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L'origine del linguaggio umano: un'analisi della comunicazione animale e umana - Prof. Ado, Appunti di Filosofia del Linguaggio

Il processo che ha portato alla nascita del linguaggio umano, analizzando le proprietà alla base dell'avvento del linguaggio umano e le sue radici nelle capacità comunicative delle grandi scimmie. L'autore discute della teoria gestuale, della pantomima e della comunicazione conversazionale, fornendo una panoramica della primatologia e della teoria della pertinenza. Una visione integrativa del linguaggio umano e delle sue radici, spiegando come il linguaggio umano sia l'evoluzione della comunicazione gestuale delle scimmie.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 18/04/2024

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giulia-volponi 🇮🇹

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Scarica L'origine del linguaggio umano: un'analisi della comunicazione animale e umana - Prof. Ado e più Appunti in PDF di Filosofia del Linguaggio solo su Docsity! LE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELL’EVOLUZIONE UMANA La costruzione e l’uso di strumenti hanno modificato le mani e le menti degli uomini scimmia a tal punto che essi si sono elevati al di sopra degli altri esseri viventi e sono arrivati a dominare il mondo della natura. Il processo che regola il passaggio dalla comunicazione animale al linguaggio umano può essere spiegato in riferimento ai sistemi cognitivi delle specie coinvolte in questo processo. Alcune delle proprietà alla base dell’avvento del linguaggio umano possono essere legate a una specifica classe di sistemi di elaborazione: quelli che consentono agli organismi di “agire nel mondo e di agire sul mondo” in cui vivono. È il caso di restringere il campo d’indagine ai nostri parenti più stretti: gli ominidi. La storia del processo di ominazione può essere narrata in riferimento all’evoluzione di abilità sempre più sofisticate e specifiche di trasformazione del mondo. Quando inizia l’evoluzione umana?  6/7 milioni di anni fa Dove inizia?  In Africa La storia evolutiva della specie umana s’inserisce all’interno di quella dei primati, che circa 50-60 milioni di anni fa si sono distaccati dal ceppo degli altri mammiferi dando origine ad una proliferazione di forme “proto-scimmiesche” che hanno occupato gran parte della Terra. Tra i 35 e i 40 milioni di anni fa nella linea evolutiva dei primati ha avuto inizio la ramificazione che ha portato dapprima alla discendenza delle scimmie in generale e, successivamente, tra i 25 e i 30 milioni di anni fa a quella delle grandi scimmie antropomorfe. La biforcazione uomo-scimpanzè risale invece a 6 milioni di anni fa e proprio in virtù della stretta parentela con il genere umano, gli scimpanzé sono la specie cui si guarda con maggior interesse tra i primati per ricostruire le caratteristiche comportamentali e anatomiche dell’ultimo antenato comune.  Non c’è oramai una specie per volta quindi nel corso della nostra storia evolutiva ci sono state 5/6 specie di ominidi quindi il nostro pianeta non è mai stato abitato da una sola specie di ominidi per volta, quello a cui assistiamo in questo momento storico è una specialità non la normalità  Molte specie si estinguono, e l’evoluzione non è linearità verso il progresso, l’ultima specie non è la specie migliore. Il concetto di adattamento non significa possedere una caratteristica migliore rispetto al passato, l’adattamento va sempre contestualizzato nelle situazioni ambientali che possono cambiare e quindi far si che alcune caratteristiche non sono più efficienti in quell’ambiente mutato. Uno dei meccanismi fondamentali dell’evoluzione è la selezione naturale. La selezione naturale lavora con quello che ha a disposizione, è un riaggiustamento di materiale che già c’era e questi riaggiustamenti vengono fatti in rapporto al cambiamento dell’ambiente in cui vive l’organismo, non porta necessariamente ad avere caratteristiche migliori o comunque non mira a raggiungere una sorta di ‘perfezione’. 1 AUSTRALOPITHECUS Il primo ominide fu l’australopithecus, che è il genere antenato del genere Homo, comparso in un periodo compreso tra i 4 e i 2,5 milioni di anni fa. Di questo genere attualmente si conoscono almeno tre specie: - Au. Anamensis - Au. Afarensis - Au. Africanus La specie più antica tra le australopitecine è Au. Anamensis, i cui primi fossili, datati tra i 4 e i 3,5 milioni di anni fa, sono stati rinvenuti nel 1965 in Kenya. L’Au. Afarensis costituisce invece probabilmente l’asse portante della storia filogenetica degli ominidi. Tra di essi vi è Lucy, l’australopithecus più studiato, che era un ominide che già camminava su due piedi anche se probabilmente non era completamente bipede. È una specie, quella di Lucy, che pesava tra i 34 e i 55 kg e con un’altezza di poco superiore al metro. Il volume del cervello era leggermente più grande di quello dei moderni gorilla e degli scimpanzè. La forma del bacino e i frammenti degli arti posteriori lasciano ipotizzare che l’Au. Afarensis fosse in grado di camminare eretto. LA COMPARSA DEL GENERE HOMO Quali sono le caratteristiche di questo ominide?  Bipedismo  Encefalizzazione La caratteristica fondamentale che ci fa dire se un reperto fossile è classificabile nella categoria degli ominidi è il bipedismo. Bipedismo  è un carattere tipico e definitorio degli ominidi, cioè dei sapiens e di tutte le specie esistite appartenute alla medesima traiettoria evolutiva dopo la separazione dalle grandi scimmie. Dal bipedismo “occasionale” degli scimpanzè si passa con i primi ominidi al bipedismo “facoltativo, dove la camminata su due piedi non è ancora l’unica modalità di locomozione, anche se si verifica un incremento significativo dell’andatura bipede. Il bipedismo diventa invece “obbligatorio”, diventa cioè l’unico sistema di locomozione disponibile, con la nascita del genere Homo due milioni di anni fa. Con l’emergere del bipedismo si verifica uno spostamento in avanti del foro occipitale, l’ampia apertura alla base del cranio attraverso cui il cervello si collega al midollo. Negli organismi bipedi esso è collocato, in posizione più avanzata, al centro della base del cranio. Tale posizione consente alla testa di posizionarsi in perfetto equilibrio con la colonna vertebrale, rendendo così possibile la postura eretta. Questo cambiamento anatomico affermatosi nel corso dell’evoluzione umana ha comportato un allungamento del tratto vocale e un abbassamento della laringe: due fattori determinanti per la nascita del linguaggio articolato. 2 Fino a qualche anno fa si pensava che i primi consumatori abituali di carne fossero anche i primi costruttori di strumenti, quindi i primi membri del genere homo. Nei recenti studi del 2010 si potrebbe retrodatare la comparsa di strumenti più complessi già dall’australopiteco, anche se il dibattito sulla questione è ancora aperto e in costante aggiornamento. Dopo ulteriori studi più recenti si può affermare che in realtà non è stato soltanto il cambiamento della dieta e l’introduzione del consumo di carne in essa a contribuire all’aumento del cervello, ma è possibile che questo processo sia stato causato anche da altri fattori e anche altre diete possono aver contribuito. In particolare, si suggerisce che hanno contribuito anche altri cibi e soprattutto le differenti cotture dei cibi all’aumento del cervello. Secondo questi studi il fuoco e la cottura dei cibi sono stati i veri elementi fondamentali di questo processo, perché ad esempio rende i cibi più buoni la cottura ma li rende anche più sicuri e salutari perché uccide i batteri. Da qualche parte in Africa, circa 2 milioni di anni fa, una comunità di ominidi iniziò a usare il fuoco per cuocere la carne. La carne cotta viene digerita più facilmente, è più sicura e più nutriente. HOMO HABILIS I ricercatori ritennero di poter inserire il nuovo ominide, scoperto negli anni 60 del secolo scorso, nella linea evolutiva di Homo per le caratteristiche anatomiche indicanti la locomozione completamente bipede e, soprattutto, per l'associazione stratigrafica dei resti fossili di questo esemplare con alcuni strumenti litici. Con i primi Homo nel record archeologico compaiono, dunque, anche i primi strumenti. Per quanto l'uso di utensili sia diffuso tra i primati non umani e sia presente anche nei primi ominidi, è solo con l'emergere del nostro genere che si ha un progresso culturale caratterizzato da tecnologie sempre più raffinate e complesse. Con i primi Homo si attua, infatti, una vera e propria rivoluzione tecnologica: la lavorazione della pietra. La costruzione di strumenti presenta importanti similarità con l'organizzazione del linguaggio umano. La produzione linguistica è strettamente connessa alla pianificazione gerarchica delle azioni. Diversi autori sostengono che il linguaggio articolato e la costruzione e l'uso di strumenti poggino sugli stessi processi deputati al sequenziamento gerarchico delle azioni. La presenza di strutture gerarchiche e sequenziali nell'azione umana è particolarmente rilevante per comprendere la flessibilità dei comportamenti orientati a uno scopo, come la costruzione di strumenti o la produzione linguistica. Recenti studi di brain imaging hanno mostrato l'esistenza di un substrato neurale comune tra costruzione di strumenti ed elaborazione del linguaggio umano. Dati del genere confermano le cosiddette teorie motorie dell'origine della comunicazione umana secondo cui il linguaggio, e la sintassi in particolare, hanno avuto origine dai sistemi d'azione legati alla coordinazione motoria e/o alla manipolazione degli oggetti. 5 La prima tecnica di costruzione di strumenti è la cosiddetta industria Olduvaiana. Modo 1  Nella tecnica del modo 1 uno strumento viene utilizzato per modificare un altro oggetto al fine di renderlo efficiente per un successivo utilizzo. Nello specifico, tale tecnica consiste nella scheggiatura del margine di un ciottolo per ottenere un bordo tagliente. Dal punto di vista delle gerarchie d'azione, alcuni studiosi sostengono che la produzione olduvaiana implichi almeno due macro-processi: - L'approvvigionamento dei materiali grezzi (sia il nucleo su cui operare che il martello da utilizzare) di dimensioni, forma e composizione appropriati - l'effettiva scheggiatura, che include la valutazione del nucleo, la selezione dell'obiettivo, il posizionamento del nucleo, la scelta della presa del martello e un'accurata percussione. HOMO ERGASTER Ominide molto importante per la nascita del linguaggio. Il linguaggio umano per molti autori nasce a partire da un linguaggio gestuale che inizia con Homo Ergaster. Con Homo Ergaster c’è un ulteriore aumento delle dimensioni del cervello rispetto agli ominidi precedenti. È il primo ominide a uscire fuori dall’Africa, non in maniera volontaria perché sono processi lunghi migliaia di anni dovuti alla ricerca di situazioni ambientali migliori. L’Homo Ergaster che arriva in Asia è quello che diventerà Homo Erectus. L'homo Ergaster mostra il possesso di uno scheletro corporeo ormai moderno, chiaramente distinguibile da quello degli antenati arcaici, con gambe lunghe e braccia Corte a indicare l'acquisizione di un bipedismo ormai obbligato. Ma quello che più impressiona è l'aumento delle dimensioni cerebrali che sono raddoppiate rispetto alle prime specie di ominidi. Con l'homo Ergaster, e successivamente con l'homo Erectus, Si verifica una complicazione dell'organizzazione sociale, la nascita di attività di caccia sistematiche, le probabili scoperta e domesticazione del fuoco, e la comparsa dell'industria Acheuleana, una nuova e più complessa modalità di costruzione degli strumenti. Modo 2  È una tecnica di scheggiatura della pietra caratterizzata dalla presenza di un tipico manufatto: le asce a mano simmetriche. Tale manufatto è costituito modellando una pietra di grandi dimensioni su entrambi i lati fino a ottenere una forma a mandorla simmetrica e regolare. Realizzare una forma di questo tipo che costruisce lo strumento deve, prima di cominciare a modellare la pietra, immaginare la sagoma dell'oggetto da realizzare e tenere a mente l'immagine dell'oggetto durante tutto il processo di costruzione HOMO ERECTUS È un ominide che vive in un periodo lunghissimo, fino a quando c’era già Homo Sapiens. È un ominide che nasce a partire dalla migrazione dell’Homo Ergaster in Asia. Erectus arriva anche in Europa e da origine a una specie chiamata Homo Antecessor, che si situò specialmente in territorio spagnolo. 6 HOMO HEIDELBERGENSIS Mentre chi sostiene l’ipotesi dell’origine gestuale del linguaggio ritiene che l’ominide più importante sia l’homo Ergaster, la corrente di autori che sostiene che il linguaggio nasce dalla vocalizzazione ritiene fondamentale l’homo Heidelbergensis. È l’ultimo antenato comune di Sapiens e Neanderthal. La teoria gestuale dice che il linguaggio nasce dal gesto e poi si arriva alla vocalità, quindi poi confluisce nella teoria vocale del linguaggio, non sono due modelli che si contrappongono ma sono due modelli che si integrano. L'homo Heidelbergensis era capace, rispetto ai suoi predecessori, di comportamenti caratterizzati da una più complessa cooperazione sociale e da attività di caccia più sofisticate e impegnative. Sono state rinvenute, infatti, diverse lance di legno, la cui forma lascia supporre che si trattasse di strumenti da getto e non da affondo e che, pertanto, questi ominidi avessero sviluppato uno stile di caccia assai complesso. Secondo diversi studi l'homo Heidelbergensis è l'ultimo antenato comune tra Homo sapiens e homo neanderthalensis. Le forme europei di Heidelbergensis anticipano, infatti, alcuni caratteri neandertaliani. HOMO NEANDERTHALENSIS Il primo reperto fossile di questo ominide fu trovato in Germania nell’800 e si pensava fosse un Sapiens deforme, perché è simile a noi ma ha alcune caratteristiche che lo differenziano dal Sapiens come, ad esempio, la forma del cranio che è prolungato nelle parti occipitali quindi nelle parti posteriori. I reperti fossili più recenti di questa specie sono datati a circa 30.000 anni fa. Non solo il cervello è diverso ma anche il corpo lo è rispetto al sapiens: - Sono più bassi, hanno una statura di circa 160/170 cm - Hanno un naso più grosso dovuto a un sistema di respirazione diverso dal nostro Hanno questa conformazione per mantenere il caldo poiché vivevano in un Europa durante l’Era Glaciale, quindi sono caratteristiche dovute all’ambiente circostante in cui vivevano. 7 L'idea alla base di prospettive del genere è che la sintassi del linguaggio sfrutti gli stessi dispositivi ricorsivi alla base della costruzione di piani gerarchici di azione. Hauser, Fitch e Chomsky Individuano nella ricorsività l'essenza della facoltà linguistica, ovvero ciò che distingue la comunicazione animale dal linguaggio umano. Secondo i tre autori la ricorsività non è una proprietà originaria del linguaggio: essa ha origine in altri contesti, tra i quali emerge la costruzione di strumenti, ed è stata poi cooptata per fini comunicativi. In realtà in questo libro l'idea è che il riferimento alla costruzione degli strumenti sia particolarmente importante, non tanto per spiegare la sintassi, quanto per dar conto di un elemento più basico del passaggio dalla comunicazione animale al linguaggio umano. Le capacità di pianificazione implicate nella costruzione e nell'uso degli strumenti aprono, infatti, la strada alla spiegazione degli aspetti pragmatici del linguaggio, vale a dire le caratteristiche più direttamente coinvolte con il tema dell'origine del linguaggio. Oltre alle innovazioni tecnologiche portate dal Modo 4 del Paleolitico Superiore, vi sono poi evidenze di chiari comportamenti simbolici: l'arte parietale e mobiliare, le sepolture intenzionali, costruzione di ornamenti personali. I sapiens in questo periodo vivono, infatti, in società complesse ed economicamente produttive, probabilmente governate da regole e doveri proprio come le comunità attuali. LE ORIGINI DEL PENSIERO SIMBOLICO Poiché le evidenze archeologiche sembrano indicare che la comparsa di tali innovazioni si sia verificata in modo alquanto repentino, diversi studiosi l’hanno descritta come un evento improvviso individuando in essa l’inizio della “modernità comportamentale”. Secondo tale scenario interpretativo, sebbene esemplar di Homo Sapiens fossero già presenti nel periodo precedente a 50.000 anni fa, essi erano moderni solo nelle fattezze fisiche, non nei comportamenti. La filogenesi dei sapiens, in effetti, sarebbe caratterizzata da una discontinuità tra l’evoluzione anatomica e quella comportamentale. Le innovazioni che caratterizzano la modernità comportamentale sono, infatti, indici di importanti cambiamenti cognitivi. Esiste un certo consenso sul fatto che i comportamenti simbolici siano un attributo fondamentale delle culture moderne. In linea con tale argomento, l’origine della modernità comportamentale viene spesso fatta coincidere con l’avvento del pensiero simbolico. Secondo Tattersall la simbolicità del pensiero segna una differenza qualitativa tra gli esseri umani e tutte le altre specie animali, comprese le specie di ominidi precedenti a Homo Sapiens. L'avvento della cognizione simbolica può essere spiegato in riferimento a due ipotesi interpretative: 1. Nei termini dei lenti e graduali miglioramenti succedutesi nel tempo secondo i dettami della selezione naturale 2. In riferimento a un cambiamento repentino a più breve termine Tattersall propende per questa seconda possibilità: l’avvento del pensiero simbolico, a suo avviso, deve essere considerato un fenomeno improvviso e inaspettato dipendente da fattori culturali e 10 non biologici. La giustificazione della proposta di Tattersall passa attraverso il riferimento ai concetti di exaptation e di emergenza. Exaptation è il termine per indicare la cooptazione funzionale di strutture originariamente selezionate per altre finalità evolutive. La sua idea è che la capacità simbolica umana, piuttosto che un adattamento biologico dovuto alla selezione naturale, sia una forma di adattamento culturale. Secondo Tattersall, infatti, le innovazioni culturali che hanno segnato l'evoluzione umana non sono mai il risultato diretto di innovazioni sul piano biologo: i reperti fossili testimoniano un notevole scarto temporale tra l'avvento di nuove strutture anatomiche e l'avvento di nuove capacità comportamentali. Da questo punto di vista, l'acquisizione del pensiero simbolico è un fenomeno interpretabile nei termini di una coincidenza fortuita, più che in riferimento alla relazione diretta con il cervello di Homo sapiens. Secondo Tattersall, dunque, la condizione per avere il pensiero simbolico non deve essere riferita alla biologia di Homo sapiens, ma alla sua cultura. Quando Tattersall analizza la mente umana in termini di pensiero simbolico, egli ha in mente una tesi precisa: l’idea che i pensieri siano il prodotto del linguaggio, lo strumento per eccellenza dell'attività simbolica. Nel far questo egli aderisce alla tesi del primato della funzione cognitiva del linguaggio: l'idea per cui la funzione principale del linguaggio, oltre a quella comunicativa, riguardi il ruolo da esso svolto nella costituzione dei pensieri, nella formazione del nostro sistema di concettualizzazione. Tuttavia, l’argomento di Tattersall tiene soltanto se può offrire una spiegazione adeguata della nascita del pensiero simbolico. Ora, poiché tale nascita coincide con l'avvento del linguaggio, si può facilmente sostenere che un modello del genere è sostenibile soltanto avendo a disposizione una spiegazione dell'origine del linguaggio. Scartando l'idea dell'avvento del linguaggio in termini di variazioni lente e graduali, Tattersall fa riferimento a un processo molto più rapido nel tempo. Egli affida il cambiamento di Homo sapiens all'invenzione del linguaggio: attribuire l'origine del linguaggio a una scoperta, ovvero a qualcosa in cui ci si imbatte in modo fortuito e improvviso, è tuttavia un'operazione del tutto inefficace sul piano esplicativo. Non è sufficiente revocare il linguaggio per risolvere la questione dell'origine del pensiero simbolico. L’avvento del pensiero simbolico è certamente un fatto, ma un fatto che aspetta giustificazioni, non si può spiegare l'avvento del pensiero simbolico con l'invenzione o l'emergenza del linguaggio perché sarebbe una pseudo spiegazione e l'avvento del simbolo rimarrebbe un fenomeno irrisolto. Secondo Tattersall, il pensiero simbolico è inconcepibile senza linguaggio, ma il linguaggio stesso presuppone una qualche forma di pensiero simbolico. Nella prospettiva di Tattersall tutto ciò che conta e ciò che avviene dopo l'avvento del simbolo. Dal nostro punto di vista, invece, le questioni davvero importanti da indagare sono le condizioni che precedono l'avvento del simbolo e che sono a fondamento della sua origine. Come abbiamo già visto, i primati non umani esibiscono capacità di rappresentazione simbolica: oltre a mostrare che il linguaggio non è una condizione necessaria per l'avvento dei simboli, questo fatto permette di sostenere l'ipotesi di una continuità tra cognizione simbolica umana e animale. E 11 l'avvento del simbolo è un fenomeno interpretabile più che altro in accordo con i principi del gradualismo della selezione naturale. Il modello della rivoluzione del paleolitico superiore è stato a lungo il paradigma dominante nelle teorie dell'evoluzione cognitiva e comportamentale umana. Tuttavia, esso è stato messo in discussione da una serie di importanti scoperte recenti. Evidenze provenienti dalla paleoantropologia e dall'archeologia mostrano, infatti, che molti dei tratti considerati propri del paleolitico superiore sono apparsi molto prima in Africa in una forma più rudimentale durante il Middle Stone Age, periodo compreso tra 300.000 e 50.000 anni fa. Queste nuove scoperte avvalorano la tesi che il pensiero simbolico si sia evoluto gradualmente, in relazione diretta all'evoluzione anatomica di Homo sapiens, nel corso di un lungo arco temporale. Il carattere propriamente simbolico dei simboli dipende, secondo l'idea di Peirce, ripresa da Deacon, da due fattori costitutivi: - La natura sistemica che i segni ereditano dal codice cui appartengono - la dipendenza dei simboli dal sistema cognitivo che funge da interpretante Il fatto che i neoculturalisti considerino il pensiero simbolico in riferimento alla tesi dell'esplosione è strettamente dipendente dalla priorità da essi accordata al ruolo costitutivo del codice sistema linguistico. La nostra ipotesi in questo libro è che, per quanto gli aspetti del codice abbiano un ruolo importante nel conferire ai simboli specifiche proprietà rappresentazionali, lo statuto simbolico di un simbolo dipende primariamente dal sistema interpretante, ovvero da ciò che avviene dentro la testa degli individui. La nostra idea è che mentre è plausibile ipotizzare l'esistenza di simboli in assenza di un codice, non è possibile pensare a un codice simbolico in assenza di simboli: Da un punto di vista evolutivo sostenere, come fanno i fautori del modello dell'esplosione, la priorità del codice linguistico sui simboli equivale a invertire i rapporti causali che, nella filogenesi effettiva di Homo sapiens, hanno portato alla nascita del pensiero simbolico. Le pratiche simboliche del paleolitico superiore non sono dunque qualitativamente diverse rispetto a quelle del Middle Stone Age. Modello della matrioska  Buona metafora per rappresentare lo sviluppo del pensiero simbolico alla luce di queste considerazioni. Tale modello è conforme all'intento generale di fornire un modello della comunicazione umana in linea con il gradualismo e il continuismo tipici della proposta darwiniana. De Waal propone il modello a matrioska per sostenere che i livelli più complessi di un fenomeno si costituiscono a partire dai fenomeni di livello più semplice. Secondo il modello della matrioska le manifestazioni simboliche più elevate sono il prodotto evolutivo di processi cognitivi che si sono sviluppati da processi cognitivi più semplici senza i quali non avrebbero mai potuto avere origine. Le scoperte del Middle Stone Age minano alla ridice due punti cardine dell’ipotesi di Tattersall: 1. L'idea che nella filogenesi della nostra specie ci sia stato uno scarto temporale tra evoluzione anatomica ed evoluzione comportamentale 12 Ragioni di questo tipo indeboliscono i modelli che individuano nei richiami vocali delle scimmie non antropomorfe i precursori del linguaggio umano. Da questo fatto, ovviamente, non segue che le radici del linguaggio non possano essere rintracciate nei sistemi di comunicazione animale: infatti, sebbene le grandi scimmie non abbiano capacità vocali degne di nota, e se tuttavia comunicano frequentemente con i conspecifici in numerosi contesti sociali attraverso i gesti. L'analisi della comunicazione gestuale nelle grandi scimmie si presta ad essere il ponte ideale per dar conto dell'evoluzione del linguaggio umano. Le vocalizzazioni delle scimmie hanno poco in comune con linguaggio parlato umano poiché esse sono, per la maggior parte, determinate geneticamente, e inoltre sembrano essere espressioni involontarie di emozioni. Per quanto gli animali non umani non possiedano capacità di produzione paragonabili al linguaggio umano, essi tuttavia mostrano sorprendenti abilità interpretative: i sistemi deputati alla percezione e alla comprensione sono più flessibili rispetto a quelli coinvolti nella produzione. I primati non umani comunicano tra loro soprattutto attraverso i gesti impiegando, in diversi contesti sociali, posture corporee, espressioni facciali e gesti manuali. A differenza delle vocalizzazioni, gran parte del repertorio gestuale delle scimmie viene utilizzato in modo flessibile e intenzionale. I gesti sono intenzionali e flessibili poiché rivolti verso uno specifico ricevente e uno stesso gesto può essere usato per raggiungere differenti scopi in diversi contesti. Inoltre, i repertori gestuali dei primati non umani, a differenza di quelli vocali, sono aperti all'incorporazione di nuovi segnali, sia a livello del singolo individuo, sia della popolazione. Queste osservazioni aprono la strada all'ipotesi dell'origine gestuale del linguaggio umano. I NEURONI SPECCHIO Un concetto fondamentale delle teorie che fanno riferimento a un’origine gestuale del linguaggio è il concetto di neuroni specchio. I neuroni specchio gettano un ponte tra l’evidenza dell’archeologia cognitiva e l’evidenza neuroscientifica ed è la seconda linea di prove a sostegno dell’evoluzione del linguaggio. È una delle scoperte di neuroscienza più importanti degli ultimi 50 anni, ed è una scoperta fatta da un gruppo di studiosi dell’Università di Parma, che studiava in particolare la corteccia motoria del cervello dei macachi, ovvero un particolare tipo di scimmia con la quale non siamo particolarmente imparentati. Scoperchiano il cranio dei macachi in modo tale che la corteccia cerebrale sia visibile, poi inseriscono degli elettrodi sulla corteccia cerebrale in corrispondenza con le varie aree di interesse perché questi elettrodi sono connessi a dei macchinari che permettono di valutare quando un certo gruppo di neuroni si attiva o meno, ovvero quando un gruppo di neuroni scarica, poiché il cervello lavora su scariche elettriche, quindi questi elettrodi amplificano le scariche elettriche del cervello. Questi studiosi erano in particolare interessati alle aree motorie del cervello dei macachi, ovvero le aree che controllano i movimenti. Generalmente durante gli esperimenti la scimmia viene messa al centro della stanza con gli elettrodi sulla corteccia, c’è poi un vetro di separazione tra la stanza della scimmia e la stanza degli sperimentatori, e la scimmia durante l’esperimento viene invitata a fare dei compiti manuali e motori. Durante una pausa dell’esperimento, in cui la scimmia è a riposo e non è invitata a fare nulla, gli sperimentatori bevono un caffè e mentre bevono un caffè gli studiosi raccontano che 15 sentono che la scimmia osservano questa azione le aree motorie della scimmia scaricano, si attivano, come se la scimmia si stesse muovendo, quando in realtà in quel momento la scimmia stava soltanto osservando gli sperimentatori bere il caffè. Com’è possibile che le aree premotorie che si attivano quando è il soggetto in prima persona a compiere un’azione si attivano anche nel momento in cui osservano qualcun altro compiere un’azione? Qui abbiamo un caso in cui aree legate all’azione in prima persona si attivano anche quando il soggetto non sta compiendo un’azione ma vede un altro soggetto compiere un’azione, in questo caso l’azione di afferrare (la tazzina di caffè). Negli studi successivi si scoprirà infatti che l’azione che ha fatto attivare questa area del cervello è stato proprio il movimento di afferrare, ciò ha attivato i neuroni specchio. Successivamente si è scoperto che si attivano quelle aree perché in alcune zone di quelle aree premotorie esiste una classe di neuroni chiamati appunto neuroni specchio. Specchio perché permettono un rispecchiamento tra la percezione e l’azione quindi si attivano non soltanto quando l’individuo compie un’azione in prima persona ma anche quando è qualcun altro a compierla, per questo sono stati chiamati neuroni specchio. Questa scoperta è fondamentale perché ha permesso di spiegare tutta una serie di processi cognitivi in riferimento all’attivazione di questi neuroni specchio, ad esempio c’è tutto un filone di studi sull’empatia che fanno riferimento ai neuroni specchio come a un meccanismo di risonanza tra ciò che l’altro prova e ciò che io a guardare l’altro provo. Com’è entrata questa scoperta nel dibattito sul linguaggio? La risposta a questa domanda dobbiamo chiederci a che servono questi neuroni specchio e che funzione hanno, a che serve quando si attivano quando percepisco quell’azione ma non la copio? I neuroni specchio costituiscono una forma primitiva di comprensione dell’azione altrui, sono quindi così importanti per l’origine del linguaggio perché ci permettono di avere una comprensione ancora non consapevole, non concettuale, non complessa o sofisticata, ma comunque è un primo step della comprensione dell’azione degli altri. “I neuroni specchio sono alla base del riconoscimento e della comprensione del significato degli eventi motori, ossia degli atti degli altri. Si noti che con il termine comprensione non intendiamo necessariamente la consapevolezza esplicita o riflessiva da parte dell’osservatore, in questo caso la scimmia, dell’identità o della somiglianza tra l’azione vista e quella eseguita, più semplicemente alludiamo a un’immediata capacità di riconoscere negli eventi motori osservati un determinato tipo di arto, caratterizzato da una specifica modalità di interazione con gli oggetti di differenziare tale tipo da altri ed eventualmente di utilizzare una simile informazione per rispondere nel modo più appropriato” Quindi questo sistema è fondamentale perché ci permette di comprendere in modo non concettuale ma ci fa riconoscere un atto e in particolare la funzione di quell’atto, perché ad esempio se si afferra una bottiglia il significato è bere. Ciò accade attraverso il meccanismo della simulazione. L’idea è che questi neuroni si attivano quando osservo qualcuno compiere un’azione perché nella mia testa simulo di compierla a mia volta, per questo motivo si attivano queste determinate aree motorie che appartengono in realtà al movimento effettivo del corpo anche se in questo caso non ci si muove ma lo si immagina solo nel cervello. Il meccanismo dei neuroni specchio è visto come un meccanismo di simulazione interno dell’azione, se io simulo quell’azione 16 comprendo il significato dell’azione. quindi secondo questa prospettiva la comprensione dell’azione che i neuroni specchio consentono dipende da un meccanismo di simulazione. Questa è una prospettiva simulazionista: ovvero l’idea che la comprensione di un atto avvenga attraverso la simulazione. Quindi i neuroni specchio si attivano a causa della simulazione interna dell’azione osservata che corrisponde a un primo step della comprensione dell’atto. Perché questi neuroni sono stati usati nelle teorie dell’origine gestuale del linguaggio umano? Qual è la connessione tra un sistema che si attiva in questo modo e l’origine gestuale del linguaggio umano?  I neuroni specchio si attivano con le azioni manuali, e l’origine gestuale del linguaggio umano si basa su azioni manuali volte alla comunicazione, quindi se abbiamo un meccanismo che ci permette di comprendere le azioni manuali allora abbiamo un meccanismo che ci fa capire le azioni manuali comunicative. Se vogliamo spiegare il linguaggio e la comunicazione dobbiamo spiegare non soltanto il mezzo espressivo, quindi la voce o il gesto, ma dobbiamo spiegare anche il meccanismo di comprensione. L’enunciato linguistico è semplicemente un’onda sonora se non c’è comprensione. C’è un altro elemento che supporta ulteriormente l’idea che il sistema a specchio sia in effetti legato all’evoluzione del linguaggio e riguarda la localizzazione in cui sono stati scoperti. Questi neuroni sono stati scoperti nell’area premotoria del cervello del macaco nella cosiddetta area F5. Da un punto di vista evolutivo quest’area rappresenta il precursore evolutivo di un’area del cervello umano chiamata area di Broca oppure area 44 di Brodmann. A che serve quest’area nel cervello umano? È un’area che utilizziamo come una delle principali aree del linguaggio, ed è un’area che controlla i programmi motori della funzione del linguaggio articolato. Un’area che oggi è fondamentale per il linguaggio articolato è in realtà l prodotto evolutivo di un’area che originariamente era legata alle azioni manuali, come se le vocalizzazioni sono state aggiunte con il processo evolutivo all’area di Broca. L’area F5 e l’area di Broca sono due aree omologhe, c’è un antenato comune e c’è una funzione che è simile sia alle scimmie. L’omologia si contrappone all’analogia, perché in presenza di quest’ultima osserviamo funzioni simili ma non c’è un antenato comune, mentre qui con il fatto che si tratta di scimmie, questa comunanza di funzioni è spiegabile in riferimento a un antenato comune. Un argomento forte a favore dell’ipotesi gestuale del linguaggio umano è quindi quella dei neuroni a specchio. Quest’area dei neuroni specchio che è un’are che nasce per la prassi, nasce per compiere e comprendere le azioni manuali, e poi gradualmente inseguito a cambiamenti evoluzionistici di milioni e milioni di anni, è stata un’area che si è fatta carico delle vocalizzazioni. Questo è un passaggio importante perché comunque le scimmie comunicano anche attraverso la vocalizzazione, ma la vocalizzazione delle scimmie non è controllata dall’area F5, nelle scimmie le vocalizzazioni non sono sottoposte al controllo della corteccia cerebrale ma sono controllate da aree legate alle emozioni. Le scimmie non possono produrre vocalizzazioni se non sono provocate da un’emozione, quindi non hanno un controllo volontario sulla produzione linguistica o comunque è molto minimo perché sono controllate dalle aree legate all’emozione. Per questo questi autori sostengono che è il gesto che precede, siccome le scimmie hanno controllo volontario sui gesti a differenza di ciò che accade con le vocalizzazioni, e hanno controllo volontario perché nell’area premotoria c’è il controllo volontario. Quindi questo concetto di controllo neurale di gesti e di 17 A un livello superficiale possiamo dire che c’è una somiglianza, vale a dire che c’è un carattere referenziale in entrambi i comportamenti, tuttavia, se andiamo a vedere la natura dei meccanismi cognitivi coinvolti nei due comportamenti ci accorgiamo che quelle analogie che possiamo fare a livello dei comportamenti non le possiamo fare a livello dei meccanismi psicologici sottostanti. È un po’ un discorso inverso a quello della produzione degli strumenti, associata al linguaggio per una comunanza dei sistemi cognitivi, mentre la vocalizzazione delle scimmie per alcuni autori non possono essere collegate al linguaggio umano perché non c’è una comunanza di sistemi cognitivi. Non possiamo stabilire se i processi di interpretazione che sono alla base di un segnale sono come il linguaggio umano, perché con il linguaggio umano ci rappresentiamo mentalmente il contenuto di una frase o di una parola. Nel caso dei cercopitechi questo discorso non possiamo farlo con certezza, perché ad esempio quando fanno un verso specifico alla vista di un leopardo non sappiamo se con quel verso intendono realmente “leopardo”, magari intendono semplicemente “mettiti al riparo”, quindi in questo caso non avrebbe un valore referenziale ma sarebbe solo un richiamo manipolativo mirato a far compiere un’azione appropriata. Secondo i critici di questa teoria il segnale non ha contenuto informativo sulla realtà esterna ma è semplicemente un invito all’azione, ha tecnicamente una funzione di manipolazione, e con manipolazione si intende avere un effetto sull’azione altrui. Dobbiamo pensare che questi sistemi di vocalizzazione sono innati, non vengono appresi, quindi sono patrimonio genetico delle scimmie, perciò l’evoluzione di questi segnali di allarme è avvenuta nella storia filogenetica delle scimmie, in cui le scimmie che interpretavano correttamente il segnale dall’allarme e si mettevano al riparo si salvavano la vita. Quindi il passaggio della mutazione che ti fa rispondere correttamente a quel segnale faceva andare avanti determinati individui, quindi nel corso della filogenetica delle scimmie c’è stata un’evoluzione per cui il segnale si è affinato attraverso un processo di coevoluzione, perché è vantaggioso avere segnali dall’allarme diversi a seconda dei predatori, ed è evolutivamente vantaggioso rispondere correttamente al segnale. Quello che ci preme capire è se questi versi hanno un carattere semantico, referenziale, o se invece è solamente un invito all’azione. Questo è il primo elemento che ci mostra che le vocalizzazioni delle scimmie, pur condividendo lo stesso canale per comunicare, al di là di questa somiglianza non ce ne sono molte altre. Quando analizziamo la vocalizzazione delle scimmie ci rendiamo conto che sono dipendenti dallo stimolo, sono fortemente legate allo stato emotivo che poi produce lo stimolo. Da questo punto di vista le vocalizzazioni delle scimmie mancano di flessibilità, e una delle caratteristiche principiali del linguaggio umano è proprio il fatto che è indipendente dallo stato emotivo. Da un punto di vista neurale, inoltre, notiamo che le vocalizzazioni delle scimmie sono organizzate in modo differente da quelle del linguaggio umano. Mentre le vocalizzazioni del linguaggio umano sono, da un punto di vista neurale, controllate dalle regioni corticali e quindi possiamo decidere se muovere un arto o produrre suoni del linguaggio articolato, nel caso delle scimmie questa decisione non. Si applica perché la produzione vocale delle scimmie è governata dal sistema limbico, che è un sistema che gestisce ed elabora le emozioni, e una caratteristica fondamentale delle emozioni è che non posso decidere o meno di provarle, posso al massimo gestirle. Se dovessimo fare un confronto le vocalizzazioni delle scimmie sono paragonabili al riso o al pianto degli esseri umani, che sono controllate del sistema limbico. 20 È quasi impossibile per una scimmia produrre un suono senza uno stato emotivo fondamentale che attiva un’emozione. Questo elemento rende i richiami d’allarme delle scimmie fortemente vincolati al contesto d’azione, cosa che non accade nel linguaggio umano. La diversa organizzazione neurale tra vocalizzazione delle scimmie e linguaggio umano spiega perché sistemi di vocalizzazione non umano sono così inflessibili. E anche la genetica contribuisce ulteriormente a spiegare perché le scimmie utilizzano le vocalizzazioni in modo così inflessibile, ed è perché sono innate e non sono predisposte a forme di apprendimento. La scimmia quando nasce ha già predisposto il suo sistema di richiamo di allarme, non lo deve imparare a differenza dei bambini che invece devono imparare il linguaggio umano, e inoltre non è in grado di imparare nuovi richiami d’allarme, sempre gli stessi rimarranno. Questo fatto è stato scoperto con esperimenti fatti un cucciolo di cercopiteco, che veniva sottratto alla madre e messo a vivere con un’altra specie, per vedere se pur non avendo mai sentito dalla madre i richiami d’allarme della sua specie di appartenenza li produrrà lo stesso o se invece imparerà e userà i richiami d’allarme della specie che lo ha adottato. Da questo studio emergerà che la componente genetica è particolarmente forte perché il cucciolo produrrà gli stessi identici richiami d’allarme della sua specie di appartenenza pur non avendoli mai sentiti. Caratteristiche delle vocalizzazioni delle scimmie:  Carattere referenziale più no che si  Dipendenti dallo stimolo  Sistemi di vocalizzazione non flessibili Nel linguaggio umano invece abbiamo esattamente le caratteristiche opposte e sono tutte e tre caratteristiche fondamentali del nostro linguaggio.  I sistemi vocali delle scimmie non sono quindi un buon punto di partenza per spiegare l’origine del linguaggio umano Tutti questi argomenti che mostrano le problematicità dei sistemi gestuali delle scimmie sono utilizzati invece dagli autori che sostengono invece che alcune di queste proprietà, sicuramente la flessibilità e il controllo volontario, le possiamo trovare nei sistemi gestuali di questi animali. Questi animali per comunicare non usano solo le vocalizzazioni, ma utilizzano sistema multimodale estremamente complesso in cui combinano anche in modo particolare il gesto e la vocalizzazione. Se si va a guardare la componente gestuale di questo sistema multimodale si può notare che alcune delle proprietà che mancano nelle vocalizzazioni sono presenti nella gestualità. Perché i sistemi di gestualità delle scimmie sono flessibili, intenzionali e soggetti a forme di apprendimento al contrario delle vocalizzazioni che sono fisse, quindi queste sono tutte caratteristiche uguali a quelle che presenta il linguaggio umano. Il cercopiteco che emette un segnale di allarme mette in atto una comunicazione da uno a molti, ovvero vede il predatore ed emette il segnale d’allarme indipendentemente dal fatto che gli altri siano nelle vicinanze del predatore. Invece nella gestualità degli scimpanzè studiati da alcuni autori, nell’interazione con l’essere umano, lo scimpanzè oltre a compiere il gesto dell’indicare, che è già un modo importante per trasmettere informazioni, c’è un altro aspetto importante da considerare che è l’alternarsi di gesto e di sguardo verso l’alto, ovvero verso l’essere umano, che è un atteggiamento tipicamente umano. Guardando lo sguardo altrui riesco a fare ipotesi su ciò che l’altro sta pensando. 21 IL CANTO DEGLI UCCELLI Secondo una lunga tradizione di pensiero, ciò che distingue gli esseri umani dal resto del mondo animali è il linguaggio in quanto facoltà di parola. Aderire a una tradizione del genere significa abbracciare l'idea, fortemente radicata anche nel senso comune, che la comunicazione umana coincida con la verbalizzazione: il linguaggio eh lo strumento che gli esseri umani utilizzano per comunicare con i conspecifici grazie alla produzione di suoni articolati. Il primo passo da compiere per studiare l'origine del linguaggio e analizzare la produzione dei meccanismi responsabili della produzione sonora. L'assunto alla base di tale indagine e che i precursori del linguaggio umano vadano rintracciati nelle vocalizzazioni degli animali non umani, comprese le produzioni sonore degli animali, come gli uccelli, molto distanti da Homo sapiens nella scala evolutiva. È da qui, dal confronto tra il cinguettio degli uccelli canori e la produzione linguistica umana, che prende avvio il nostro discorso. Perché il confronto tra il canto degli uccelli e la verbalizzazione umana può essere utile per lo studio dell'origine del linguaggio? Quale tipo di analogie è possibile istituire tra i cinguettii degli uccelli canori e la comunicazione degli esseri umani? Alcuni indizi per rispondere a questi interrogativi sono rintracciabili nella produzione di Aristotele, in particolare nella Historia animalium. Aristotele  osserva che nel regno animale solo alcune specie di uccelli sono in grado di mettere voci articolate che si avvicinano alla produzione vocale propria dell'essere umano; e che, allo stesso modo delle lingue umane, anche il canto degli uccelli sembra dipendere in modo cruciale dall'apprendimento. Già il grande filosofo greco, in effetti, aveva notato che gli uccelli cresciuti lontano dai genitori producono i canti a cui sono stati esposti nell'ambiente di allevamento piuttosto che quelli propri della loro specie di appartenenza. Diversi secoli più tardi, in “l'origine dell'uomo e la selezione sessuale”, anche Darwin sottolinea le forti analogie tra linguaggio vocale e canto degli uccelli: “I piccoli che hanno imparato il canto di una specie distinta insegnano e trasmettono nuovi canti ai loro discendenti. La piccola e naturale differenza di canto nella stessa specie che vive in zone diverse può essere adeguatamente paragonata ai dialetti provinciali, e i canti di specie affini ma distinte possono essere paragonati ai linguaggi due diverse razze di uomini” Darwin Aristotele e Darwin hanno anticipato in termini moderni alcune delle più recenti scoperte provenienti dalle neuroscienze, dalla genetica e dalla biolinguistica sulle convergenze evolutive tra i linguaggi articolato e il canto degli uccelli. Numerosi studi odierni hanno mostrato, infatti, che vi sono forti parallelismi tra il modo in cui i bambini apprendono a parlare è il modo in cui gli uccelli canori imparano a cinguettare. In entrambi i casi l'apprendimento vocale risulta essere il prodotto dell'interazione tra predisposizioni biologiche innate ed esperienze specifiche. Si è osservato, ad esempio, che quando giovani esemplari di uccelli canori vengono esposti simultaneamente al canto tipico della propria specie e a quello di una specie differente, essi tendono a imitare 22 un nucleo di competenze e comportamenti comunicativi comuni che sono condivisi con molti altri animali. LA PANTOMIMA (o mimesi) La pantomima si inserisce in un dibattito più ampio che riguarda l’origine gestuale del linguaggio, ed è l’idea che forme pantomimiche di protolinguaggio possano aver rappresentato un precursore del linguaggio umano ed è un’idea sostenuta in particolare da 3 autori: Arbib, Corballis e Tomasello. Forme pantomimiche possono rappresentare un protolinguaggio gestuale, ovvero una forma intermedia di linguaggio e quindi la forma usata dagli ominidi. Con questi tre autori presi in esame stiamo aIl protolinguaggio tipico dei nostri predecessori ha caratteristiche gestuali, in particolare di pantomima. Ci sono diversi modi di intendere la pantomima, e sono due le grandi classi di definizioni: - Definizioni ristrette  la definizione di pantomima finisce con il coincidere con la definizione di gestualità manuale. Sono ad esempio le definizioni di Arbib, dove la pantomima viene associata ai gesti iconici, cioè gesti che facciamo con le dita per mimare per esempio un movimento. Viene definito gesto iconico perché c’è un rapporto di somiglianza con l’azione rappresentata. Sostanzialmente c’è quindi l’idea che le pantomime siano prevalentemente pantomime manuali. “la pantomima è la capacità di esprimere una situazione, un oggetto, un’azione, un personaggio, un’emozione, senza parole e usando solo gesti, specialmente gesti imitativi.” Definizione di Arbib Le definizioni ristrette di pantomima, secondo i critici di queste definizioni, di fatto non individuano e non permettono di isolare le caratteristiche che sono specifiche della pantomima rispetto alla gestualità e quindi finiscono per annacquare l’idea di pantomima e per farla convergere sul gesto. - Definizioni ampie  la pantomima è un elemento efficace perché, in assenza di un codice condiviso, ha il potenziale per essere un sistema comprensibile ed efficace in assenza di convenzioni, in assenza di un sistema codificato, condiviso tra i partecipanti all’interazione comunicativa. Questo perché la pantomima ha un carattere universale che dipende dal fatto che è iconica, cioè la rappresentazione iconica è una rappresentazione che rappresenta la realtà in virtù di un rapporto di somiglianza. Quindi per la definizione ampia la è una forma di comunicazione mimetica, ovvero di imitazione, non è convenzionale perché è iconica, è multimodale, quindi non è limitata soltanto al canale visivo. Es. se mimo l’azione del camminare quell’azione è uguale per tutti, tutti camminano allo stesso modo indipendentemente dalla lingua che si usa e dal posto in cui si vive. La professoressa, insieme ad altri studiosi, ha condotto uno studio sulla pantomima. L’idea dello studio è che la pantomima sia un protolinguaggio e una fase importante per l’origine del linguaggio umano perché ha permesso ai nostri antenati di raccontare storie, e una differenza importante tra comunicazione umana e comunicazione animale è proprio la capacità di raccontare storie, perché gli animali non ne sono capaci. 25 La proposta che hanno fatto è che il primo mezzo espressivo utilizzato dai nostri predecessori ominidi per raccontare storie fosse la pantomima. Nella definizione ampia non viene considerato il fatto che la pantomima possa servire per raccontare o narrare storie. Tuttavia, negli studi sul gesto, ci sono alcuni autori, in particolare McNeill, la pantomima è stata descritta come un gesto, una sequenza di gesti, che comunicano una linea narrativa, una storia da raccontare, prodotta in assenza di linguaggio vocale. Quindi per McNeill la pantomima è uno strumento comunicativo che serve per raccontare una storia perché una storia è una sequenza di eventi con legami causali e temporali che raccontano le azioni, le motivazioni e gli obbiettivi di un personaggio. Per McNeill la pantomima permette proprio, attraverso sequenze gestuali, di rappresentare le sequenze di eventi tipiche delle storie. Alla luce della definizione ampia data dagli studiosi polacchi, l’elemento che stona nella definizione di McNeill è il fatto che esclude la componente vocale dalla pantomima. Perché McNeill non pensa che la pantomima sia un precursore del linguaggio vocale, bensì sostiene invece che la pantomima è prodotta in assenza di linguaggio vocale. In generale c’è qualche autore che ritiene che la pantomima serva per raccontare storie, ma fino a qualche anno fa non c’erano studi sperimentali che provassero la validità di questa idea. Quindi è stato fatto, dalla professoressa e da altri studiosi, un protocollo sperimentale che andasse a provare che la pantomima servisse per raccontare storie e anche se queste storie erano comprensibili o no. Hanno fatto uno studio pilota, ovvero uno studio preliminare, su bambini a sviluppo tipico di età compresa tra gli 8 e i 12 anni, hanno costruito delle storie in pantomima, fatte vedere ai bambini, e valutato le loro risposte. Il primo passo di questo protocollo sperimentale è stato costruire una batteria di storie con la stessa impalcatura generale ma con contenuti diversi, quindi le storie dovevano essere omogenee dal punto di vista della struttura e anche da un punto di vista della durata temporale. Hanno costruito storie con un finale aperto, storie dove il protagonista ha degli obbiettivi e incontra un ostacolo che deve superare per poter raggiungere l’obbiettivo. Le domande di questo studio erano prevalentemente due: 1. Se i bambini capivano le storie e quindi capire se la pantomima poteva essere usata per raccontare storie 2. Da un punto di vista della comprensione quali sono i meccanismi cognitivi che si attivano che possono essere utilizzati nella comprensione di storie e di storie in pantomima nello specifico? Narrazione = insieme di sequenza di eventi temporalmente e casualmente legati tra loro che descrivono le azioni, le motivazioni del personaggio. Quando noi comprendiamo la storia usiamo la capacità mentale che ci permette di comprendere i comportamenti altrui, ovvero il Mind Reading, la capacità cognitiva che ci permette di interpretare i comportamenti e gli stati mentali altrui. Il Mind Reading fa parte del sistema triadico insieme al Mental Space Travel e il Mental Time Travel. Tutti i nostri comportamenti sono spiegabili in termini di stati mentali, di rappresentazioni mentali in termini di credenze, desideri, emozioni ecc. quindi la teoria della mente è il sistema cognitivo che ci permette di fare questa cosa qui. 26 Con questo studio, quindi, è stata valutata la teoria della mente dei bambini. Serviva un test che restituisse un punteggio della teoria della mente dei bambini. È un test standardizzato, ovvero sottoposto a una validazione normativa, e i dati normativi danno affidabilità al test. I risultati del test hanno evidenziato che competenze maggiori della teoria della mente vanno di pari passo sulle competenze sempre maggiori di comprensione narrativa. Il primo dato sull’età e sulla comprensione ci consente di rispondere alla domanda generale che avevamo, cioè il fatto che la pantomima effettivamente è un buon mezzo per raccontare le storie perché i bambini comprendevano quelle storie e le comprendevano sempre meglio man mano che crescevano di età. Per rispondere alla seconda domanda invece lo studio ha dimostrato che è coinvolta la teoria della mente e la capacità della teoria della mente, che è una capacità curialmente coinvolta nelle storie e in particolare nell’elaborazione delle informazioni legate al personaggio, perché la teoria della mente è una capacità che riguarda le persone e l’attribuzione di stati mentali è un modo per interpretare il comportamento dell’altro. DAL GESTO AL SUONO Posto che il linguaggio si sarebbe originato dai gesti, evidentemente a un certo punto la modalità verbale ha preso il sopravvento. Bisogna quindi capire come si è passati dal gesto al suono e quali sono sati nel corso dei vari ominidi le modificazioni anatomiche e neurali che hanno permesso al linguaggio vocale di attestarsi come principale modo di comunicare della nostra specie. Riassumendo schematicamente, quello che sosteniamo aderendo alla prospettiva dell’origine gestuale del linguaggio umano è che il linguaggio ha un suo precursore evolutivo in un sistema di comunicazione multimodale che, nei primi milioni di anni della sua storia evolutiva, cioè con gli ominidi che vanno dai 7 fino ai 3 milioni di anni fa, era sostanzialmente un sistema di comunicazione simile a quello che oggi noi osserviamo nelle moderne grandi scimmie. Dopodiché si passa soprattutto con i primi esemplari del genere homo, e in particolare con homo Ergaster, il sistema di comunicazione è ancora multimodale ma è più sofisticato ed è un sistema che ha nella pantomima il principale mezzo espressivo. Homo Ergaster è l’ominide in cui, secondo molti autori, la pantomima era sufficientemente complessa da comunicare cose sofisticate. Questo sistema multimodale, integrato di gesti e suoni in. Cui però la gestualità e la pantomima è prevalentemente, va avanti fino a 700.000 o 600.000 anni fa, periodo a partire dal quale poi cominciamo a vedere l’attestarsi e il consolidarsi di tutti quei meccanismi anatomici e neurali che sono fondamentali per il linguaggio vocale. Gli adattamenti necessari per il parlato, l’insieme degli adattamenti necessari, vale a dire un tratto vocale con una conformazione tale da rendere possibili suoni articolati o lo sviluppo dei nervi che controllano la respirazione e la vocalizzazione, si può sostenere che fossero potenzialmente presenti tutte a partire dall’homo Heidelbergensis. Quindi l’homo Heidelbergensis possedeva i requisiti necessari per il linguaggio parlato. Non stiamo dicendo che aveva il nostro stesso linguaggio articolato, ma era un ominide che aveva sviluppato un tratto vocale sufficientemente diverso da quello delle grandi scimmie e in grado di produrre una vasta gamma di suoni, quindi in maniera ipotetica si può supporre che a partire da Heidelbergensis il linguaggio vocale comincia a prendere il sopravvento sul linguaggio gestuale. Anche perché il linguaggio gestuale ha comunque parecchie limitazioni perché spesso si usa lo stesso gesto per mimare vocaboli diversi, mentre il linguaggio vocale permette più significati meno ambigui rispetto a quello gestuale, quindi la pressione selettiva ha spinto verso un linguaggio vocale più sviluppato. 27 laringe scende. Ciò permette al cervo di amplificare i suoni. Il punto rilevante è che Liebermann dice che la laringe nella gola è una funzione specifica per il linguaggio, mentre altri studiosi hanno dimostrato che in maniera temporanea la laringe in basso nella gola è presente anche in altri animali che non parlano, quindi non serve per forza al linguaggio questa confermazione, ma permette di amplificare i suoni e renderli più profondi e spaventare i predatori facendogli credere anche di avere un corpo più grosso. Anche nella nostra filogenesi magari l’abbassamento della laringe non serviva per il linguaggio ma per spaventare predatori, quindi la funzione adattativa originaria potrebbe non essere stata una funzione legata alla comunicazione ma al fatto di esagerare la propria forma corporea. quindi il linguaggio è un caso di exaptation rispetto alla posizione della laringe. LA COMUNICAZIONE UMANA La teoria della pertinenza e la prospettiva pragmatica Quando si parla di linguaggio nella scienza cognitiva classica si fa riferimento a Chomsky. Si intende cioè la prospettiva che nasce in opposizione al comportamentismo e come critica alle prospettive che spiegavano il comportamento e soprattutto il linguaggio in riferimento allo schema stimolo- risposta. La critica che Chomsky fa al comportamentismo è la teoria della povertà dello stimolo: lo stimolo non è sufficiente a spiegare la competenza che poi si sviluppa. Stimoli poveri significa stimoli privi di grammatica. Per Chomsky la grammatica era qualcosa di innato perché, a differenza di ciò che sostenevano i comportamentisti, bambini esposti a stimoli poveri rispondevano comunque con stimoli ricchi, quindi la grammatica doveva per forza essere una componente innata. Questo è il concetto alla base della teoria della grammatica universale chomskiana. Quando parliamo di modello del linguaggio nella scienza cognitiva classica facciamo riferimento a un modello fondato sulla grammatica, sulla sintassi, ovvero il modello chomskiano. Il modello di linguaggio che ci ha dato Chomsky, ovvero la grammatica universale, si basa sull’idea che ci sia una competenza innata e che questa competenza si riconduca alla sintassi e all’elaborazione della frase. Per Chomsky comprendere il linguaggio significa, comprendere la struttura in costituenti della frase, comprendere la sintassi della frase. Quindi il modello di linguaggio della scienza cognitiva classica è un modello fondato sulla sintassi e sulla frase. Quindi sono due gli assunti fondamentali per Chomsky:  Il linguaggio coincida con la sintassi  L’elaborazione linguistica consiste nell’elaborazione della frase Tutto ciò che è al di fuori della frase per Chomsky non è rilevante. A partire dagli anni ’80 si è poi sviluppata un’altra corrente di scienza cognitiva, cosiddetta incarnata, che contro la prospettiva chomskiana rivendica il ruolo che svolge l’ambiente nei nostri processi cognitivi. Questa prospettiva sostiene che i processi cognitivi non avvengono soltanto all’interno della scatola cranica, ma che è importante anche l’interazione del corpo con l’ambiente. La prospettiva dei neuroni specchio e le prospettive simulazioniste sono sempre prospettive che appartengono alla seconda generazione delle teorie della scienza cognitiva, quindi sono prospettive in opposizioni a Chomsky. 30 Modello del codice Il modello della comunicazione generalmente associabile alla prospettiva della scienza cognitiva e del linguaggio chomskiano è il modello del codice. Una premessa importante da fare è che il modo in cui Chomsky intende il linguaggio ha poi delle ricadute importanti sul piano della comunicazione, ma bisogna tenere a mente che per Chomsky il linguaggio non ha a che fare con la comunicazione, il linguaggio per lui non è comunicazione. Chomsky non ci dice come funziona la comunicazione, bensì sgancia la comunicazione dal linguaggio. Tuttavia, questo modo di intendere il linguaggio può essere associato a un particolare modo di intendere la comunicazione, ma questo è qualcosa fatto a posteriori e non fatto da Chomsky. Il modello del codice è sostanzialmente una versione del modello matematico di Shannon e Weaver, ed è l’idea che comunicare significhi trasmettere informazioni. Sono tre i punti fondamentali del modello del codice da isolare prima di passare a una prospettiva pragmatica e sui quali si gioca l’analogia con il modello chomskiano: 1. Il modello del codice e un modello in cui la comunicazione verbale è un processo esplicito: tutto ciò che il parlante A vuole comunicare è codificato nell’enunciato proferito. Il parlante mette esplicitamente in parole tutto ciò che vuole comunicare e, se c’è condivisione del codice tra parlante e ascoltatore, questo è un modello che prevede che la comunicazione abbia sempre successo. L’unico caso in cui la comunicazione può non andare a buon fine e quindi possono esserci delle incomprensioni è quando ci sono disturbi fisici sul canale. Se si condivide il codice, quindi se si parla in questo caso la stessa lingua storico-naturale, è un modello che non prevede incomprensione al di là di quando si incontrano ostacoli fisici. 2. La codifica-decodifica degli enunciati permette la condivisione dei pensieri tra parlante e ascoltatore. In questo modello c’è un’identità tra pensiero e linguaggio, ovvero quello che io penso lo metto in parole quindi quello che io penso coincide con quello che io dico. 3. Applicato alla comunicazione umana, quindi secondo il modello del codice, la rappresentazione semantica della frase corrisponde sempre al pensiero che con quella frase si vuole esprimere. Penso una cosa, ho in mente di comunicare il mio pensiero, e lo decodifico in messaggio. Questi sono tre punti importanti su cui le teorie pragmatiche andranno a criticare. Perché questo concetto potrebbe funzionare a livello ideale, ma quando lo andiamo a testare e a vedere come il linguaggio viene utilizzato nei contesti effettivi ci accorgiamo che non è esattamente questo il modo in cui noi utilizziamo il linguaggio. 31 Queste tre assunzioni generali del modulo standard della comunicazione passati nella scienza cognitiva si traducono in questi tre elementi:  Tutto ciò che serve per comprendere un enunciato è che la mente disponga di un sistema (un parser sintattico) in grado di elaborare la struttura in costituenti degli enunciati. Il linguaggio secondo la prospettiva classica è la sintassi, quindi se affermiamo che il codice che utilizziamo negli scambi comunicativi è un codice fondato sulla sintassi, posti gli assunti del modello del codice, tutto ciò che ci serve per comprenderci è un elaboratore sintattico. L’elaboratore sintattico, da un punto di vista dei dispositivi cognitivi, è l’unico meccanismo e la condizione necessaria e sufficiente per comprendere gli enunciati. A livello dei dispositivi mentali ricaviamo l’idea che l’analisi in costituenti degli enunciati, quindi i meccanismi mentali che analizzano la struttura sintattica degli enunciati, è tutto ciò che è necessario e sufficiente per spiegare come avviene la comprensione del linguaggio.  Poiché un dispositivo del genere si attiva soltanto in presenza dello stimolo appropriato (sequenze verbali che esibiscono una struttura in costituenti) i processi di comprensione linguistica seguono come conseguenza automatica e obbligata dell’attività di elaborazione del modulo linguistico. Questo modo di concepire il linguaggio nella scienza cognitiva classica è legato a una particolare idea della mente che è la mente modulare. La mente modulare è l’idea che la mente sia composta da moduli, ovvero un sistema specifico per dominio. Ogni modulo elabora specifiche informazioni in base al ruolo per il quale è stato progettato e non entra in relazione con altri moduli. Una delle caratteristiche fondamentali della modularità è che i moduli sono stupidi, ovvero sono automatici. Ad esempio, il modulo del linguaggio non siamo noi ad attivarlo ma si attiva e bassa, quindi sotto questo punto di vista il meccanismo modulare è automatico, rapido e obbligato perché non può non attivarsi quando capita lo stimolo appropriato. Da questo punto di vista, quando andiamo ad applicare alla comunicazione questa concezione modulare del linguaggio, noi ne deriviamo il fatto che, secondo questo modo di concepire il linguaggio e la comunicazione, la comprensione linguistica è automatica e obbligata, è qualcosa che avviene in automatico e senza sforzo. Tutto ciò che è necessario è che i sistemi periferici funzionino, che il sistema uditivo funzioni, dopodiché il modulo processa l’informazione linguistica senza sforzo, quindi la comprensione è qualcosa che segue in maniera automatica. Il modello del codice non ammette incomprensioni anche per questo, perché nella nostra mente è cablato un sistema modulare del linguaggio che appena capta stimoli linguistici nell’ambiente li processa in maniera veloce e automatica, e sostanzialmente la comprensione linguistica segue come prodotto necessario di questo processamento del modulo. Sotto questo punto di vista, quindi, poiché il modello del codice non ammette incomprensioni, quando lo applichiamo al modello classico della scienza cognitiva, questo punto di non ammettere incomprensioni lo si spiega in riferimento alla caratteristica modulare della mente.  Se l’analisi sintattica è condizione necessaria e sufficiente per comprendere le espressioni linguistiche per comprendere le espressioni linguistiche, qualsiasi informazione “esterna” all’enunciato è irrilevante ai fini della comprensione. Quindi tutto ciò che non è codificato nell’enunciato proferito è irrilevante per la comunicazione. Se vogliamo spiegare come avviene la comprensione del linguaggio dobbiamo solo far riferimento a come la nostra mente elabora la sintassi della frase, quindi come la nostra mente elabora il codice. Tutto ciò che sta al di fuori del messaggio proferito (es. informazioni contestuali) è irrilevante e 32 lavoro (cioè il libro) è un’approfondita meditazione dell’intuizione di Merril Garrett, ed è per ciò che lo dedico a lui” La comprensione del linguaggio è sostanzialmente simile a un riflesso: automatica e obbligata. Quando i trasduttori rilevano nell’ambiente stimoli che esibiscono una struttura proposizionale si comportano come i riflessi, cioè automaticamente avviano i processi di comprensione. I riflessi sono comportamenti automatici e obbligati che non richiedono di mettere in moto la coscienza, la stessa cosa accade nel caso del linguaggio. poiché l’elaborazione linguistica in questa prospettiva è basata sul funzionamento di un modulo, e poiché il modulo è automatico e obbligato, anche l’elaborazione del linguaggio sarà automatica e obbligata. Anche Pinker insiste sullo stesso punto: “i meccanismi di funzionamento del linguaggio sono tanto lontani dalla nostra coscienza quanto per la mosca la ragione per cui si depongono le uova. I nostri pensieri ci escono dalla bocca con così poco sforzo che spesso ci imbarazzano, quando eludono alle nostre censure mentali. Quando comprendiamo un enunciato, il flusso di parole è trasparente. Ci è così automatico penetrare il significato che possiamo dimenticare che si tratti di un film in lingua straniera sottotitolato” Quindi la comprensione del linguaggio avviene senza sforzo. Le caratteristiche dei moduli sono quindi:  incapsulati informativamente, cioè ogni modulo è isolato dal resto della cognizione  obbligati, quindi automatici  veloci da un punto di vista dell’elaborazione, senza coscienza  innati, quindi lo sviluppo del modulo ha una base genetica  generalmente ma non necessariamente sono anche abbinati a un’area del cervello, l’architettura neuronale fissa, ma questo può avvenire come no  sono specifici per dominio Fodor aggiunge anche un’altra importante considerazione: “Può darsi che un sistema idoneamente incapsulato, cioè un modulo, possa riconoscere attendibilmente l’ironia degli enunciati, ma è certo che non è possibile proporre plausibilmente come possa essere fatto. Sembra che il riconoscimento di tali proprietà degli enunciati sia tipicamente un esercizio di inferenza alla migliore spiegazione. Sono esattamente questi, è ovvio, i tipi di inferenza che non ci attendiamo vengano eseguiti da un sistema incapsulato” È un tema cruciale questo che propone Fodor. Ad esempio, l’ironia è un caso paradigmatico in cui io dico una cosa ma intendo la cosa opposta. Come fa il modulo, con le caratteristiche che ha, a fare un’inferenza alla migliore spiegazione? Cioè come fa il modulo a passare da ciò che si dice a ciò che il parlante intendeva dire usando quell’enunciato? Non lo fa. Fodor sta dicendo che il modulo non fa inferenze di questo tipo, quindi i moduli non spiegano i significati non letterari, per questo motivo il modello del linguaggio modulare è un modello del linguaggio fondato sul primato del significato letterale. 35 Questo porta Fodor, ma anche Chomsky, a dire che i significati non letterali, come l’ironia o la metafora, sono fenomeni marginali del linguaggio. Questo perché il modello modulare non li spiega, ma in realtà non è così. Se noi analizziamo il modo in cui noi utilizziamo il linguaggio nelle interazioni quotidiane ci accorgiamo che gran parte del modo in cui utilizziamo il linguaggio è in senso non letterale. Vale a dire non c’è quell’identità tra pensiero e linguaggio che invece il modello del codice ci consegna, allora o il modo in cui noi utilizziamo il linguaggio è sbagliato, o il modello del codice non è un buon modello della comunicazione. Siccome il modo in cui utilizziamo il linguaggio non è sbagliato perché tendenzialmente la comunicazione riesce, evidentemente il modello del codice non è un buon modello della comunicazione. Critiche al modello del codice Il fatto che questo modo di concepire la comunicazione abbia qualche problema, ce lo dicono, ad esempio, le patologie del linguaggio. Estratto di un libro sull’autismo: “Una bambina di dieci anni autistica, con intelligenza normale, fu presa dal panico quando un’infermiera che stava per farle un semplice esame del sangue le disse ‘dammi la mano non fa male’. La bambina si calmò subito dopo quando un’altra persona le disse ‘allunga il dito indice’. Al momento della prima richiesta aveva capito che dovesse tagliarsi la mano e darla all’infermiera” Questo è un caso in cui c’è un’interpretazione letterale dell’enunciato “dammi la mano”, però l’interpretazione letterale dell’enunciato non è una condizione per la comprensione di quell’enunciato. Una delle difficoltà più riconosciute nello spettro autistico è avere una qualche difficoltà nel riconoscere ed elaborare i significati non letterali. In questo caso specifico non si tratta né di metafora né di ironia, è apparentemente un enunciato innocuo nel quale però non è sufficiente una comprensione letterale dell’enunciato. Qui la bambina autistica ha elaborato correttamente la struttura sintattica di questa frase, ma questo non ha garantito la comprensione dell’enunciato perché ha preso alla lettera quello che le veniva detto. “Trasmettere fedelmente informazioni non è banale, cioè codificare e decodificare enunciati non è banale. Richiede una codificazione e una decodificazione accurate del linguaggio negli stadi di input e di output. Nondimeno, nella comunicazione quotidiana, ci si aspetta di rado che l’ascoltatore riceva e poi trasmetta un semplice messaggio come copia esatta. Noi non ci aspettiamo che il nostro interlocutore decodifichi semplicemente il significato letterale della frase. al contrario, ci si aspetta che ci ascolta sappia che i messaggi non sono semplici ma contengono di solito qualcosa in più” C’è un implicito quindi che non è codificato esplicitamente nell’enunciato proferito. Il modello del codice è un modello esplicito della comunicazione, tutto ciò che penso lo metto nella frase. Qui invece stiamo dicendo che questa decodifica nell’autismo riesce, il problema è che l’utilizzo che facciamo noi del linguaggio è più complesso, c’è un implicito che non è contenuto nella preposizione. Quello che è realmente importante nella comunicazione quotidiana è l’argomento del messaggio piuttosto che il messaggio stesso. Come ascoltatori dobbiamo sapere perché chi parla trasmette questo pensiero piuttosto che un altro, e come parlanti dobbiamo essere sicuri che siamo compresi nel modo in cui vogliamo essere compresi. 36 Le teorie pragmatiche oppongono al modello del significato letterale della prospettiva finora descritta, un modello del significato come intenzione. Comprendiamo, ad esempio, le frasi ironiche perché riconosciamo l’intenzione comunicativa del parlante, che però non è codificata nell’enunciato; quindi, non può essere elaborata dal modulo fodoriano. Quindi le teorie pragmatiche, da questo punto di vista, fondano l’elaborazione linguistica su elementi che non stanno nella frase. Quindi le patologie, soprattutto l’autismo, ci dimostrano che il modello del codice non è un buon modello della comunicazione, anche perché nelle persone autistiche i processi di codifica e decodifica funzionano bene ma non sono sufficienti a comprendere molti enunciati impliciti. Le teorie pragmatiche spiegano come si passa dal significato letterale, cioè dalla rappresentazione semantica di una frase, all’interpretazione dell’enunciato da parte dell’ascoltatore. Cioè come si passa, in altri termini, da ciò che il parlante dice a ciò che il parlante vuole veramente dire. Paul Grice Quest’idea che ci sia un gap tra ciò che uno dice e ciò che uno intende dire, e soprattutto l’idea che noi ci comprendiamo non quando decodifichiamo l’enunciato proferito ma quando riconosciamo le intenzioni del parlante, ha come autore di riferimento Paul Grice. E anche la teoria della pertinenza di Sperber e Wilson è una rielaborazione in chiave cognitiva del pensiero di Grice. La prospettiva di Grice può essere riassunta in questi punti:  L’idea del significato come intenzione, che è l’idea di partenza delle teorie pragmatiche. Quindi non più l’idea che comprendere il linguaggio sia comprendere la proposizione, ma che comprendere il linguaggio significhi fare un’ipotesi sull’intenzione del parlante. Nelle prospettive pragmatiche il fatto che noi ci comprendiamo non è scontato, mentre per il modello del codice la comprensione avviene sempre in assenza di disturbi, per questo in questa prospettiva si usa il termine ipotesi. Per le teorie pragmatiche la comprensione è tutt’altro che scontata perché non abbiamo più il significato letterale come garanzia dell’elaborazione linguistica, ma il significato letterale diventa uno dei tanti indizi che utilizziamo per fare un’ipotesi su ciò che il parlante voleva dirci. È quindi un modello, quello pragmatico, in cui la comprensione è costantemente esposta al fallimento, questo perché capire le intenzioni del parlante non è semplice.  Principio di cooperazione delle massime conversazionali, cioè Grice spiega il passaggio da ciò che si dice a ciò che si vuole dire utilizzando il principio di cooperazione, che è una regola generale che si applica a tutti i nostri comportamenti e anche a tutti i comportamenti linguistici e delle massime conversazionali. Le massime conversazionali sono dei principi a cui non siamo obbligati ad attenerci, ma che generalmente sono ciò che orienta e da ordine alle nostre conversazioni. Poi ci sono le cosiddette implicature conversazionali, ovvero il modo in cui noi utilizzando il linguaggio intendiamo dire molto di più di quello che diciamo. I modelli pragmatici hanno nell’implicito l’elemento fondamentale, cercano di spiegare come facciamo a comprendere ciò che non è effettivamente proferito nell’enunciato 37 Violazioni delle massime Molto spesso, in maniera intenzionale, violiamo le massime griciane perché violandole vogliamo innescare nell’interlocutore un’implicatura. La nostra violazione della massima diventa un indizio per il nostro interlocutore che quest’ultimo può utilizzare per ricostruire la nostra intenzione comunicativa. Es. violazione della massima di relazione sfruttando implicature: A: giulia è davvero insopportabile B: mi piacciono molto gli orecchini che indossi B si è appena accorto che Giulia è entrata nella stanza e vuole farlo capire ad A spingendolo a cambiare argomento, quindi è una violazione della massima relazionale volontaria e intenzionale. Quindi cambiamo argomento all’interno della conversazione perché vogliamo produrre nell’interlocutore un’implicatura, è quindi una violazione volontaria della massima di relazione di Grice. Metafora e ironia sono due casi di violazione della massima di qualità, ma sono violazioni intenzionali perché servono per attivare l’inferenza pragmatica. C’è uno schema di come avverrebbero i processi di comprensione delle metafore secondo questa prospettiva: Es. Giulietta è un sole 1. Decodifica  c’è una prima fase di decodifica. Sicuramente la decodifica è un aspetto importante del processo di comprensione ma la differenza tra il modello pragmatico e il modello del codice è che nel modello del codice la decodifica è il punto di arrivo del processo, mentre per questa prospettiva la decodifica è il punto di partenza. Punto di partenza su cui poi si vanno a innestare una serie di processi inferenziali che ci aiutano nel caso della metafora a comprendere il piano figurato. Quindi “giulietta è un sole” = dopo la decodifica “giulietta è una stella” Si applica poi il principio di cooperazione di Grice  essendo il nostro interlocutore un agente razionale, e poiché evidentemente Giulietta non può essere una stella, egli capisce che c’è qualcosa in più da elaborare. 2. Riconoscimento dello sfruttamento della massima di qualità  si riconosce quindi che quella frase da elaborare è la massima sulla falsità e sulla necessità di non dare informazioni false, e quindi si fa un’inferenza pragmatica e si arriva a riconoscere il significato metaforico mettendo in comune due domini molto lontani. Giulietta è una stella = Giulietta è bella 40 Teoria della pertinenza Il modello teorico del linguaggio che ci da Grice, ovvero del significato come intenzione, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, è stato rielaborato all’interno della scienza cognitiva ed è passato al vaglio delle prove sperimentali. A Grice non interessava proporre un modello che fosse conforme a come la mente processa il linguaggio, ma c’è riuscito perché comunque il suo modello è un modello plausibile. Però la riflessione pragmatica in scienza cognitiva la si deve soprattutto a Sperber e Wilson, che negli anni 80 del secolo scorso scrivono un libro importantissimo chiamato “pertinenza”. Sperber e Wilson in questo libro riprendono molti punti di Grice e però sfoltiscono il suo modello eliminando tutte le massime conversazionali spiegando la comunicazione con un unico principio che è il principio della pertinenza. Questo modello del linguaggio è un modello che si sposa con un particolare modello dell’architettura cognitiva umana, che non è evidentemente la prospettiva della grammatica universale di Chomsky. Se nel modello della scienza cognitiva classica di Chomsky abbiamo un modulo del linguaggio che è la grammatica universale e che elabora la sintassi, in questa prospettiva noi abbiamo sempre la visione a una prospettiva modulare della mente, ma mentre nella prospettiva classica esiste un modulo specifico per il linguaggio, nella teoria della pertinenza la comunicazione è sempre garantita da un modulo ma questo modulo non è più un modulo specifico per il linguaggio. è un modulo che elabora le intenzioni del parlante, ma le intenzioni del parlante sono stati mentali, e gli stati mentali non sono centrali solo nel linguaggio ma sono centrali nel dar senso ai comportamenti altrui. Noi continuamente interpretiamo il comportamento altrui attribuendo stati mentali. Quindi questo modulo che elabora le intenzioni del parlante non è specifico per il linguaggio. la differenza fondamentale rispetto alle architetture cognitive tra la prospettiva chomskiana e la prospettiva della teoria della pertinenza è esattamente questa: per la prospettiva chomskiana il modulo è specifico per il linguaggio, nella prospettiva di Sperber e Wilson, il modulo alla base della comunicazione è un modulo che più in generale elabora stati mentali, e siccome le intenzioni del parlante sono stati mentali, allora è applicabile anche al linguaggio. Questo modulo della teoria della pertinenza è il Mind Reading, la Teoria della Mente. La teoria della pertinenza è un modello plausibile da un punto di vista cognitivo, ovvero un modello convincente dal punto di vista dei sistemi cognitivi, e che funziona se viene testato in modo sperimentale. Non tutti i modelli del linguaggio sono plausibili da un punto di vista cognitivo, come ad esempio il modello del codice, che una volta verificato empiricamente non funziona. Per verificare la teoria della pertinenza, e in generale la prospettiva pragmatica, un modo è andare a studiare le patologie del linguaggio, ad esempio l’autismo. L’autismo può essere considerato una validazione empirica della teoria della pertinenza perché nell’autismo emerge che quando non si riconosce, come quasi sempre accade in chi è colpito da questa patologia, l’intenzione del parlante non si comunica, quindi verifichiamo che il riconoscimento dell’intenzione del parlante è un elemento fondamentale della comunicazione. Il fatto che il riconoscimento dell’intenzione del parlante sia un elemento fondamentale della comunicazione è ciò che ci dicono le teorie pragmatiche; quindi, le teorie pragmatiche e la teoria della pertinenza sono verificate empiricamente e sono perciò valide cognitivamente. 41 “Secondo il modello del codice il comunicatore codifica il messaggio che intende comunicare in un segnale che viene decodificato dall’ascoltatore utilizzando lo stesso codice. Secondo il modello inferenziale (modello pragmatico), il comunicatore fornisce un indizio della sua intenzione di comunicare un certo significato che viene inferito dall’ascoltatore sulla base dell’indizio fornito. Un enunciato certamente è un indizio codificato linguisticamente, e dunque la comprensione verbale coinvolge indubbiamente un elemento di decodifica. Tuttavia, il significato letterale ottenuto attraverso la decodifica è solo uno degli input di un processo di inferenza non dimostrativa che porta all’interpretazione del significato del parlante” Sperber e Wilson Cioè il significato letterale, il risultato della decodifica, diventa un input, vale a dire un’informazione tra le altre, perché per comprendere un enunciato bisogna selezionare anche una serie di informazioni pertinenti nel contesto in cui quell’enunciato avviene. Quindi, nel processo inferenziale, cioè nel mio processo di ragionamento che mi porta a provare a dare un’interpretazione sull’intenzione del parlante, io inserisco, non solo il significato letterale, ma anche tutta una serie di informazioni contestali che invece nella scienza cognitiva classica non avevano spazio. La prospettiva grammatica, invece, a differenza della scienza cognitiva classica, ci sta dicendo che l’elaborazione della sintassi non basta per comprendere il linguaggio, sono necessari tutta una serie di altri input che dobbiamo utilizzare nei nostri processi di ragionamento per poter arrivare a fare un’ipotesi sull’intenzione del parlante. Comunicazione ostensivo-inferenziale  in fondo, questa descrizione della comunicazione in termini di intenzioni e di inferenze corrisponde bene al senso comune. Non è vero quindi che il modello del codice è un modello intuitivo che risponde al senso comune, ma è il modello pragmatico che risponde bene al senso comune perché siamo tutti locutori e ascoltatori. Come locutori, la nostra intenzione è che i nostri ascoltatori riconoscano la nostra intenzione di informarli di un certo stato di cose. Come ascoltatori, cerchiamo di riconoscere ciò di cui il locutore ha intenzione di informarci (principio di cooperazione di Grice). Gli ascoltatori si interessano al senso della frase enunciata, quindi al significato letterale, solo per inferire ciò che il locutore vuole dire. Il significato letterale è solo un indizio tra tante informazioni anche extralinguistiche che chi ascolta utilizza per ricostruire le intenzioni del parlante. La comunicazione riesce non quando gli ascoltatori riconoscono il senso linguistico dell’enunciato, ma quando essi inferiscono il “voler dire” del locutore. Quindi anche nelle circostanze più favorevoli la comunicazione in questo modello può fallire, a differenza di ciò che dice il modello del codice. Infatti, il destinatario può decodificare o non decodificare l’intenzione informativa del comunicatore. Il meglio che il destinatario possa fare, è formare un’ipotesi a partire dagli indizi forniti dal comportamento ostensivo del comunicatore. Tale ipotesi non è mai certa: può essere confermata, ma non dimostrata. Nella comunicazione sono coinvolti due livelli di intenzioni: 1. Intenzione informativa: l’intenzione di produrre in D (destinatario) la credenza che P usando E  quindi indurre qualcuno a pensare qualcosa, produrre una credenza. L’intenzione informativa non va confusa con il significato letterale! Siamo sempre al livello delle intenzioni, nell’implicito, siamo al livello della pragmatica. 42 Quindi il modello pragmatico è un modello più ampio del linguaggio in cui la competenza fondamentale non è la competenza grammaticale bensì la competenza pragmatica che permette di integrare il significato letterale con il contesto e comprendere gli enunciati nel contesto in cui sono proferiti. Per questo i meccanismi cognitivi alla base di questi due modi di intendere il linguaggio sono differenti. Nella prospettiva pragmatica si parla di meccanismi di Teoria della mente. Teoria della mente = non è un dispositivo specifico del linguaggio ma ci aiuta ad interpretare più in generale il comportamento altrui. Noi siamo portati automaticamente a vedere stati mentali anche laddove stati mentali non ci stanno, siamo portati ad avere un atteggiamento intenzionale anche verso oggetti inanimati, e questa iperattività è dovuta a ragioni evoluzionistiche. Questo meccanismo di teoria della mente è interpretabile come modulo. Sperber è fautore di una prospettiva sulla modularità che si chiama modularità massiva che estende la prospettiva fodoriana. Per Fodor pochissima parte della mente è modulare: è modulare la visione, il sistema di riconoscimento delle facce, il controllo motorio, il linguaggio e poco altro. Non hanno carattere modulare per Fodor il ragionamento, la fissazione delle credenze, il problem solving. Sono tutte competenze cognitive che nella prospettiva di Fodor non hanno quella specificità del dominio e quelle caratteristiche che distinguono un modulo. Sperber invece insieme a molti altri autori è fautore della modularità massiva, cioè sostiene che gran parte della mente è modulare, quindi non solo i sistemi percettivi come quello della visione ma anche i sistemi centrali di fissazione delle credenze. Uno di questi sistemi centrali e concettuali che per Fodor non erano modulari e per Sperber hanno carattere modulare, è la teoria della mente. La teoria della mente è un meccanismo di elaborazione delle credenze, che per Sperber ha le caratteristiche di un modulo: - Specifico per dominio - È obbligato e automatico perché attribuisce stati mentali anche laddove non ci sono - Segue delle tappe dell’ontogenesi fisse che sono universali e questo riflette il fatto che c’è una base innata e biologica molto forte perché è cablato nei nostri geni. Per esempio, una tappa importante è quella dei nove mesi. A nove mesi i bambini iniziano a sviluppare la capacità di stabilire un’interazione congiunta con l’adulto, il bambino riesce a impegnarsi insieme alla figura di riferimento in un’attività in cui entrambi i partecipanti all’azione condividono l’attenzione sullo stesso oggetto. questo ha a che fare con la teoria della mente perché il bambino, analizzando la direzione dello sguardo dell’adulto, fa un ragionamento implicito del tipo “se papà/mamma sta guardando quell’oggetto evidentemente quell’oggetto è interessante”. Prima dei nove mesi il bambino non è in grado di capire che la direzione dello sguardo è un indizio di ciò che l’adulto sta pensando, questo viene reso possibile grazie allo sviluppo della teoria della mente. Un altro elemento fondamentale arriva verso i 18 mesi di età, in cui i bambini si impegnano nel gioco di finzione, fanno finta per esempio che un oggetto sia qualcos’altro. Questo processo è un 45 processo che richiede delle metarappresentazioni, quindi delle rappresentazioni su rappresentazioni. Ci sono quindi una serie di competenze importanti che si sviluppano nei primi anni di vita. Il test della falsa credenza Altra tappa fondamentale dell’ontogenesi della teoria della mente, e anche il test più famoso utilizzato per testare la teoria della mente, è il test della falsa credenza. È un test che ha poi avuto un’importanza fondamentale. L’espressione ‘teoria della mente’, e lo studio della teoria della menta, nasce nella primatologia, e successivamente a partire dal 1978 questo tema è passato in diversi ambiti disciplinari, come anche la psicologia dello sviluppo. “Teoria della mente” è un’espressione che viene coniata da due primatologi in un articolo dove si chiedono “ma lo scimpanzè ha una teoria della mente?” Nel 1983, Wimmer e Perner, inventano un test finalizzato a valutare le competenze della teoria della mente. Questo test viene somministrato a bambini in età prescolare, ovvero tra i 3 e i 6 anni. Lo sperimentatore racconta ai bambini una storiella giocando con delle bambole, con il nome di Sally ed Annie. La storia è la seguente: Sally ha un cestino e Annie ha una scatola. Sally ha una biglia e mette la biglia nel cestino, dopodiché Sally esce a fare una passeggiata. Mentre Sally è fuori, Annie sposta la biglia, la sposta dal cestino alla scatola. Sally ritorna e la domanda che viene posta al bambino è “dove cercherà la biglia Sally una volta tornata?” Prima dei quattro anni i bambini risponderanno in modo errato dicendo che Sally cercherà la biglia non dove crede di averla lasciata ma dove sta realmente. Il bambino non riesce a fare lo spostamento mentale per cui una persona può avere una credenza che è falsa, che non corrisponde a come la realtà è. Il bambino non concepisce che le altre persone non hanno la sua stessa conoscenza, ma tenderà ad estendere la conoscenza che ha anche alle altre persone. Siccome il bambino assiste allo spostamento della biglia, automaticamente assume che questa conoscenza sia in possesso anche delle altre persone. Quindi tendenzialmente prima dei 4 anni i bambini non passano il test della falsa credenza, non riescono a metarappresentare gli stati mentali altrui. Questo test è stato fatto poi nel 1985 sui bambini con l’autismo. I risultati mostrano che i bambini con autismo non hanno performance sul test della falsa credenza. Ci sono casi di bambini che non lo superano mai perché hanno competenze di teoria della mente molto basse, e ci sono invece bambini che lo superano ma a un’età superiore rispetto ai canonici 4 anni dei bambini non affetti da autismo. In questo studio del 1985 solo 4 bambini su 24 riuscirono a superare il test della falsa credenza e a rispondere correttamente alla domanda. Un’altra versione del test della falsa credenza è il famoso test degli Smarties, che gioca sullo stesso meccanismo. Una bambina con in mano una confezione di Smarties chiede a un bambino “cosa c’è qui dentro?” e il bambino risponde “gli Smarties” dopodiché la bambina gli mostra che in realtà lì dentro ci sono le matite. Dopo si chiede al bambino “la tua amica Anna non ha ancora visto cosa contiene questa confezione. Quando Anna ci raggiunge e le faccio la stessa domanda secondo te cosa mi risponde: che ci sono le matite o che ci sono gli Smarties?”. Ovviamente il meccanismo è analogo, e anche in questo caso il bambino per rispondere correttamente deve proiettarsi nella mente dell’altro e comprendere che gli altri possono avere o non avere le mie stesse conoscenze. 46 Come questo discorso sulla teoria della mente e la parte sulla psicologia dello sviluppo poi convergono nello studio della prospettiva ostensiva? Ovvero lo studio di quei casi di comportamento in cui la comunicazione ha successo quando si comprende l’intenzione comunicativa del parlante. Secondo uno studio di Tomasello, i bambini intorno ai 18 mesi comprendono i comportamenti ostensivi, quindi le intenzioni del parlante. La situazione sperimentale è molto semplice, ed è una situazione sperimentale in cui i bambini di 18 mesi sono coinvolti in attività di gioco. Stanno giocando con degli oggetti e in particolare una di queste attività prevede che, a un certo punto, per continuare il gioco, i bambini hanno bisogno di una chiave e devono recuperare in una scatola degli oggetti dei giochi, però questa scatola è chiusa a chiave quindi il bambino ha bisogno di una chiave. Il protocollo sperimentale prevede tre condizioni in cui il bambino può ottenere la chiave e queste tre condizioni differiscono per l’intenzione comunicativa. La domanda è capire come poi il bambino si comporta in queste tre condizioni, che sono: 1. Condizioni accidentale = il bambino sta giocando, per continuare a giocare ha bisogno di una chiave per aprire il contenitore, quindi nella condizione sperimentale lo sperimentatore chiama il bambino dopodiché si gira da un’altra parte e fa cadere la chiave. Il bambino vede la chiave, ma qui non c’è un’intenzione, è del tutto casuale il fatto che la chiave sia presente. La cosa importante è che qui non c’è contatto visivo 2. Condizione intenzionale = lo sperimentatore, dopo aver chiamato il bambino, lascia cadere le chiavi dopodiché, per caratterizzare la caduta delle chiavi come un fatto accidentale, esclama “ops!”. Quindi, raccoglie le chiavi e le porta al bambino senza però non guardarlo. Il bambino vede le chiavi ma non c’è contatto visivo tra sperimentatore e bambino 3. Condizione ostensiva = lo sperimentatore chiama il bambino, lo guarda, gli fa vedere le chiavi, successivamente guarda le chiavi, guarda il bambino e riguarda le chiavi, quindi c’è il classico comportamento ostensivo di dirigere l’attenzione del bambino su un oggetto. Quindi la domanda è in quale delle tre condizioni il bambino recupera le chiavi? I bambini di 18 mesi comprendono l’intenzione comunicativa del parlante? La risposta è si, perché lo studio dimostra che l’unico caso in cui il bambino recupera le chiavi è il terzo caso, ovvero nella condizione ostensiva, perché in quel caso il bambino comprende che quella è una richiesta indiretta e che quindi c’era l’intenzione da parte dello sperimentatore di dare al bambino le chiavi per continuare a giocare. A partire da questo studio si è suggerito che lo sviluppo della teoria della mente può essere scomposto in due grandi fasi: - Teoria della mente implicita = Una prima fase in cui la teoria della mente è una competenza implicita, in cui cioè i bambini hanno una conoscenza molto generale e non specifica degli stati mentali altrui, non riescono a maneggiare pienamente gli stati epistemici, gli stati di conoscenza. È un tipo di teoria della mente che non richiede linguaggio perché in questa fase si attribuiscono stati mentali altrui in maniera molto generica. La teoria della mente implicita è una teoria non proposizionale, in cui l’attribuzione di stati mentali avviene senza rappresentare contenuti proposizionali 47 Intanto è un esperimento importante perché è un esperimento fatto in natura, quindi fatto osservando il comportamento degli scimpanzè nel loro habitat naturale e non in cattività. Gli sperimentatori mettono un serpente finto sul tragitto che sanno che gli scimpanzè andranno a percorrere, perché sanno che gli scimpanzè hanno molta paura. C’è un capofila che sta davanti a tutto il gruppo, seguito dal maschio alpha e da tutti gli altri individui. Il capofila quando vede il serpente, quindi quando vede il pericolo, si gira indietro per vedere chi sta indietro ed emette una vocalizzazione, un richiamo di allarme. L’altro esemplare, che gli stava dietro, appena sente il richiamo di allarme, si ferma. La cosa importante da sottolineare è che lo scimpanzè emette la vocalizzazione solo dopo essersi girato e aver visto che c’era lo scimpanzè dietro che stava arrivando. È un comportamento sofisticato perché l’esemplare che emette il richiamo di allarme si proietta nella mente altrui e prova a simulare le conoscenze dell’altro e fa un ragionamento di questo tipo: io so qualcosa che tu non sai, ed è un’informazione importante quella che io so perché c’è un pericolo di cui tu non sei a conoscenza. Sta quindi comunicando per informare, perché riesce a comprendere la differenza tra le conoscenze che lui ha e le non conoscenze che ha l’altro esemplare, che stando dietro non ha potuto vedere il serpente quindi è importante informarlo perché il serpente è un pericolo per lo scimpanzè. Per Tomasello la cosa che distingueva la comunicazione umana dalla comunicazione non umana è che solo gli umani riescono a informare, noi umani diamo agli altri informazione perché siamo in grado di rappresentare gli stati epistemici. Quindi tutta la prospettiva di Tomasello tra questa differenza si basa sul fatto che solo gli umani comunicano informando. In questo studio invece si mostra che ciò non è vero, perché anche gli scimpanzè possono fornire informazioni utili agli altri individui. Inoltre, lo scimpanzè informa selettivamente, non informa tutti. In questo caso, infatti, non emette questo richiamo di allarme verso tutti gli animali o verso tutti gli scimpanzè, ma produce richiami di allarme soltanto quando nelle vicinanze ci sono esemplari con cui passa tanto tempo, quindi esemplari che gli conviene aiutare perché in futuro l’aiuto potrebbe servire a lui. La produzione del richiamo di allarme è mediata in modo significativo dal legame di amicizia che lega lo scimpanzè all’individuo che lo segue. Quindi c’è l’intenzionalità in tutto questo, non è un richiamo di allarme come quello dei cercopitechi dovuto solo a uno stato emotivo.  Quindi anche nei primati non umani rintracciamo elementi di comunicazione intenzionale. I primati non umani hanno una qualche forma di mentalizzazione e, così come noi esseri umani utilizziamo la comunicazione a fini comunicativi, anche gli scimpanzè utilizzano il sistema di lettura della mente a fini comunicativi. Tutto questo discorso ci porta a una citazione fondamentale di Sperber, legata all’idea che il meccanismo della teoria della mente (TOM) precede logicamente e temporalmente il linguaggio. Quindi è un meccanismo fondamentale e, aver dimostrato che è presente anche in primati non umani, ci permette di sostenere che da un punto di vista filogenetico la teoria della mente viene prima del linguaggio. “La nuova storia allora è che la comunicazione umana sia un effetto collaterale delle capacità metarappresentazionali umane (cioè delle capacità della teoria della mente). La capacità di eseguire sofisticate inferenze circa gli stati mentali degli uni o degli altri, si è evoluta nei nostri antenati come un mezzo per comprendere e predire il comportamento degli uni e con gli altri. 50 Questo, a sua volta, ha fatto emergere la possibilità di agire in modo palese al fine di rivelare i propri pensieri ad altri. La conseguenza di tale fatto è la creazione delle condizioni per l’evoluzione del linguaggio, che ha reso la comunicazione inferenziale più efficace” Quindi la teoria della mente si è evoluta per comprendere i comportamenti, cioè non è un sistema specifico per il linguaggio. A un certo punto, inoltre, i nostri antenati iniziarono a sfruttare questa capacità per comunicare i pensieri ad altri, e questo è alla base dell’origine del linguaggio Quindi l’evoluzione del linguaggio, secondo la prospettiva di Sperber e Wilson, si va a innestare su una comunicazione inferenziale già presente. Cioè il linguaggio nasce sulle fondamenta di una comunicazione inferenziale resa possibile dal sistema di Mind Reading che precede il linguaggio. Per questo Sperber dice che il lettore della mente precede logicamente e temporalmente il lettore della mente. Logicamente perché ne è una condizione di possibilità, perché se non ci fosse il sistema di lettura della mente non ci sarebbe nessuna comunicazione ostensiva, ma anche temporalmente perché questo sistema emerge prima dell’avvento del linguaggio, cosa che possiamo dire perché emerge anche in animali che non hanno il linguaggio. Per una comunicazione propriamente umana Finora abbiamo fortemente criticato l’approccio neocartesiano agli studi del linguaggio. C’è però un aspetto della prospettiva cartesiana che merita grande attenzione: il ruolo dell’uso creativo del linguaggio nel delineare la differenza tra la rigidità meccanica della comunicazione animale e la flessibilità creativa del linguaggio umano. Alla base dell’uso creativo del linguaggio è la questione del “parlare in modo appropriato”: ciò a cui Chomsky fa riferimento nei termini della “coerenza e consonanza alla situazione” delle espressioni linguistiche  il cosiddetto problema di Cartesio Riprendendo gli argomenti di Cartesio, Chomsky sostiene che per capire cosa distingua gli umani dagli animali occorra fare riferimento all’uso creativo del linguaggio umano. La sua idea è che l’unico modo per attribuire una mente a qualcuno sia quello di valutare se egli usa il linguaggio in maniera “normale”  usare il linguaggio in maniera normale significa fare uso delle proprietà che rendono il linguaggio uno strumento di espressione dei pensieri libero e creativo. Un uso di questo tipo è strettamente connesso all’idea che le espressioni tipiche della comunicazione umana siano soltanto sollecitate dalla situazione stimolo. Come può il linguaggio essere allo stesso tempo indipendente da stimoli e appropriato alla situazione? In accordo con Chomsky, la nostra idea è che la capacità di parlare in modo appropriato al contesto sia il tratto distintivo del linguaggio umano; in disaccordo con Chomsky, tuttavia, la nostra idea è che il problema di Cartesio non sia affatto irresolubile in linea di principio. Per risolvere il problema di Cartesio è necessario abbandonare il modello chomskiano del linguaggio: se la grammatica universale non ha le risorse concettuali per spiegare il parlare in modo appropriato, non è di certo ai dispositivi che elaborano la sintassi che dobbiamo guardare. 51 Per affrontare il problema cartesiano sono necessarie due mosse: 1. Poiché la capacità di essere ancorati al mondo dipende da sistemi cognitivi che radicano gli umani all’ambiente fisico e sociale, la prima mossa da fare riguarda l’analisi dei dispositivi che regolano il radicamento del linguaggio alla realtà. 2. Poiché il parlare in modo coerente e consonante alla situazione è una proprietà che caratterizza in modo specifico la pragmatica del discorso più che la sintassi degli enunciati, la seconda mossa da far è spostare l’attenzione dalla microanalisi della frase alla macroanalisi del discorso. Ancorare il linguaggio alla realtà La capacità degli umani di parlare in modo appropriato al contesto è un caso particolare della loro capacità di comportarsi in modo appropriato alla situazione. La capacità di mettere in atto comportamenti appropriati al contesto dipende in modo significativo dai dispositivi che regolano il radicamento degli organismi all’ambiente, e il linguaggio sfrutta questi dispositivi per produrre espressioni coerenti e consonanti alla situazione. Gli umani, piuttosto che semplicemente radicati all’ambiente, sono organismi radicati flessibilmente all’ambiente. Gli umani sono animali estremamente flessibili. Un sistema è tanto più flessibile quante più risposte alternative al problema è in grado di generare Un’idea di questo tipo pone l’accento su molteplici e differenti modi di rispondere a una stessa situazione problematica. La possibilità di generare diverse alternative possibili alla soluzione di un problema è sicuramente un aspetto importante della flessibilità, ma non è l’aspetto dirimente, la differenza cruciale è data dalla capacità di “scegliere” la risposta appropriata tra le diverse opzioni possibili: senza una capacità di questo tipo, avere diverse alternative a disposizione può rivelarsi una difficoltà, piuttosto che un bene. Se la flessibilità di un sistema si misura in riferimento alla capacità di fornire la risposta appropriata alla situazione, ciò che emerge da questo discorso è che un sistema è flessibile solo se è in grado di esibire una forma di “flessibilità contestualmente vincolata”. L’idea di una flessibilità contestualmente vincolata chiama in causa due capacità esibite nei comportamenti intelligenti:  La capacità di ancoraggio al contesto  La capacità di proiezione dal contesto attuale a un contesto diverso Radicamento e proiezione rappresentano le funzioni alla base dei comportamenti flessibilmente appropriati, e dunque anche del parlare in modo appropriato. Tutte le abilità tipiche della nostra specie dipendono dal fatto che gli esseri umani sono in primo luogo sistemi fisici ancorati all’ambiente in cui vivono. Il radicamento dipende dal fatto che gli organismi occupano una certa porzione dello spazio per il semplice fatto di avere un corpo che occupa uno spazio. Ma gli organismi non occupano semplicemente lo spazio in cui vivono: agiscono nell’ambiente e trasformano l’ambiente a cui sono inesorabilmente radicati. Per 52 membro di far fronte a più bisogni contemporaneamente. Affinché ci sia coordinazione tra gli individui però, ogni soggetto deve essere in grado di immaginare che gli altri siano impegnati in attività differenti dalla sua, ma soprattutto, che tutti stiano collaborando per un obbiettivo comune che non è presente nel contesto immediato, ma è dislocato nel tempo e nello spazio. Secondo tale prospettiva, i vantaggi derivanti dalla possibilità di condividere simbolicamente nella cooperazione obbiettivi sganciati dal presente hanno costituito una potente pressione selettiva per l’evoluzione del linguaggio. Questa prospettiva non è in opposizione con quella di Tomasello, secondo la quale era centrale il ruolo del lettore della mente nella gestione delle relazioni sociali cooperative e nell’evoluzione della comunicazione. Gardenfors e Osvath, infatti, non negano ciò ma dicono semplicemente che il lettore della mente debba essere integrato con un sistema deputato all’anticipazione del futuro. Dalla microanalisi alla macroanalisi del linguaggio Microanalisi = analisi delle relazioni dei costituenti interni all’enunciato Macroanalisi = analisi delle relazioni esterne tra gli enunciati del discorso Coerenza = è il modo in cui gli argomenti interni a un discorso sono organizzati in maniera strutturata rispetto a un obbiettivo, un piano o un tema generale Secondo la scienza cognitiva, lo studio delle capacità verbali umane è incentrato sull’analisi della struttura in costituenti dell’enunciato. Una concezione del genere, in cui la frase è l’essenza del linguaggio, porta a considerare l’elaborazione del linguaggio nei termini esclusivi della microanalisi: dell’idea, vale a dire, che quello che conta per spiegare i processi di elaborazione linguistica sia l’analisi di ciò che avviene all’interno della frase. La prima conseguenza di una concezione di questo tipo è che il piano del discorso venga interpretato come una successione di frasi. In secondo luogo, i tentativi di dar conto della coerenza del discorso affidandosi alla microanalisi della frase patiscono una serie di difficoltà di ordine concettuale. La coesione tra le frasi non è di per sé un criterio sufficiente a garantire la coerenza del discorso. Ci sono patologie del linguaggio in cui, infatti, i soggetti sono incapaci di elaborare il flusso del parlato (il discorso) pur avendo intatte le capacità di analisi della struttura degli enunciati. La nostra idea è che la capacità di costruire discorsi sia simile ai processi di navigazione nello spazio e nel tempo. Più nello specifico, che il parlare in modo appropriato alla base del discorso sia il risultato di una mente capace di orientarsi correttamente nel discorso e che l’appropriatezza di ciò che si dice sia valutabile dai parlanti utilizzando capacità specifiche di navigazione nello spazio e nel tempo. Come nel caso della navigazione nello spazio, anche il flusso comunicativo sembra fortemente legato alla difficoltà di mantenere la rotta per raggiungere una meta determinata: il raggiungimento della meta comunicativa dipende dai continui riallineamenti messi in atto dai parlanti per ricostruire la rotta da seguire a fronte delle continue digressioni, imposte dai diversi punti di vista, tipiche della comunicazione verbale. 55 Discorso e conversazione “il dialogo è la forma più naturale e di base dell’uso del linguaggio. Tutti coloro che usano il linguaggio, compresi bambini e adulti illetterati, possono sostenere una conversazione, mentre leggere, scrivere, preparare un discorso e anche ascoltare un discorso non sono capacità universali” Pickering e Garrod È proprio solo in riferimento all’aspetto conversazionale della comunicazione che si coglie il proprio del linguaggio. diversamente dal caso degli animali, la comunicazione umana non è mai un semplice scambio di informazioni: nella conversazione, gli interlocutori mirano a costruire uno “spazio comune di convergenza”. L’essenza della comunicazione umana è il carattere direzionale, progressivo e cumulativo della conversazione: il caso prototipo del comunicare umano è quello in cui, partendo da prospettive diverse, gli interlocutori arrivano a un comune punto d’intesa che è il prodotto delle continue revisioni delle convinzioni di partenza messe in atto, durante la conversazione, da entrambi gli interlocutori. Dire che il carattere direzionale, progressivo e cumulativo della conversazione caratterizza in modo specifico il linguaggio umano, significa asserire che un carattere del genere è del tutto estraneo alla comunicazione animale. Ed è così, in effetti. Per quanto scarsi, ci sono comunque alcuni studi empirici a tale proposito, soprattutto studi sulle “ripetizioni”, uno degli strumenti espressivi attraverso cui gli interlocutori garantiscono la coesione tra frasi negli scambi conversazionali. Pendersen e Field hanno preso in esame la registrazione di una conversazione tra una scimmia e i ricercatori cui era affidata, al fine di verificare se la scimmia fosse in grado di dialogare con gli interlocutori umani costruendo un discorso coeso e rispettando i turni conversazionali. In positivo, gli esperimenti hanno dato prova del fatto che l’idea secondo cui le ripetizioni utilizzate dalle scimmie sarebbero soltanto una imitazione meccanica dei gesti dell’interlocutore umano rappresenta un’interpretazione troppo semplicistica delle capacità comunicative delle scimmie. In negativo, gli esperimenti hanno evidenziato che le capacità conversazionali delle scimmie restano, nel migliore dei casi, bloccate alla “coesione” di alcune frasi all’interno di un frammento di conversazione. La coerenza globale del discorso, ovvero la proprietà posta a fondamento della comunicazione umana, è del tutto assente nella comunicazione della scimmia con i suoi interlocutori. La conversazione tra la scimmia e i suoi interlocutori è di fatto costituita da un insieme di blocchi tra loro autonomi e indipendenti: ciò che risulta mancante è la costruzione di un flusso del parlato in cui la connessione tra i vari frammenti della conversazione è tenuta insieme da un filo unitario comune. Quindi è del tutto priva del carattere direzionale, progressivo e cumulativo che caratterizza la comunicazione umana. Il carattere direzionale, progressivo e cumulativo della conversazione umana si basa sulla capacità degli interlocutori di rivedere continuamente il proprio punto di vista sulla base di ciò che dicono gli altri, una capacità del tutto preclusa alle scimmie: piuttosto che andare avanti verso un punto di convergenza comune, la comunicazione della scimmia ha un carattere fortemente regressivo. 56
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