’è, reale e possibile, e non già giusto. 3 CAPITOLO: in questo capitolo Kelsen entra nel vivo dello schema di struttura di qualificazione della norma, da lui definita come proposizione giuridica di natura ipotetica. La norma è una porzione di discorso che ha una determinata forma: la forma dell’ipotesi. Per Kelsen la questione del rapporto tra diritto e morale sta tutta in quello che è il tipo di modus del ragionamento che il tema della giustizia introduce nella conoscenza giuridica. Secondo Kelsen la giustizia è una concezione storica che opera in un determinato modo nel ragionamento facendo prevalere l’aspetto della valutazione su quello della descrizione => non ci si approccia al diritto per come esso è ma per come vorremmo che fosse. La dottrina giuridica tradizionale, e cioè il positivismo ottocentesco, credo di essere riuscito a definire la giusta separazione tra diritto e morale, ma in realtà la non effettiva teorizzazione di tale tema si palesa nella concezione del diritto come norma. Kelsen intende contrapporsi ad una concezione imperativistica del positivismo, per cui la norma è un imperativo (nozione di comando). Secondo l'autore infatti, in tale definizione si annida un problema: questi ce lo fa palese attraverso la metafora della ragnatela, cioè facendo riferimento a quei fili più o meno visibili che tengono ancora uniti il diritto e la morale nella nozione di norma, lasciando quindi la questione della separazione ancora irrisolta. Attaccando al cuore del positivismo giuridico, Kelsen affronta la nozione di norma giuridica e quindi il problema del dover essere. Ci propone due definizioni entrambe riferite al dover essere, come categoria o come idea, con riferimento al carattere prescrittivo. Il diritto è un enunciato prescrittivo, che non consiglia ma comanda, non suggerisce ma impone. Il positivismo tradizionale va a risolvere il tema del dover essere nel suo contenuto, cioè nel comportamento da tenersi o meno, e quindi nella prescrittività del diritto—> ciò afferma una concezione del dover essere (per cui dover essere = contenuto) che Kelsen denomina idea trascendente, nella quale si annida il non risolto il problema del rapporto tra diritto e morale. Per tale motivo è una nozione che va respinta, a cui Kelsen oppone una definizione alternativa del dover essere che denomina categoria trascendentale, depurata sia dagli aspetti naturalistici che ideologici. PROBLEMA DELLA NON SEPARAZIONE: Nella struttura della norma come comando, Kelsen riscontra identità con la struttura della norma morale; l’aderenza è data dal fatto che norma giuridica e norma morale hanno la stessa struttura linguistica, e differiscono solo per contenuto, di tipo esterno (orientamento politico). Per cui una parte del valore assoluto della morale penetra all'interno della norma giuridica. Pag. 62 Pag. 63 NOMOSTATICA Kelsen propone due strade da percorrere per superare i limiti del positivismo tradizionale, proponendo la categoria trascendentale: 1) assume una definizione di norma che differisce da un imperativo. La norma per Kelsen è una proposizione ipotetica, un giudizio ipotetico. 2) Assume che la definizione del dover essere coincida con il nesso logico, e non col contenuto, che tiene insieme le due parti in cui si struttura tale ipotesi: premessa + conseguenza. Se x allora y. Viene quindi ad instaurarsi un rapporto di necessità. Kelsen ritorna sul tema della causalità e dell’imputazione (prototipo del ragionamento umano) per definire la connessione dei fatti. Egli fa un parallelo tra legge giuridica e legge naturale che sotto il profilo semantico è identico e che invece è imperfetto sotto il profilo del significato. [lettera B, paragrafo 2] 
 La dottrina pura si sforza di distinguere il concetto della norma giuridica da quello della norma morale. La prima strategia è quella di respingere che la norma sia un imperativo, un comando. Obiettivo della dottrina giuridica pura è quello di liberare la dottrina giuridica da commistioni non risolte con la morale. La norma, la legge giuridica, viene considerata come un giudizio ipotetico, al pari della legge naturale. Il diritto deve accogliere il principio di imputazione. La norma dovrà accogliere dentro la sua struttura un giudizio di imputazione (che ha la stessa struttura sintattica della casualità). La legge giuridica è un giudizio ipotetico come un giudizio ipotetico è la legge naturale. “Se x allora y...” => dato un fenomeno ne consegue un altro fenomeno. Kelsen qui si riferisce alla legge in senso di formulazione. Kelsen prospetta un’analogia che riguarda la legge morale e la norma giuridica, di modo che constatata in via comparativa la somiglianza tra questi tipi di regole sotto alcuni aspetti, si possa: da un lato dedurre la somiglianza tra questi tipi di regole anche sotto altri aspetti (analogia) e dall’altro intendere la differenza specifica tra questi tipi di norme. Sia la legge naturale che la legge giuridica possono essere scritte (sono formate da protasi: se A; e da apodosi: allora B) ma la differenza semantica si coglie immediatamente ed è data dalla forma logica della connessione, che nel primo caso è la causalità, nel secondo è l’imputazione. L’accostamento analogico accede ad un livello superiore perché consente adesso di riconoscere che imputazione e causalità esprimono rispettivamente l’esistenza specifica del diritto (validità) e della natura (essere). Abbiamo un terzo livello del discorso: il giudizio ipotetico esprime in entrambi i casi solo una connessione specificamente funzionale, cioè connessione che non rinvia ad altro e non veicola alcun giudizio di valore. Causalità ed imputazione non sono altro che il postulato dell’intelligibilità, cioè la condizione di possibilità di conoscenza di natura e diritto. Kelsen mostra che l’idea della causalità non è innata, ma è il risultato di un percorso di emancipazione da un originario carattere magico – metafisico che questa aveva. Questo significa che l’uomo non ancora civilizzato ha una concezione animistica della realtà, per lui quindi non solo gli uomini ma tutte le entità gli appaiono provviste di un’anima e quindi possono comportarsi bene o male. Quando l’entità si comporterà bene trarrà beneficio da questo comportamento, ma se si comporterà male sarà punito. Il primitivo quindi vede solo società, ha una interpretazione socio – normativa della realtà, perché non riconosce queste entità all’interno di relazioni di causa ed effetto, ma riconosce esclusivamente relazioni retributive in base al suo comportamento. Kelsen dice questo per far capire che la causalità è cominciata ad esistere quando l’uomo ha imparato a capire che il fulmine ad esempio, non era la punizione per il suo comportamento, ma era semplicemente un fenomeno atmosferico. Questo processo di depurazione quindi si può ripetere in modo analogo nel diritto che può emanciparsi dalla morale. Lo schema che usa Kelsen per spiegare il rapporto di causa-effetto è: "se c'è A (causa) deve esserci (muss) B (effetto)"; lo schema invece usato per spiegare il rapporto giuridico, o rapporto di imputazione, è: "se c'è A1 deve esserci (soll) B1”. Natura dei nessi logici: MUSSEN: nesso logico della legge naturale, indica un dovere nel senso di necessità fisica, come devono andare le cose. Nesso logico sintattico, di necessità, per cui ad una causa segue un effetto. E’ una doverosità necessaria. SOLLEN: dover essere normativo, che si identifica con l’imputazione, come dovrebbero andare le cose: ad una premessa (atto illecito) segue una conseguenza (reazione dell’ordinamento). Mero nesso connettivo che tiene assieme alle due parti, ed esprime una doverosità normativa, artificiale, prodotta dalla società: si tratta di una costruzione artificiale, della reazione dell’ordinamento.—> non si riscontra come dato della necessità naturalistica. E’ una costruzione giuridica depurata da elementi contenutistici e naturalistici, e perciò capace di essere un apriori gnoseologico in grado di costituire per il teorico del diritto un principio conoscitivo grazie al quale si viene a conoscenza di cosa sia il diritto. Il dover essere, come inteso da Kelsen, cioè una categoria trascendentale, non un’idea trascendente come per i positivisti tradizionali che si realizza e diviene prescrittiva solo nel suo contenuto. Per Kelsen non c'è bisogno di entrare nel contenuto della norma per far si che il dover essere diventi prescrittivo, non c'è bisogno che il diritto venga posta in essere da un punto di vista concreto—> il dover essere viene affermato come categoria trascendentale che va aldilà della norma morale. In questo senso la categoria trascendentale diventa un apriori gnoseologico perché, partendo dal presupposto che la norma è un giudizio ipotetico, isola la definizione di dover essere intendendola come nesso formale tra premessa e conseguenza. DISCORSO FORMALISTICO—> a prescindere dalla realtà fenomenica, il dover essere sta nel formalismo della norma. Il solo fatto di essere formale ne descrive la prescrittività, a prescindere dal fatto che poi venga compiuta azione giuridica per cui quella norma diventa efficace. Il nesso di imputazione si eleva a categoria trascendentale cioè come un a priori gnoseologico (sta al di fuori del diritto ma ci permette di conoscerlo) che ci consente di conoscere ciò in cui il diritto consiste, divenendo oggetto di depurazione cioè categoria permanente, forma del giudizio. Ci consente di avere un principio conoscitivo del diritto: di rispondere alla domanda in cosa consiste il diritto? Questo è un mero nesso connettivo. Paragrafo 12: il diritto come norma coattiva Il diritto consiste in una norma coattiva: nella connotazione della norma giuridica come norma coattiva la dottrina giuridica avrebbe invece continuato quella tradizione positivistica. Il riferimento all’atto coattivo dello Stato indica la risposta sanzionatoria che l’ordinamento giuridico prevede nel caso in cui venga compiuto un atto illecito e solo quando è lo Stato che usa la forza può essere considerato un uso legittimo. Il problema della connotazione della norma giuridica come norma coercitiva è un problema che non risiede nell’uso effettivo della forza, ma nella funzione specifica della qualificazione giuridica dell’illecito. Quindi è dalla qualificazione della norma e dalla presenza della
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved