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Filosofia della Letteratura: Natura, Ontologia e Intenzioni dell'Autore, Schemi e mappe concettuali di Filosofia

Una panoramica della filosofia della letteratura, esplorando la natura delle opere letterarie, l'ontologia dell'opera, il ruolo dell'autore e le intenzioni dell'autore nell'interpretazione dell'opera. Vengono discusse le posizioni moniste e pluraliste, l'atteggiamento dei lettori e il valore cognitivo delle opere di finzione letteraria.

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 01/03/2024

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massi8290 🇮🇹

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Scarica Filosofia della Letteratura: Natura, Ontologia e Intenzioni dell'Autore e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Filosofia solo su Docsity! Mente e Linguaggio: Filosofia della Letteratura Anno accademico 2023/24 Docente: Wolfgang Huemer Indice LEZIONE 1 CHE COS’È LA FILOSOFIA DELLA LETTERATURA? ............................. 2 1.1 Introduzione ...................................................................................................................... 3 1.2 Filosofia e letteratura ......................................................................................................... 4 Filosofia e letteratura – un rapporto lungo e stretto… ............................................................. 4 ... ma i rapporti stretti non sono mai privi di frizioni ................................................................. 6 1.3 Perché la letteratura? ......................................................................................................... 8 1.4 Lo sviluppo recente della filosofia della letteratura .......................................................... 10 1.5 Domande che tratteremo ................................................................................................. 13 1.6 Bibliografia ....................................................................................................................... 16 LEZIONE 2 LA FILOSOFIA DI — COSA? ............................................................. 18 2.1 Introduzione .................................................................................................................... 19 2.2 Che cos’è la letteratura? ................................................................................................... 20 2.3 Letteratura/Finzione/Narrazione ..................................................................................... 22 2.4 Come definire “letteratura” ............................................................................................. 27 Posizioni anti-essenzialiste ...................................................................................................... 28 Quattro coordinate della letteratura ...................................................................................... 32 2.5 Bibliografia dei testi citati ................................................................................................ 34 PARTE I L’OPERA E I SUOI PERSONAGGI .......................................................... 37 LEZIONE 3: IL LINGUAGGIO LETTERARIO ........................................................ 38 3.1 Introduzione .................................................................................................................... 39 3.2 Un linguaggio elevato? ..................................................................................................... 40 3.3 Densità semantica ............................................................................................................ 41 3.4 La funzione poetica .......................................................................................................... 44 Le funzioni del linguaggio ........................................................................................................ 44 Deviazione, licenza poetica e stile ........................................................................................... 48 Lezione 1 Che cos’è la filosofia della letteratura? 1.1 Introduzione Stai per cominciare a leggere le dispense per la prima lezione dell’inse- gnamento Mente e Linguaggio: Filosofia della letteratura. Di cosa si tratta? Cosa ci si può aspettare? Le dispense presentano – in forma di appunti – il materiale delle 15 lezioni del corso e saranno uno strumento importante per preparare l’esame. Le metterò a disposizione già prima delle lezioni, così puoi cu- riosare e farti un’idea. Forse t’imbatterai in punti oscuri, poco chiari e difficili da comprendere. Ti accorgerai che alcuni si chiariranno durante le lezioni; per tutti gli altri potrai sempre chiedere ulteriori spiegazioni, sia durante il periodo delle lezioni che in un secondo momento – basta una mail. Le lezioni del corso quest’anno dovranno tenersi in modalità mista; in aula (con prenotazione obbligatoria) e in modalità online, su TEAMS. Ti consiglio caldamente di seguire, se possibile, le lezioni in tempo reale. Ciò ti permetterà non solo di farmi domande e chiedermi chiarificazione, ma anche d’interagire con i tuoi compagni di corso. Se non potessi par- tecipare (per una sovrapposizione occasionale o per motivi di lavoro), po- tresti sempre guardare le lezioni in streaming in un secondo momento (il link alle registrazioni verrà messo a disposizione sul sito ELLY del corso), ma sarà una modalità meno vivace e meno “interattiva”. Dopo la lezione, ripensandoci sopra, ti vengono altre domande? Sia che tu segua le lezioni in diretta o meno, sei sempre invitato a contat- tarmi per ulteriori commenti, osservazioni o per chiedere spiegazioni sul materiale del corso. Basta un messaggio (wolfgang.huemer@unipr.it) e possiamo sempre fissare un appuntamento su Teams (o, appena possi- bile, per il ricevimento in ufficio). Le informazioni sulla bibliografia e le modalità d’esame e sulla strut- tura del corso, si trovano sul sito del corso sulla piattaforma ELLY. Ma ora … parliamo dei contenuti! FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 4 1.2 Filosofia e letteratura Lo scopo di questo corso è di presentarvi – e di discutere con voi – alcune riflessioni filosofiche su un fenomeno con il quale siete probabilmente molto familiari: la letteratura o, più in generale, le opere di finzione. Trat- teremo il tema da una prospettiva filosofica, ma per la natura stessa del nostro tema, la letteratura, cercheremo di allargare i nostri orizzonti oltre i confini stretti della disciplina – sia per trovare delle basi comuni che per discutere meglio tra noi: Se vi siete iscritti a questo corso, siete o studenti di Scienze dell’Educazione (e dovete dare l’esame Mente e Linguaggio) o iscritti a Studi Filosofici (per l’esame Filosofia della letteratura) o a Lettere (per l’esame Filosofia del linguaggio). Mi auguro che le discussioni du- rante le lezioni (o nelle altre occasioni che avremo per parlare di lettera- tura, filosofia e formazione) siano occasioni in cui ognuna e ognuno di voi vorrà condividere la propria prospettiva sulle teorie, sui testi e sulle opere che discuteremo. Filosofia e letteratura – un rapporto lungo e stretto… Quali sono i rapporti tra filosofia e letteratura? Sin dall’antichità sono en- trambe ritenute tra le espressioni più importanti della cultura umana. Sia la filosofia che la letteratura presentano riflessioni profonde sulla natura umana e sulle condizioni in cui ci troviamo. A volte viene osservato che, tendenzialmente, i filosofi sono più interessati alla verità e al contenuto delle teorie, mentre i poeti danno più attenzione allo stile e alla forma estetica delle loro opere. D’altra parte, possiamo notare come questa non sia una dicotomia rigorosa che separa i due poli ermeticamente: si tratta piuttosto di una distinzione graduale con tante forme intermedie. Tanti dei grandi filosofi hanno prestato molta attenzione alla forma della loro esposizione, mostrando che talvolta, lo stile può diventare uno strumento importante per esprimere la propria posizione teorica. Consi- deriamo due esempi: (1) Non è sicuramente un caso che Platone abbia scelto la forma del dia- logo per le sue opere filosofiche. Questa si presta bene per porre do- mande e per dare spazio alla lettrice / al lettore di riflettere come lei LEZIONE 1: CHE COS’È LA FILOSOFIA DELLA LETTERATURA? 5 stessa / lui stesso potrebbe rispondere. Con la scelta della forma del dia- logo Platone riesce, quindi, a invitare il suo pubblico a concepire la filo- sofia non come una dottrina prefabbricata da assorbire passivamente, ma come un percorso da intraprendere attivamente. In effetti, Platone comunica questa sua concezione non solo tramite la forma letteraria, ma anche esplicitamente tramite Socrate (il personaggio principale dei suoi dialoghi). In un dialogo importante, il filosofo paragona la sua arte con quella delle levatrici (→ maieutica). Ma diamo una occhiata al testo: «Perché, sotto questo aspetto, io sono davvero nella stessa situazione delle levatrici: non genero sapienza. Ed è vero ciò che molti ormai mi hanno rim- proverato: che, pur interrogando gli altri, non mi pronuncio mai riguardo a nulla, con la motivazione che non sono affatto sapiente. La causa di tutto ciò è che il dio mi spinge a esercitare l’arte maieutica, ma mi ha impedito di ge- nerare. Io, di conseguenza, [d] non sono sapiente in nulla né mai una sco- perta geniale ha visto la luce, come un figlio, dalla mia anima: tuttavia, di quelli che mi frequentano, all’inizio, alcuni almeno sembrano davvero igno- ranti. Poi, però, con l’aumentare della confidenza, tutti quelli a cui il dio lo conceda raggiungono risultati cosi stupefacenti, che se ne rendono conto sia loro che gli altri. Ed è evidente che ciò avviene senza che loro abbiano impa- rato assolutamente nulla da me: è da se stessi che hanno tratto i molti splen- didi pensieri che partoriscono.» (Platone, Teeteto, 150c-d) In questo passo si esprime esplicitamente ciò che si manifesta anche nello stile dialogico: il filosofo non mira a presentare una dottrina com- piuta, ma vuole incentivare gli altri a riflettere per conto loro. Possiamo, quindi, constatare che vi è un’armonia tra forma e contenuto nelle opere di Platone. (2) Lo stesso vale per le Meditazioni metafisiche di Descartes. Una delle prime cose si può notare leggendo il testo è l’uso estensivo della prima persona singolare, una mossa stilistica che era assai inusuale in un trat- tato filosofico dell’epoca. Ciò avviene in un testo in cui il pensiero «Ego sum, ego existo» [«io sono, io esisto»] viene individuato come punto ar- chimedeo che costituisce un fondamento incrollabile su cui l’intero edifi- cio della nostra conoscenza può essere costruito. Anche qui, le scelte sti- listiche (l’uso della prima persona singolare) sono in armonia con la posi- zione filosofica che viene espressa nell’opera. Questi sono solo due esempi tra tanti; mostrati giusto per accennare al fatto che che lo stile – e quindi la dimensione letteraria – dei testi FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 6 svolge un ruolo importante in tante delle grandi opere della storia della filosofia. (Ciò è ben noto – pensate soltanto al fatto che il filosofo Ber- trand Russell fu insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1950 «in recognition of his varied and significant writings in which he champions humanitarian ideals and freedom of thought.» Bisogno comunque ricor- dare che alla dimensione letteraria viene spesso attribuito un ruolo mi- nore quando s’intende interpretare filosoficamente le opere.) Abbiamo visto che tante delle grandi opere filosofiche hanno delle qualità letterarie. Lo stesso vale in direzione inversa: tante delle grandi opere letterarie hanno qualità filosofiche. Per quanto sia vero che i grandi scrittori prestano particolare attenzione allo stile e la forma lette- raria delle proprie opere, è anche vero che tante di queste vengono ap- prezzate proprio perché non si limitano a essere vuoti giochi di parole. Tante grandi opere letterarie contengono profonde riflessioni filosofiche – pensate solo alla Divina Commedia di Dante, a Delitto e Castigo di Fëdor Dostoevskij, all’Uomo Senza Qualità di Robert Musil o alla raccolta di rac- conti Finzioni di Jorge Luis Borges. Chi si dedica a queste opere lo fa tipi- camente non solo per voglia di fruire un’opera letteraria importante, ma anche perché facendolo vuole conoscere e riflettere attorno alle posi- zioni filosofiche espresse al suo interno. ... ma i rapporti stretti non sono mai privi di frizioni Finora abbiamo visto come i rapporti tra letteratura e filosofia fossero sempre stati stretti. Ciò non implica che fossero sempre stati armoniosi, però. Infatti, già Platone aveva osservato nel suo dialogo La repubblica che «tra filosofia e arte poetica esiste un disaccordo antico» (607b). Quale può essere il motivo per un tale disaccordo? Una delle grandi differenze tra le due arti consiste nel fatto che la filosofia (soprattutto nel senso ampio che il termine aveva nell’antichità) è legata alla verità. I filosofi e gli scienziati mirano a dare delle rappresen- tazioni fedeli della realtà che si basano su argomenti e possono essere corrette se si rivelano false. Essi, si potrebbe dire, si impegnano circa la verità delle proposizioni e delle teorie da loro formulate. Le opere lette- rarie, in quanto opere di finzione, invece, raccontano di persone che non LEZIONE 1: CHE COS’È LA FILOSOFIA DELLA LETTERATURA? 7 sono mai esistite e di eventi che non sono mai accaduti, spesso con l’in- tento d’invitare i fruitori a dei giochi d’immaginazione. Il punto di vista di Platone non è però l’unico in gioco: la differenza tra filosofia e letteratura può essere valutata in maniera ben diversa. Ari- stotele, per portare un altro celebre esempio, sostiene che il poeta, non essendo vincolato alla verità, abbia il pregio di poter indagare non solo ciò che è reale bensì tutto ciò che è possibile. In un passo noto contrasta il poeta con lo storico (il quale, come il filosofo e lo scienziato, mira a rappresentare in maniera fedele la realtà) e dice: «Ed infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di dire l’uno in prosa e l’altro in versi [...], ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. E perciò la poesia è cosa più nobile e più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia del particolare.» Tanti filosofi non condividono questo ottimismo di Aristotele, però. Av- vertendo il pericolo che si può nascondere dietro alla “licenza poetica”, questi insistono sul fatto che la finzione si allontana dalla verità. Non ne- gano le qualità estetiche delle opere letterarie, ma dubitano che possano avere un significato che va oltre il divertimento – e rischiano, di conse- guenza, di ridurre la letteratura a un ornamento che può essere piace- vole, ma è in fondo inutile. In un passo famoso, il filosofo scozzese David Hume chiama i poeti mentitori: «I poeti stessi, benché mentitori per professione, cercano sempre di dare una parvenza di verità alle loro finzioni; e dove questa parvenza mancasse del tutto, le opere, per quanto ingegnose, non offrirebbero gran diletto.» (vol. 1, p. 135) Qui si sottolineano due aspetti della letteratura: il primo è che il suo scopo è procurare piacere; il secondo è che potrebbe ingannare – così come aveva già avvertito Platone nel suo dialogo La repubblica. Il poeta si allontana dalla verità – ma perciò li chiama «un ciarlatano, un imita- tore» (598d) – ma proprio perché le sue opere sono piacevoli, rischia an- che di radicare idee false e concezioni fuorvianti nel lettore. Le storie che parlano male dell’Ade, per esempio, potrebbero spaventare i giovani, e quindi dovrebbero essere proibite FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 12 In un momento successivo, nella prima parte degli anni Novanta, entrano in scena alcuni filosofi che conferi- scono una nuova profondità al dibattito. Nella sua mo- nografia Mimesis as Make-Believe (1990) Kendall Wal- ton presenta una teoria dell’arte rappresentativa che pone la sua attenzione al gioco dell’immaginazione e mostra una grande sensibilità per la letteratura e per l’arte. Gregory Currie propone una teo- ria sistematica della finzione in The Nature of Fiction (1990), focalizzan- dosi sul funzionamento del linguaggio nei contesti di finzione e sullo sta- tuto ontologico dei personaggi fittizi. Con il loro Truth, Fiction, and Lite- rature (1994), il filosofo Peter Lamarque e il critico letterario Stein Haugom Olson non solo rappresentano una panoramica del dibattito fi- losofico intorno alla letteratura, ma sviluppano anche una posizione molto importante che attribuisce un ruolo centrale all’atteggiamento che assumiamo quando fruiamo un testo. Questi contributi – più di quelli della prima fase – manifestano un interesse genuino per la letteratura. Non usano le opere letterarie me- ramente come esempi per illustrare (i limiti di) una teoria filosofica, ma le prendono come oggetto di ricerca intorno ai quali costruiscono la pro- pria teoria. Sulla scia di questi contributi il dibattito ha guadagnato una nuova profondità e sviluppa un interesse più genuino per la natura della letteratura e la sua importanza nella nostra vita. Negli ultimi due decenni il dibattito si è intensificato e la disciplina si è articolata. Sono stati pubblicati vari ma- nuali, antologie e monografie sulla filosofia della lette- ratura (alcuni sono elencati nella bibliografia alla fine di questo testo) a testimonianza del fatto che la filosofia della letteratura è diventata una disciplina filosofica a sé stante – con un “canone” di testi centrali. In tanti contributi recenti, si è tentato di approfondire la nostra com- prensione di aspetti specifici del dibattito, come la filosofia della poesia o la filosofia del cinema. Inoltre, ci sono tentativi di rendere i risultati ot- tenuti fruibili per altre discipline. Vorrei trarre la vostra attenzione a solo due esempi rappresentativi di questa tendenza: uno è il dibattito attuale LEZIONE 1: CHE COS’È LA FILOSOFIA DELLA LETTERATURA? 13 tra filosofia della mente e neuroscienze, dove si suggerisce che, per com- prendere la nostra concezione del sé, può essere utile considerare dei meccanismi che ci sono familiari dalla teoria della narrazione (→ le teorie del sé narrativo). Similmente, nell’epistemologia (teoria della scienza) si è apprezzato sempre di più che, per comprendere il mondo reale, le scienze naturali spesso usano costruzioni che sono di finzione. Pensate, per esempio, agli esperimenti mentali, che si basano sempre su scenari fittizi, o ai modelli scientifici. Una riflessione sulla relazione tra finzione e realtà, come è presente nell’ambito della filosofia della letteratura, può, di conseguenza, arricchire questi dibattiti. Questa breve panoramica sullo sviluppo della filosofia della letteratura negli ultimi 50 anni non può che essere una semplificazione di una realtà più complessa. L’intenzione è quella di tracciare alcune tendenze che il- lustrano bene come il dibattito attuale nella filosofia della letteratura sia nato da specifici problemi filosofici – e come si sia nel tempo emancipato. Tenete presente, però, che esistono importanti contributi al dibattito risalenti anche a prima degli anni ’60 del Novecento, contributi che sono tuttora rilevanti per le domande che discuteremo in questo corso. Tra questi, discuteremo alcune posizioni di William Wimsatt, Monroe Beardsley ed Eli Hirsch attorno al dibattito sulle intenzioni dell’autore, oltre che le analisi della struttura del linguaggio proposte da Roman Ja- kobson e da altri strutturalisti russi e cechi. Sarebbe interessante appro- fondire anche altre posizioni che furono sviluppate in un passato più re- moto, ma il primo scopo di questo corso è quello di dare una prima in- troduzione alla filosofia della letteratura, qualcosa che possa farvi sensi- bilizzare attorno ai problemi che tratteremo in maniera sistematica. 1.5 Domande che tratteremo Quali sono, quindi, le domande che distinguono una prospettiva filoso- fica sulla letteratura? Ecco alcune domande che tratteremo in questo corso, ordinate per discipline filosofiche da cui sorgono: FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 14 Domande legate alla metafisica (la disciplina filosofica che si domanda attorno alla natura dell’esistenza): • Qual è lo statuto ontologico dei personaggi fittizi? • Qual è la natura ontologica di un’opera letteraria (quale la rela- zione tra l’opera e le sue copie)? Domande legate alla filosofia del linguaggio (che si domanda sulla na- tura del significato – della relazione tra parola e oggetto: • A che cosa si riferiscono i nomi propri contenuti nelle opere di fin- zione letteraria? • Possono essere vere le affermazioni (proposizioni) contenute in un’opera di finzione, oppure sono false o prive di valore di verità? Domande legate alla gnoseologia (la teoria della conoscenza): • Possono le opere di finzione letteraria informarci su aspetti del mondo reale? (La letteratura ha un valore cognitivo? Possiamo, in altre parole, imparare qualcosa dalla letteratura)? Domande legate alla filosofia della mente: • Possiamo provare delle emozioni genuine per personaggi fittizi (di cui sappiamo che non sono mai esistiti)? • Qual è il ruolo dell’immaginazione nella fruizione di opere di fin- zione? • Qual è il ruolo delle intenzioni dell’autore per l’interpretazione di un’opera? Domande legate alla filosofia morale: • Può un’opera amorale essere considerata un capolavoro? • Le opere di finzione possono/devono servire a educare moralmente i lettori? LEZIONE 1: CHE COS’È LA FILOSOFIA DELLA LETTERATURA? 15 Indicazioni: Le discussioni che terremo in questo corso tentano di dare rimedio alle perplessità che possono nascere da riflessioni filosofiche sulla natura delle opere di finzione. ► Lo scopo del trattamento è di cogliere in ma- niera più chiara il ruolo e il valore della lette- ratura e dell’immaginazione nella nostra vita e nella nostra società. Le discussioni possono a volte sembrare molto astratte o complesse. Alcuni potranno avvertire una mancata sensibilità per le opere letterarie concrete o con la prassi letteraria quotidiana. Consiglio: Per evitare questo effetto, si consiglia di recepire le teorie discusse con un sano senso critico e di confrontarle continuamente con la propria prassi di lettura. In casi forti si consiglia la fruizione di un’opera d’arte letteraria (o un altro tipo di opera di finzione) di proprio gradimento. Av ve rte nz e e Co nt ro in di ca zio ni FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 16 1.6 Bibliografia Bibliografia dei testi citati o menzionati: Aristotele. 2008. Poetica, trad. da Pierluigi Donini, Torino: Einaudi. Currie, Gregory. 1990. The Nature of Fiction, Cambridge: Cambridge University Press. Descartes, René. 2010. Meditazioni metafisiche, trad. da Sergio Landucci, Roma e Bari: Laterza. Doležel, Lubomír. 1998. Heterocosmica: Fiction and Possible Worlds. Baltimore: The Johns Hopkins University Press. Trad. it. di Margherita Botto, Heterocosmica. Fic- tion e mondi possibili, Milano: Bompiani, 1999. Hume, David. A Treatise Concerning Human Understanding, trad. it. da Paolo Gugliel- moni, Trattato sulla natura umana, Milano: Bompiani, 2001. Inwagen, Peter van. 1977. «Creatures of Fiction». American Philosophical Quarterly 14 (4): 299–308. Lamarque, Peter e Stein Haugom Olsen. 1994. Truth, Fiction, and Literature: A Philo- sophical Perspective. Oxford, New York: Clarendon Press. Lewis, David. 1978. «Truth in Fiction», American Philosophical Quarterly 15 (1): 37– 46. Ristampato in: Philosophical Papers, vol. 1, Oxford University Press, Oxford 1983, pp. 261-280. Locke, John. 1690. An Essay Concerning Human Understanding, trad. it. da Vincenzo Cicero e Maria Grazia D’Amico, Saggio sull’intelletto umano, Milano: Bompiani, 1994. Platone. 1994. La Repubblica, trad. da Franco Sartori, Laterza, Roma-Bari. Platone. 1994. Teeteto, trad. da Luca Antonelli, Milano: Feltrinelli. Radford, Colin. 1975. «How Can We Be Moved by the Fate of Anna Karenina?» Pro- ceedings of the Aristotelian Society, Supplementary Volumes 49: 67–80. Searle, John. 1975. «The Logical Status of Fictional Discourse», New Literary History 6 (2): 319–32. Trad. it. «Lo statuto logico della finzione narrativa», In: Versus 19- 20 (1978), pp. 149-162. Walton, Kendall. 1990. Mimesis as Make-Believe: On the Foundations of the Repre- sentational Arts. Cambridge, Mass.: Harvard University Press. Trad. it. da Marco Nani, Mimesi come far finta, Milano: Mimesi, 2011. LEZIONE 1: CHE COS’È LA FILOSOFIA DELLA LETTERATURA? 17 Manuali, antologie e handbooks pubblicati recentemente Barbero, Carola. 2013. La filosofia della letteratura, Roma: Carocci. Carroll, Noël e John Gibson (a cura di). 2016. The Routledge Companion to Philosophy of Literature, London & Ney York: Routledge. Eldridge, Richard (a cura di). 2009. The Oxford Handbook of Philosophy and Literature, Oxford: Oxford University Press. Hagberg, Garry e Walter Jost (a cura di). 2010. A Companion to the Philosophy of Lit- erature, Oxford: Blackwell. John, Eileen e Dominic Lopes (a cura di). 2004. Philosophy of Literature: Contempo- rary and Classic Readings: An Anthology, Oxford: Blackwell. Lamarque, Peter. 2009. The Philosophy of Literature. Oxford: Blackwell 2009. Voltolini, Alberto. 2010. Finzioni: il far finta e i suoi oggetti. Roma: Laterza. Un’antologia con traduzioni italiane di alcuni testi in bibliografia (tra cui l’articolo di David Lewis) può essere scaricata dal sito di Sandro Zucchi: http://www.filosofia.unimi.it/zucchi/robin.html. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 22 l’idea che l’ultimo libro del romanziere non appartenga alla categoria delle opere letterarie, ma a quella dei saggi. Chi invece usa il termine nel senso onorifico, riconosce all’opera in questione un certo valore oppure certe qualità letterarie o estetiche. Questo diventa particolarmente evidente dove si nega tale qualità: Fac- ciamo finta che un altro noto romanziere, chiamiamolo Kilgore Trout, ab- bia pubblicato un nuovo romanzo con scarso successo tra i critici. Usando il termine “letteratura” nel suo senso onorifico, un critico che dice “L’ul- timo libro di Kilgore Trout non è letteratura!” non intende negare che si tratti di un’opera letteraria, bensì affermare che sia un’opera letteraria scritta male – ovvero che si tratti di un romanzo non degno d’essere chia- mato “letteratura”. La differenza tra uso descrittivo e uso onorifico non è netta e a volte non è chiaro se prevale il primo senso o il secondo. Il fatto stesso che vi sia questa distinzione è comunque significativo: indica che “letteratura” si riferisce sia a una certa categoria di artefatti (testi o opere d’arte), che a certi standard estetici o di “letterarietà” che determinano se, ed even- tualmente quanto, un’opera d’arte letteraria sia ben riuscita. Ciò distin- gue i primi due dal terzo degli usi elencati sopra. Quest’ultimo, astraendo completamente dalla dimensione estetica delle opere, si riferisce a “scritti relativi a una scienza, arte o disciplina” e richiama, quindi, il signi- ficato (2) della definizione presente nella Treccani (vd. sopra). Per la nostra discussione, il terzo uso è meno rilevante: ci focalizze- remo piuttosto su opere creative che mirano a soddisfare certi criteri estetici e a suscitare certe esperienze estetiche (nel senso più ampio) o giochi dell’immaginazione nelle lettrici e nei lettori. 2.3 Letteratura/Finzione/Narrazione È facile confondere i termini “letteratura”, “finzione” e “narrazione”. Ciò è dovuto al fatto che tante delle opere letterarie che solitamente ci ven- gono in mente sono di carattere narrativo e raccontano di persone mai esistite e di eventi mai accaduti. Tante delle opere d’arte letteraria pro- totipiche sono sia opere narrative che opere di finzione letteraria. LEZIONE 2: CHE COS’È LA LETTERATURA? 23 In particolare, “letteratura” e “finzione” vengono spesso trattati come sinonimi mentre, come ha anche fatto notare John Searle (cfr. 1975), non lo sono affatto. I due termini non hanno la stessa estensione (in altre parole: non si riferiscono allo stesso insieme di cose): esistono delle opere di finzione che non sono opere letterarie e viceversa. I film, le fiction televisive, i fumetti, ecc. sono opere di finzione ma non opere letterarie; al pari ci sono delle lettere, delle autobiografie, delle poesie e dei discorsi che sono considerate opere d’arte letteraria ma che non sono opere di finzione. Per di più, anche quando parliamo di opere di finzione letteraria – di opere, quindi, che sono sia letterarie sia di finzione – utiliz- ziamo le due nozioni per riferirci ad aspetti diversi: il termine “finzione” segnala che si tratta di opere che non pretendono di descrivere fedel- mente la realtà; il termine “letterario”, invece, si riferisce al fatto che ab- biamo a che fare con artefatti linguistici e – se usiamo il termine in senso onorifico – che presentano qualità estetiche. Il fatto che i termini “letteratura” e “finzione” vengono usati in ma- niera diversa viene evidenziato dai seguenti due punti. Per primo, pos- siamo notare che il termine “finzione” non si presta a un uso onorifico, come invece abbiamo visto accadere con “letteratura”: dire che un’opera è di finzione significa soltanto dire che l’autore non si impegna circa la verità delle proposizioni in essa contenute, senza implicare con ciò che l’opera sia oppure no di valore. Secondo, il termine “letteratura” si rife- risce a opere intere, e non a parti di esse. Non verrebbe in mente a nes- suno di sostenere che Il processo di Kafka sia un’opera letteraria perché contiene degli enunciati letterari; sembra ovvio che un’analisi letteraria debba prendere in considerazione l’opera intera e non soltanto alcune delle sue parti. Inoltre, è difficile immaginare che un critico letterario possa porre la domanda se un’opera letteraria possa contenere degli enunciati che non siano di letteratura. Per la nozione di finzione la situa- zione è diversa: molte definizioni del termine si focalizzano non tanto sull’opera completa, quanto piuttosto sugli enunciati che la costitui- scono. Tanti filosofi danno per scontato che si possa parlare di opere di finzione solo in modo derivativo sostenendo che, in realtà, la sede vera e propria della finzione sono gli enunciati. Seguendo tale prospettiva, le opere sono di finzione se e solo se contengono in modo essenziale un numero sufficiente di enunciati fittizi; di conseguenza, possono esistere FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 24 tante opere di finzione che contengono un certo numero di enunciati non fittizi. Qual è la differenza tra un enunciato fittizio e uno che non lo è? En- trambi hanno la stessa forma sintattica, entrambi sono asserzioni. John Searle propone un criterio in grado di gettare luce sulla natura della fin- zione: l’autore di un’opera di finzione, secondo lui, non asserisce, ma fa solo finta di asserire gli enunciati fittizi. Gli enunciati fittizi, quindi, nono- stante possono essere veri o falsi; si distinguono da quelli non fittizi per- ché l’autore non si prende nessun impegno circa la loro verità. Secondo Searle, quindi, «[t]he test for what the author is committed to is what counts as a mistake» (Searle 1975, 330). [«Il test per definire ciò a cui l’autore si impegna è cosa valga come errore».] Vorrei illustrare il test di Searle con un esempio. Immaginiamo che uno storico scriva in un suo saggio il seguente enunciato: «Nella battaglia di Solferino Joseph Trotta aveva, nella sua qualità di sottotenente di fan- teria, il commando d’un plotone». Facendo parte di un saggio, sembra ovvio che l’autore asserisca l’enunciato, impegnandosi circa la sua verità. Se, dopo un’intensa ricerca negli archivi storici, dimostrassimo oltre ogni ragionevole dubbio che nessun sottotenente di fanteria impegnato du- rante la battaglia di Solferina si chiamasse Joseph Trotta (e che nel 1859 nessun soldato con questo nome fosse arruolato nell’esercito dell’im- pero asburgico), allora concluderemo che lo storico avrebbe commesso un errore, asserendo un enunciato falso. In realtà, l’enunciato non è preso da un saggio bensì dal romanzo La marcia di Radetzky di Joseph Roth, e quindi a nessuno verrebbe in mente di affermare che Roth abbia commesso un errore; nessun lettore si prenderebbe nemmeno carico di controllare negli archivi storici se in effetti un sottotenente di nome Jo- seph Trotta avesse mai combattuto nella battaglia di Solferino. Nono- stante l’enunciato nel romanzo di Roth abbia la stessa forma sintattica di quello che sarebbe potuto comparire nel saggio dello storico, l’autore non lo usa per asserirlo – è questa per Searle è una differenza cruciale. Roth, per riprendere le parole del filosofo, fa solo finta di asserirlo. Ap- plicando il test di Searle possiamo concludere, quindi, che l’enunciato proferito da Roth è fittizio, mentre lo stesso enunciato, se fosse proferito da uno storico in un saggio, non sarebbe fittizio. LEZIONE 2: CHE COS’È LA LETTERATURA? 25 Bisogna però notare che il romanzo di Roth contiene oltre alle descri- zioni (fittizie) delle sorti della famiglia Trotta anche enunciati che ambien- tano i protagonisti nel contesto in cui questi agiscono: l’autore descrive Vienna e l’impero asburgico di fine secolo. Ciò dimostra, per alcuni, che un’opera di finzione può contenere alcuni enunciati non fittizi. Seguendo quest’idea, sarebbe quindi possibile scovare errori nelle descrizioni non fittizie presenti in un romanzo, come, per esempio, un dettaglio anacro- nistico oppure un elemento incoerente col resto dell’opera. Arno Sch- midt, per esempio, ha sottoposto alla nostra attenzione il fatto che, nel romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe, il protagonista racconta di aver fatto una passeggiata serale “nel chiaro della luna piena” il 9 set- tembre 1771 – mentre gli astronomi ci confermano che, in realtà, quella fu una notte di novilunio. Schmidt, quindi, classificherebbe tutti gli enun- ciati presenti nel Werther in due gruppi ben distinti: da una parte quelli asseriti da Goethe (come, per esempio, “nella notte del 9 settembre 1771 la luna era piena”) e dall’altra quelli che l’autore farebbe solo finta di as- serire (come “nella serata del 9 settembre 1771 Werther ha fatto una passeggiata con Lotte”). Entrambi gli esempi sono enunciati falsi: il primo perché quella notte non c’era la luna piena, mentre il secondo perché Werther e Lotte non sono mai esistiti. Ciononostante, per Schmidt solo il primo sarebbe un errore, mentre il secondo sarebbe un enunciato fitti- zio. 1 Può, perciò, essere sensato distinguere all’interno di un’opera di fin- zione letteraria gli enunciati che sono fittizi da quelli che non lo sono. C’è un dibattito tuttora in corso circa la definizione esatta di “fin- zione”. Mentre alcuni filosofi, tra cui John Searle, sostengono che io ter- mine sia legato al modo in cui il parlante usa il linguaggio (→ teoria degli atti linguistici), altri si focalizzano, come per esempio lo fa Kendall Walton (ne discuteremo in altre lezioni), sugli effetti di tali opere e insistono sul 1 Un esempio simile viene citato da David Lewis nel suo saggio “Verità nella fin- zione”, dove cita un articolo scientifico di Carl Gans sull’apparato muscolare delle varie specie di serpenti. Qui Gans osserva che: «Nell’“Avventura della fascia maculata” Sherlock Holmes risolve un caso di omicidio mostrando che la vittima è stata uccisa da una vipera di Russell che si è arrampicata sulla corda di un campanello. Ciò di cui Holmes non si era reso conto era che la vi- pera di Russell non è un costrittore. Questo serpente è pertanto incapace di movimenti a fisarmonica e non poteva essersi arrampicato sulla corda. O il serpente ha raggiunto la sua vittima in qualche altro modo o il caso rimane aperto.» (Gans 1970, citato in Lewis 1978). FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 26 fatto che la finzione possa suscitare atti d’immaginazione nel fruitore (→ make-believe). Stacie Friend ha recentemente sostenuto che non ci sono delle condizioni sufficienti e insieme necessarie per definire “finzione” e ha concluso che si tratti di un genere (cfr. Friend 2012), mentre Derek Matravers ha argomentato che la distinzione tra finzione e non-finzione non sia netta, ma graduale (cfr. Matravers 2014). Per gli scopi di questo corso, però, l’approfondimento dei dettagli di questo dibattito ci porte- rebbe troppo lontano. Il terzo termine su cui ci focalizziamo in questo paragrafo è quello di “narrazione”. Questo termine si riferisce al modo in cui gli eventi rappre- sentati vengono selezionati e messi in relazione tra loro; come, in altre parole, la storia viene raccontata. Gli ultimi decenni testimoniano un di- battito intenso nella narratologia, la disciplina che studia in maniera det- tagliata e articolata le varie strategie narratologiche. Per gli scopi di que- sto corso possiamo limitarci a constatare che le opere narrative non rap- presentano un evento isolato, ma selezionano sempre una serie di eventi che vengono connessi tra di loro in maniera causale, temporale o teleo- logica, creando così una struttura dalla quale può emergere un punto di vista o un nuovo livello di significato. Sarebbe un errore credere che tutte le opere narrative sono di finzione (come l’espressione “raccontare sto- rie” potrebbe suggerire). Troviamo strutture narrative anche in altre forme di testi, come nel giornalismo, nelle (auto-)biografie, nella storia, ma anche in tante altre forme di comunicazione umana, tutte accomu- nate dalla ricerca di senso in ciò che accade. Non abbiamo ancora dato una definizione esatta dei termini “lette- ratura”, “finzione” e “narrazione”, ma abbiamo messo abbastanza carne al fuoco per intuire che è meglio non confondere i tre termini. Possiamo riassumere la nostra discussione con lo schema seguente: LEZIONE 2: CHE COS’È LA LETTERATURA? 27 Il termine “letteratura” si riferisce alla dimensione dell’opera che ha a che fare con le sue qualità estetiche, col modo in cui il linguaggio viene usato (stile) o col modo in cui il materiale viene organizzato; il termine può essere usato in senso onorifico e in senso descrittivo. Il termine “finzione” si riferisce alla relazione tra linguaggio e realtà; in un’opera di finzione, l’autore non s’impegna circa la verità delle afferma- zioni fatte e non asserisce – ma fa finta di asserire – gli enunciati (spesso con lo scopo d’invitare i fruitori a partecipare in un gioco del far finta / make believe). Il termine “narrazione” si riferisce al modo in cui gli eventi vengono rap- presentati e messi in relazione tra loro (il modo in cui, in altre parole, la storia viene raccontata). 2.4 Come definire “letteratura” John Searle, proprio nel saggio in cui insiste che i termini “letteratura” e “finzione” non siano sinonimi, chiarisce esplicitamente che il suo è un tentativo di analizzare il concetto di “finzione” e non quello di “lettera- tura”. Il filosofo giustifica questa scelta non per motivi di “contenuto” – non suggerisce che, da un punto di vista teorico, le opere di finzione siano più interessanti delle opere letterarie –, ma piuttosto per motivi pratici. Secondo Searle è impossibile formulare una definizione esatta del con- cetto di letteratura, il che rende difficile l’analisi. Ciò è dovuto, secondo Searle, ai seguenti tre caratteristiche della letteratura: (i) non esiste un insieme di tratti comuni a tutte le opere di lettera- tura che costituisca la loro condizione necessaria e sufficiente; (ii) il termine “letteratura” non si riferisce a una proprietà interna dei testi ma a un tipo di atteggiamento che assumiamo di fronte a essi; (iii) non vi è una linea netta di demarcazione tra ciò che è letterario e ciò che non lo è (cfr. Searle 1975, 320). Searle, dunque, sostiene che non possiamo fornire una definizione esatta del concetto di letteratura; una definizione, cioè, che dia le condizioni FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 32 Quattro coordinate della letteratura Quali potrebbero essere i tratti condivisi da tutte le opere letterarie? È importante notare che, col passare dei secoli, le idee in proposito sono cambiate. Per meglio mappare le posizioni proposte, seguiremo Peter La- marque (2009, p.41) e riprenderemo la distinzione delle “quattro coordi- nate della critica letteraria”, inizlamente introdotta dal critico letterario M.H. Abrams (1953, cap. 1). Tali coordinate mettono in evidenza aspetti diversi della letteratura che, in momenti diversi della storia, furono con- siderati più o meno importanti: per primo, (i) abbiamo a che fare con l’opera stessa, con il prodotto artistico. Questo è un artefatto creato dal secondo aspetto in gioco, (ii) l’autore. Terzo, (iii) ogni opera riprende tratti della realtà e ha un significato che la lega al mondo. La quarta coordinata è (iv) il pubblico, i lettori a cui l’opera si rivolge. Alla base di queste quattro coordinate, Abrams divide le teorie letterarie in altrettanti gruppi: i. Le teorie oggettive o teorie dell’autonomia insistono che l’ele- mento più basilare – dove la letteratura trova la propria sede – sia l’opera letteraria stessa. Tante di loro si focalizzano sul materiale di cui tali opere sono composte, sul linguaggio letterario, e cercano specifici elementi linguistici o testuali che possano far distinguere le opere letterarie da altri tipi di testi. Teorie del genere insistono spesso sull’indipendenza dell’opera dall’autore e dal contesto sto- rico o istituzionale in cui questa è stata scritta. Di conseguenza, l’interpretazione dell’opera dovrebbe prendere in considerazione esclusivamente elementi che sono interni all’opera – e può trascu- rare elementi “estrinseci” come la biografia dell’autore o il conte- sto storico della produzione. Anche chi sostiene che le opere non dovrebbero servire a nessuno scopo oltre che a loro stesse – difen- dendo perciò una concezione del tipo “l’art pour l’art” – mette l’enfasi su questa coordinata. ii. Le teorie espressive portano l’attenzione sul fatto che l’opera non esisterebbe se non fosse stata creata dall’autore, enfatizzando il suo atto creativo. L’opera scritta è soltanto una pallida testimo- nianza del colpo di genio con cui l’autore ha dato espressione au- tentica al suo mondo interiore, alle sue emozioni e al suo punto di LEZIONE 2: CHE COS’È LA LETTERATURA? 33 vista. Una vera comprensione dell’opera, di conseguenza, è possi- bile soltanto se riusciamo a entrare in contatto con lo stato d’animo dell’autore e se cogliamo le intenzioni con cui egli ha rea- lizzato l’opera. iii. Le teorie pragmatiche sottolineano che le opere letterarie ven- gono scritti per essere lette e mettono, di conseguenza, il lettore e l’atto di fruizione al centro dell’attenzione. Tante opere letterarie mirano a suscitare un’esperienza estetica o una reazione emotiva nel lettore. Se la reazione è intensa – sia essa piacevole o terrifi- cante, come succede nel caso della tragedia – può avere un effetto catartico e purificante sul lettore. Nell’invitare a immaginare per- sonaggi e scenari fittizi l’opera può, inoltre, ampliare gli orizzonti conoscitivi o mettere in luce aspetti finora ignorati della realtà. Al- cuni teorici avvertono anche un pericolo nella forza retorica di al- cune opere, in grado d’influenzare i lettori e indurli ad adottare posizioni non fondate su argomenti o ragioni. iv. Le teorie mimetiche si basano sull’idea che, in un modo o nell’al- tro, la letteratura rappresenti la realtà. Le opere letterarie, anche quelle di finzione, riprendono aspetti della realtà in cui ambien- tano le loro storie. Tante delle grandi opere d’arte letteraria trat- tano temi che sono rilevanti per la vita reale, da cui spesso emer- gono significati che ci permettono di vedere aspetti della realtà sotto una nuova luce. La letteratura non è un gioco vuoto di sim- boli; i mondi di finzione, in cui ci fa immergere, non sono separate ermeticamente dal mondo reale. Al contrario, tanti autori creano opere di finzione proprio perché vogliono cambiare e migliorare il mondo reale. Una precisazione: Alcuni vedono uno stretto legame tra queste quattro coordinate e le “teorie essenzialiste” (cf. Barbero 2013, pp. 26sg.). Dob- biamo prendere tali affermazioni con cautela: le quattro coordinate di per sé non sono né essenzialiste, né anti-essenzialiste. Delineano piutto- sto uno spazio in cui possiamo collocare le varie posizioni della teoria let- teraria – sia quelle essenzialiste, sia quelle anti-essenzialiste. In periodi storici diversi e da prospettive teoriche diverse si attribuisce un peso di- verso a ciascuna delle quattro coordinate. (La dimensione dell’autore, FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 34 per esempio, svolge un ruolo centrale nel romanticismo ma uno margi- nale nella seconda metà del Novecento, come vedremo in altre lezioni.) Ad alcuni teorici una (o due) di queste coordinate sono sembrate tal- mente centrali per la letteratura che le hanno prese come spunto per formulare una teoria essenzialista, ma anche nell’ambito dell’anti-essen- zialmiso possiamo distinguere posizioni diverse mappabili alla base di tali coordinate. Per gli scopi di questo corso, queste coordinate sono importanti per- ché tracciano il percorso che prenderemo nelle prossime lezioni: discuteremo domande che hanno a che fare con lo statuto delle opere letterarie e con il “materiale” di cui sono fatte, il linguaggio lette- rario. Non solo: poiché fanno parte dell’opera pure i personaggi fittizi, ci domanderemo anche attorno alla loro natura ontologica; ci chiederemo, in altre parole, che forma di esistenza hanno. Poi ci sposteremo alla se- conda coordinata e presteremo attenzione al ruolo dell’autore e alla sua autorità sulle proprie opere. In un terzo momento ci focalizzeremo sul fruitore, analizzando le sue reazioni emotive all’opera e la natura dell’im- maginazione che la lettura di un testo letterario può suscitare. Nell’ul- tima parte discuteremo la relazione tra letteratura e realtà – e sarà un’oc- casione per chiederci se la letteratura possa avere valori non estetici. Questa ha un valore cognitivo? La letteratura può, in altre parole, arric- chire la nostra prospettiva sul mondo reale? Oltre a ciò, essa può affinare la nostra sensibilità morale? Può un’opera amorale possedere valore let- terario? 2.5 Bibliografia dei testi citati Abrams, Meyer H. 1953. The Mirror and the Lamp: Romantic Theory and the Critical Tradition. Oxford, Oxford University Press. Trad. it. da Rosanna Zelocchi, a cura di Giovanna Capone, Lo specchio e la lampadina: La teoria romantica e la tradi- zione critica. Bologna: il Mulino, 1972. Friend, Stacie. 2012. «Fiction as a Genre», Proceedings of the Aristotelian Society 112: pp. 179–209 Gaut, Berys. 2000. «“Art” as a Cluster Concept», in: Theories of Art Today, a cura di: Noël Carroll, Madison: University of Wisconsin Press, pp. 25–44. LEZIONE 2: CHE COS’È LA LETTERATURA? 35 Gaut, Berys. 2005. «The Cluster Theory of Art Defended». British Journal of Aesthetics 45/3, pp. 273–88. Matravers, Derek. 2014. Fiction and narrative. Oxford: Oxford University Press. Searle, John. 1975. «The Logical Status of Fictional Discourse», New Literary History 6 (2): 319–32. Trad. it. «Lo statuto logico della finzione narrativa», Versus 19-20 (1978), pp. 149-162. Weitz, Morris. 1956. «The Role of Theory in Aesthetics», The Journal of Aesthetics and Art Criticism 15/1: 27–35. Trad. it. da A. Ottobre, «Il ruolo della teoria in estetica”, in: Estetica e filosofia analitica, a cura di Pietro Kobau, Giovanni Ma- teucci e Stefano Velotti. Bologna: il Mulino, 2008, pp. 14–27. Wittgenstein, Ludwig. 1953. Philosophische Untersuchungen. Oxford: Basil Blackwell, trad. it. da Mario Trinchero, Ricerche filosofiche. Torino: Einaudi, 1999. Parte I L’opera e i suoi personaggi FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 42 maniera più chiara e lineare possibile, senza equivoci e ambiguità per evi- tare potenziali fraintendimenti. Le opere letterarie, al contrario, non si limitano al significato letterale delle parole, ma adoperano diverse sfu- mature del linguaggio naturale per far emergere nuovi livelli di signifi- cato. Poiché ricche d’immagini e figure retoriche, queste opere permet- tano all’autore di far affiorare strati di significato non esplicitamente pre- senti nel testo scritto. Vorrei illustrare brevemente il punto con un esempio. Pensate al noto passo di Romeo e Giulietta, dove Shakespeare fa dire a Romeo: Silenzio! Quale luce irrompe da quella finestra lassù? È l'oriente, e Giulietta è il sole. Le parole usate nel testo hanno un significato ben determinato: “Giu- lietta” è il nome di un personaggio del dramma, “sole” denomina la stella madre del nostro sistema solare, e “oriente” indica il punto cardinale est, dove il sole sorge. Se qualcuno facesse notare che, in senso letterale, la proposizione è falsa – dopotutto, il nome “Giulietta” si riferisce a una donna e non a un corpo celeste, e quindi non può essere letteralmente vero che Giulietta sia il sole – diremmo che non ha colto un punto impor- tante. Shakespeare non intende fornirci informazioni astronomiche ma mostrarci l’espressione di una delle emozioni più forti che una persona possa provare per un’altra – l’amore. Abbiamo quindi bisogno di accet- tare un uso metaforico del linguaggio per poter cogliere il “vero signifi- cato” di questa frase: Giulietta sta entrando nella vita di Romeo e, così come il sole che sorge, lo illumina e nutre, gli dà vita. In questa, come in tutte le metafore, ciascuna delle parole “Giu- lietta”, “oriente” e “sole” viene usata nel suo senso letterale. È la combi- nazione delle parole che fa emergere un nuovo livello di significato, tra- sferendo alcune – ma non tutte – delle proprietà che caratterizzano il sole a Giulietta. In questo modo, l’autore riesce a esprimere le forti emo- zioni che Romeo prova per Giulietta senza scriverlo esplicitamente. L’esempio che ho scelto è ben noto e la breve discussione che ne ho dato non può che rimanere sulla superficie. Forse non contiene niente che non sapevate già; ma a volte gli esempi semplici sono utili per trarre al meglio l’attenzione sul punto della questione: il linguaggio letterario LEZIONE 3: IL LINGUAGGIO LETTERARIO 43 gioca su più livelli di significato. Secondo alcuni filosofi è questa la carat- teristica che distingue il linguaggio letterario da altri tipi di linguaggio. Il filosofo statunitense Monroe Beardsley, per esempio, formula una “de- finizione semantica di letteratura” secondo la quale «a literary work is a discourse in which an important part of the meaning is implicit [un’opera letteraria è un discorso in cui una parte importante del significato è im- plicita]» (Beardsley 1981, p. 126). Le opere letterarie, secondo questa de- finizione, si distinguono da altri tipi di testi per la loro “densità seman- tica”, ovvero per la profondità e stratificazione di significati che riman- gono, in gran parte, impliciti. Beardsley, mi sembra, mette in rilievo un punto importante; tanti te- sti letterari, e soprattutto le grandi opere, sono densi di significato e rie- scono a esprimere un messaggio profondo. Ci si può, quindi, domandare se la caratteristica isolata da Beardsley sia da intendersi come parte di una somiglianza di famiglia oppure come tratto essenziale alla base della quale fornire una definizione di “letteratura”. Chi si esprime per questa seconda opzione dovrebbe argomentare che tutte le opere letterarie sono dense di significato. In alcuni casi, però, è necessario dare un’inter- pretazione giusta che possa esplicitare il messaggio profondo contenuto nell’opera. Questo dovrebbe valere anche per le opere meno sospette, come le poesie dadaiste o il Canto notturno dei pesci di Morgenstern, che potete trovare nell’incipit della lezione. Questa poesia è veramente ricca di si- gnificato, oppure è nonsense? Per salvare la definizione di Beardsley si dovrebbe poter svelare, anche nel caso del Canto notturno dei pesci, un messaggio profondo ma implicito. Un critico ha suggerito, per esempio, di leggere la poesia di Morgenstern come “protesta letteralmente muta contro le convenzioni del linguaggio e l’immobilità mentale” (Wilson 2003, p. 261). I limiti tra interpretazione e sovrainterpretazione sono sot- tili; quella di Wilson può facilmente sembrare una lettura esagerata, con cui è possibile dimostrare la letterarietà anche delle più banali comuni- cazioni linguistiche. L’idea per cui la densità semantica sarebbe il tratto caratterizzante della letteratura è stata criticata per due motivi. Per primo, non tutte le opere letterarie sono dense di significati impliciti. Il punto può valere, ol- tre che per il Canto notturno, anche per altre opere di narrativa che non FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 44 giocano con la densità semantica: ogni tentativo di estrarre un messaggio profondo può sembrare una forzata sovrainterpretazione. Secondo, tanti testi sono ricchi di significato ma non sono opere letterarie: il criterio della densità semantica non riesce a spiegare da solo il valore letterario delle opere. Alla base di queste obiezioni, mi sembra meglio considerare la den- sità semantica solo un tratto diffuso ma essenziale a tutte le opere lette- rarie. Non trattandosi di una condizione necessaria né sufficiente, sa- rebbe meglio considerarla come un tratto di somiglianza di famiglia. 3.4 La funzione poetica Mentre il filosofo Monroe Beardsley propone un criterio semantico per identificare il linguaggio letterario, nell’ambiente della linguistica è emersa, all’inizio della seconda metà del Novecento, un’interessante proposta che porta l’attenzione su un aspetto formale. Secondo i fautori dello strutturalismo – una corrente della linguistica nata a Praga e in Rus- sia attorno a Jan Mukařovský, Roman Jakobson e Tzvetan Todorov, poi diffusa in tutto il mondo – la letterarietà del linguaggio dipende dalla sua funzione poetica. Le funzioni del linguaggio L’idea centrale della proposta si basa su una distinzione introdotta dallo psicologo e linguista Karl Bühler all’inizio del Novecento. Bühler mette al centro dell’analisi gli atti di comunicazione, in cui un messaggio viene trasmesso da un mittente a un destinatario. Basandosi su questi tre ele- menti, l’autore distingue diverse funzioni che il linguaggio può svolgere. Usiamo i segni linguistici, ovvero le parole, (i) per parlare della realtà e per riferirci alle cose o alle persone intorno a noi. L’atto di comunicazione serve al mittente, inoltre, sia (ii) per esprimere i propri pensieri e sensa- zioni sia (iii) per condividere questi con il destinatario a cui si rivolge. Quindi, Il linguaggio, secondo Bühler, ha: (i) una funzione di rappresentazione, (ii) una funzione di espressione e (iii) una funzione di appello. LEZIONE 3: IL LINGUAGGIO LETTERARIO 45 Gli strutturalisti s’ispirano a questo sistema, ampliandolo e arricchen- dolo. In un contributo molto noto, “Closing Statement: Lin- guistics and Poetics”, Roman Jakobson distingue sei fattori costitutivi di ogni atto di comunicazione verbale. Oltre ai tre elementi di Bühler – messaggio, mittente e destinata- rio – Jakobson aggiuge: (iv) il contesto, in cui ogni atto di comunicazione si svolge; (v) un codice familiare sia al mit- tente che al destinatario; e (vi) un qualche tipo di contatto tra questi due. Dai sei elementi l’autore distingue altrettante funzioni del linguaggio ad essi relative. Tanti atti di comunicazione servono in primo luogo ad al- meno una di queste funzioni, sebbene lo stesso atto possa presentarne più di una. Quella predominante in numerosi messaggi, è la (1) funzione referen- ziale, ovvero il riferimento all’ambiente, alla realtà extralinguistica. Que- sta è particolarmente presente quando si usa il linguaggio per descrivere ciò che è reale, come, per esempio, accade quando si afferma «Questo albero è verde.». La (2) funzione emotiva è, invece, particolarmente pre- sente quando il mittente usa il messaggio per esprimere i propri pensieri e sensazioni, come succede in frasi come «Sono stanco.» e «Questo al- bero verde mi piace tanto». Passando alla terza, si ha la (3) funzione co- nativa quando l’orientamento verso il destinatario è in primo piano. Essa trova la sua espressione più pura nel vocativo e nell’imperativo, come in «Chiudi la finestra, per favore.» o «Guarda quest’albero verde!». Le tre funzioni del linguaggio viste finora che corrispondono a quelle individuate da Bühler; come è stato accennato, Jakobson ne aggiunge al- tre tre – procediamo con ordine. La (4) funzione fatica ci permette di R. Jakobson FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 46 trarre l’attenzione sul contatto tra mittente e destinatario, ovvero sul “canale” della comunicazione. L’esempio classico è il “Pronto, mi senti?”, con cui a volte interrompiamo una conversazione al telefono per verifi- care se la connessione sia ancora attiva, oppure il “ma mi ascolti? To sto parlando dell’albero.” che usiamo per attirare l’attenzione dell’altro. Usiamo il linguaggio nella sua (5) funzione metalinguistica, invece, quando parliamo del linguaggio stesso, del codice che usiamo per comu- nicare. Questa funzione, importante nei discorsi dei linguisti e dei filosofi del linguaggio, è presente anche in casi di comunicazione quotidiana, in cui chiediamo quali sia il significato di una parola, come in “Perché lo chiami ‘albero’? Questo è solo un cespuglio.” Arriviamo, infine, alla (6) funzione poetica del linguaggio. Ci sono atti di comunicazione che non trasmettono semplicemente un messaggio ma traggono anche l’attenzione sul messaggio stesso. Jakobson sostiene che la funzione poetica non è esclusiva delle opere letterarie – nonostante sia spesso presente in esse, anche se non in tutte – e che la si può trovare anche in altre forme di comunicazione. Non si tratta, quindi, di una con- dizione né necessaria né sufficiente per identificare un linguaggio o una comunicazione come “letteraria”: Ogni tentativo di ridurre la sfera della funzione poetica alla poesia, o di limi- tare la poesia alla funzione poetica sarebbe soltanto una ipersemplificazione ingannevole. La funzione poetica non è la sola funzione dell’arte del linguag- gio, ne è soltanto la funzione dominante, determinante, mentre in tutte le altre attività linguistiche rappresenta un aspetto sussidiario, accessorio. (Ja- kobson 1960, p. 190) Oltre che nella letteratura, la funzione poetica del linguaggio si fa notare spesso nella pubblicità. L’esempio di Jakobson per questa funzione del linguaggio è, infatti, lo slogan promozionale «I like Ike» usato durante le elezioni presidenziali USA del 1952 per favorire Dwight Eisenhower (detto “Ike”). Seguendo l’autore, l’uso di figure retoriche – come l’allite- razione e la rima – rende il messaggio gradevole all’ascolto e «rafforza la sua espressività ed efficacia» (Jakobson 1960, p. 191). Un punto simile potrebbe valere anche per espressioni, come «trentatré trentini», che non sono letteratura, ma in cui l’alliterazone e il ritmo ne aiutano la me- morizzazione. LEZIONE 3: IL LINGUAGGIO LETTERARIO 47 Quali sono, quindi, i meccanismi sui quali la funzione poetica del lin- guaggio si basa? Per Jakobson questi sono legati alle scelte che il parlante fa all’interno di due processi che determinano l’uso del linguaggio: selezione e combi- nazione. Se un parlante vuole, per usare l’esempio dell’autore, parlare di un bambino che dorme, può scegliere tra varie espressioni più o meno equivalenti. Come prima cosa, potrà usare termini come bambino, bimbo, marmocchio o monello. Successivamente sceglierà un verbo se- manticamente affine, come dorme, dormicchia, riposa o sonnecchia. La comunicazione sarà completa una volta che le due espressioni selezio- nate saranno combinate. L’esempio illustra bene che la selezione viene effettuata alla base dell’equivalenza; il parlante sceglie tra espressioni che sono (più o meno) sinonime, per poi combinarle basandosi sulla loro contiguità; sul loro concatenarsi l’una con l’altra. La funzione poetica del linguaggio rovescia questo modello, però. Jakobson lo esprime con la famosa frase: «La funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della se- lezione all’asse della combinazione». (Jakobson, 1960, p. 192) In un testo letterario non possiamo semplicemente sostituire un termine con un altro che, pur essendo sinonimo, ha qualche sillaba in più oppure un’altra forma fonetica. In una poesia, dove conta il ritmo del linguaggio, le scelte del poeta sono dettato da aspetti formali in funzione alla metrica e delle rime. Lo slogan “I favor Eisenhower” ha lo stesso significato ma è molto meno efficace di “I like Ike” mentre l’espressione “trentatré tren- tini” ha un effetto simile a “quarantaquattro gatti” ma non a “ventidue parmigiani”. In entrambi casi, il principio di equivalenza non segue sull’asse della selezione, ma quello della combinazione – con l’effetto che l’attenzione viene diretta al messaggio stesso. Per inciso: Per sottolineare l’importanza che le qualità materiali del linguaggio possono avere per letteratura, Cleanth Brooks – fautore del New Criticism – ha coniato lo slogan della “heresy of paraphrase” [eresia della parafrasi]. Mentre si può parafrasare o tradurre un saggio o un ma- nuale, sarebbe impossibile, secondo Brooks, parafrasare o tradurre un’opera d’arte letteraria. La parafrasi di una poesia potrebbe darci sol- tanto una pallida idea del contenuto dell’opera, sacrificando «the real Lezione 4 Le istituzioni della letteratura 4.1 Introduzione È tutto accaduto, più o meno. È questa l’impressione che si può avere quando si leggono le descrizioni contenute in una biografia, in un reso- conto o romanzo storico, o in un articolo di un giornale – ma possiamo accontentarci di quel “più o meno”? Quanto devono essere fedeli le de- scrizioni? Un autore potrebbe legittimamente arricchirle con dettagli frutto della sua immaginazione, se ciò rendesse più gradevole la fruizione del testo più gradevole e aiutasse a ottenere l’atmosfera desiderata? Di- pende. In ciò che seguirà vedremo che, per rispondere a queste do- mande, dovremo considerare non solo il testo stesso ma anche gli atteg- giamenti che la comunità dei lettori assume nei suoi confronti. Per spiegare la letterarietà di un testo, le due teorie discusse nella scorsa lezione si sono focalizzate su aspetti relativi al “materiale” di cui esso è composte, ovvero il linguaggio, sostenendo che quello letterario si distingue per la sua densità semantica e per la prevalenza della fun- zione poetica. Entrambe le teorie hanno individuato un criterio per la let- terarietà in un elemento intrinseco dell’opera – a qualcosa che appar- tiene al testo stampato sulle pagine del libro. Le due posizioni che discuteremo oggi propongono, invece, di allar- gare la prospettiva: il testo stampato è solo uno degli elementi in gioco in un sistema più ampio. Per riconoscere un’opera letteraria dobbiamo, quindi, considerare il ruolo che il testo svolge nel suo contesto. Pren- dendo in prestito alcuni termini tecnici della metafisica, potremmo dire che la letterarietà di un testo dipende non solo dalle proprietà intrinse- che ma anche da quelle intenzionali e relazionali dell’opera. Cosa significano questi termini? Le proprietà intrinseche sono proprietà che un’entità (un oggetto o una persona) ha indipendentemente da altri oggetti. La massa è una proprietà intrinseca di un oggetto, mentre il peso è una proprietà estrinseca, che dipende dalla sua posizione relativa a un altro corpo (il nostro pianeta). Le proprietà relazionali sono proprietà che un’entità ha se solo se sta in una certa relazione a un’altra entità. “Essere nonna”, per esempio, è una proprietà relazionale in quanto una persona può essere nonna se e solo se esiste un’altra persona che è suo nipote. Le FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 54 proprietà intenzionali sono proprietà che un’entità possiede se e solo se sta in relazione con una persona che possiede determinati stati mentali (credenze, desideri, ecc.) attorno ad essa, se, in altre parole, la persona assume un determinato atteggiamento che è diretto a questa entità. “Es- sere amico di Paolo”, per esempio, è una proprietà intenzionale in quanto una persona può avere questa proprietà se e solo se Paolo ha una serie di stati mentali nei suoi confronti, che potremo riassumere dicendo che Paolo considera questa persona un suo amico. 4.2 Leggere come finzione Come abbiamo visto nella lezione precedente, l’analisi strutturalista di- stingue sei funzioni del linguaggio e suggerisce che ogni atto di comuni- cazione linguistica può svolgere più di una di queste funzioni. Prendiamo, come esempio, i resoconti storici e le biografie. In en- trambi, la funzione referenziale del linguaggio è tipicamente molto pre- sente: le descrizioni storiche trattano di eventi che sono realmente acca- duti, mentre le biografie raccontano i momenti rilevanti della vita di una persona esistente o realmente esistita. La funzione referenziale stabilisce una relazione tra linguaggio e realtà extralinguistica che determina se le descrizioni fornite sono vere o false. Il fatto che ci sono criteri di corret- tezza per le descrizioni storiche è un aspetto centrale per i testi in cui prevale la funzione referenziale: dopotutto, i lettori si dedicano a queste opere perché vogliono informarsi sul periodo storico o sulla vita della persona in questione. Se un resoconto storico o una biografia dovessero svelarsi falsi, perderebbero, di conseguenza, il loro valore. Ma tante descrizioni storiche e tante biografie vengono apprezzate non solo per il loro contenuto, ovvero per le informazioni che trasmet- tono, ma anche perché lo fanno in maniera particolarmente gradevole: alcuni testi storici e biografie sono scritte talmente bene che vengono considerate opere letterarie. Ricordo in questo contesto che nel 1952 Winston Churchill fu insignito del premio Nobel per la letteratura «for his mastery of historical and biographical description as well as for brilliant oratory in defending exalted human values» [per la sua bravura nella de- scrizione storica e biografica e la sua eloquenza brillante nel difendere gli LEZIONE 4: LE ISTITUZIONI DELLA LETTERATURA 55 elevati valori umani]. Si vede che in alcuni testi storici e biografici – tra cui, secondo la commissione Nobel, quelli di Winston Churchill – oltre alla funzione referenziale anche la funzione poetica è molto presente. Questa duplice natura dei testi ha un’implicazione importante: un let- tore può decidere se prestare attenzione più alla funzione referenziale oppure a quella poetica del linguaggio. Nel primo caso si interesserà par- ticolarmente a che cosa viene detto, ovvero al contenuto e presterà at- tenzione alla veridicità degli eventi descritti. Nel secondo caso, invece, si focalizzerà sul come viene detto, ovvero sulla forma letteraria del testo, sul modo in cui gli eventi vengono descritti. Il rapporto tra linguaggio e realtà passerà in secondo piano e, di conseguenza, per il lettore sarà meno importante se le descrizioni saranno fedeli o meno ai fatti. Alla base di questa osservazione, alcuni filosofi hanno argomentato che la letterarietà di un testo dipende in primo luogo non da proprietà intrinseche ma dall’atteggiamento che i lettori assumono nei suoi con- fronti. Troviamo un cenno in questa direzione (che l’autore non appro- fondisce, però) nell’articolo sopracitato di John Searle, che sostiene «che “letteratura” sia il nome che diamo a quell’insieme di atteggiamenti che assumiamo di fronte a una porzione discorsiva, non il nome che diamo a una proprietà interna di questa porzione, anche se questo atteggiamento che assumiamo dipenderà in qualche modo dalle proprietà del discorso in questione e non sarà totalmente arbitrario.» (Searle, 1975, p. 8) Chi assume quest’atteggiamento, leggendo un’opera “da un punto di vi- sta letterario”, nota che il testo in questione contiene affermazioni che però non vanno intese come tali: è come se le convenzioni linguistiche sarebbero sospese. Storicamente, questa posizione è legata alla teoria degli atti linguistici (“Speech Act Theory”), a cui John Searle ha dedicato contributi importanti. Secondo questa teoria, il linguaggio non è soltanto un sistema formale di simboli ma è un’attività – è qualcosa che facciamo. Per cogliere pienamente la natura del linguaggio si deve, di conseguenza, andare oltre l’analisi logica dei segni – oltre il materiale linguistico di cui i testi sono composti – e prestare attenzione al modo in cui le persone agiscono linguisticamente. Ciò permette, tra le altre cose, di mettere al centro della questione di letterarietà l’atteggiamento che i lettori assu- mono nei confronti di un testo. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 56 Seguendo la teoria degli atti linguistici, quindi, un testo è un’opera di letteratura se si presta a essere letto “da un punto di vista letterario” o, ancora meglio, se può essere “letto come finzione”. Per un lettore che assume questo atteggiamento, il valore del testo non dipende dal conte- nere o meno descrizioni che sono fedeli alla realtà (nonostante possa es- sere un plusvalore) ma, piuttosto, dal fatto che la qualità letteraria delle descrizioni solleciti un tale atteggiamento. Prendere il “leggere come finzione” come criterio distintivo per la let- teratura costituisce sicuramente un interessante cambio di prospettiva, ma anche questa teoria non è esente da critiche. (i) Si potrebbe obiettare che dà per scontato che vi sia un legame molto stretto tra letteratura e finzione, in quanto sostiene che un’opera è letteraria se sospende il le- game tra linguaggio e realtà extra-linguistica. Questo è un problema per- ché, come abbiamo visto nella seconda lezione, gli aspetti letterari e quelli di finzione di un’opera sono ben diversi e devono essere distinti. Concentrandosi sui, la teoria degli atti linguistici rischia di trascurare la dimensione estetica delle opere letterarie. (ii) Un’altra obiezione po- trebbe mettere in evidenza che questa posizione sarebbe fin troppo par- ziale. La teoria si ferma al fatto che abbiamo un certo atteggiamento quando leggiamo opere letterarie, mentre non ci dice nulla attorno agli scopi che ci poniamo come lettori; non spiega, in particolare, quali siano le motivazioni che ci muovono quando fruiamo delle opere letterarie. La letteratura invita i lettori a partecipare in giochi di immaginazione (un punto su cui insiste molto Kendall Walton, che discuteremo in un’altra lezione). Il “leggere come funzione” non è, di per sé, uno scopo ma il punto di partenza per una serie di altre attività che, però, la teoria degli atti linguistici non prende in considerazione. LEZIONE 4: LE ISTITUZIONI DELLA LETTERATURA 57 4.3 Le teorie istituzionali Anche le teorie istituzionali riprendono l’idea che l’“essenza” dell’opera d’arte, ciò che distingue un’opera d’arte da un oggetto ordinario, non di- pende da proprietà intrinseche; rispetto alla Speech Act Theory, però, queste fanno un decisivo passo in più. L’idea base, che risale ai contributi di Arthur C. Danto e George Dickie, è che la natura di un’opera è determinata dalla sua posizione in una com- plessa rete di elementi che costituiscono, usando un termine coniato dallo stesso Danto in un articolo ormai classico, il mondo dell’arte – “The Artworld”: «To see something as art requires something the eye cannot decry – an at- mosphere of artistic theory, a knowledge of the history of art: an artworld» [Vedere qualcosa come arte richiede qualcosa che l’occhio non può cogliere – un’atmosfera di teoria artistica, una conoscenza della storia dell’arte: un mondo dell’arte.] (Danto 1964, p. 580) Le opere d’arte non vengono dal nulla, non crescono sugli alberi e non le troviamo per strada. Esse si distinguono da altri tipi di oggetti dal fatto che sono artefatti, oggetti creati da una persona. Anche l’artista non co- mincia da zero, però; apprendendo il suo mestiere da altri, egli o ella con- tinua una tradizione che – pur essendo in continua evoluzione e non sem- pre lineare – risale fin all’inizio dell’umanità. Ci sono, inoltre, delle istitu- zioni precise come musei, gallerie, fiere, accademie, circoli ecc. che hanno il solo scopo di conservare, esibire, vendere opere d’arte o di di- scutere e analizzare il loro valore. Tutti questi sono elementi del mondo dell’arte e hanno un ruolo ben preciso all’interno di una rete di prassi sociali condivise e guidate da regole, anch’esse in continua evoluzione. La natura dell’opera d’arte, secondo le teorie istituzionali, è determinata proprio dal ruolo che un oggetto svolge in questa fitta rete di complesse prassi sociali. Le teorie istituzionali sono teorie dell’arte, ma possono facilmente essere applicate alla letteratura: anche qui troviamo una serie di istitu- zioni come biblioteche, case editrici, premi letterari, fiere del libro, gruppi di lettura, ma anche piani degli studi per le scuole e le università, ecc. e Arthur C. Danto Lezione 5 L’ontologia dell’opera 5.1 Introduzione Nelle ultime due lezioni abbiamo discusso i criteri per individuare opere d’arte letteraria. Abbiamo visto che, secondo alcuni filosofi, tali criteri sono legati al “materiale” di cui le opere sono composte – ovvero il lin- guaggio letterario – mentre per altri si ha a che fare con le proprietà re- lazionali e intenzionali dell’opera. Oggi approfondiamo ulteriormente la differenza tra queste due prospettive, focalizzandoci sulla natura ontolo- gica dell’opera. La nostra riflessione sarà guidata da una domanda sem- plice che – a prima vista – può sembrare curiosa: dov’è la letteratura? Vedremo che questa domanda svolgerà un ruolo diverso per le due posi- zioni, mettendo in rilievo diverse peculiarità ontologiche delle opere d’arte letteraria. Cosa significano questi termini? L’ontologia è una disciplina filosofica che studia, come si suol dire, “l’essere in quanto essere”; chiede, in altre pa- role, per la natura dell’esistenza delle cose – e per le sue categorie fonda- mentali. Se guardiamo intorno a noi e riflettiamo un attimo su tutto ciò che vi è, possiamo notare che ci sono tipi di entità diversi: ci sono oggetti, persone, proprietà, relazioni, stati di cose, eventi, processi, numeri. Tutti questi tipi di entità esistono, ma sembra che esistano in modo diverso, ovvero: che abbiano uno statuto ontologico diverso: gli oggetti (es.: l’al- bero) hanno un’estensione spazio-temporale; le persone (es.: Paolo) sono oggetti in grado di intendere e volere; le proprietà (es.: essere rosso) pos- sono essere esemplificate da tante cose diverse; le relazioni (es.: essere a sinistra di) possono sussistere tra tante cose diverse; i fatti o stati di cose (es.: che il libro è sul tavolo) sono determinate dalle relazioni in cui le cose stanno tra di loro; gli eventi (es: la partita di calcio di ieri sera) si evolvono lungo un’asse temporale; i numeri (es: 2) sono oggetti astratti che esi- stono al di là dell’ordine temporale e spaziale, non hanno né origine, né una collocazione spazio-temporale. L’ontologia, appunto, è la disciplina filosofica che cerca di cogliere meglio l’esistenza e le sue forme diverse. Un’idea molto diffusa all’interno dell’ontologia è che conoscere la na- tura ontologica di un (tipo di) oggetto significa poter riconoscere – o al- meno sapere dove si dovrebbe cercare per – questo (tipo di) oggetto. Ciò FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 64 significa, a sua volta, conoscere i criteri d’identità di tale entità. Per que- sto motivo anche noi, nella lezione di oggi, ci domanderemo attorno ai criteri d’identità delle opere d’arte letteraria. L’idea è che se conosciamo la natura ontologica delle opere d’arte letteraria, allora dobbiamo anche essere in grado di stabilire i criteri che ci permettono di affermare che due opere sono identiche l’una all’altra. La lettura di questa dispensa deve essere accompagnata dalla lettura di: Jorge Luis Borges, «Pierre Menard, autore del Chisciotte» (disponibile su elly). Inoltre, si consiglia la lettura di: C. Barbero, «Filosofia della lette- ratura», op. cit., cap. 3.1 (pp. 51–60). 5.2 La riproducibilità dell’opera Una delle particolarità più salienti delle opere d’arte letteraria – che le distingue da altre opere d’arte, come per esempio i quadri – è che non sono identiche a un oggetto fisico. In particolare, l’opera letteraria non è identica alla copia stampata del libro che ho in libreria e che posso pren- dere in mano. Il punto diventa subito chiaro se pensiamo alla domanda posta nell’introduzione di questa lezione, e confrontiamo un’opera letteraria come il Gattopardo con un dipinto, come la Gioconda. Nel caso del capolavoro di Leonardo è facile rispondere alla do- manda dov’è l’opera?: attualmente si trova nel museo del Louvre a Parigi. Inoltre, possiamo constatare che l’opera ha una determinata grandezza (77 x 53cm) e un determinato peso. Il quadro esposto al Louvre è l’originale e ogni sua riproduzione – anche se è indistinguibile a occhio nudo – è un falso. Di conseguenza, se, per qualche sciagura, il Louvre dovesse andare a fuoco e del dipinto non rimanesse che cenere, l’opera avrebbe smesso di esi- stere e sarebbe persa per sempre. Dov’è il Gattopardo? Una copia dell’opera si trova nella mia libreria, ma sicuramente anche tanti di voi ne hanno una a casa. La mia ha una LEZIONE 5: L’ONTOLOGIA DELL’OPERA 65 determinata grandezza (13 x 20 cm) e un determinato peso, ma queste proprietà possono variare da un’edizione all’altra: non avrebbe nessun senso attribuirle all’opera. Né la mia né la vostra copia del libro è considerata un falso; si tratta sempre dell’opera ori- ginale. Per di più, ognuno di noi possiede l’opera intera, e non solo una sua parte. Perciò, se la mia libreria dovesse prendere fuoco e la mia copia del Gattopardo si dovesse bruciare, l’opera continuerebbe a esistere (almeno finché esisterebbe una sua copia). Tutto ciò conferma che un’opera d’arte letteraria non può essere identificata con le singole copie stampate, e nemmeno con l’insieme delle copie – altrimenti ognuno di noi non possederebbe l’intera opera, ma solo una parte di essa. In breve, diversamente dal dipinto, l’opera let- teraria è riproducibile. Nelson Goodman introduce i termini autografico e allografico per caratterizzare proprio la differenza tra opere che sono riproducibili e quelle che non lo sono: «Diremmo che un’opera d’arte è autografica se e solo se la distinzione tra falso e originale è significativa; meglio, se e solo se anche la più esatta dupli- cazione non conta per questo come genuina.» (Goodman 1968, p. 102) La letteratura, invece, è un’arte allografica in quanto «ogni copia accu- rata del testo di una poesia o di un romanzo è l’opera originale quanto qualsiasi altra» (Goodman 1968, p. 103). 5.3 L’opera astratta Qual è la natura ontologica delle opere d’arte allografiche? I punti sopra elencati potrebbero nutrire la tentazione di paragonare la relazione tra l’opera e le sue copie con quella che sussiste tra i numeri e i simboli che usiamo per rappresentarli, le cifre. I numeri sono oggetti astratti che non interagiscono causalmente col mondo fisico. Sono “eterni”, non hanno origine né fine in quanto non esistono all’interno di spazio e tempo. Le cifre, invece, sono iscrizioni (di inchiostro su carta, per esempio) che hanno un’estensione spazio-temporale. Hanno un’origine e possono es- sere distrutte. Perciò si dice che i numeri sono entità platoniche, in allu- FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 66 sione alla dottrina delle idee che viene comunemente attribuita a Pla- tone. Chi cede a questa tentazione, quindi, adotta una posizione plato- nica per cui l’opera è – come i numeri – un’entità astratta che viene esemplificata nelle diverse copie dell’opera. (Per inciso: Nelson Goodman non cede a questa tentazione. Al contrario, è uno dei critici più taglienti del platonismo nel Novecento). Le posizioni platoniche portano a delle implicazioni che sono però dif- ficile da accettare per tanti filosofi e possono facilmente sembrare con- trointuitive. Per iniziare, chi adotta la posizione platonica dovrebbe so- stenere che l’opera è sempre esistita e non potrà mai essere distrutta; ciò va contro l’intuizione per cui ogni opera letteraria ha un’origine pre- cisa che risale al momento in cui l’autore la compone. In secondo luogo, per la concezione platonica l’autore non creerebbe bensì “scoprirebbe” un’opera. Questa, insieme a tutte le altre, sarebbe sempre esistita al di fuori dello spazio e del tempo; ne consegue che, potenzialmente, tante opere non verrebbero mai “scoperte” o realizzate. Si pongono, quindi, alcune domande che il platonista dovrebbe affrontare: come può l’au- tore cogliere un’opera già esistente? Cosa deve fare per crearne un’esemplificazione? Come fa a scegliere proprio quella che, nell’affol- lato “cielo platonico”, esprime meglio il suo stato d’animo o il suo “mondo interiore”? Per questi problemi – e altri inerenti al platonismo in generale – quest’approccio allo statuto ontologico delle opere letterarie non è considerato promettente. 5.4 L’opera un’entità mentale? Un’alternativa alla posizione platonista che, mantenendo la distinzione tra l’opera e la copia stampata, dà più peso all’atto della creazione, viene proposta da filosofi dell’idealismo come Samuel T. Coleridge e Benedetto Croce. Il testo che possiamo leggere, per loro, è solo il pro- dotto finale di un processo che nasce nel progetto mentale dell’autore. La “vera” opera, quindi, esiste nella mente dell’autore e si tratta di un’entità mentale o immaginaria; l’autore può decidere di estrinsecarla – può, per esempio, proferire la sua poesia o inscriverla su LEZIONE 5: L’ONTOLOGIA DELL’OPERA 67 un foglio di carta e farla pubblicare in un volume di poesia. Lo farà se vorrà rendere l’opera accessibile agli altri oppure conservarla nel tempo. Questi passaggi non sono necessari: una persona potrebbe essere un grande poeta anche senza aver mai scritto una singola parola in vita sua. Per i lettori, in questa prospettiva, il testo stampato è solo uno strumento che serve per “risalire” all’opera, e quindi per entrare in contatto con la mente dell’autore. Questa concezione, strettamente legata alle teorie espressive (ved. lezione 2) e alle concezioni estetiche del Romanticismo, mette l’enfasi sull’autore, che, usano lo strumento della letteratura, esprime i propri sentimenti e la propria “vita interiore” – il tutto in un inafferabile ed effimero “colpo di genio”. Ci sono alcuni punti critici, però, che questa posizione deve affron- tare. Per primo, sembra ovvio che essa sia più adatta per le opere lette- rarie brevi, in particolare per le poesie. Sarebbe difficile sostenere che un romanzo di mille pagine possa esistere sotto forma di entità mentale: nessun essere umano è in grado di avere presente nella mente, in un sin- golo momento, l’intera opera. Secondo, si dovrebbe chiarire in che forma e medium l’opera possa esistere nella mente. È necessario che il poeta formuli (in italiano? in un linguaggio della mente?) e reciti con la sua “voce interna”, o può bastare che l’opera esista in una forma “pensieri puri”, e quindi in una forma proto-linguistica nella sua mente? In questo caso si tratterebbe ancora di opera d’arte letteraria? Si potrebbe tentare di evitare questi problemi sostenendo che le opere esistono nella mente non dell’autore, ma del lettore. Con questa mossa si potrebbe dare più peso al momento di fruizione dell’opera, ai pensieri e le attività d’immaginazione che essa può evocare nella mente dei lettori. La difficoltà in questo caso sarebbe quella di specificare a quali lettori ci si riferisce. Nel corso dei secoli, il modo in cui un’opera può es- sere letta e i pensieri che essa evoca nei fruitori può cambiare drastica- mente. È meglio considerare solo chi ha letto l’opera nel periodo in cui questa è stata composta o tutti i lettori di tutti i tempi? E cosa succede- rebbe, poi, se un’opera non venisse mai letto da nessuno? Non sarebbe mai esistita? FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 72 Le due opere, quindi, sono identiche parola per parola: l’unica differenza è che la prima è stata scritta da Cervantes nel secolo XVII mentre la se- conda da Menard nel secolo XX. Per il testualismo, come abbiamo visto, si tratterebbe di due copie della stessa opera. La voce narrante del nostro racconto, però, arriva alla conclusione opposta: Il Don Chisciotte di Cer- vantes e il Don Chisciotte di Menard sono due opere distinte. Ma in che cosa consistono le differenze tra le opere – oltre, ovviamente, al fatto che hanno due autori diversi? Il testo di Borges elenca alcuni punti: 1.) La scelta dell’ambiente: A prima vista potrebbe sembrare che le due opere siano ambientate negli stessi contesti. Un’analisi più approfondita svela, però, che la scelta dell’ambiente nell’opera di Menard è più sottile di quella di Cervantes: «…il frammentario Chisciotte di Menard è più sottile di quello di Cervan- tes. Quest’ultimo, semplicisticamente, oppone alle finzioni cavalleresche la povera realtà provinciale del suo paese; Menard sceglie come “realtà” la terra di Carmen durante il secolo di Lepanto e di Lope» (43) 2.) Il significato che emerge da alcuni passi: Quando si tratta d’interpretare le opere vediamo che alcuni passi, sebbene siano identici parola per parola, vengono letti in maniera di- versa se si considerano le opinioni, gli orizzonti intellettuali e i conte- sti dei rispettivi autori. La voce narrante del racconto illustra questo punto con un’analisi del passo in cui Chisciotte si pronuncia a favore delle armi: «Cervantes era un vecchio soldato, e il suo giudizio si spiega. Ma che il Don Chisciotte di Pierre Menard – contemporaneo della Trahison des clercs e di Bertrand Russell – ricada in queste nebulose sofisticherie! Ma- dame Henri Bachelier ha voluto scorgervi un’ammirevole e tipica subor- dinazione dell’autore alla psicologia dell’eroe; altri (non più perspicace- mente), una trascrizione del Chisciotte; la baronessa di Bacourt, l’in- fluenza di Nietzsche» (44) Il passo svela inoltre che, secondo la voce narrante, le due opere avrebbero addirittura riferimenti extratestuali diversi. Il Chisciotte di Menard, ma – per ovvii motivi – non quello di Cervantes, contiene un riferimento implicito alle opere di Nietzche e al fatto che Bertrand LEZIONE 5: L’ONTOLOGIA DELL’OPERA 73 Russell fu imprigionato nel 1916 per la sua partecipazione a manife- stazioni pacifiste. Un punto simile emerge nell’analisi di un passo che viene citato due volte (eppure è identico parola per parola) e che viene interpretato diversamente. Qui la storia viene chiamata la “ma- dre della verità” – affermazione che nel contesto storico di Cervantes ha un significato, mentre in quello Menard ne ha un altro. 3.) Lo stile letterario Le due opere sono identiche parola per parola ma, ciononostante, leggiamo che sarebbero distinte in quanto adotterebbero uno stile diverso: «Altrettanto vivido il contrasto degli stili. Lo stile arcaizzante di Menard resta straniero, dopo tutto, e non senza qualche affettazione. Non così quello del precursore, che maneggia con disinvoltura lo spagnolo cor- rente della propria epoca.» (45) 4.) La densità semantica Le due opere, infine, si distinguono per la loro ricchezza di significato. Alcuni passi del Chisciotte di Menard possono sembrare ambigui e fanno, quindi, affiorare strati di significato non presenti nel Chisciotte di Cervantes: «Il testo di Cervantes e quello di Menard sono verbalmente identici, ma il secondo è quasi infinitamente più ricco. (Più ambiguo, diranno i suoi detrattori; ma l’ambiguità è una ricchezza).» (44) L’opera di Borges propone, quindi, argomenti contro la posizione del te- stualismo e a favore delle teorie istituzionali della letteratura, secondo le quali l’opera i criteri d’identità di un’opera non sono legati soltanto al testo stampato, ma si estendono anche al contesto, coinvolgendo prassi sociali e istituzioni che, a loro volta, sono dinamiche e si evolvano nel tempo. Può sembrare particolarmente curioso che tali argomenti si trovano in un’opera di finzione letteraria pubblicata in un volume chiamato Fin- zioni. Lo stile del racconto – che richiamo un saggio di critica letteraria – può facilmente portare il lettore a domandarsi se Borges affermi real- mente tale argomento, se invece lo attribuisca alla voce narrante, oppure FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 74 se lo voglia semplicemente citare. Questa incertezza è una mossa tipica per le opere di Borges ed è in piena armonia col suo programma estetico. L’autore non nutre solo l’immaginazione dei lettori ma, facendoli ponde- rare sugli argomenti presentati, li costringe a ragionarci su in maniera – seppur guidato dalla voce narrante – autonoma. 5.7 Bibliografia delle opere citate Barbero, Carola. 2013. La filosofia della letteratura, Roma: Carocci. Borges, Jorge L. 1985. «Pierre Menard, autore del Chisciotte» in: Finzioni, Torino: Ei- naudi, pp. 36-47. Goodman, Nelson. 1968. Languages of Art, trad. it.: I linguaggi dell’arte, a cura di Franco Brioschi, Milano: il Saggiatore, 1976. Lezione 6 Lo statuto dei personaggi 6.1 Introduzione Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa: che il mio nome era … Chi non potrebbe dire qualcosa del genere? Vi è una, senza dubbio, una relazione molto intima tra un nome e la persona che lo porta – ma che cos’è un nome? Qual è la natura della relazione tra i segni linguistici e la persona a cui si riferiscono? Come “funziona” un nome il cui portatore non esiste? Nella lezione di oggi approfondiremo queste domande in una duplice prospettiva: per primo ci focalizzeremo sul significato linguistico, ovvero sul fatto che i segni linguistici vertono su qualcosa al di là di se stessi. Questa relazione tra parole e oggetti, tra nomi e persone è, per tanti fi- losofi, l’aspetto più centrale del linguaggio; ma cosa succede se abbiamo a che fare con un linguaggio in cui questa relazione è sistematicamente sospesa? Come può funzionare il linguaggio nei contesti di finzione? Que- ste domande ci porteranno al secondo punto: qual è lo statuto ontolo- gico delle entità di cui le opere di finzione raccontano? L’opera descrive personaggi, attribuendo loro una serie di proprietà. Ma qual è la natura di questi personaggi? Possono le entità fittizie, che quindi non esistono, possedere delle proprietà? (Per inciso: L’immagine sulla pagina in copertina è presa da dall’adat- tamento cinematografico di “Rosencrantz e Guildenstern are dead” di Tom Stoppard, un’opera di finzione letteraria che pone proprio queste do- mande. Nel frame si vedono i due protagonisti – anzi i due attori Tim Roth e Gary Oldman, che impersonano i due compagni di università di Amleto. Forse qualcuno di voi gli riconosce come brevi comparse nel dramma di Shakespeare – ma cosa hanno fatto prima di apparire alla corte di Dani- marca, e cosa faranno quando calerà il sipario? Sono queste le domande che Tom Stoppard si pone nel suo dramma.) Come lettura complementare a queste dispense è caldamente consi- gliato: C. Barbero, «Filosofia della letteratura», op. cit., cap. 3.2 e 3.3 (pp. 60–74). FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 82 Williams era professore di letteratura presso l’università di Denver.” “John Williams è nato nel 1922.”, per esempio. A che cosa si riferisce, invece, il nome “William Stoner”? Dato che si tratta di un personaggio fittizio che non è mai esistito, dovremmo dire: a nulla. Si tratterebbe quindi di un nome proprio vuoto, senza riferimento. Bisogna però notare che, nel romanzo, a quel nulla vengono attribuite alcune proprietà: “William Stoner si iscrisse all’Università di Missouri nel 1910 … dove restò a insegnare fino alla sua morte, nel 1956.”, “Era nato nel 1891.” Alla base di queste proprietà possiamo distinguere Stoner da Humbert Humbert, Phillip Swallow, Morris Zapp e altri personaggi fittizi. Se tutti questi nomi si riferissero a nulla, come potremmo discernere dif- ferenze tra di loro? Dobbiamo, quindi, domandarci: che cos’è che pos- siede queste proprietà e che rende gli enunciati veri? A che cosa si riferi- sce il nome “William Stoner”? La domanda sul funzionamento dei nomi propri fittizi ci porta, quindi, alla domanda sullo statuto ontologico dei personaggi fittizi. 6.3 Lo statuto ontologico dei personaggi In una prima approssimazione possiamo dire che i personaggi fittizi non esistono realmente, o meglio: che non hanno un’estensione spazio-tem- porale. Possiamo osservare, inoltre, che dipendono ontologicamente dall’autore: i personaggi fittizi sono creature della sua immaginazione. È lo scrittore che con piena autorità sul personaggio, è libero di attribuirgli tutte le proprietà che ritiene giusto. È lui che lo inventa, e può quindi fare come vuole. L’autore decide se la sua creatura è un professore universi- tario, un supereroe, o un mago. Ciònonostante, chi scrive non si pronun- cia su tutte le proprietà che il personaggio potrebbe avere. Nel romanzo citato sopra, per esempio, John Williams non ci informa se William Stoner è mancino o meno. Diversamente dalle persone reali, i personaggi fittizi non sono determinati in tutte le loro proprietà: Stoner non è né mancino, né destrimano, né ambidestro – John Williams, invece, era o mancino, o destrimano o ambidestro (anche se noi non possiamo accedere a tale in- formazione al momento). LEZIONE 6: LO STATUTO DEI PERSONAGGI 83 Abbiamo, quindi, intuizioni contrastanti: da un lato siamo convinti che i personaggi fittizi non esistono, dall’altro non esitiamo a dire che sono stati creati dagli autori e ad attribuir loro delle proprietà. Come risolvere questa tensione? Vi è un senso in cui possiamo dire che i personaggi esi- stono? In ciò che segue prenderemo in considerazione brevemente delle posizioni sviluppate per affrontare proprio questa domanda: l’eliminati- vismo, che nega l’esistenza ai personaggi fittizi; il meinonghianismo, che attribuisce non l’esistenza, ma un’altra forma di essere ai personaggi; e la teoria dei mondi possibili, secondo la quale i personaggi esistono real- mente in altri mondi possibili, distinti dal quello attuale. Eliminativismo Questa sobria posizione nega ogni forma d’esistenza ai personaggi fittizi. Leggendo un’opera letteraria, si potrebbe avere l’impressione d’imbat- tersi in nomi propri ma, secondo gli eliminativisti, un’analisi più appro- fondita svelerebbe che in realtà non è così. Il nome “William Stoner” sa- rebbe vuoto, e le mie credenze attorno a esso sarebbero prive di riferi- mento. L’eliminativismo si basa su un’analisi dei nomi propri che presup- pone un legame diretto tra un nome e la persona (reale) che lo porta. Poiché una tale relazione non può sussistere coi personaggi fittizi, in que- sto caso i nomi propri non possono svolgere la loro funzione fondamen- tale. Nonostante possa essere uno svago gradevole, l’eliminativista pensa quindi alla letteratura come a un vuoto gioco di simboli dalla fun- zione puramente ornamentale. Il pregio di questa posizione è senz’altro la sua parsimonia ontologica; essa non si trova in difficoltà a dover spiegare in che modo i personaggi sono reali, negandone appunto ogni forma di realtà. Ci sono però alcuni aspetti a cui l’eliminativismo non riesce a rispondere efficacemente: (i) William Stoner e Philipp Zapp sono due personaggi diversi con proprietà diverse, che conosciamo da due opere diverse – ma se entrambi i nomi non si riferissero a nulla, come riusciremmo a distinguerli? (ii) Inoltre, tanti di noi hanno la forte intuizione che sia vero che “Amleto è il principe della Danimarca” e che “Amleto è un astronauta” sia falso. L’eliminativi- smo, sostenendo che entrambe le affermazioni siano false, tratta invece i due enunciati nello stesso modo. (iii) A volte usiamo i nomi fittizi per parlare dell’opera, come, per esempio, in “Stoner presenta alcuni tratti FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 84 autobiografici dell’autore”. In un enunciato del genere – che non è fittizio ma, si potrebbe dire, meta-fittizio – il nome proprio “Stoner” ha un signi- ficato preciso che l’elimintavista dovrebbe invece negare. Si noti che tutti e tre punti accennati finora mostrano che l’eliminativismo porta a delle conseguenze controintuitive. Per vedere un’altra implicazione indeside- rata, (iv) consideriamo il seguente scenario fittizio: un autore scrive un racconto di finzione, frutto della sua immaginazione; abbiamo visto che, per l’eliminativista, i nomi propri e le affermazioni contenute nel testo sarebbero, rispettivamente, senza riferimento e false – fin qui, nulla di nuovo. Immaginate però che un indomani, all’insaputa dell’autore e di tutte le persone coinvolte, accadono degli eventi del tutto simili a quelli narrati nell’opera di finzione. In questo caso, l’eliminativista dovrebbe sostenere che, all’improvviso, il racconto non sarebbero più fittizio (che, quindi, i nomi propri contenuti al suo interno avrebbero un riferimento, mentre gli enunciati sarebbero descrizioni fedeli della realtà). Questa si- tuazione potrebbe essere interessante e persino sconvolgente ma, a meno che non si considerino improbabili profezie, l’opera di finzione ri- marrebbe tale. Vediamo, in breve, che le posizioni eliminativiste non rendono giusti- zia al linguaggio letterario: quando parliamo di personaggi fittizi, non par- liamo di nulla, e non parliamo nemmeno di persone “in carne e ossa” che fanno parte del mondo reale – ma piuttosto di personaggi che apparten- gono al mondo della finzione creato dell’autore e che in esso hanno delle proprietà ben definite e precisi criteri d’identità. Il realismo meinonghiano Il poter attribuire ai personaggi alcune proprietà e determinati criteri d’identità sono due aspetti accentuate nelle posizioni rea- lista. Basandosi sulla teoria sviluppata dal filosofo Alexius Meinong all’inizio del Novecento, alcuni realisti sosten- gono che le entità fittizie hanno una forma di realtà – an- che se non fanno parte del mondo spazio-temporale e non sono nemmeno degli oggetti astratti. Nel suo saggio Teoria degli oggetti (1904), Meinong afferma che l’on- tologia tradizionale si basa sulla problematica un’assunzione per cui si A. Meinong LEZIONE 6: LO STATUTO DEI PERSONAGGI 85 possono attribuire proprietà solo a entità esistenti. Gli oggetti che esi- stono hanno una serie di proprietà: la mela che ho in mano ha le pro- prietà di essere rossa, di pesare 205 grammi, di essere stato comprato dal fruttivendolo sotto casa, ecc. Un oggetto che non esiste, invece, non ha nessuna di queste proprietà. Tale punto sembra evidente a tanti filosofi nella storia, talmente evidente che è stato spesso dato per scontato senza fornire argomenti a suo favore. È proprio per questo motivo, Mei- nong parla di un pregiudizio a favore del reale secondo il quale l’avere proprietà o, per usare un termine meinonghiano, “l’essere-così” dipen- derebbe dall’essere. Il filosofo non accetta questo pregiudizio e sostiene, invece, che ci sono oggetti non-esistenti di cui possiamo parlare e su cui possiamo for- mare dei pensieri o altri fenomeni mentali (immaginazioni, desideri). Tali oggetti, seppur non esistenti, avrebbero delle proprietà. Per esempio, gli unicorni non esistono ma hanno la proprietà di avere un corno; Pegaso non esiste ma ha le proprietà di essere alato e di essere un cavallo; babbo natale non esiste ma ha le proprietà di avere una barba bianca e di essere generoso. Alla base di queste proprietà possiamo distinguere babbo na- tale da Pegaso: entrambi non esistono quindi entrambi, in un certo senso, sono nulla. Tuttavia, non sono la stessa cosa (ovvero “nulla”) – e non lo sono perché hanno delle proprietà diverse. Per esprimere questo punto, Meinong stipula il principio della «indipendenza dell’essere-così dall’essere» (2002: 242). Secondo Meinong, quindi, non è necessario che un oggetto esista per poter possedere delle proprietà ma, dovendo pur avere qualche statuto ontologico, deve sussistere o esserci [bestehen]. Pegaso, nella terminolo- gia meinonghiana, c’è, ma non esiste, e lo stesso vale per tutti gli altri oggetti che possiamo concepire o immaginare. Babbo natale c’è, e non esiste; gli unicorni ci sono, ma non esistono, e così via. Gli oggetti che sussistono – ma non esistono – non sono determinati in tutte le loro pro- prietà. Babbo natale è generoso ma non ha un peso, un colore degli occhi o una cittadinanza ben precisa. La tesi meinonghiana sembra calzare perfettamente nel dibattito sull’esistenza dei personaggi fittizi – anch’essi hanno delle proprietà, anch’essi ci sono, ma non esistono. Tale posizione, che può essere consi- derata una forma di realismo, ha una grande forza esplicativa e chiarisce FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 86 alcuni problemi lasciati irrisolti nelle posizioni eliminativiste: essa spiega come possiamo identificare e attribuire proprietà ai personaggi fittizi; an- che il fatto che gli oggetti meinonghiano non siano determinati in tutte le loro proprietà rende la teoria utile all’interno del nostro dibattito. Il realismo meinonghiano dei personaggi fittizi deve però affrontare le stesse critiche mosse all’originale teoria degli oggetti di Meinong. In che cosa consiste la differenza tra esistenza e sussistenza, tra esistere ed esserci? Sussistono tutti gli oggetti ai quali possiamo attribuire delle pro- prietà, anche quelli logicamente impossibili, come il quadrato rotondo? Può esserci o sussistere anche l’oggetto a cui attribuiamo le proprietà di essere montagna, essere fatto d’oro, e di non esistere? In questo caso dobbiamo dire che la inesistente montagna d’oro esiste in qualche modo? Non troviamo risposte convincenti a queste domande nelle opere di Meinong. Si potrebbe tentare di rispondere ai quesiti aggiornando e ri- maneggiando la sua teoria, ma per tanti filosofi sembra uno sforzo inu- tile. Può non essere un caso che Meinong non abbia spiegato bene la dif- ferenza tra esistere e sussistere; fornire una tale spiegazione potrebbe essere arduo, se non impossibile. Il realismo dei mondi possibili Una variante del realismo che cerca di adoperare alcune intuizioni mei- nonghiane, evitando però le implicazioni problematiche, si rifugia nell’as- sunzione che vi siano – oltre a quello attuale – altri mondi possibili. Daid Lewis, uno dei fautori principali di questo tipo di approc- cio, sostiene che i personaggi fittizi non esistono nel mondo attuale ma in altri mondi possibili, e che le opere di finzione contengono descrizioni veritiere non del mondo attuale ma, appunto, di altri mondi possibili. Questi ultimi sono sia spazio-temporalmente che causal- mente separati dal mondo attuale; non possiamo, quindi, interagire con essi né “viaggiare” tra essi in alcun modo. Secondo questa teoria, esiste un mondo possibile in cui nel 1910 un tale William Stoner, nato nel 1891, si è iscritto all’Università di Missouri. Qui può sorgere la domanda: quest’individuo è determinato in tutte le David Lewis LEZIONE 6: LO STATUTO DEI PERSONAGGI 87 sue proprietà? Lo è ma, nonostante ciò, chi sostiene la teoria dei mondi possibile ha in mente una soluzione elegante: se la descrizione contenuta nell’opera non esplicita tutti i dettagli di William Stoner, allora il romanzo non si riferisce a un preciso mondo possibile ma a un insieme di mondi possibili. Il testo, non determinando se Stoner sia destrimano, ambide- stro o mancino, si riferisce all’insieme di (al meno) tre mondi possibili. In tutti e tre gli eventi rappresentati nell’opera sono realmente accaduti; in uno di essi Stoner era destrimano, in un altro è mancino, e nel terzo am- bidestro. Si vede subito che anche questa posizione ha un costo elevato: deve ammettere che, oltre al mondo attuale, ne esistono (ve ne sono?) altri. Per di più, si parla di un’ingente quantità: ogni cambiamento di ogni mi- nimo dettaglio porta con sé un altro mondo possibile. La posizione, quindi, è tutt’altro che parsimoniosa – attirando il sospetto di tanti filo- sofi. Un altro problema che i fautori del realismo dei mondi possibili do- vrebbero affrontare è la questione del perché noi lettori, che siamo prin- cipalmente interessati al mondo attuale, dovremmo leggere libri che de- scrivono cosa sia accaduto in altri mondi possibili a noi preclusi. Ciononostante, la posizione ha anche il suo fascino: spesso, quando fruiamo un’opera letteraria, possiamo avere l’impressione che essa ci apre un nuovo universo e ci permetta d’immergerci in un altro mondo. Parlare di mondi possibili può, quindi, essere particolarmente efficace se si abbandona il piano ontologico del discorso e si usa il termine in ma- niera metaforica. In un’altra lezione, quando saremo alle prese con l’ap- proccio di Kendall Walton, vedremo meglio come una tale strategia possa gettare nuova luce sulle nostre prassi letterarie. Dissolvere il problema ontologico Le tre soluzioni discusse finora (eliminativismo, meinonghianismo e mondi possibili) cercano di dare una risposta alla domanda sullo statuto ontologico dei personaggi fittizi. Vi è un’alternativa a queste posizioni che, anziché dare una risposta diversa, sostiene che la domanda sia mal posta. Il problema stesso nasce dalla tendenza molto diffusa tra i filosofi (e non solo), di sottovalutare la FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 92 come lo strutturalismo, il new criticism, la critica marxista e quella psi- coanalitica condividono l’idea che non si dovrebbe dare troppo peso alle dichiarazioni dell’autore attorno la propria opera; per il postmoderni- smo, tali dichiarazioni non sarebbero nient’altro che ulteriori testi che, invece che guidare l’interpretazione, sarebbero solo appendici dell’opera da interpretare a loro volta. In questo labirinto d’interpretazioni, i post- modernisti sostengono che sia impossibile risalire alla persona dell’au- tore reale. E al giorno d’oggi qual è il ruolo dell’autore? Quale importanza gli vo- gliamo attribuire? Quanto sono rilevanti gli aspetti biografici, la persona- lità dell’autore e il contesto storico in cui l’opera fu prodotta per l’inter- pretazione? Quanto peso dovremmo dare alle intenzioni dell’autore? Spero che le discussioni in questa e nella prossima lezione possano dare qualche spunto di riflessione per ciascuna e ciascuno di noi. Come lettura complementare a queste dispense consiglio: C. Bar- bero, «Filosofia della letteratura», op. cit., cap. 2.1 (pp. 33–37). 7.2 Due intuizioni contrastanti In questo caso, forse, le nostre intuizioni preteoriche non sono di grande aiuto in quanto vanno in due direzioni opposte. Da un lato, la discussione sul ruolo dell’autore non può prescindere dal fatto che vi è una dipen- denza ontologica dell’opera dall’autore: se non fosse per lui, l’opera non esisterebbe – il che potrebbe suggerire che dovremmo prendere in con- siderazione la biografia e le intenzioni dell’autore per cogliere il messag- gio nel testo. D’altra parte, esistono opere di cui è impossibile risalire all’autore – alla sua biografia o alle sue intenzioni – che possiamo comun- que interpretare. Pensate all’Iliade e l’Odissea, i già citati poemi omerici, attribuiti appunto a Omero, ma che tanti filologi sostengono essere com- posti da più autori. In questo caso, i testi non pongono particolari diffi- coltà d’interpretazione. Lo stesso vale per forme di letteratura digitale in cui vari autori collaborano anonimamente su internet, e per tutte le opere che sono state pubblicate in modo anonimo o sotto pseudonimo. Alcuni autori, come Thomas Pynchon ed Elena Ferrante, si sforzano di non far conoscere la propria identità al lettore e, con ciò, di far “parlare” LEZIONE 7: IL RUOLO DELL’AUTORE 93 l’opera stessa. Anche qui riusciamo comunque a leggere e interpretare le loro opere senza problemi – il che indica che le informazioni sulla perso- nalità e la biografia dell’autore non sono imprescindibili per la compren- sione del testo. Vi è, quindi, una tensione tra due intuizioni contrastanti che, nella teoria (e nella filosofia) della letteratura, si rispecchiano in altrettanti tipi diversi di concezioni del ruolo dell’autore. Possiamo distinguere due campi (seppur consapevoli che una tale distinzione comporta sempre una semplificazione): quello pro-autore e quello pro-testo. I fautori del primo mettono la funzione espressiva della letteratura al centro e sosten- gono che una lettura “profonda” di un’opera deve considerare anche la biografia, la personalità dell’autore e il contesto in cui essa è stata com- posta. Per loro, l’interpretazione dell’opera sarà tipicamente guidata dalla domanda: Che cosa ci vuole dire l’autore? I fautori del campo pro- testo, invece, ritengono che questa domanda sia inappropriata e fuor- viante. Un interesse elevato per la figura dell’autore farebbe perdere di vista gli aspetti essenziali della letteratura che, per loro, stanno nell’opera stessa. La domanda che guida l’interpretazione dovrebbe, quindi, essere Che cosa ci dice il testo? I fautori del campo “pro-autore” sostengono che informazioni sulla biografia dell’autore possono determinare o modificare il significato del testo e sono, quindi, essenziali per la comprensione. Per decidere, per esempio, se un certo passo possa contenere un riferimento extratestuale a un evento storico o meno, si deve sapere quando il testo è stato scritto (come abbiamo visto nel caso di “Pierre Menard”: secondo la voce nar- rante del racconto, il Don Chisciotte di Menard conteneva riferimenti a Nietzsche e Russell che il Don Chisciotte di Cervantes non poteva conte- nere, semplicemente perché è stato scritto secoli prima della nascita di entrambi i filosofi). Lo stesso vale se si tratta di decidere se un’opera è ironica o meno. Pensate, per esempio, ad “A Modest Proposal” di Jona- than Swift, che fu pubblicata anonima. Per tanti lettori fu impossibile ca- pire se l’opera fosse ironica oppure se fosse l’espressione di un atteggia- mento cinico e misantropo. Per illustrare meglio il punto, consideriamo un esempio concreto: FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 94 Soldati Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie. Immagino che tanti di voi siano familiari con la poesia di Giuseppe Ungaretti, scritta dal poeta soldato in trincera nel luglio 1918. Cono- scendo il contesto di produzione, è facile leggere l’opera come espres- sione di un senso di precarietà della vita e d’inevitabilità della propria sorte che solo un soldato a fronte, tutti i giorni a contatto con violenza e morte, poteva esperire. La forza poetica della poesia sta, tra le altre cose, anche nell’immagine scelta dal poeta: le foglie d’autunno che cadono da- gli alberi, appresentano efficacemente proprio questa sensazione. Immaginiamo, per un momento, che nei tardi anni Settanta una per- sona, da qualche parte in California, trovi per caso una versione inglese della poesia, senza indicazioni sul poeta o sul momento della produzione. Partendo dal titolo coglierà subito che la poesia descrive la realtà della guerra, ma l’immagine potrebbe essere interpretata in modo completa- mente diverso: nel nostro esperimento mentale, la poesia viene letta ne- gli Stati Uniti durante il periodo della guerra in Vietnam – un conflitto in cui il veleno chimico Agent Orange fu sistematicamente usato per far ca- dere le foglie dagli alberi ed eliminare così alcuni nascondigli dei Viet Cong. In questo contesto, l’immagine della poesia potrebbe assumere un significato del tutto diverso: le foglie caduche non rappresenterebbero più la dura sorte dei soldati bensì un violento atto, perpetuato proprio dai soldati, dai crudeli effetti collaterali per la popolazione civile. La poesia di Ungaretti è molto densa di significato e meriterebbe un’analisi molto più profonda, che qui non possiamo dare. L’esperimento mentale appena fatto serve, piuttosto, a illustrare con un esempio con- creto (una poesia che forse conoscevate già molto bene) che, al variare il contesto, può cambiare anche il significato dell’opera. Questo punto raf- forzerebbe l’idea che l’opera dipende da proprietà relazionali e intenzio- nali – e porterebbe acqua al mulino del campo “pro-autore”, in quanto potrebbe suggerire che per conoscere il “vero” significato del testo dob- biamo avere informazioni sulla biografia dell’autore e sul contesto della produzione dell’opera. LEZIONE 7: IL RUOLO DELL’AUTORE 95 Le intuizioni sono forti, però, e i fautori del campo “pro-testo” non si accontentano di queste considerazioni. Lo stesso esempio potrebbe es- sere usato come prova del fatto che la poesia letta in California negli anni Settanta deve essere considerata un’opera distinta dalla poesia di Unga- retti: sarebbe una dimostrazione che due opere diverse possono essere identiche parola per parola. Forse, il fronte “pro-testo” insisterà che nes- suna delle due letture date finora di Soldati si riferisce alle intenzioni dell’autore: ciò suggerirebbe che non è la conoscenza della persona par- ticolare dell’autore che conta, ma quella del contesto (sociale e accessi- bile a tutti). Le intenzioni di Ungaretti, invece, sarebbero accessibili solo all’autore stesso mentre rimarrebbero precluse a noi, lettori distanti ol- tre cento anni dalla creazione della poesia. Siamo arrivati a fine sezione senza aver optato per una o l’altra intui- zione. Nonostante ci manchino ancora alcuni elementi per decidere se dar retta al campo “pro-autore” o a quello “pro-testo”, la discussione po- trebbe essere servita per chiarirne le implicazioni più rilevanti e per sug- gerire che, forse, qui la verità potrebbe stare nel mezzo. 7.3 Autore reale, autore implicito e narratore Che le intenzioni dell’autore siano accessibili solo all’autore stesso è un punto che apre la porta all’argomento gnoseologico (ovvero relativo alla conoscenza) secondo il quale sarebbe impossibile conoscere le intenzioni dell’autore. Dopotutto, solo lui può sapere quali siano le sue intenzioni – solo lui le può conoscere. Perciò sembra problematico attribuire le affer- mazioni fatte in un’opera letteraria a un autore che potrebbe sempre averle intesi diversamente. In un testo letterario – l’abbiamo visto già nelle prime lezioni – l’autore non afferma nulla e non presenta argo- menti; le affermazioni contenute nel testo spesso servono soltanto per illustrare una determinata prospettiva – che spesso viene personificata da uno dei personaggi o dalla voce narrante. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 96 Per evitare attribuzioni fallaci, tanti critici letterari e tanti filosofi hanno ripreso la distinzione tra autore reale e autore implicito che fu in- trodotta da Wayne Booth nel suo The Rhetoric of Fiction (1961). In quest’opera, Booth insiste che sia importante distinguere l’autore reale, la persona in “carne e ossa” che ha composto l’opera, dall’au- tore implicito, ovvero dall’immagine che un lettore del testo si può fare dell’autore. A volte si può avere l’impressione di po- ter coglierne la prospettiva e la personalità basandosi sul tema scelto, sul modo in cui questo viene trattato, sul vocabolario impiegato e su altri elementi testuali. Ma tutti questi indizi possono fuorviare o ingannare: l’autore si presenta solo in un certo modo che, in realtà, può facilmente non corrispondere alla sua vera natura né esprimere la sua vera perso- nalità. Magari l’autore vuole solo fingere di essere diverso per creare un qualche effetto estetico. Non dobbiamo, quindi, confondere l’autore reale con l’immagine dell’autore che emerge dal testo – o, nella termino- logia di Booth, con “l’autore implicito”. C’è anche un terzo elemento da distinguere: ogni opera viene raccontata da una determinata prospet- tiva, vi è sempre una voce narrante. Oltre agli autori reali e impliciti, quindi, vi è un narratore che spesso è anche un personaggio fittizio all’in- terno dell’opera. La prospettiva del narratore può variare: c’è il narratore onnisciente, quello nascosto, quello inaffidabile, ecc. e in alcuni romanzi ce n’è più di uno. Anche qui è molto importante non confondere l’autore reale con il narratore. Possiamo riassumere queste distinzioni con il seguente schema: L’autore reale: la persona che ha di fatto composto l’opera, che si as- sume la responsabilità per il contenuto e ne gode i diritti. L’autore implicito: “l’autore come sembra essere dall’evidenza dell’opera”; è l’immagine dell’autore che emerge dal testo, che può as- somigliare o meno all’autore reale. Il narratore: è una “strategia testuale” che permette di adottare una de- terminata prospettiva. All’inizio della lezione abbiamo accennato che, nel Novecento, la figura dell’autore è passata in secondo piano. Questo sviluppo è legato a vari Wayne Booth LEZIONE 7: IL RUOLO DELL’AUTORE 97 fattori, di cui alcuni sono di natura sociologica ed economica (ne abbiamo parlato sopra), mentre altri sono di natura filosofica e culturale. Si po- trebbe richiamare in questo contesto l’incremento di dubbi circa le con- cezioni metafisiche del sé alla Cartesio – espresso dal fisico e filosofo Ernst Mach con: “È impossibile salvare l’io.” (1896, 54) in modo così effi- cace da trovare eco in tanti scrittori del Modernismo. Nell’ambito della filosofia del linguaggio, poi, concezioni individualistiche del significato fu- rono sostituite da quelle sociali. In tale contesto sono stati formulati due argomenti “pro-testo” da filosofi appartenenti a tradizioni molto diverse tra loro: l’argomento della morte dell’autore di Michel Foucault e Roland Barthes, che discuteremo ora, e quello della fallacia intenzionale di Wil- liam Wimsatt e Monroe Beardsley, che analizzeremo nella prossima le- zione. 7.4 La morte dell’autore Roland Barthes e Michel Foucault mettono molta enfasi sul fatto che la figura dell’autore è sempre legata a ciò che potremmo chiamare il suo “ruolo sociale”, ovvero l’immagine che si fa dell’autore in una società. Questa, secondo loro, emergerebbe da fattori storici, economici, legali e sociologici. Quando parlano dell’autore, quindi, Barthes e Foucault non pensano a una persona in carne e ossa ma a un costrutto sociale che si evolve col tempo e che può variare da una società all’altra. Nel suo saggio ormai classico “Che cos’è l’autore?”, Foucault men- ziona i seguenti fattori: (i) una concezione legale e sociale dell’autore, da cui emergono doveri, diritti e libertà che gli autori possono avere. Un punto cruciale nella storia, che secondo Foucault ha mar- cato in maniera particolare il ruolo dell’autore, fu l’intro- duzione del copyright. Con queste leggi, risalenti al Sette- cento, l’artista creatore venne percepito come produttore di una merce vendibile. L’autore, quindi, acquisisce il di- ritto di vendere i prodotti della sua immaginazione, assu- mendone al contempo la responsabilità: se l’opera con- tiene affermazioni che violano le leggi vigenti, è il suo creatore a doverne rispondere alle autorità. (ii) Dopo la rivoluzione borghese del 1848, la stampa libera fu protagonista di una crescita rigogliosa che diede sempre M. Foucault FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 102 Come lettura complementare a queste dispense consiglio: C. Bar- bero, «Filosofia della letteratura», op. cit., cap. 2.3 (pp. 39–44). 8.2 Che cosa vuol dire? Se in un’interpretazione di un’opera d’arte letteraria si parte con un breve riassunto del contenuto dell’opera, lo si fa soltanto per preparare il terreno. Sappiamo bene, infatti, che un’interpretazione letteraria dovrà andare sostanzialmente oltre: non si limiterà né a ricostruire l’argomento specifico dell’opera, né a darne un mero riassunto; piuttosto, l’interprete ne ricostruirà e ne renderà esplicito il significato. Partendo da aspetti ri- levanti dell’opera, il critico ricostruisce come i vari strati di significato emergano dal testo e come questi contribuiscano ai valori estetici, cogni- tivi e morali dell’opera (non chiediamoci, per il momento, se l’interprete deve prendere in considerazione solo gli aspetti intriseci all’opera o an- che quelli legati alla biografia dell’autore o al contesto di produzione). L’interpretazione parte tipicamente dall’opera, che viene trattata come unità minima. Anche se, a volte, ci si focalizza solo su piccole parti del testo (una sola frase, un capitolo, una serie di parole ricorrenti, ecc.), lo si fa solo per cogliere meglio quale ruolo svolga questo aspetto all’in- terno dell’opera intera. Spesso, però, la stessa opera può essere inter- pretata in modi diversi e in contraddizione gli uni con gli altri. Cosa dobbiamo fare se ciò ac- cade? Vi è un modo per decidere quale delle interpretazioni sia quella più adeguata? Partiamo da un esempio concreto, il rac- conto La Metamorfosi di Franz Kafka. Il testo, come sapete, tratta di un tale, Gregor Samsa, che un giorno si ritrova trasformato in un in- setto gigante. La causa di questa trasforma- zione non viene mai spiegata; il testo si sof- ferma piuttosto sulle sue conseguenze: l’isola- mento del protagonista, che non può più lavo- rare né uscire da casa, la sua relazione conflit- tuale con i genitori, che non riescono ad accettarlo com’è, e quella con F. Kafka: La Metamorfosi Copertina della prima edizione LEZIONE 8: L’AUTORE E LE SUE INTENZIONI 103 sua sorella, che lo nutre e lo aiuta a tenere la sua piccola stanza in ordine. L’opera di Kafka è molto densa e in questa sede non possiamo presentare una discussione del suo valore estetico, né dare un’interpretazione ap- profondita. Ciò che interessa a noi è che sono state proposte delle inter- pretazioni dell’opera molto diverse e tra loro incompatibili. Conside- riamo brevemente alcuni esempi: (i) Per tanti interpreti, il tema centrale dell’opera è il rapporto conflit- tuale tra Gregor Samsa e suo padre. Il fatto che Samsa si trasformi in un insetto, in questa lettura, caratterizzerebbe il senso d’indegnità che egli prova di fronte alla figura paterna – e potrebbe essere un’espressione di una sensazione che l’autore stesso avrebbe realmente provato rispetto al proprio padre. La plausibilità di questa interpretazione aumenta se prendiamo in considerazione un altro testo dell’autore, la Lettera al pa- dre – una lettera lunga più di cento pagine, indirizzata al padre ma mai spedita, in cui Kafka dà espressione alle sofferenze provate per l’educa- zione autoritaria paterna. La Lettera, pubblicata postuma quasi trent’anni dopo la morte dell’autore, ha dato spunti a favore di una cri- tica psicoanalitica dell’opera basata su elementi biografici dell’autore – proprio nel modo in cui Kafka stesso li ha vissuti e in cui se li si ricorda anni dopo. (ii) Un altro approccio interpretativo si focalizza sul fatto che, dal mo- mento in cui diventa ovvio agli occhi di tutti che Gregor Samsa sia diverso, egli viene escluso da ogni vita sociale: i suoi genitori lo rinchiudono nella sua piccola camera, e il protagonista perde sia il lavoro che tutti i contatti con le altre persone (ad eccezione della sorella). La famiglia riesce a ri- prendere una vita serena solo dal momento in cui Gregor non c’è più. Kafka, secondo questa interpretazione sociologica, tematizzerebbe le forme di emarginazione che un individuo deve subire nella nostra società se non corrisponde all’idea di ciò che viene considerato “normale”. (iii) Lo scrittore e il filosofo francese Albert Camus ha proposto una lettura del tutto diversa dell’opera. La trasformazione di Gregor Samsa non rappresenterebbe la sua diversità o il suo isolamento sociale; simbo- leggia piuttosto la bestia che giace in ognuno di noi, e in cui ci si potrebbe trasformare in ogni momento. «La Metamorfosi, a sua volta, rappresenta certamente l’orrenda oleografia di un’etica della lucidità, ma è anche il prodotto di quell’incalcolabile stupore, FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 104 che l’uomo prova nel sentire in che bestia possa senza sforzo trasformarsi» (Camus 1947, p. 173) (iv) Mentre Camus vede nel gigante insetto un simbolo per il lato oscuro all’interno di noi, Vladimir Nabokov ne dà una lettura più ottimista: per lui, il tema del racconto è la lotta dell’artista per la propria esistenza in una società piena di filistei che lo distruggono. Nella metamorfosi, Nabo- kov non vede un processo negativo che marca Gregor, ma uno che lo rende unico e che lo distingue dagli altri. Lo scrittore russo insiste che Gregor non si trasformi in uno scarafaggio, ma piuttosto in uno “scarabeo sacro”, ovvero uno coleottero – ma aggiunge che «né Gregor né Kafka lo hanno visto con troppa chiarezza» (Nabokov 1982, p. 309). Abbiamo visto che l’opera di Kafka ha dato spazio a tante interpreta- zioni diverse e incompatibili tra loro. Nonostante ciascuna di esse metta in luce aspetti rilevanti e offra spunti profondi per la riflessione, tutte loro prendono direzioni diametralmente opposte. Per vederlo, basta conside- rare la moltitudine d’interpretazioni date all’elemento centrale del rac- conto, ovvero l’insetto in cui Gregor Samsa si trasforma: si passa dal senso d’inadeguatezza nei confronti del padre, alla diversità e devianza dalla “normalità”; dalla “bestia” che alberga dentro di noi allo “scarabeo sacro” e speciale. Quest’ultima lettura viene elaborata da Nabokov grazie alle descrizioni della creatura che si possono trovare nell’opera: l’insetto dovrebbe avere più o meno le forme che l’autore abbozza nella sua copia dell’opera (potete vederle qui a lato). Abbiamo visto sopra che lo scrittore ammette, però, che questa illustrazione forse non è fedele alle intenzioni dell’autore. Può essere interessante in questo contesto no- tare come Kafka stesso abbia insi- stito molto, in una lettera all’editore della prima edizione, affinché la co- pertina del libro non raffigurasse un insetto. Infatti, come abbiamo visto sopra, il testo si presenta con l’immagine di un ragazzo disperato, non di uno scarafaggio né di un coleottero dai colori sgargianti. Questo partico- lare può essere un indizio a favore del fatto che Kafka non avrebbe ac- cettato l’interpretazione dello “scarabeo sacro” – e, da quanto scrive, L’insetto secondo Nabokov (Schizzo nella sua copia del testo) LEZIONE 8: L’AUTORE E LE SUE INTENZIONI 105 forse Nabokov ne era pure consapevole. Dobbiamo, quindi, scartare quest’interpretazione? Quale peso dobbiamo attribuire alle intenzioni di Kafka? È difficile rispondere a queste domande. Certo, non tutte le interpre- tazioni sono sullo stesso piano; alcune possono rivelarsi inadeguate e possono essere rigettate. L’esempio de La Metamorfosi di Kafka illustra, però, che grandi opere d’arte letteraria permettono molteplici interpre- tazioni, legittime eppur contrastanti o incompatibili tra loro. Ciò rende solo più urgente la domanda attorno all’esistenza di un’interpretazione “corretta” dell’opera. Quale di queste interpretazioni sarebbe più cor- retta delle altre? e secondo quali criteri? In questa sede non possiamo approfondire ulteriormente tali domande: le riflessioni sul tema fatte nell’ambito della critica letteraria e della filosofia della letteratura sono tanto interessanti quanto numerose. Possiamo, però, accennare breve- mente alle posizioni proposte, distinguendone due tipi: Secondo le posizioni pluraliste, le opere letterarie possono essere aperte a più di una chiave di lettura e permettono, di conseguenza, più di un’interpretazione, tutte ugualmente legittime. L’interpretazione che un lettore darà del testo dipenderà, oltre che dagli aspetti dell’opera (in senso largo), anche dai propri interessi e orizzonti intellettuali. Le posi- zioni pluraliste sono molto diffuse; tra le più importanti vi possiamo tro- vare le proposte di Joseph Margolis e Umberto Eco. Secondo le posizioni moniste, invece, vi è sempre un’interpretazione più autentica delle altre – ed è quella che più si avvicina a come l’autore intende l’opera al momento della sua creazione. Uno dei rappresentanti più importanti è E.D. Hirsch. Entrambi i tipi di posizioni ammettono che si possa discutere sul va- lore delle varie interpretazioni: è sempre possibile scambiare e confron- tare le ragioni a favore e contro varie interpretazioni, più o meno rivali tra loro. Le posizioni pluraliste mettono l’autonomia dell’opera al centro e riconoscono che questa può cambiare nel tempo (ciò è dovuto al fatto che, in periodi diversi, alcuni passi si possono leggere in svariati modi e ottenere così nuovi riferimenti extratestuali). Le posizioni moniste, in- vece, insistono che l’opera sia un artefatto intenzionalmente creato da FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 106 un autore; perciò, l’interpretazione più adeguata sarebbe quella che ri- costruisce in maniera più fedele le intenzioni dell’autore nel contesto di produzione. Questo ci porta alla domanda: cosa sono le intenzioni e qual è il loro ruolo nell’interpretazione dell’opera? 8.3 La fallacia intenzionale Nel saggio “The Intentional Fallacy”, scritto a quattro mani, il critico let- terario William K. Wimsatt e il filosofo Monroe Beardsley argomentano che sarebbe una fallacia, ovvero un grave errore logico, ricorrere al progetto origi- nale o alle intenzioni dell’autore nell’in- terpretazione di un’opera letteraria. L’ar- ticolo, ora considerato un classico, ha su- scitato un dibattito intenso e anche i suoi autori sono tornati varie volte sullo stesso argomento. Può essere interes- sante notare che Wimsatt e Beardsley, seppur appartengono a una tradizione fi- losofica molto diversa, sostengono ante litteram un punto molto simile a quello di Foucault, discusso nella lezione precedente. Vediamo che in tutte le importanti tradizioni filosofiche del secondo Novecento – sia nella filosofia analitica che in quella cosiddetta “continentale” – sono stati sollevati seri dubbi circa il ruolo dell’autore. Secondo la tesi centrale dell’argomento di Wimsatt e Beardsley, le intenzioni dell’autore si realizzano nell’opera compiuta, perciò sarebbe circolare ricorrere a esse per cogliere il significato dell’opera o per giudi- care il suo valore. Per motivi di esposizione, presenterò l’argomento alla M. Beardsley e W.K. Wimsatt LEZIONE 8: L’AUTORE E LE SUE INTENZIONI 107 base di sei punti seguendo l’esposizione che ne dà Peter Lamarque (2009, pp. 115-122): (1) Le intenzioni dell’autore non sono (più) accessibili. Se ricorrere alle intenzioni dell’autore sembra un impulso naturale, al contempo pare im- plausibile che ognuno di noi l’abbia fatto a ogni lettura. Ci sono senz’altro casi in cui si ha compreso un’opera senza voler o poter, per un motivo o per l’altro, accedere alle intenzioni dell’autore. La comprensione dell’opera non richiede, quindi, una comprensione di tali intenzioni. Può comunque succedere che un autore condivida le proprie inten- zioni coi lettori, per esempio rilasciando un’intervista o tramite una pre- fazione. Wimsatt e Beardsley sostengono, però, che anche questi casi non sono di grande aiuto. Le indicazioni date, spesso generiche e scarne, non riescono a illuminare i tanti dettagli esteticamente rilevanti e la strut- tura complessa e raffinata dell’opera. Il punto centrale (che nel primo articolo di Wimsatt e Beardsley viene discusso poco ma che poi diventa importante nel dibattito) è che le in- tenzioni dell’autore sono fenomeni mentali privati, accessibili solo al sog- getto. Non abbiamo un accesso diretto alle menti altrui e possiamo, di conseguenza, conoscere soltanto le manifestazioni delle intenzioni dell’autore – la più importante delle quali è l’opera stessa. L’autore po- trebbe, ovviamente, commentare il proprio lavoro e spiegare le proprie intenzioni; in ogni caso, una tale procedura non sarebbe mai priva di pro- blemi. Per primo non sappiamo quanto queste spiegazioni possano es- sere fedeli. Potrebbe darsi che l’autore non si ricordi più quali intenzioni originali l’abbiano spinto a comporre l’opera oppure che egli, per chissà quale motivo, non voglia svelare nulla e ci inganni. Ma anche se decides- simo di far fede alle affermazioni dell’autore circa la propria opera, ri- marrebbe comunque un secondo problema, più tecnico: descrivendo le proprie intenzioni, l’autore produce solamente un altro testo (una “po- stilla” all’opera) che deve, a sua volta, essere interpretato di nuovo – e così via, ad infinitum. (2) Le intenzioni non costituiscono uno standard per la valutazione dell’opera. Wimsatt e Beardsley scartano inoltre l’ipotesi che un’opera è di valore se l’autore riesce a realizzare le sue intenzioni. Anche se potes- simo conoscere tutte le intenzioni dell’autore al momento della produ- Lezione 9 Intenzioni e intenzionalismi 9.1 Introduzione Il sole splendeva, non avendo alternativa, sul niente di nuovo. È questa l’impressione che si può avere dopo aver letto le ultime due lezioni: filo- sofi appartenenti a tradizioni diametralmente opposte – analitica e con- tinentale, per tanto tempo considerate agli antipodi della filosofia nove- centesca – arrivano, con argomenti simili, alle stesse conclusioni. L’armo- nia si estende anche oltre i confini della nostra disciplina: nella seconda parte del Novecento, sia nella filosofia della letteratura che nella critica letteraria, il ruolo dell’autore e del contesto di creazione sono passati in secondo piano. Da questo momento, le intenzioni dell’autore diventano un tabù e il focus della critica passa dalla biografia dell’autore al testo. Ciò può essere un indizio che gli argomenti della fallacia intenzionale e della morte dell’autore siano un’espressione di uno spirito del tempo. Negli anni Cinquanta e Sessanta, gli intellettuali reagiscono all’enfasi del ruolo dell’autore nel Romanticismo e a quelle prassi di critica letteraria troppo attente agli aspetti biografici dell’autore o alla ricostruzione del contesto di creazione. Il tramonto di queste ultime tendenze viene acce- lerato dal fatto che, ai tempi delle “grandi” ideologie politiche novecen- tesche (per esempio, durante il nazionalsocialismo), tanti autori del pas- sato vengono strumentalizzati e, utilizzando ricostruzioni problematiche della loro biografia e del loro contesto storico, vengono riconosciuti come precursori della linea politica del momento. Non è un caso che que- sta tendenza sparisca col declino delle ideologie dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi. Si può quindi inquadrare la critica dei “pro-testo” come un tentativo di superare la strumentalizzazione dell’autore; tenta- tivo ulteriormente rafforzato dalla tendenza alla “depersonalizzazione” (alla quale abbiamo accennato all’inizio della lezione 7) che troviamo in vari campi della cultura e contesti socioeconomici nel secondo Nove- cento. Proprio nel momento in cui la posizione del campo dei “pro-testo” sembra generalmente accettata, però, vari filosofi cominciano ad analiz- zarne meglio le sue basi e a metterne in discussione la plausibilità. Senza voler sminuire l’importanza storica degli argomenti circa la fallacia inten- FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 114 zionale e la morte dell’autore, si iniziano ad avvertire i pericoli di un ec- cesso nell’altra direzione: è giusto mettere il testo al centro ma bisogna anche riconoscere che questo, senza autore, non sarebbe mai esistito. L’argomento della fallacia intenzionale sostiene, come abbiamo visto, che per comprendere un’opera non abbiamo bisogno di conoscere le in- tenzioni dell’autore. Ma che cosa esattamente sono le intenzioni? Nella prima parte di questa lezione ci focalizzeremo proprio su questa do- manda e, successivamente, analizzeremo le proposte di due filosofi con- temporanei a favore di un “intenzionalismo debole”. Come lettura complementare a queste dispense consiglio: C. Bar- bero, «Filosofia della letteratura», op. cit., cap. 2.3.1 e 2.3.2 (pp. 44–49). 9.2 La natura delle intenzioni Che cos’è un’intenzione? Tutti conosciamo il termine, e tutti sappiamo quanto sia importante sapere se una persona agiva intenzionalmente o meno per decidere, per esempio, se l’omicidio fosse colposo o doloso. Ma se dovessimo dare una definizione esatta o semplicemente spiegare come si possa verificare se una persona è, di fatti, intenzionato a fare qualcosa, ci potremmo trovare in difficoltà. Possiamo mai conoscere con certezza le intenzioni altrui? Accesso privato, stati privati e intenzioni per agire Partiamo da due fatti filosofici che ci aiuteranno a vedere meglio che cos’è in discussione. (i) Le intenzioni appartengono alla mente di una per- sona che è in grado di agire sul mondo. In filosofia viene generalmente accettato che ogni persona abbia un “accesso privilegiato” alla propria mente: che essa, ed essa soltanto, sappia con certezza cosa stia acca- dendo nella propria mente (cosa stia pensando, quali sensazioni provi, cosa percepisca, ecc.) Si dice, inoltre, che gli stati mentali siano privati: ognuno ha una conoscenza diretta e infallibile della propria mente, ma non di quelle altrui. Non posso mai sapere che cosa state pensando voi – almeno, non con lo stesso grado di certezza che ho circa i miei stati men- tali. (ii) Una persona agisce soltanto se ha l’intenzione di fare qualcosa. LEZIONE 9: INTENZIONI E INTENZIONALISMI 115 La gamba di Andrea può muoversi perché egli vuole dare un calcio a Mi- chele, ma può anche farlo perché il dottore la colpisce, col martelletto, proprio sotto al ginocchio. Solo nel primo caso diremmo che Andrea ha compiuto un’azione – e che deve prendersi la responsabilità per ciò che ha fatto. Per valutare una serie di avvenimenti è pertanto importante sa- pere se sono stati evocati intenzionalmente o meno. Questi due punti hanno influito in maniera diversa sul dibattito: gli anti-intenzionalisti, che appartengono al campo “pro-testo”, mettono l’enfasi su, in particolare, (i) il fatto che le intenzioni siano private e ac- cessibili solo all’autore, mentre per l’interprete sarebbero “metafisica- mente nascoste” e inaccessibili in linea di principio. Da questo conclu- dono che tali intenzioni dovrebbero essere irrilevanti per l’interpreta- zione dell’opera. Gli intenzionalisti, e quindi i fautori del campo “pro-au- tore”, d’altra parte, sostengono che (ii) un’opera, che è il prodotto di azioni intenzionali dell’autore, può essere valutata solo alla luce di que- ste. Anche se non possiamo avere una conoscenza diretta delle intenzioni dell’autore, possiamo sempre tentare di ricostruirle, nella maniera più accurata e fedele possibile, basandoci su evidenze circostanziali. L’analisi wittgensteiniana di Colin Lyas Per fare un passo avanti e risolvere l’impasse tra intenzionalismo e anti- intenzionalismo può, quindi, essere utile tentare di comprendere meglio i due punti sopra citati, ovvero (i) l’accesso privilegiato alla propria mente e la privatezza degli stati mentali e (ii) il nesso tra azione e intenzione. A questo riguardo il filosofo Colin Lyas ha fatto notare che entrambe le tesi, di per sé plausibili, possono però invitare a due assunzioni problemati- che; queste, a loro volta, possono aprire le porte a una concezione fuor- viante di “intenzione” e della sua relazione con l’azione. Per evitare que- sta conseguenza, sarebbe necessario chiarirsi le idee sull’esatta natura di tale relazione. Tanti filosofi sembrano dare per scontato – senza fornire dimostra- zioni o ragioni – che (1) le intenzioni sarebbero stati mentali a sé stanti, «some kind of object, or process, or event existing in the internal private realm of the artist’s mind [un qualche tipo di oggetto, o processo, o evento che esiste all’interno del regno privato della mente dell’artista]» FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 116 (Lyas 1992, p. 139). Questa prima assunzione invita (2) a concepire la re- lazione tra intenzione e opera secondo il modello causa ed effetto, come se l’intenzione e l’opera fossero due entità distinte e il loro rapporto, solo contingente, fosse di causa ed effetto così come raffigurato in quest’im- magine (la freccia rossa sta per la relazione causale): Lyas richiama il fatto che l’attuale discussione in filosofia della mente sot- tolinea il profondo errore delle assunzioni (1) e (2). In seguito al compor- tamentismo e all’argomento contro il linguaggio privato di Wittgenstein, tanti filosofi si sono convinti che intenzione e azione non sono due entità mentali distinte, in relazione causale l’una con l’altra. Sono piuttosto due momenti che si condizionano a vicenda: l’intenzione di agire si manifesta nell’esecuzione dell’azione e, viceversa, l’azione non sarebbe tale se non fosse la manifestazione di un’intenzione. Per cogliere meglio tale legame, consideriamo un esempio facile, l’azione di alzare un braccio: immaginiamo che Anna, di fronte alla sua libreria, voglia prendere un libro riposto su un piano alto. Il modo più immediato di risolvere la faccenda può essere alzare il braccio e prendere il libro. Anna, quindi, valuta la situazione e compie intenzionalmente l’azione “alzare il braccio”. Come dobbiamo analizzare, in questo caso, la relazione tra azione e intenzione? Secondo la concezione criticata da Lyas, Anna dovrebbe prima formare un determinato stato mentale, ov- vero “l’intenzione di alzare il braccio” che poi, in un secondo momento, causerebbe il movimento del braccio di Anna. Quest’analisi, secondo Lyas, è fuorviante. Intenzione e azione sono due momenti inseparabili – due momenti che, insieme, possono essere descritti come l’azione di al- zare il braccio (per prendere il libro, nel nostro esempio). LEZIONE 9: INTENZIONI E INTENZIONALISMI 117 L’intenzione, in questa concezione, non è totalmente privata bensì osservabile: chi vede Anna prendere un libro dal ripiano alto della libreria può osservare la sua intenzione di alzare il braccio. L’esempio ci mostra che l’intenzione non è nascosta nei meandri oscuri della mente di Anna ma che, invece, si manifesta proprio nel tangibile movimento del suo braccio. Si potrebbe però obiettare che è facile avere intenzioni che non si concretizzano in un movimento corporeo. Se Anna, per qualche motivo, non fosse riuscita nel suo movimento – vuoi perché, a sua insaputa, è stata soggetta a un’anestesia parziale o perché ha l’arto ingessato – avrebbe sempre l’intenzione di alzare il braccio, ma tale intenzione non si sarebbe potuta manifestare in alcun movimento. Ma questo non dimo- stra che intenzione e azione sono due entità distinte; mostra soltanto che ogni tanto abbiamo difficoltà ad agire come vogliamo e che non riu- sciamo a realizzare tutte le nostre intenzioni. Tra l’altro, tipicamente an- che intenzioni non realizzate si manifestano in forme di comportamento; nel nostro esempio potrebbero manifestarsi in micromovimenti della spalla, in un sospiro, oppure in comportamenti verbali – tutte azioni che possono permettere all’interprete di vedere che Anna avrebbe voluto al- zare il braccio, ma non ci è riuscita. Consideriamo un altro esempio leggermente più complesso: Alberto, quando si alza la mattina, è sempre molto stanco. Lui stesso userebbe la parola “zombie” per descrivere il proprio stato mentale in questi mo- menti; non sarebbe in grado di formare un pensiero lucido. L’unica cosa che riesce a fare è andare in cucina per preparare un caffè: si alza, va in cucina, apre la moka, la riempie con acqua e caffè, la chiude e la mette sul fuoco. Tutte queste sono azioni intenzionali che si manifestano nel comportamento di Alberto – eppure, la mattina presto, egli non è ancora in grado di “formare delle intenzioni” nella sua mente. Ciononostante, Alberto agisce, e la sua azione è appropriatamente descritta con le parole “Alberto mette su il caffè”. Che si tratti di un’azione intenzionale è evi- dente: basta osservare Alberto la mattina – eppure, nella sua mente suc- cede proprio questo: nulla. La plausibilità di tale punto rafforza ulterior- mente l’idea per cui l’azione non è causata da uno stato mentale privato di Alberto ma che, anzi, intenzione e azione sono strettamente legate. Le intenzioni di Alberto, quindi, non sono “oggetti” privati nella sua mente. Lezione 10 I giochi del far finta 10.1 Introduzione Nelle ultime lezioni ci siamo focalizzati sul ruolo dell’autore e sulle sue intenzioni, ma non dobbiamo perdere di vista il fatto che le opere d’arte letteraria siano un mezzo di comunicazione tra autore e lettore. Dopo- tutto, i testi vengono scritti per essere letti, e una discussione compren- siva della letteratura non può prescindere da una riflessione sulla terza delle “quattro coordinate della letteratura” (lezione 2), ovvero quella del momento della fruizione. Per affrontare questa tematica, discuteremo un’opera che ha dato un impulso importante al dibattito della filosofia della letteratura: Mimesis as make believe di Kendall Walton. In quest’opera, il filosofo sviluppa una teoria delle arti rappresentazionali e in particolare della letteratura. Egli parte, come vedremo, non da aspetti che sono intrinseci alle opere, né dagli autori che le creano, ma piuttosto dalle reazioni che le opere susci- tano nel fruitore: la tesi principale di Walton è che le opere di finzione invitano i lettori all’immaginazione, ovvero: a partecipare a giochi del far finta. Con l’uso dell’espressione “gioco”, come vedremo, Walton sottoli- nea che gli esseri umani hanno, fin dall’infanzia, un’inclinazione naturale a immaginare scenari controfattuali. Infatti, la foto in copertina di questa lezione rappresenta lo stesso Kendall Walton impegnato, come egli stesso ammette, «nelle sue prime ricerche sul far finta di credere» (la foto è dal sito del filosofo2). Immaginiamo, quindi, già da bambini, ma la magia dell’immaginazione ci accompagnerà per tutta la vita, assumendo forme sempre diverse. (Una parola sulla traduzione: l’espressione inglese make believe è no- toriamente difficile da trasporre in altre lingue. I traduttori italiani hanno optato per «far finta di credere» che, però, suona più artificiale, contorto e inelegante dell’espressione originale). 2 https://sites.lsa.umich.edu/kendallwalton/my-early-research-on-make-believe/, consultato il 28 febbraio 2021. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 124 Nella lezione di oggi esporrò alcuni elementi chiave della teoria di Walton, ma sembra ovvio che queste mie spiegazioni non possono sosti- tuire la lettura autonoma del primo capitolo del libro, che è obbligatoria (Kendall Walton, Mimesi come far finta, cap. 1, pp. 31-93). 10.2 La magia del far finta Kendall Walton discute la natura delle opere d’arte rappresentazionali, ovvero quella vasta classe di opere d’arte che rappresentano un aspetto del mondo, come la pittura o la letteratura ma non, per esempio, l’archi- tettura. (La distinzione tra opere che sono rappresentazionali e quelle che non lo sono non è netta; ci sono casi intermedi, ma ciò non toglie che abbiamo un’intuizione abbastanza forte che la Gioconda – ma non il Sid- ney Opera House – rappresenti qualcosa.) Le rappresentazioni possono essere fedeli o meno; l’aspetto rappre- sentato può, di conseguenza, essere reale o meno – ma nel contesto dell’arte, come abbiamo visto nelle lezioni precedenti, questa distinzione scende spesso in secondo piano: la nostra attenzione tipicamente non verte sul che cosa ma sul come si rappresenta. Perciò le opere d’arte che riportano in modo non fedele la realtà non vengono considerate false o inutili, bensì fittizie. Le opere di finzione, quindi, costituiscono una parte importante delle opere d’arte rappresentazionali. Le opere d’arte rappresentazionali sono onnipresenti nella nostra vita quotidiana – e ciò è vero non solo nella nostra cultura; il fascino per tali opere sembra universale e rintracciabile già nella preistoria. Perciò non stupisce che la finzione sia stata studiata da tante discipline diverse, tra cui anche la filosofia. Tante teorie all’interno della filo- sofia della letteratura, però – anche molte di quelle che abbiamo discusso finora – si focalizzano su aspetti abbastanza “for- mali”, ovvero su aspetti legati alla struttura semantica o logica del linguaggio letterario, allo statuto ontologico dei personaggi fittizi o alla relazione tra l’opera e le in- tenzioni dell’autore. Queste analisi hanno senz’altro il merito d’isolare certe caratteristiche salienti delle opere LEZIONE 10: I GIOCHI DEL FAR FINTA 125 di finzione e di spiegare come queste “funzionino”, ma non affrontano alcune domande centrali: cosa nutre il fascino che proviamo per le opere d’arte rappresentazionali? Dove nasce la nostra propensione a immer- gerci con grande regolarità in scenari fittizi di tutti generi? Cos’è che ci spinge a dedicare il nostro tempo e la nostra energia a leggere romanzi, a guardare film e a raccontare storie che trattano di eventi mai accaduti e di persone mai esistite? Perché la finzione? Con la sua teoria sul far finta, Kendall Walton mette proprio questa domanda al centro delle sue riflessioni: «Il fatto stesso che le persone inventino storie e se le raccontino, il solo fatto che siano interessate a ciò che sanno essere pura finzione, è sbalorditivo e richiede una spiegazione. … Qualunque resoconto della sua struttura logica, semantica e ontologica, che lasci all’oscuro del perché debba esserci un’isti- tuzione con quella tal struttura dovrebbe risultare altamente sospetto.» (Walton 1990, p. 24) Perché, allora, la finzione? Per affrontare questa domanda – e quindi per poter cogliere meglio la natura dell’arte rappresentazionale, della lette- ratura e della finzione – dobbiamo, secondo Walton, focalizzarci non solo sull’opera e sul processo di creazione; dobbiamo considerare anche che cosa facciamo con le opere. L’interesse per l’arte ha, ovviamente, tanti motivi diversi – che possono variare da una persona all’altra e da un mo- mento all’altro. Ciononostante possiamo notare che, quando fruiamo un’opera di finzione, spesso non ci fermiamo ad analizzare la sua strut- tura formale e solitamente non la consumiamo passivamente. Se è accat- tivante, una storia di finzione stimola la nostra immaginazione, ci fa fare viaggi in luoghi esotici ma non reali, e incontrare personaggi interessanti ma mai esistiti. Per comprendere meglio questo nostro fascino per l’arte rappresen- tazionale dobbiamo, quindi, gettare luce sul piacere che proviamo nell’esercizio della nostra facoltà dell’immaginazione. E per farlo, sugge- risce Walton, dovremmo prendere in considerazione un aspetto che è universale e che si trova in tutte le culture: i giochi dei bambini. Walton apre il libro con le parole seguenti: «Per comprendere dipinti, opere teatrali, film, e romanzi, dobbiamo dap- prima rivolgerci a bambole, cavallucci di legno, camion giocattolo e orsac- chiotti. Il modo migliore di vedere le attività nelle quali sono inserite le opere FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 126 artistiche rappresentazionali e che conferiscono loro lo scopo che hanno è come qualcosa che ha una continuità con i giochi infantili di far finta. In ef- fetti, difendo l’idea di considerare queste attività come esse stesse giochi di far finta, e sosterrò che le opere rappresentazionali funzionano quali supporti in tali giochi, come bambole e orsacchiotti servono da supporti nei giochi dei bambini.» (Walton 1990, p. 31) Nei giochi d’infanzia si manifesta, in maniera particolarmente evidente, la forza e la magia dell’immaginazione. Ai bambini basta un pezzo di le- gno che, nella loro immaginazione, si trasforma in un cavallo; la bambola viene presa per neonato da accudire; il bastone diventa spada – e in un batter d’occhio siamo nel mezzo di un duello fittizio. L’immaginazione dei bambini si esprime, quindi, nel loro far finta che il pezzo di legno sia un cavallo, che la bambola sia un infante e che il bastone sia una spada. Ma, crescendo, non smettiamo d’immaginare di certo; al contrario, continuiamo a far finta di credere cose di cui sappiamo che non sono reali, specialmente quando un oggetto o un’opera sollecita la nostra im- maginazione. Per Walton, quindi, vi è un’importante continuità tra i gio- chi infantili e i modi in cui noi adulti ci rapportiamo alle opere d’arte rap- presentazionali: come i giocatoli, anche quest’ultime ci portano a far finta di credere e ci invitano, quindi, a partecipare a un gioco dell’imma- ginazione. «Il far finta, spiegato in termini di immaginazione, costituirà il nucleo cen- trale della mia teoria. Prendo seriamente associarle ai giochi infantili – al giocare a casa e scuola, guardie e ladri, indiani e cowboy, alle fantasie co- struite intorno a bambole, orsacchiotti, e camion giocattolo. Possiamo impa- rare molto su romanzi, dipinti, teatro e cinema indagando sulle analogie con attività di far finta come queste.» (Walton 1990, 22) Walton propone, quindi, un cambio di prospettiva che parte da un’analisi di ciò che il fruitore fa con le opere – le usa come supporti in giochi del far finta. Una volta adottata questa prospettiva, si getta nuova luce anche sui problemi semantici e metafisici, di cui abbiamo parlato sopra: «I problemi metafisici e semantici così come quelli estetici derivano in parte dal ruolo che il far finta gioca nelle arti» (Walton 1990, p. 25) Con l’analogia tra il fascino che noi adulti proviamo per l’arte e la voglia dei bambini di giocare, Walton non intende sminuire l’importanza LEZIONE 10: I GIOCHI DEL FAR FINTA 127 dell’arte o suggerire che sarebbe solo “roba da bambini”. Vi ricorderete che il termine “gioco” svolge un ruolo centrale già nella teoria di Witt- genstein, che parla di giochi linguistici per trarre l’attenzione sul fatto che il linguaggio è una prassi sociale guidata da regole (come lo sono i giochi). Può ben darsi che Walton abbia scelto il termine anche per far eco a Witt- genstein, ma sicuramente intendeva in primo luogo insistere che l’imma- ginazione sia radicata profondamente nella nostra natura. Essa trova una sua forma di espressione e svolge un ruolo importante a ogni età. «Va da sé che nel parlare di “giochi” di far finta non si vuole affatto implicare che si tratti di semplici frivolezze. I giochi dei bambini assolvono a scopi che vanno ben oltre il farli divertire o tenerli buoni. Credo sia comunemente rico- nosciuto che tali giochi – e le attività di immaginazione in generale – svol- gano, come la loro grande diffusione ci induce a pensare, un ruolo davvero profondo nei nostri sforzi di adattarci al nostro ambiente.» (Walton 1990, p. 32) 10.3 Che cos’è l’immaginazione? Le opere d’arte rappresentazionali sollecitano atti d’immaginazione nel fruitore, così come i giocatoli lo fanno nei bambini. Ma che cos’è l’imma- ginazione? Il termine è notoriamente difficile da definire; si tratta di un “termine ombrella” che copre una grande diversità di attività: può inten- dere l’evocare un’immagine mentale da contemplare con l’occhio della mente, per così dire (“immaginare quanto sia bello il tramonto al mare”), il prendere in considerazione un’ipotesi (“immaginare che la terra sia piatta”), il simulare nella mente di fare qualcosa (“immaginare di andare in bicicletta”), oppure il provare nuove sensazioni (“immaginare cosa si prova essere miliardario”), ecc. Se dovessimo descrivere cosa hanno in comune queste attività, po- tremmo dire che sono fenomeni mentali o, ancor meglio, attività men- tali. L’immaginazione è qualcosa che facciamo nella mente; essa, di con- seguenza, dipende da un soggetto che immagina. Per caratterizzare me- glio l’immaginazione, Walton usa l’esempio del sogno a occhi aperti (daydream), che mette in evidenza alcune caratteristiche rilevanti. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 132 10.5 Immaginazione de se Vi è un altro gancio attraverso il quale l’immaginazione è ancorata al mondo reale, che stabilisce un legame più profondo. Si tratta dello stesso soggetto che immagina: ogni immaginazione ha un elemento “autorefe- renziale”, ovvero in un modo o l’altro, il soggetto è sempre presente in ogni sua immaginazione. Immaginare è come creare uno scenario (fitti- zio) intorno a noi stessi – vuoi nel ruolo di protagonista, vuoi in quello di osservatore. «La mia impressione è che virtualmente tutte le nostre immaginazioni ver- tono in parte su noi stessi. Anche quando non siamo i protagonisti, gli eroi dei nostri sogni, sogni a occhi aperti, e giochi di far finta, di solito vi abbiamo un qualche ruolo – perlomeno quello di osservatori degli altri singolari acca- dimenti.» (Walton 1990, p. 49) L’immaginazione gira sempre intorno al soggetto e, in un certo senso, si potrebbe dire che essa sia sempre egocentrica. Tale caratteristica può però presentarsi in modi diversi, da cui possiamo distinguere almeno quattro poli organizzati in due casi: (i) posso immaginare me stesso nei panni di qualcun altro oppure nei miei stessi panni; e (ii) posso immagi- nare me stesso “in prima persona” o visto da fuori. Per illustrare il punto (i), si può pensare a Carla, una giovane artista, che immagina di avere dipinto la Gioconda. Lo può fare in due modi: po- trebbe immaginare di essere Leonardo da Vinci, proprio nel momento in cui applica l’ultima pennellata sulla tela – e potrebbe immaginare che proprio lei, Carla, avrebbe dipinto la Gioconda con le sue proprie mani. Per quanto riguarda (ii), Andrea può immaginare di vincere la maratona di New York in due modi diversi: può immaginare di correre nelle strade della grande mela, vedendo i grattacieli della metropoli e godendosi gli applausi degli spettatori, oppure può immaginare sé stesso “dall’esterno”, ovvero come visto da altri, nel momento in cui taglia il traguardo (in stile “photo finisher”). Il soggetto, quindi, è sempre in qualche modo presente nello scenario immaginato, anche se può figurare in tanti modi diversi; ogni immaginare è, di conseguenza, un’immaginazione de se. Con questo Walton conia un termine tecnico che fa eco a quello introdotto da David Lewis (1979) per LEZIONE 10: I GIOCHI DEL FAR FINTA 133 atteggiamenti proposizionali il cui contenuto verte sul soggetto stesso. Secondo Walton, le «immaginazioni de se sono immaginazioni che ver- tono sull’immaginatore stesso» (Walton 1990, 46n9). Tutt’altro che sintomo di un egoismo sfrenato o di una mancata con- siderazione per gli altri, questo aspetto ci aiuta a cogliere meglio l’impor- tanza dell’immaginazione – e, di conseguenza, anche la rilevanza dei gio- chi del far finta. Il fatto che il soggetto costruisca lo scenario fittizio in- torno a sé stesso rende molto più facile per lui relazionarsi con ciò che viene immaginato. Gli permette di “provare sulla propria pelle” – seppur nell’immaginazione – cosa significa fronteggiare certe situazioni, impe- gnarsi in certe attività, osservare certi eventi, provare o esprimere senti- menti, ecc. In questo modo, l’immaginazione può essere uno strumento che ci aiuta a conoscere meglio non solo noi stessi, ma anche gli altri. «È principalmente immaginando noi stessi fronteggiare certe situazioni, im- pegnarci in certe attività, osservare certi eventi, provare o esprimere certi sentimenti o atteggiamenti che veniamo alle prese con i nostri sentimenti – che li scopriamo, li impariamo ad accettare, ce ne affranchiamo, o qualunque cosa esattamente sia quella che immaginare ci aiuta a fare. Queste autoim- maginazioni sono importanti perfino quando entrare nel profondo degli altri è il nostro principale obiettivo. Per capire come si sentano le minoranze in quanto vittime di discriminazioni, si dovrebbero immaginare non soltanto casi di discriminazione ma esempi di discriminazione contro se stessi; si do- vrebbe immaginare di provare la discriminazione. E quando mi immagino nei panni di un altro (che immagini o meno di essere lui) che la mia immagina- zione mi aiuta a comprenderlo. … E quando immagino questo, imparo anche qualcosa su di me.» (Walton 1990, p. 56) Questo fa vedere che i giochi di far finta sono molto più che divertenti passatempi. Poiché il soggetto che immagina è sempre coinvolto, l’im- maginazione è uno strumento importante quando si tratta di ampliare i propri orizzonti, di conoscere meglio sé stessi e gli altri, e di comprendere a fondo le loro condizioni di vita. Per di più, lo possiamo fare in un am- biente protetto; l’immaginazione ci aiuta a imparare dall’esperienza senza rischiare di farci male. «Nella vita reale c’è un prezzo da pagare quando vincono i cattivi, anche se dall’esperienza si impara. Il far finta procura l’esperienza – o ad ogni modo qualcosa che le si avvicina – senza nessun costo.» (Walton 1990, p. 92) FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 134 Con questa sua concezione, Walton mostra come l’immaginazione possa essere uno strumento prezioso per ampliare la conoscenza e allargare i propri orizzonti. Sarebbe, quindi, limitante ridurre le opere d’arte rappre- sentazionali, e in particolare le opere di finzione letterarie, al loro valore estetico e al godimento che possono procurare. Oltre a suscitare espe- rienze estetiche, tali opere invitano a partecipare a giochi del far finta. Ciò permette ai fruitori di esplorare le più svariate tematiche da prospet- tive diverse e di considerare aspetti della realtà che, fino ad ora, erano sfuggiti. Gli scenari che ci vengono presentati nelle grandi opere d’arte rap- presentazionali sono talmente accattivanti che spingono il fruitore a esplorarli in tutti i loro dettagli, immergendosi pienamente nei mondi di finzione più interessanti. Eppure, si tratta sempre di scenari controfat- tuali, fittizi e mai realmente accaduti. Qual è, quindi, il valore delle sco- perte che il fruitore può fare nei viaggi della sua immaginazione? Qual è la relazione tra il mondo reale e i mondi di finzione? Sono queste le do- mande a cui ci dedicheremo nella prossima lezione. 10.6 Bibliografia dei testi citati Lewis, David. 1979. «Attitudes De Dicto and De Se» In: The Philosophical Review 88, pp. 513–543. Walton, Kendall. 1990. Mimesis as Make-Believe: On the Foundations of the Repre- sentational Arts. Cambridge, Mass.: Harvard University Press. Trad. it. da Marco Nani, Mimesi come far finta, Milano: Mimesi, 2011. Lezione 11 Mondi di finzione ed emozione 11.1 Introduzione Nella lezione precedente abbiamo discusso alcuni elementi di base della posizione di Kendall Walton, che mette il lettore e il momento della frui- zione al centro della sua teoria. Abbiamo potuto approfondire le nostre intuizioni circa l’immaginazione e i vari punti di contatto tra immagina- zione e realtà. Oggi continueremo a focalizzarci su Walton e vedremo che le opere d’arte letteraria sono supporti in grado di sollecitare giochi d’im- maginazione sociali, in quanto prescrivono ai partecipanti di far finta di credere in determinate proposizioni. Alla fine della lezione accennerò brevemente al fatto che non possiamo ridurre le reazioni dei lettori a un far finta di credere – tante opere ci commuovano a un livello emotivo – e porrò la domanda di come Walton potrebbe affrontare questa dimen- sione. La lettura di questa dispensa dovrebbe essere parallela a quella del primo capitolo di Walton (Mimesi come far finta), ma vi consiglio di dare una occhiata anche al capitolo 5.2 del libro (sempre disponibile sul sito Elly del corso). 11.2 Mondi di finzione Walton, come abbiamo visto, insiste molto sul fatto che l’immaginazione non sia sempre un’attività solitaria. Ci sono anche forme d’immagina- zione sociale. Quando ci dedichiamo ai giochi di far finta insieme ad altri, un minimo di coordinazione tra i partecipanti è richiesto – come in tutti i giochi: ci sono delle regole che determinano i parametri del gioco. Nel caso dei giochi di far finta ci interesserà soprattutto come il “campo” sul quale si gioca sia circoscritto e attrezzato; com’è fatto questo spazio dell’immaginazione all’interno del quale i partecipanti faranno le loro mosse? Nella prospettiva di Walton, questo spazio viene delineato dalle pro- posizioni che si deve far finta di credere per poter partecipare al gioco. Si può dire che tali proposizioni, per Walton, siano vere all’interno del FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 142 qualche parte, Eric potrebbe rispondere di no. Secondo Walton sarebbe nonostante vero in questo mondo di finzione che davanti a loro vi sia un orso: «Naturalmente se i partecipanti in un gioco sono inconsapevoli di un parti- colare troncone – perché è sepolto in un boschetto, ad esempio – la loro in- capacità di immaginare quanto prescritto è comprensibile: si può solo fare del proprio meglio per seguire la regola. Ma rifiutarsi di immaginare che c’è un orso dove c’è un troncone in bella vista sarebbe contravvenire alla regola, rifiutarsi di giocare il gioco.» (Walton 1990, p. 62) Il mondo di finzione è determinato non da ciò che Eric e Gregory, di fatto, immaginano, ma dai principi di generazione che guidando la loro imma- ginazione, prescrivano a Eric e Gregory di far finta di credere che tutti i tronchi siano orsi. «Pertanto il troncone genera la verità fittizia» (Walton 1990, p. 62). 11.5 L’opera d’arte come supporto Secondo Walton, una grande parte dei giochi di far finta (con l’esclusione dei sogni ad occhi aperti) prendono spunto da supporti. Questi sono tipi- camente oggetti come bambole e macchinine, tronconi di legno e nuvole; in un elenco di esempi sopra citato, però, abbiamo visto che anche le opere d’arte possono fungere da supporti in grado di generare verità fit- tizie. Infatti, Walton asserisce esplicitamente che: «La Grande Jatte, il David di Michelangelo, I viaggi di Gulliver, Macbeth, e le opere artistiche rappresentazionali, sono supporti in giochi di far finta.» (Walton 1990, p. 74) LEZIONE 11: MONDI DI FINZIONE ED EMOZIONE 143 Se paragoniamo le opere d’arte con altri supporti che abbiamo discusso sopra, per esempio i tronconi, notiamo subito una differenza importante: questi ultimi sono diventati supporti in un gioco del far finta in maniera arbitraria e ad hoc, alla base di un’idea spontanea di uno dei partecipanti del gioco. Le opere d’arte, invece, come anche le bambole o le macchi- nine, sono state create apposta per fungere da supporto in giochi di far finta; danno avvio a un gioco specifico, che corrisponde alla funzione per cui sono stati creati – questi sono, nei termini di Walton, giochi autoriz- zati, giochi che corrispondono alla funzione dei supporti (nulla toglie che si possa utilizzare una bambola di pezza come se fosse un cuscino ma, in questo caso, l’oggetto verrebbe usato per la sua morbidezza e non per il suo generare verità fittizie). Le opere d’arte sono «state specificamente realizzate allo scopo di essere usate come supporti in giochi di certi tipi, per un numero imprecisato di tali giochi che saranno gio- cati da differenti fruitori in differenti occasioni» (Walton 1990, p. 75) Questo punto serve Walton anche per precisare cosa intende con “rap- presentazione” – termine centrale per la sua teoria delle opere d’arte rappresentazionali. Walton usa questo termine solo per «cose la cui fun- zione è di essere supporto» (Walton 1990, 75). Oggetti semplici, come un troncone o una nuvola, possono invitare a un sogno ad occhi aperti o a un gioco spontaneo di far finta, ma non hanno la funzione di essere sup- porto; diventano tale in maniera piuttosto arbitraria, e quindi non sono Georges Seurat: Un dimanche après-midi à l’Île de la Grande Jatte FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 144 rappresentazioni. Una nuvola a forma di cane non è, quindi, una rappre- sentazione di cani – anche se può, se qualcuno stipula un principio di ge- nerazione, diventare un supporto in un gioco di far finta. La distinzione tra oggetti che hanno la funzione di essere supporto e quelli che non la hanno non è netta, però. Può accadere che ci siano dei casi intermedi in cui non è facile decidere se l’oggetto abbia la funzione di essere supporto o lo diventi in maniera arbitraria. Mettiamo che un bel giorno di autunno, Paolo compri una zucca che ha una vaga somiglianza con un mostro. Quando alcuni amici lo passano a trovare, lui dice “fac- ciamo che la zucca sia un mostro”. In questo modo, Paolo trasforma il vegetale in un supporto nel gioco di far finta, a cui i suoi amici parteci- pano con entusiasmo. Ciononostante, non è la funzione della zucca quella di essere supporto in giochi del genere e, quindi, essa non è una rappre- sentazione di un mostro. Ma immaginiamo che l’evento si ripeta in maniera analoga una se- conda, una terza e un’ennesima volta: il gioco potrebbe diventare un’amichevole consuetudine. In questo caso, gli amici si abitueranno ad applicare il principio di generazione finché, a un certo punto, Paolo andrà dal contadino e comprerà una zucca esattamente per questo motivo – per utilizzarla come supporto nel relativo gioco del far finta – e non ci sarà più bisogno di esplicitare alcunché. Se l’abitudine si diffondesse in tutto il paese, la cosa si potrebbe istituzionalizzare: le zucche potrebbero acquisire la funzione di supporti in giochi di far finta e, quindi, divente- rebbero rappresentazioni. La nostra piccola storia dimostra che la domanda, se un oggetto abbia una certa funzione o meno, dipende dalle convenzioni che sono in vigore in un gruppo sociale. Paolo, col tempo, è riuscito a introdurre una nuova convenzione, ovvero una nuova regola, che ha attribuito una nuova fun- zione alle zucche. Walton spiega cosa siano le funzioni, quindi, «in termini di una questione di regole circa come si debbano usare le cose» (Walton 1990, p. 76). Con questo rende giustizia all’idea che nella nostra società ci sono già tante convenzioni che attribuiscono una certa funzione a un tipo di oggetto – e fanno sì che tali oggetti vengano presi automatica- mente come supporti in giochi del far finta. È per questo motivo che i principi di generazione di tanti giochi del far finta rimangono impliciti. Ciò comporta, però, che a volte è facile non accorgersi che in un determinato LEZIONE 11: MONDI DI FINZIONE ED EMOZIONE 145 momento si sta già accettando tacitamente un principio di generazione implicito; perciò è facile sottovalutare il ruolo centrale dei supporti e, più in generale, dei giochi di far finta. Affermando che le opere d’arte letteraria hanno la funzione di sup- porti in giochi di far finta, Walton sottolinea il ruolo centrale che l’imma- ginazione svolge nel nostro interesse per la letteratura (e, più in generale, per la finzione). Se non fosse per questo, non si potrebbe spiegare l’on- nipresenza delle opere di finzione (letteraria) nella nostra società. Perciò, la posizione di Walton mette in luce che per comprendere il valore della letteratura e la sua rilevanza c’è bisogno di prendere in considerazione, oltre all’opera e all’autore, anche il fruitore e le sue attività d’immagina- zione a cui la letteratura dà avvio. Non dobbiamo ridurre le opere a questa funzione di supporti in giochi del far finta, però. Walton non perde di vista che esse svolgono un du- plice ruolo: a volte il nostro interesse per le opere è dovuto alla loro fun- zione di supporti in giochi del far finta; altre volte, però, siamo più inte- ressati ai supporti stessi, al modo in cui sono fatti e in cui possono svol- gere la loro funzione. In un passo che può richiamare la “funzione poetica del linguaggio” alla Jakobson (lezione 3), Walton scrive: «Fruire dipinti e romanzi è in larga misura questione di giocare con essi giochi di far finta del genere nel quale è loro funzione essere supporti. Ma talora il nostro interesse va ai supporti stessi, senza considerare alcun gioco specifico. E, talvolta, ci interessa vedere quali contributi la loro funzione apporti ai gio- chi di far finta, quali verità fittizie sia loro funzione generare, e quali generi di giochi si accorderebbero con la loro funzione, senza necessariamente gio- care davvero tali giochi.» (Walton 1990, p. 77) 11.6 Immaginazione ed emozione Una delle funzioni centrali della letteratura, quindi, è quella di suscitare atti d’immaginazione nel fruitore. Le poesie, i racconti e i romanzi sono, secondo Walton, supporti che generano verità fittizie che il fruitore do- vrebbe far finta di credere. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 146 Il modo in cui ho esposto la posizione di Walton finora potrebbe far sorgere l’impressione che il suo approccio sia molto centrato sulle cre- denze – mentre le nostre reazioni alle grandi opere d’arte letteraria sono molto più variegate. Certo, leggendo un’opera d’arte letteraria faccio finta di credere varie proposizioni, ma essa susciterà anche una serie di reazioni emotive in me: alcune opere mi faranno commuovere e provare empatia per i personaggi, altre – in particolare quelle d’orrore – mi fa- ranno confrontare con scenari fittizi spaventosi. Dobbiamo dire che in questi casi non sono né commosso, né impaurito, ma immagino soltanto di esserlo? È facile concepire cosa significhi immaginare di credere qual- cosa, ma come si fa a immaginare di emozionarsi? Vogliamo veramente dire che le opere non ci emozionano, ma ci invitano ad immaginare una qualche emozione? Il problema sorge perché abbiamo delle idee contrastanti sui mondi di finzione: da un lato accettiamo che vi sia una barriera logica e metafi- sica tra il mondo reale e i mondi di finzione: ciò che è fittizio non è vero e ciò che esiste nel mondo di finzione non esiste (o meglio: può non esi- stere) in quello reale. D’altro lato abbiamo l’intuizione forte che pos- siamo instaurare un contatto psicologico profondo coi personaggi, cre- dendo addirittura di conoscerli in maniera molto intima. La domanda, quindi, è: come può la teoria waltoniana spiegare le no- stre reazioni emotive alle opere di finzione? Per testare le nostre intui- zioni, Walton ci confronta con lo scenario di un tale, Charles, che va al cinema per vedere un film horror, forse The Green Slime (potete vedere la locandina del film, che è stato rilasciato nel 1968, sulla copertina di questa lezione): «Charles sta guardando un film dell’orrore incentrato su una terribile crea- tura verde mucillaginosa. Si rincantuccia nel suo posto mentre la colata della creatura mucillaginosa lentamente ma inesorabilmente raggiunge ogni an- golo della terra, distruggendo tutto quello che incontra sul suo cammino. Di lì a poco dalla massa ondeggiante emerge una testa viscida, e due occhi come punte di spillo guardano fissi in macchina. La creatura mucillaginosa, prendendo velocità, cola lungo un nuovo percorso proprio in direzione dello spettatore. Charles emette un grido aggrappandosi disperatamente alla pro- pria sedia. In seguito, ancora scosso, confessa di esser stato “terrorizzato” dalla creatura mucillaginosa. È da essa che è stato terrorizzato?» (Walton 1990, p. 235) LEZIONE 11: MONDI DI FINZIONE ED EMOZIONE 147 Questa situazione immaginaria ci fa sorgere qualche domanda: Charles prova veramente paura o prende solo in considerazione, nella sua imma- ginazione, di avere paura? Come può reagire Kendall Walton a questo “paradosso della finzione”? Ma questi sono temi che affronteremo nella prossima lezione… 11.7 Bibliografia del testo citato Walton, Kendall. 1990. Mimesis as Make-Believe: On the Foundations of the Repre- sentational Arts. Cambridge, Mass.: Harvard University Press. Trad. it. da Marco Nani, Mimesi come far finta, Milano: Mimesi, 2011. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 152 anche detto che è in ottima salute, quindi perché piangi?” Ma Giuseppe insiste: “Pensa quanto sarebbe stata tragica la morte di Giovanni, con i cinque figli che sarebbero rimasti orfani.” Francesca scuole la testa, pen- sando che, a volte, proprio non riesce a capire i ragionamenti del suo compagno. Chi non sarebbe d’accordo con lei? Gli eventi che Giuseppe ha immaginato non sono mai successi, e lui lo sa bene. Anche in questo caso sarebbe irrazionale emozionarsi per uno scenario puramente ipote- tico. Tutti e tre degli scenari discussi illustrano che per avere delle emo- zioni genuine si deve credere che l’oggetto dell’emozione sia reale e che sarebbe irrazionale emozionarsi per eventi che sono puramente ipotetici. (Avete notato che ho cercato di variare l’esempio per non rischiare di cadere vittime di una “dieta unilaterale” di esempi.3) 12.3 Il paradosso della finzione Siamo di fronte a una situazione che può sembrare paradossale: da un lato è un luogo comune che le opere di finzione letteraria possano susci- tare emozioni nel lettore; d’altro lato possiamo avere l’impressione che sia impossibile avere delle emozioni genuine attorno a scenari ipotetici o personaggi fittizi. La tensione tra questi due poli, chiamata comune- mente il paradosso della finzione, viene spesso esposta in tre proposi- zioni che costituiscono una “triade inconsistente” (ovvero, un gruppo di tre proposizioni che sembrano ugualmente plausibili, ma implicano una contraddizione e non possono, quindi, essere tutte vere)4: (A) I lettori e il pubblico provano spesso emozioni come compas- sione e paura attorno a oggetti di cui sanno che sono fittizi, per esempio i personaggi fittizi; (B) è una condizione necessaria, per provare emozioni come com- passione e paura, che coloro che le provano credano che gli og- getti delle loro emozioni esistano; 3 «Una delle cause principali della malattia filosofica – una dieta unilaterale: nutriamo il nostro pensiero con un solo tipo di esempi» (Wittgenstein 1953, § 593) 4 La formulazione delle proposizioni è presa da Lamarque (2009, p. 212; trad. mia), che devia leggermente da quella proposta da Barbero (2013, p. 75) – ma le due formulazioni sono interscambia- bili, volevo soltanto variare un po’. LEZIONE 12: IL PARADOSSO DELLA FINZIONE 153 (C) i lettori e il pubblico che sanno che gli oggetti sono fittizi non credono che questi oggetti esistano. Messo in questi termini, il paradosso della finzione non è un argomento (nel senso stretto del termine), in cui si parte da un insieme di premesse per derivare una conclusione precisa. La triade inconsistente è piuttosto un rompicapo che ci aiuta ad accorgerci che abbiamo intuizioni plausibili ma tra loro contraddittorie – senza proporre alcuna soluzione. Il para- dosso è, quindi, come uno specchio che ci aiuta a vedere che c’è qualcosa che non va con le nostre intuizioni e ci invita a riflettere quale (o quali) delle tre proposizioni dovrebbe essere rivista o rifiutata. Un’imposta- zione del genere può suscitare un certo grado di sfida: è forse per questo che il paradosso è stato accolto con enorme interesse tra i filosofi, che si sono messi al lavoro per proporre una serie di soluzioni. Qui mi limiterò a dare una breve panoramica: Si potrebbe mettere in discussione (A), e lo si potrebbe fare in tre modi diversi: (i) alcuni filosofi hanno negato che quelle provate per le entità fittizie siano vere e proprie emozioni; si tratterebbe piuttosto di atteggiamenti molto meno complessi che non hanno intenzionalità. Altri, invece, hanno voluto (ii) sostenere che, almeno nel momento della frui- zione, non crediamo che le entità, verso le quali le nostre emozioni sono dirette, siano fittizi. Una delle prime proposte in questa direzione è stata quella di S.T. Coleridge, secondo cui applichiamo una “voluta sospen- sione dell’incredulità” (willing suspension of disbelief). Sappiamo che Anna Karenina non è mai esistita ma, nonostante ciò, nel momento di fruizione mettiamo questa nostra credenza fra parentesi. Entrambe le strategie non sono prive di problemi, però. La prima, ne- gando che proviamo vere emozioni per i personaggi fittizi, sta in netto contrasto con la nostra intuizione che le grandi opere d’arte letteraria possano commuoverci; d’altra parte, la seconda non rende giustizia al fatto che sappiamo, in ogni momento della lettura, che gli scenari de- scritti sono fittizi. (A) viene messa in dubbio anche da chi (iii) suggerisce che le emozioni che proviamo durante la lettura in realtà non vertono su personaggi fit- tizi, ma su persone reali che vivono in condizioni simili o hanno avuto una sorte simile. Le emozioni che provo durante la lettura de Il processo di Kafka, per esempio, non verterebbero su Joseph K., ma su una persona FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 154 reale (tutte le persone reali?) che ha, come Joseph K., sofferto a causa di un anonimo sistema burocratico. Mentre questo approccio può essere plausibile per alcune opere che illustrano le condizioni di vita di un certo gruppo di persone, esso contrasta con la nostra intuizione che sono pro- prio i personaggi fittizi, quelli che conosciamo intimamente attraverso la lettura dell’opera, su cui le nostri emozioni vertono. Si potrebbe mettere in discussione (B), suggerendo che credere nell’esistenza dell’oggetto delle nostre emozioni non sia una condizione necessaria per provarle. Potrebbe bastare concepirlo o immaginarlo in maniera molto vivace, concreta, e dettagliata, con le svariate caratteri- stiche che suscitano in noi particolari emozioni. Questa posizione po- trebbe essere motivata con l’argomento che la credenza, in realtà, è solo la causa dell’emozione, ma non il suo oggetto. L’emozione verte, quindi, non sulla credenza, ma piuttosto su ciò che è descritto nel contenuto della credenza, e un’immaginazione vivace con lo stesso contenuto po- trebbe avere lo stesso effetto. Questa posizione potrebbe spiegare per- ché ci emozioniamo quando sentiamo parlare – in conversazione con un amico o nel telegiornale – delle avventure di persone che non cono- sciamo personalmente e di cui non possiamo verificare l’esistenza. Sono i particolari dei loro avvenimenti che ci emozionano, non la nostra cre- denza nella loro esistenza. L’oggetto dell’emozione, in questo caso, non sono persone reali ma i pensieri, i contenuti delle credenze o dell’imma- ginare; è per questo motivo che la teoria, proposta inizialmente da Peter Lamarque (1981), si chiama “Thought theory”. Contro questa strategia, si potrebbe obiettare che il telegiornale, de- scrivendo eventi accaduti a persone che sembrano reali, sembra sempre più realistico di un romanzo. Certo, non possiamo essere del tutto sicuri che le persone di cui parlano nelle notizie esistano realmente – ma ciò sembra altamente probabile. Nel caso dei romanzi, invece, una tale pro- babilità non c’è; sappiamo che i personaggi di cui leggiamo non sono mai esistiti. Si potrebbe anche optare per una soluzione più radicale e suggerire che il paradosso svelerebbe soltanto che noi esseri umani non siamo ra- zionali – soprattutto quando si tratta di emozioni. Perché, allora, essere sorpresi quando proviamo emozioni che, in luce dei principi della razio- nalità, sembrano inspiegabili? In alcuni passi può sembrare che lo stesso LEZIONE 12: IL PARADOSSO DELLA FINZIONE 155 Radford opti per questa soluzione. Ma non sembra molto soddisfacente: una teoria filosofica dell’emozione non dovrebbe rassegnarsi a consta- tare che noi esseri umani siamo irrazionali; dovrebbe piuttosto spiegare come dovremmo comportarci per essere razionali – e non dovrebbe, al contempo, sacrificare le nostre reazioni emotive per un mal compreso ideale di razionalità. Sembra importante notare, come hanno fatto alcuni filosofi, che non è irrazionale provare emozioni per personaggi fittizi, anzi! Sembrerebbe piuttosto irrazionale non provarle. 12.4 Emozioni fittizie Torniamo a Walton. Lui come potrebbe reagire al paradosso della fin- zione? Cosa può dire di Charles al cinema? Diamo un’altra occhiata alla descrizione dello scenario che Walton ci presenta: «Charles sta guardando un film dell’orrore incentrato su una terribile crea- tura verde mucillaginosa. Si rincantuccia nel suo posto mentre la colata della creatura mucillaginosa lentamente ma inesorabilmente raggiunge ogni an- golo della terra, distruggendo tutto quello che incontra sul suo cammino. Di lì a poco dalla massa ondeggiante emerge una testa viscida, e due occhi come punte di spillo guardano fissi in macchina. La creatura mucillaginosa, prendendo velocità, cola lungo un nuovo percorso proprio in direzione dello spettatore. Charles emette un grido aggrappandosi disperatamente alla pro- pria sedia. In seguito, ancora scosso, confessa di esser stato “terrorizzato” dalla creatura mucillaginosa. È da essa che è stato terrorizzato? Non penso.» (Walton 1990, p. 235) Dall’ultima frase si può notare come Walton neghi che Charles provi dav- vero paura. Egli concede che Charles manifesti sintomi corporei simili a quelli di una persona che prova paura genuina: «I suoi muscoli sono tesi, è aggrappato alla propria sedia, il suo polso accelerato, la sua adrenalina aumenta» (Walton, 1990, p. 235). Ma ciò non toglie che Charles non crede di essere in un pericolo reale, e lo si vede dal fatto che non corre via, non chiama il 112 né gli amici per avvertirli dell’invasione delle crea- ture verdi. Charles, in altre parole, reagisce a ciò che vede sullo schermo con le risposte automatiche tipiche di chi prova paura, senza però effet- tuare nessuna delle altrettanto tipiche azioni deliberate compiute dalle FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 156 persone terrorizzate. Le risposte automatiche sono come reazioni istin- tive non controllate dal soggetto, mentre le azioni deliberate si fanno per ragioni e si può scegliere di compierle o meno. Le prime sono reazioni più immediate, mentre le seconde richiedono al soggetto di avere, oltre alle emozioni che prova, anche una serie di credenze rilevanti che motivano le azioni (Charles deve credere che lui stesso e i suoi amici siano in peri- colo e che in situazioni di pericolo ci si dovrebbe rivolgere alle forze dell’ordine, ecc). Dato che Charles manifesta il primo ma non il secondo tipo di reazione agli scenari rappresentati nel film, Walton sostiene che quella di Charles non sarebbe una paura genuina; ma piuttosto una forma di quasi-paura. Le nostre reazioni emotive alle opere di finzione letteraria sono tipi- camente quasi-emozioni. Non è vero, quindi, che il fruitore provi emo- zioni genuine; si tratta piuttosto di una verità fittizia: è vero nel mondo di finzione che il fruitore prova emozioni. L’opera è un supporto che sol- lecita il fruitore a immaginare scenari fittizi, ovvero a immergersi nel mondo di finzione presentatogli dall’opera. Abbiamo visto nella lezione precedente che l’immaginare ha sempre anche un aspetto de se, e ciò è vero anche nei casi delle immaginazioni sollecitate da opere di finzione. In qualche modo, la persona che imma- gina fa sempre parte degli scenari immaginati. Ciò significa, però, che nel momento di fruizione ognuno di noi crea, partendo dall’opera (dal testo o da ciò che vediamo sullo schermo), il proprio mondo di finzione di cui lei stessa / lui stesso diventa parte – o nel ruolo di un osservatore o per- ché si immedesima in uno dei protagonisti. Il mondo di finzione che Charles crea durante la visione del film non contiene, quindi, soltanto gli eventi e i personaggi rappresentati dall’opera, ma anche le reazioni emotive che lui stesso sta manifestando, così come lo fanno gli attori sul palcoscenico. Sono vere, nel suo mondo di finzione, tutte quelle proposizioni relative alle risposte automatiche, dal polso che accelera all’aumento di adrenalina, dal chiudere gli occhi all’urlare. Charles, si potrebbe dire, diventa attore nel suo personale mondo di finzione, diventa un supporto riflessivo che genera delle verità fittizie su se stesso. Le reazioni emotive di Charles, ma anche tutto ciò che pensa e sente, generano verità fittizie, ovvero proposizioni vere nel LEZIONE 12: IL PARADOSSO DELLA FINZIONE 157 mondo di finzione creato durante la visione del film. Le reazioni che Char- les manifesta al cinema fanno sì che, nel suo mondo di finzione, egli sia spaventato. Ogni fruitore crea il proprio mondo di finzione, e le verità fittizie che Charles genera – nella sua funzione di supporto riflessivo nel proprio gioco di far finta – sono vere solo nel suo e non nei mondi di finzione degli altri spettatori né in quello dell’opera. Charles, quindi, di- venta attore nel mondo di finzione, ma la sua rappresentazione non è per un pubblico oltre se stesso. Potremmo riassumere la posizione di Walton dicendo che Charles al cinema non prova genuinamente paura, ma fa solo finta di provare paura. Il punto può essere generalizzato a tutte le nostre reazioni emo- tive alle opere di finzione. «Allorché ci si rende conto che è fittizio che Anna Karenina patisca una di- sgrazia, è fittizio che abbiamo consapevolezza del suo patirla, e di conse- guenza proviamo quasi compassione. Questo è, forse, all’incirca ciò che rende fittizio che la compatiamo.» (Walton 1990, p. 295) Secondo Walton le “quasi emozioni” sono come «un arcipelago di sensazioni o di altre esperienze fenomenologiche caratte- ristiche delle emozioni reali, quelle che il fruitore che “compatisce Anna” o “ammira Superman”, ad esempio, ha in comune con coloro che compati- scono realmente o che ammirano persone reali» (Walton 1990, p. 295) A volte può succedere che una quasi-emozione coincida con un’emo- zione genuina, come sarebbe il caso se un ammiratore di Napoleone leg- gesse Guerra e Pace e cominciasse ad ammirare fittiziamente il Napo- leone del romanzo. Non è detto, poi, che le quasi-emozioni siano effimere né che si spen- gano subito dopo la fruizione. Al contrario, le grandi opere d’arte spesso riescono a far sì che questo gioco del far finta continui per tanto tempo: «Molte opere che consideriamo grandi hanno la capacità di mettere in moto giochi di far finta di questo genere, complessi, di lunga durata.» (Walton 1990, p. 299) Lezione 13 Letteratura e conoscenza 13.1 Introduzione «Io so la storia di un uomo che racconta le storie. Gli ho detto molte volte che non credo le sue storie. “Lei mente” gli ho detto “lei imbroglia, lei inventa, lei inganna”. Questo non lo impressionò. Continuò tranquillamente a raccon- tare, e quando io gridai: “Lei mentitore, lei imbroglione, lei inventore, lei in- gannatore!” mi guardò a lungo, scosse la testa, sorrise tristemente...» (Bich- sel 2002, p. 25) Queste parole, con cui Peter Bichsel apre la sua storia «L’America non esiste», possono caratterizzare bene l’atteggiamento che tanti filosofi hanno assunto nei confronti della letteratura. Il fatto che gli autori delle grandi opere d’arte letteraria si prendano le loro libertà nelle descrizioni della realtà gli è sospetto, e si stupiscono dal fatto che a volte si sente dire che l’opera esprime una profonda verità, mentre in realtà tratta di scenari fittizi e di persone mai esistite – il che rende le affermazioni con- tenute nelle opere false (nel senso letterale). Nella lezione di oggi ve- dremo che alcuni filosofi hanno – proprio come la voce narrante del testo sopraccitato – accusato gli scrittori di mentire. E gli scrittori, come hanno reagito alla critica di questi filosofi? Se se ne sono accorti, forse hanno soltanto guardato a lungo i loro critici, scosso la testa, sorriso, e conti- nuato a raccontare le loro storie. Con questa lezione apriamo la quarta parte del corso, dedicata alla relazione tra opera e mondo e ai valori che la letteratura può avere. Una domanda che discuteremo è se le opere di finzione letteraria possano aiutare i lettori a comprendere meglio il mondo reale. Tanti autori affer- mano che scrivono per cambiare il mondo, ma è possibile cambiarlo con storie che descrivono in maniera fantastica e artistica dei mondi di fin- zione? Altri autori affermano che con le loro opere cercano di affinare la sensibilità dei lettori per questioni morali, ma la funzione della lettera- tura è veramente quella di dare lezioni di educazione morale? Discute- remo, quindi, la domanda se le opere letterarie possano avere un valore cognitivo, ovvero un valore sul piano della conoscenza. Nella presente lezione ci chiediamo se la letteratura possa ampliare la nostra cono- scenza, focalizzandoci sugli scettici che difendono una forma di anti-co- FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 164 gnitivismo letterario. Nella lezione 14, invece, analizzeremo alcune posi- zioni che, difendendo il cognitivismo letterario, spiegano come la lettera- tura possa ampliare la nostra conoscenza. A conclusione del nostro ciclo di lezioni, nella quindicesima si affronterà la domanda se le opere lette- rarie hanno, o dovrebbero avere, un valore morale. Come lettura complementare a queste dispense consiglio: C. Bar- bero, «Filosofia della letteratura», op. cit., cap. 5 (pp. 93–111). 13.2 Letteratura e formazione L’affermazione che la letteratura può avere un valore cognitivo, sembra prima facie ovvia. È un luogo comune che la fruizione di testi letterari costituisce una parte indispensabile della nostra formazione, ed è pro- prio per questo che la letteratura e le competenze richieste per poter fruire le opere d’arte letteraria vengono insegnate nelle scuole. Molto di ciò che sappiamo delle relazioni interpersonali, di ciò che si prova in una certa situazione non quotidiana (in una situazione, cioè, che non abbiamo ancora vissuto in prima persona), della psicologia, della politica o della storia l’abbiamo imparato leggendo. Fra tutte le altre funzioni che la let- teratura può avere nella nostra società, sembra indubitabile che possa (anche) offrirci delle nuove prospettive e approfondire la nostra com- prensione, il che si manifesta anche nel fatto che tanti autori scrivono per comunicare un messaggio che porta i lettori a riflettere sui propri pregiu- dizi e (in certi casi) a cambiare le proprie opinioni. Questi luoghi comuni sono stati contestati da un notevole numero di filosofi, però. La letteratura, secondo loro, può divertirci, può essere un passatempo piacevole, ma non può, in linea di principio, insegnarci niente. Il problema si pone per tutte le forme d’arte, ma sembra partico- larmente urgente nel contesto della letteratura, per il semplice motivo che i testi letterari sono testi che consistono di proposizioni che hanno un valore di verità: sono o vere o false, a seconda che descrivano il mondo in modo corretto o meno. Le opere di finzione letteraria, invece, non hanno neanche la pretesa di descrivere il mondo in modo corretto – parlano di persone che non sono mai vissute e di eventi che non sono mai accaduti, e quindi contengono delle proposizioni che sono – in senso LEZIONE 13: LETTERATURA E CONOSCENZA 165 stretto – false. Chiunque prenda in mano Il processo di Franz Kafka e legga la prima frase, «Qualcuno deve aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato», si rende ben conto che queste affermazioni sono false. Nessuno ha mai ca- lunniato Josef K. e questi non venne mai veramente arrestato, per il sem- plice fatto che Josef K. non è mai esistito. Questo implica che la lettera- tura non può comunicare informazioni, non potendo suscitare nel lettore credenze vere sul mondo attuale. In breve, secondo questo ragio- na- mento un testo letterario, in quanto è un’opera di finzione, non può avere alcun valore cognitivo. Questa osservazione ha portato un numero considerevole di filosofi alla conclusione che i poeti mentono. David Hume, per esempio, sugge- risce in un passo molto noto del suo Trattato sulla natura umana che i poeti cercano di ingannare i lettori in quanto parlano di persone e scenari che nascono dalla loro immaginazione, ma ne parlano come se descrives- sero fedelmente la realtà. «I poeti stessi, benché mentitori per professione, cercano sempre di dare una parvenza di verità alle loro finzioni; e dove questa parvenza mancasse del tutto, le opere, per quanto ingegnose, non offrirebbero gran diletto.» (vol. 1, p. 135) Hume non è solo con questo parere. Troviamo un ragionamento molto simile già in Platone. Secondo la dottrina del filosofo, il mondo fisico non è nient’altro che una imitazione, una rappresentazione mimetica, delle cose vere e proprie. I poeti, in quanto descrivono il mondo fisico, non rappresentano le cose vere e proprie, ma le imitazioni di esse e così fa- cendo si allontanano di un ulteriore passo dalla verità. Se cerchiamo la verità è quindi consigliabile consultare il filosofo e non il poeta, che in fondo è «un ciarlatano, un imitatore» (Platone Repubblica, 598d). In più, Platone vedeva un grande pericolo nella poesia: anziché illuminare i let- tori e portarli verso la verità, il poeta «potrebbe turlupinare bambini e gente sciocca» (598c), cioè coloro che sono incapaci «di vagliare scienza, ignoranza e imitazione» (598d). La letteratura, perciò, non è un mezzo adatto per comunicare informazioni, ma può sembrare che lo sia ed è quindi ancora più inadatta come strumento didattico; storie che parlano male dell’Ade, per esempio, potrebbero spaventare i giovani, e quindi dovrebbero essere proibite: FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 166 «non perché non siano poetiche e non offrano dilettevole ascolto ai più, ma perché quanto più sono poetiche, tanto meno le devono udire fanciulli e uo- mini che hanno da essere liberi e paurosi della schiavitù più che della morte» (386b). Di conseguenza Platone conclude che i poeti – come fra l’altro (e per gli stessi motivi) i pittori – dovrebbero essere espulsi dalla città ideale. Come Platone e Hume, tanti filosofi della storia hanno sostenuto che lo scopo della letteratura non sarebbe quello di farci comprendere me- glio la realtà e trasmettere delle informazioni sul mondo. Piuttosto, la letteratura «nasce dal bisogno dell’uomo di esprimere il proprio senti- mento della vita [Lebensgefühl]» (Carnap 1931, p. 529), e quindi non è né vera né falsa ma, semmai, autentica. È per questo motivo che non si può contraddire o falsificare una poesia, mentre si può contraddire o fal- sificare una teoria scientifica, che mira ad ampliare la nostra conoscenza. «Il lirico … non si cura di confutare con la sua poesia le proposizioni tratte dalla poesia di un altro lirico. Egli sa, in effetti, di operare nell’ambito dell’arte e non in quello della teoria.» (Carnap 1931, p. 530) Tutte queste considerazioni esposte hanno portato allo sviluppo dell’anti-cognitivismo letterario, ovvero della posizione che sostiene che le opere d’arte letteraria non possono ampliare la nostra conoscenza. La posizione è molto diffusa tra i filosofi, soprattutto tra coloro che non la- vorano nell’ambito della filosofia della letteratura. Sorprendentemente, possiamo però osservare una carenza di opere filosofiche in cui si argo- menta dettagliatamente l’anti-cognitivismo letterario, che spesso si dà per scontato. Noël Carroll (2002) ha ricostruito questa posizione alla base di tre assunti che la maggior parte degli anti-cognitivisti sono disposti a condividere: (VER) Le proposizioni contenute nelle opere di finzione non sono vere (nel senso letterale). Le opere di finzione letteraria descrivono tipicamente persone mai esi- stite ed eventi mai accaduti, e quindi le proposizioni al loro interno non sono vere nel senso letterale. Anche nei casi in cui un’opera sia ambien- tata in un luogo reale o contenga descrizioni di persone reali (pensate al LEZIONE 13: LETTERATURA E CONOSCENZA 167 personaggio di Napoleone in Guerra e pace), l’autore non afferma alcun- ché: come abbiamo visto nella lezione 2, egli fa solo finta di affermarle e, quindi, tali descrizioni non sono vere nel senso letterale. (EVI) Le opere di finzione non forniscono evidenze in supporto alle affermazioni che vengono fatte nell’opera o che emergono da essa. Una persona che fa un’affermazione si trova tipicamente nell’obbligo di supportarla con evidenze. Per esempio, uno scienziato che presenta un’ipotesi empirica deve anche fornire i dati su cui questa si basa, mentre un giornalista che presenta uno scoop in un suo articolo deve condividere anche i fatti che ne dimostrano la verità. I giornalisti spesso mirano, at- traverso storie particolari, ai casi generali – ovvero cercano di mostrare, fornendo dati empirici o fatti politici, che il caso individuale si può gene- ralizzare. Ciò non accade nelle opere letterarie. Uno scrittore racconta soltanto una storia particolare, senza trarne una conclusione (almeno non all’interno dell’opera, in maniera esplicita). Egli può invitare i lettori a riconoscere, nella sorte di un personaggio particolare, l’esemplifica- zione di alcune condizioni di vita condivise con tante persone reali; ma ciò non toglie che l’autore non fornisce – né gli è richiesto di farlo – nes- suna evidenza, all’interno dell’opera, a favore di questo passaggio dal particolare al generale. (ARG) Le opere di finzione non contengono argomenti da cui una conclusione potrebbe essere dedotta. Un filosofo o uno scienziato presenta un’ipotesi tipicamente fornendo degli argomenti: tenta di rendere esplicite le premesse da cui l’ipotesi segue come conclusione. Nelle opere di finzione letteraria, invece, non troviamo nessun argomento. A volte si può avere l’impressione che da una certa opera letteraria emerga un’ipotesi abbastanza precisa; si po- trebbe suggerire, di conseguenza, che tale ipotesi sarebbe la conclusione che “deriva” dall’opera. Ciò non sembra molto plausibile, per due motivi: per primo, nell’opera l’argomento non viene formulato in maniera espli- cita. Il lettore, non trovando l’argomento nel testo, lo dovrebbe rico- struire e non potrebbe mai essere sicuro se la sua ricostruzione sia fedele alle intenzioni presenti nell’opera. Secondo, gli argomenti filosofici e scientifici fanno parte di una dialettica in cui non ci si limita a proporre argomenti, ma si considerano anche quelli altrui e li si sottopone a FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 172 ché, quindi, leggere un romanzo di quattrocento pagine, se da un para- grafo del manuale si può ricavare lo stesso plusvalore conoscitivo? Tutto ciò dimostra, per Stolnitz, che non apprezziamo le opere d’arte letteraria per il loro valore cognitivo, ma per il piacere estetico che riescono a su- scitare nei lettori. L’anti-cognitivismo moderato Vi è una forma più moderata dell’anti-cognitivismo che, anziché negare la possibilità che la letteratura possa ampliare i nostri orizzonti conosci- tivi, insiste però che tale aspetto non sarebbe né centrale né essenziale. L’opera è autonoma e non dovrebbe essere strumentalizzata; serve a scopi estetici e non (in primo luogo) alla comunicazione di conoscenza. T.J. Diffey, uno dei fautori di questa posizione, insiste che i lettori di opere d’arte letteraria assumono tipicamente un atteggiamento partico- lare: prestano attenzione alle caratteristiche estetiche dell’opera, alla sua forma, allo stile, ecc. Assumere tale atteggiamento, secondo Diffey, comporterebbe il non prestare attenzione alla verità delle proposizioni e al valore cognitivo dell’opera. Un argomento simile fu proposto anche da Peter Lamarque, che ammette espli- citamente che le opere d’arte letteraria possono am- pliare la nostra conoscenza. Ciononostante, il valore co- gnitivo della letteratura sarebbe, secondo il filosofo, sol- tanto un effetto collaterale, qualcosa che non è e non può essere essenziale per l’arte. L’anti-cognitivismo moderato, in breve, può ammettere che le opere d’arte letteraria possono avere sia un valore estetico che un valore co- gnitivo, ma insistono molto che questi due tipi di valore siano indipen- denti l’uno dall’altro e che – se consideriamo la letteratura come una forma d’arte – gli unici valori essenziali siano quelli estetici. Un’opera, quindi, può essere riuscita anche se non è informativa. Peter Lamarque LEZIONE 13: LETTERATURA E CONOSCENZA 173 13.5 Bibliografia dei testi citati Bichsel, Peter. 2002. «L’America non esiste», in: Storie per bambini, Milano: Marcos y Marcos. Carnap, Rudolf. 1931. «Die Überwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache», in: Erkenntnis 2, pp. 219–241. Trad. it, «Superamento della metafisica tramite l’analisi logica del linguaggio», in Neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Torino: UTET, pp. 504–532. Carroll, Noël. 2002. «The Wheel of Virtue: Art, Literature, and Moral Knowledge», in: The Journal of Aesthetics and Art Criticism 60/1, pp. 3–26. Elgin, Catherine. 2002. «Art and the Advancement of our Understanding», in: Ameri- can Philosophical Quarterly 39, pp. 1–12. Lamarque, Peter. 2006. «Cognitive Values in the Arts: Marking the Boundaries», in: Contemporary Debates in Aesthetics and the Philosophy of Art, a cura di Matthew Kieran, Oxford: Blackwell, pp. 127–39. Platone. 1994. La Repubblica, trad. da Franco Sartori, Laterza, Roma-Bari. Stolnitz, Jerome. 1992. «On the Cognitive Triviality of Art», in: The British Journal of Aesthetics 32/3, pp. 191–200. Lezione 14 Il valore cognitivo della letteratura 14.1 Introduzione Per l’anti-cognitivismo letterario, come abbiamo visto nella lezione pre- cedente, la letteratura non può contribuire in maniera sostanziale alla nostra formazione. Le opere d’arte letteraria invitano a tuffarsi in mondi di finzione rappresentati tramite una forma letteraria che mira a solleci- tare un piacere estetico nel fruitore. Ma, proprio perché gli scenari sono fittizi, la letteratura non può, secondo questo ragionamento, informarci sul mondo reale. L’argomentazione sembra, a prima vista, convincente e l’impulso di tutelare la letteratura dal tentativo di strumentalizzarla per scopi che non le appartengono può sembrare appropriato. Ma ciononostante, l’anti-co- gnitivismo letterario ci lascia con un senso di perplessità. La letteratura non può davvero insegnarci niente? Troviamo consolazione in Calvino: «La letteratura vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione.» Forse non dobbiamo rassegnarci e ac- cettare in maniera frettolosa la conclusione dell’anti-cognitivismo lette- rario. Una riflessione sulla nostra prassi di lettura potrebbe gettare luce sul perché l’idea che per cui la letteratura possa ampliare i nostri orizzonti cognitivi sia così persistente. La domanda da porsi, forse, non è se, ma come la letteratura possa arricchire la nostra conoscenza – e se lo faccia in modo sui generis, ov- vero in una maniera propria, che distingue la letteratura da altre fonti di conoscenza. Per poter superare sia l’anti-cognitivismo forte che quello moderato, si dovrebbe inoltre dimostrare non solo che la letteratura ab- bia un valore cognitivo, ma anche che questo contribuisca al valore este- tico dell’opera. Nella presente lezione, risponderemo a questa domanda prendendo in considerazione quattro proposte molto diverse tra di loro. Non dovremo decidere quale risposta sia la più “corretta”: la letteratura è un fenomeno molto sfaccettato, e una spiegazione azzeccata per un tipo di opera può risultare inadeguata per un altro. Ciascuna delle quat- tro soluzioni potrà farci riflettere sui modi in cui fruiamo le opere d’arte letteraria, soprattutto nei momenti in cui cerchiamo un’esperienza che congiunge il piacere estetico con lo stimolo intellettuale. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 176 14.2 Esperimenti mentali Secondo un’opinione molto diffusa è sensato chiedersi se le opere d’arte letteraria abbiano un valore cognitivo, mentre è ovvio che le teorie scien- tifiche possano ampliare la nostra conoscenza. Dopotutto, le scienze trat- tano del mondo reale, non di mondi di finzione. Il loro scopo è spiegare, basandosi su dati empirici, ciò che accade intorno a noi. Un’analisi più approfondita mostra, però, che questa opinione non è priva di problemi. Per quanto è vero che le induzioni scientifiche si ba- sano su dati empirici, e quindi su descrizioni fattuali, è altrettanto vero che il processo di teorizzazione, a volte, fa uso di scenari fittizi che non sono mai stati osservati e che, forse, non sono mai nemmeno accaduti. È un fatto noto che la prassi scientifica faccia ampiamente uso dell’imma- ginazione, e a volte anche di giochi d’immaginazione che coinvolgono scenari fittizi. Pensate agli esperimenti mentali, che svolgono un ruolo centrale in tutti i contesti in cui – per motivi teorici o limiti pratici – non è possibile condurre un esperimento reale. Non si può, per esempio, te- stare in modo empirico cosa accade a un corpo che viene risucchiato da un buco nero, ma si può condurre un esperimento mentale per scoprirlo. Osservando alcuni parametri (le leggi naturali rilevanti e le condizioni ini- ziali) si può concepire uno scenario fittizio e così facendo arrivare a una descrizione della situazione in grado di esemplificare tutti e soli gli aspetti rilevanti. Come funzionano gli esperimenti mentali? Tipicamente sono esperi- menti che presentano uno scenario mai realmente accaduto; si tratta, quindi, di uno scenario controfattuale, ovvero fittizio. Chi propone l’espe- rimento invita le lettrici e i lettori a esplorare, nell’immaginazione, tale scenario e a trarne delle conclusioni – che, a sua volta, possono produrre evidenze a favore di una teoria o falsificare un’ipotesi. Il gioco dell’imma- ginazione a cui siamo invitati a partecipare può, quindi, essere rilevante per la nostra comprensione della realtà. La descrizione dello scenario fit- tizio avviene tipicamente in brevi testi narrativi, il che dimostra che la distinzione tra finzione e descrizione fattuale non è così netta come si potrebbe pensare. (È chiaro che i manuali scientifici non sono opere di finzione ma contengono, quando fanno uso di esperimenti mentali, brevi testi di narrazione fittizia). LEZIONE 14: IL VALORE COGNITIVO DELLA LETTERATURA 177 Chi conduce un esperimento in laboratorio, lo fa in condizioni rigoro- samente controllate: è essenziale escludere tutti i parametri non rilevanti che potrebbero distorcere il risultato dell’esperimento. Lo stesso vale per gli esperimenti mentali: il testo che descrive lo scenario fittizio contiene soltanto gli aspetti salienti per l’esperimento e trascura tutti quelli che potrebbero risultare fuorvianti. Per illustrare meglio i meccanismi con cui gli esperimenti mentali possono ampliare la nostra conoscenza, vorrei ri- cordarvene uno con cui forse siete già familiari: quello dei due pesi che cadono da una torre, proposto da Galileo Galilei. Diamo un’occhiata veloce a una de- scrizione divulgativa dell’esperimento: «In sintesi, la questione è la seguente: pren- dete due pesi, uno leggero e uno più pesante. Se gli oggetti più pesanti – si è detto Galileo – cadono più velocemente di quelli leggeri, come affermava Aristotele, il peso più leggero rimarrà indietro. Ciò implica che quando i due sono legati insieme, cadranno più lentamente rispetto al solo grave di peso maggiore. Tuttavia insieme pesano più di quello pesante, per cui dovrebbero cadere più velocemente.»5 Il fisico ci invita a esplorare, nell’immaginazione, uno scenario che ci per- mette di comprendere perché un principio basilare della fisica aristote- lica sia falso. La finzione ci insegna qualcosa sul mondo reale – e già que- sta conclusione mette in dubbio la base dell’argomento dell’anti-cogniti- vismo letterario (almeno nella sua forma forte). Insieme a Catherine Elgin possiamo però fare un passo in avanti: in una serie di articoli recenti, la filosofa ha elaborato una posizione per cui le «opere di finzione letteraria sono esperimenti mentali estesi ed elabo- rati [literary fictions are extended, elaborate thought experiments].» (El- gin 2007, p. 48; 2014, p. 232). Infatti, in tante opere di narrazione fittizia si possono rintracciare meccanismi analoghi a quelli operativi negli espe- rimenti mentali: il testo ci presenta uno scenario particolare, ma non lo 5 https://www.focus.it/scienza/scienze/gravita-esperimento-mentale-di-galileo, consultato il 18 marzo 2021. Per quanto ne sappiamo, Galileo non ha mai condotto realmente l’esperimento; ma an- che se l’avesse fatto, sarebbe stato ininfluente: si può cogliere la plausibilità e le conseguenze dell’evento anche solo basandosi sull’immaginazione. Lo scenario, quindi, è fittizio perché la possibilità che sia realmente accaduto o meno è irrilevante ai fini dell’esperimento mentale. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 182 14.4 Conoscenza e riconoscimento Alcuni filosofi fanno notare che il ragionamento dell’anti-cognitivismo si focalizza troppo sulla comunicazione di informazione vere, mentre la let- teratura ci permette di approfondire la nostra comprensione di ciò che accade intorno a noi. Non si tratterebbe soltanto di acquisire nuove pro- posizioni ma anche di comprenderle meglio, non al livello del significato bensì a quello pragmatico. Il livello semantico non va oltre il semplice ri- ferimento delle parole; stabilisce quale parola sia adatta a designare una determinata persona o azione o un determinato evento. Il livello prag- matico, invece, ha a che fare anche con il modo in cui queste parole sono collegate ad altre pratiche sociali; il modo in cui alcuni enunciati impli- cano determinate azioni. Se, per esempio, sentiamo urlare «Al fuoco! Al fuoco!», significa che c’è un incendio vicino. Sul piano pragmatico, però, queste parole comunicano anche che è opportuno agire: è meglio uscire, cercare rifugio in un luogo sicuro e aspettare che arrivino i pompieri. L’enunciato contiene queste informazioni non a livello semantico, ma a livello pragmatico. Questa distinzione non è rilevante soltanto sul piano linguistico, però. Stanley Cavell ha introdotto una distinzione analoga a livello gnoseolo- gico, fra conoscere (knowing) e riconoscere (acknowledging). Immagi- niamo che Tizio sia testimone di un grave incidente in macchina su una strada poco frequentata. Indubbia- mente, questa persona apprende qualcosa: apprende che su questa strada c’è stato in questo momento un in- cidente grave. Magari si avvicina alle macchine distrutte per guardare e raccogliere ulteriori informazioni su ciò che è accaduto. Vede, per esempio, che ci sono due per- sone ferite gravemente – e aggiunge un’altra proposizione alla ‘banca dati’ delle sue conoscenze. Analizzando la situazione può anche arrivare alla conclusione più generale che la curva dov’è accaduto l’incidente è particolarmente pericolosa. Se Tizio si accontentasse del fatto che ha ap- preso qualcosa, che è stato in grado di aggiungere delle proposizioni vere alla ‘banca dati’ delle sue conoscenze, diremmo che non ha colto un aspetto cruciale: il fatto cioè che la situazione gli richiede di agire in un Stanley Cavell LEZIONE 14: IL VALORE COGNITIVO DELLA LETTERATURA 183 certo modo, ovvero chiamare l’ambulanza e prestare prontamente soc- corso fino all’arrivo del personale sanitario. Magari Tizio sa tutto ciò che c’è da sapere sull’incidente appena accaduto, ma se non aiuta i feriti al- lora non dimostra una comprensione completa dell’accaduto. Basandosi su questa distinzione di Cavell, il filosofo statunitense John Gibson suggerisce che il valore cognitivo della lettera- tura consiste nel fatto che essa può arricchire la nostra comprensione al livello del riconoscimento. Eviden- ziando cosa ci è richiesto fare in una determinata situa- zione e le implicazioni di certe azioni, la letteratura può aiutarci a ottenere una profonda comprensione della realtà, anche senza insegnarci niente su eventi realmente accaduti.Ogni situazione, anche quella meno drammatica, ci richiede di reagire in un certo modo. Una persona potrebbe notare tutte gli aspetti di una certa situazione e quindi avere una conoscenza proposizionale comprensiva attorno a essa – e ciononostante non accorgersi che è richiesto di fare qualcosa. Ogni situazione è intrecciata con le nostre pratiche sociali e ci chiede di (re-)agire in un certo modo. Una persona che non comprende questo aspetto può avere tutte le conoscenze proposizionali possibili sulla situazione in questione – ciò che le manca è il livello del riconosci- mento. I romanzi che descrivono dettagliatamente alcune situazioni cruciali della vita umana in modo molto dettagliato non si limitano a dare una lista di fatti, ma mostrano anche come questi siano intrecciati con le no- stre pratiche sociali. Ci fanno capire che una certa situazione richiede una determinata reazione. A volte questo accade anche per via negativa, cioè descrivendo ciò che accadrebbe se tali richieste fossero disattese. «Il riconoscimento richiede proprio ciò che la letteratura può dare: una nar- razione, una storia dell’attività umana [...]. Il dono di Otello alla mente non consiste nel fornirci conoscenza circa la parola gelosia, ma circa i modi in cui egli può incarnare questa parola, in cui la rende viva, e le dà forma, struttura, vitalità. Otello è solo una finzione. Ma una finzione [...] è capace, nondimeno, di darci una visione del mondo. E [...] nel darci questa visione, l’Otello non ci offre soltanto un riflesso del nostro mondo nella stessa forma in cui si pre- suppone ciò che già conosciamo. Otello ci restituisce questa conoscenza at- traverso il teatro delle pratiche culturali e del comportamento umano.» (Gib- son 2007, 114sg.) John Gibson FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 184 La letteratura ha il pregio di indagare in modo molto dettagliato casi esemplari di situazioni centrali nella vita umana. Grazie a essa anche un lettore che ha già vissuto l’esperienza della gelosia può vedere quali siano i modi in cui si può reagire a una certa situazione e quali effetti derivino da un determinato corso d’azione. Un manuale di psicologia può fornirci tutti i dati scientifici connessi al fenomeno della gelosia che abbiamo a disposizione, citando statistiche sul comportamento delle persone in preda a questa emozione, descrivendo le loro reazioni corporee, e così via. Un testo letterario questo non lo fa. Anziché fornire statistiche e pre- sentare fatti generali collegati al fenomeno, analizza un singolo caso par- ticolare. In questo modo, però, riesce a dare vita al fenomeno, a coinvol- gere il lettore e, così facendo, suggerire nuovi modelli d’azione per un certo tipo di situazione. 14.5 Forma letteraria L’approccio di Gibson sottolinea un punto cruciale: comprendere una si- tuazione significa andare al di là della mera conoscenza dei dettagli. Si deve anche capire come si può e come si dovrebbe reagire se si ci tro- vasse di fronte a una tale situazione. Si deve sapere quali sono i compor- tamenti che la situazione richiede. Questo approccio è particolarmente adatto per una certa categoria di testi: i testi narrativi, i romanzi, i rac- conti ecc. Esso dovrebbe essere generalizzato (e lievemente modificato), però, se lo applicassimo non solo al contenuto, ma anche alla forma dei testi letterari. Così facendo si potrebbe mostrare in modo più esplicito che anche testi non narrativi hanno un valore cognitivo per il fatto che mostrano il funzionamento del linguaggio. Dopotutto, anch’essi attirano l’attenzione del lettore (anche) sul linguaggio stesso – un fatto già notato da Roman Jakobson (la funzione poetica del linguaggio, lezione 3). Se la fruzione di opere letterarie permette al lettore di allargare e approfon- dire le sue capacità linguistiche, allora i testi non narrativi realizzano que- sto compito in modo ancora più conciso ed esplicito. Una poesia speri- mentale, per esempio, che trasgredisce le regole della grammatica o della semantica, attira la nostra attenzione sulle regole stesse. Una me- tafora che unisce due espressioni solitamente distanti tra loro invita il LEZIONE 14: IL VALORE COGNITIVO DELLA LETTERATURA 185 lettore a riflettere sul significato e sulle implicazioni ordinarie delle pa- role usate, portando l’attenzione su elementi che spesso non notiamo più perché sono sempre sotto i nostri occhi. La letteratura, quindi, ci può insegnare qualcosa di importante su noi stessi. Il linguaggio è uno strumento che ci serve a descrivere il mondo e a interagire con gli altri. Una riflessione sul nostro uso del linguaggio or- dinario, quindi, ci permette non solo di capire come stanno le cose in- torno a noi, ma anche di comprendere meglio come vediamo il mondo, come lo rappresentiamo, quali aspetti di esso riteniamo rilevanti e quali invece trascuriamo. Impariamo, quindi, non solo come funziona questo strumento ma anche come lo usiamo per rapportarci col mondo e, di conseguenza, comprendiamo meglio la nostra prospettiva sul mondo stesso. La fruizione di opere d’arte letteraria, quindi, può arricchire le nostre competenze linguistiche – che sono anche le competenze in gioco quando si tratta di formare ed esprimere i nostri pensieri e di comunicare che cosa sta accadendo intorno a noi. Non si tratta, quindi, di un mero arricchimento del vocabolario o di un rafforzamento delle nostre compe- tenze grammaticali; piuttosto aumentiamo la nostra capacità di prendere in considerazione e formulare idee e intuizioni che altrimenti non avremmo potuto avere. La letteratura, quindi, può allargare i nostri oriz- zonti cognitivi in quanto allarga lo “spazio intellettuale” intorno al quale possiamo muoverci; aumenta in modo sostanziale la nostra libertà espressiva. 14.6 Il lettore attivo Vorrei concludere la nostra discussione sul dibattito tra anti-cognitivisti e cognitivisti con una breve osservazione: entrambi i campi sembrano partire da un presupposto problematico. Si può facilmente avere l’im- pressione che diano per scontato che il lettore abbia un ruolo mera- mente passivo, come una “tabula rasa” su cui inscrivere informazioni. Il valore cognitivo di un testo si riduce, di conseguenza, alla mera trasmis- sione di conoscenze che l’autore formula e che il lettore deve assorbire. FILOSOFIA DELLA LETTERATURA 186 Sembra, quindi, che si accetti una concezione “manualistica” del pro- gresso cognitivo, che si basa sul modello “emittente/ricevente” di infor- mazione: l’autore possiede informazioni e le comunica al lettore tramite il testo letterario. Il lettore deve soltanto studiare il testo e assorbire acri- ticamente tutte le informazioni contenute in esso. Questa concezione sta in netto contrasto con la nostra esperienza, però. Sappiamo che, come lettori, assumiamo un ruolo attivo. L’autore, tramite l’opera, può al massimo offrire delle prospettive e invitarci a ri- flettere su determinate tematiche – ma sta a noi decidere se vogliamo accogliere tale invito. Siamo pensatori autonomi che leggono i testi in maniera critica. La voglia di fruire un’opera è sicuramente legata all’inte- resse per le prospettive offerte dall’autore, che però sottoponiamo a una riflessione critica. L’esito di tale riflessione è comunque aperto: siamo li- beri di accettare o rifiutare determinate conclusioni. Un’opera letteraria non è un manuale. Il manuale informa, l’opera stimola e dà spazio a delle riflessioni che ampliano gli orizzonti cognitivi del lettore attivo. Ciò indica che per comprendere meglio il valore cognitivo della lette- ratura dovremmo cambiare prospettiva e non considerare solo l’autore e le opinioni espresse nel testo, né focalizzarci esclusivamente sulle ve- rità che sono contenute o emergono dall’opera. Dovremmo piuttosto tentare di concepire il valore cognitivo di un’opera come prodotto di una collaborazione intratestuale tra autore e lettore. 14.7 Bibliografia dei testi citati Camp, Elisabeth. 2017. «Perspectives in Imaginative Engagement with Fiction», in Philosophical Perspectives 31/1, pp. 73–102. Elgin, Catherine. (2007). «The Laboratory of the Mind», in: A Sense of the World. Es- says in Fiction, Narrative and Knowledge, a cura di J. Gibson, W. Huemer, L. Pocci, London & New York: Routledge, pp. 43–54. Elgin, Catherine. (2014). «Fiction as Thought Experiment», in: Perspectives on Science 22/2, pp. 221–241. Gibson, John. 2003. «Between Truth and Triviality», in: The British Journal of Aesthet- ics 43/3, pp. 224–37. Gibson, John. 2007. Fiction and the Weave of Life. Oxford: Oxford University Press. LEZIONE 14: IL VALORE COGNITIVO DELLA LETTERATURA 187 Walsh, Dorothy. (1969). Literature and Knowledge. Middletown: Wesleyan University Press.
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