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filosofia della prassi umana, Appunti di Filosofia

Appunti dettagliati del secondo secondo semestre - corso di Filosofia della Prassi umana

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 02/09/2020

s.abrina
s.abrina 🇮🇹

4.4

(63)

12 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica filosofia della prassi umana e più Appunti in PDF di Filosofia solo su Docsity! 1 SESSIONE NATI PER INCOMINCIARE IL DETTO ANASSIMANDREO “Donde viene agli esseri la nascita, là avviene anche la loro dissoluzione secondo necessità, poiché si pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia , secondo l’ordine del tempo”.  Parliamo di questo detto per dimostrare come i greci guardassero alla nascita come ad un giorno imperfetto > perché per i greci esistere è una colpa di per sé e nascer era un peccato che doveva essere espiato con la morte. Da qui sono scaturite una serie di conseguenze sul piano filosofico perché la filo ha ereditato e non ha mai pensato ad una modalità diversa l’espressione mortale. Quindi il termine mortale è diventato, nel lessico filosofico, sinonimo di “essere umano”=> A causa della filo greca l’uomo è stato pensato come valore solo in funzione del morire; e la morte è stata pensata come verità unica. Questa situazione ha fatto collassare la possibilità di pensare agli uomini non già come mortali ma come natali. Ancora oggi, quando indichiamo noi stessi ci definiamo mortali e non natali.  Arendt è la voce filosofica che si leva e reagisce alla “meditatio mortis” (luna tradizione di pensiero che si ostinata nel pensare l’essere umano come un mortale e non già come un natale). Il natality arendtiano fa collassare quel categoriale, da Platone fino ad Heidegger, in cui era centrale “la morte”. Questo rinnegare questo venire al mondo ha un retroterra culturale molto antico.  questa “inimicizia” affonda nella mitologia; la si può rintracciare nelle narrazioni sacre pagane, greche. Cos’è la mitologia? > la filosofia nasce intorno al 6/7 secolo prima di cristo. La mitologia la intendiamo come quel complesso di narrazioni fantastiche con cui l’uomo greco si è spiegato l’origine del mondo e quella dell’uomo.  La filosofia ha ereditato dal mito questa inimicizia nei confronti del natale. Questo è strano perché la filo nasce proprio in reazione alla mitologia. Nonostante questo, l’ostilità nei confronti del “venire al mondo” affonda le sue radici nella mitologia. Questa ostilità è presente nel cosiddetto “uranismo culturale”.  Urano fu il primo Dio che uscì dal Kaos e il primo che regnò nell’universo. Urano, stante la tradizione, temendo che i suoi stessi figli potessero sottrargli la signoria dell’universo, li nascondeva sotto terra. Stando sempre alla letteratura mitica, così fece anche Kronos, il quale divorava i figli appena nati. => la nascita già nell’immaginario mitico ha sempre rappresentato la nascita come un lutto di potere.  Perché la filosofia che pure nasce nel tentativo di comprendere il mondo, perché ha scelto di categorizzare l’essere umano attraverso il morire e non il nascere?  Arendt sostiene che ciò sarebbe avvenuto non soltanto perché la filo ha ereditato una sorta di pregiudizio culturale, ma parla del processo di de-sensibilizzazione, processo messo in atto dalla filosofia degli albori. = processo che ha fatto si che tutto ciò che appare, che si trasforma, che ha bisogno dei sensi per essere visto/sentito, tutto questo il filosofo lo svaluta. Il filosofo inizia a diffidare di tutto ciò che nasce, che si trasforma => diffida della realtà. Questo pregiudizio nei confronti delle cose che nascono, secondo Arendt, deriverebbe dal fatto che, i greci erano convinti che i sensi ingannavano. Il filoso greco inizia a pensare che questa realtà mutabile non sia la vera realtà e che oltre a questo ci sia un mondo vero. => la filosofia comincia a contrapporre alla realtà che appare la realtà vera, quella dell’essere. 2- 3 SESSIONE 1 SIAMO AL CAPITOLO 5 – pagine 99, 100, 101, 102 (escluso paragrafo 2) Secondo Hannah Arendt, il problema in filosofia si è posto quando i filosofi greci antichi sono rimasti sedotti dalla parola “e” > convinti che ci fosse una realtà fittizia e una vera (la realtà dell’essere => nascita della metafisica). Secondo Arendt sono due i passaggi fondamentali che condussero alla nascita della metafisica: 1) Il frammento anassimandreo 2) L’essere di Parmenide (padre della metafisica) ANASSIMANDRO “Donde viene agli esseri la nascita,  là avviene anche la loro dissoluzione à secondo necessità poiché si pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia  secondo l’ordine del tempo”. Questo è il più ANTICO TESTO FILOSOFICO pervenuto  il primo testo filosofico che PARLA DI NASCITA/origine/venire al mondo. Ci consente anche di comprendere il perché dello scarso investimento teoretico della filosofia (del natale). È un testo importante per comprendere dunque quella difficoltà da parte della filosofia di investire nel concetto di nascita. Il frammento di Anassimandro è stato tramandato indirettamente  è passato da autore ad autore. Aristotele ne parla ai suoi allievi, tra questi troviamo Teofrasto che riprende il frammento che arriva nel VI secolo al filosofo bizantino Semplicio > grazie alla testimonianza di Semplicio il testo arriva fino a noi. CHI ERA ANASSIMANDRO? - Secondo la tradizione dossografica Anassimandro è un filosofico ionico, dai forti interessi naturalistici. Era amico e discepolo di Talete  suo successore alla cosiddetta scuola di Mileto (scuola Milesia). - Anassimandro fu il primo ad utilizzare la parola archè: indica l’inizio, il principio di tutte le cose. Anassimandro identifica l’arché con una miscela che egli chiamò “Apeiron”. Questa miscela si distingueva per una spiccata indeterminatezza. (a- peras = illimitato) – ad un certo punto si staccano le cose dall’Apeiron, separandosi in coppie di contrari dando vita al cosmo  Nascita di tutti gli esseri ma anche colpa originaria. Colpa di aver preteso per sé una esistenza individuale, cosicché gli uomini devono scontare la colpa originaria, vivendo. => l’esistenza stessa è vista da Anassimandro come una condanna e solo la morte potrà sollevare colui che ha preteso di nascere da questa colpa. E dunque, è con la morte che gli uomini potranno tornare indistinti a quella infinita perfezione che Anassimandro chiama Apeiron. ANALIZZIAMO IL FRAMMENTO La maggioranza degli studiosi ritiene che questo frammento fosse esattamente così all’origine. Struttura  in due parti - Prima parte: esplicitazione del tema fondamentale. - Seconda parte: spiegazione al principio generale. Tracce poetiche: 1- Chiasmus/figura retorica  donde viene  là avviene. “Donde viene agli esseri la nascita,  là avviene anche la loro dissoluzione, secondo necessità. = da dove hanno origine le cose, ivi (deve essere così) hanno le loro distruzione. > in questa parte si legge una sorta di norma, è giusto che sia così. 2 ciò di cui si parla. => le categorie, così come nella lingua italiana, ci dicono qualcosa di più del soggetto di cui stiamo predicando. ESEMPIO: - partiamo dalla domanda ontologica: “che cos’è l’uomo?” > l’uomo è un essere mammifero, è un essere vivente, è logos, è un essere mortale. Tutte le volte che tentiamo di rispondere alla domanda “che cos’è l’uomo” usiamo delle categorie; incaselliamo l’uomo in degli schemi di comprensione. Al contempo questo significa che tutte le volte che io in filosofia uso una categoria vuol dire che sto cercando di dare delle informazioni intorno alla domanda ad esempio che cos’è l’uomo. A lungo andare la categoria di comprensione dell’uomo è stata “la morte” questo a partire dai greci – l’uomo è un essere mortale.  Quindi la morte nella tradizione filosofica è sempre stata utilizzata come categoria per comprendere l’uomo = la morte è diventata la categoria per eccellenza per comprendere l’uomo. COME FUNZIONANO LE CATEGORIE IN FILOSOFIA? In filosofia le categorie assolvono a più funzioni:  Funzione predicativa: ci danno delle informazioni  Funzione utile per ordinare la realtà Tra i filosofi che hanno molto insistito sul concetto di categorie: ARISTOTELE e KANT PER ARISTOTELE – il primo ad utilizzare il termine categoreo- le categorie si riferiscono sempre a delle cose concrete, a degli enti concreti. Aristotele aggiunge che le categorie sono modi di essere delle realtà (= le categorie ci consentono di comprendere la realtà, ma la realtà è complicata e fenomenica in quanto si presenta con molteplici aspetti => esistono diversi modi per noi uomini per comprendere la realtà. Aristotele utilizza la parola “polakops e legon menon” = l’essere si dice in molti modi. PER PARMENIDE la natura del mondo e il vero essere della realtà è statico e immobile (non si contempla il divenire) - Parmenide immaginava l’essere come una sfera perfetta chiusa, sempre uguale a sé stessa.  Aristotele e Parmenide la pensano molto diversamente, il primo sostiene che il mondo è vario, comprende gli enti. => Proprio per comprendere la realtà che ci appare in modi diversi, Aristotele introduce 10 categorie. 1 -sostanza, 2- qualità, 3- quantità, 4-dove, 5-quando, 6-relazione, 7-agire (o azione), 8-subire(o passione), 9-avere, 10-giacere 6 SESSIONE 10 categorie  la categoria portante è la “sostanza” in quanto va ad individuare ciò che un ente è in quanto tale. Le restanti 9 categorie vanno a fondarsi sulla categoria della sub-stanzia (sostanza) la quale ha sussistenza autonoma. Lo scopo della filosofia, secondo Aristotele, è individuare ciò che sta alle fondamenta, quel modo più importante rispetto agli altri di dire ”qualcosa è”.  Oggetti, piante ecc. sono tutte COSE ESISTENTI!  ENTI nel lessico aristotelico  da ON  participio presente del VERBO ESSERE. To EON  significa  Ciò che è!  Per specificare un ENTE (un OGGETTO), Cioè Ciò CHE E’ quindi si ADOPERANO le dieci categorie. Infatti La svariata molteplicità  degli enti viene raggruppata di fatto da Aristotele in dieci classi molto ampie che egli denomina categorie.  Piccolo appunto: per parlare di uomo non è sufficiente utilizzare categorie accidentali (l’uomo è magro, grasso, alto, brutto) è necessaria una categoria sostanziale che identifichi l’uomo in quanto tale. 5 PER MEGLIO DIRE: Per definire in termini sostanziali l’uomo diremo che “l’uomo è razionale”: la razionalità è la sub-stantia dell’uomo: non può non esserci nell’uomo.  Quindi per definire l’uomo usiamo una categoria necessaria, non già determinazioni accidentali: ossia non passiamo da caratteristiche personali (alto, bruno, grasso..) che possono mutare. La sostanza non muta mai per Aristotele! Gli accidenti possono mutare e in questo senso non possono qualificare l’uomo. Mentre la sostanza è immutabile.  KANT – CATEGORIE Kant è un filosofo tedesco, nato a Konniberg e con lui si è aperta la stagione critica della filosofia – il cosiddetto criticismo: la preoccupazione di Kant è quella di sottoporre a vaglio critico le conoscenze a cui l’uomo può giungere perché secondo Kant c’è un problema ossia la ragione umana non può conoscere tutto e ha dei limiti e dunque deve sottoporsi continuamente ad auto-critica. L’uomo può confidare nella ragione in quanto essere razionale ma Kant sostiene che la ragione umana ha dei limiti. (dio) => La ragione umana per conoscere deve compiere due mosse: - Affidarsi ai giudizi - Deve fare uso delle categorie – ci permettono di costruire una conoscenza che sia universale. Le categorie hanno una funzione decisiva inquanto ci consentono di unificare il molteplice. Secondo Kant noi conosciamo di primo acchito attraverso i sensi perché sono i sensi che percepiscono i fenomeni per come ci appaiono. => l’intelletto, deve sempre andare oltre alla semplice percezione e deve maturare una conoscenza compiuta. Per arrivare ad un comprensione compiuta deve affidarsi alle categorie.  11 categorie di Kant. Le categorie per Kant non costituiscono i modi d’essere della realtà (frase di Aristotele) ma le categorie sono il modo dell’io penso della realtà (sono quelle forme che vengono imposte alla realtà)  Kant è un rivoluzionario – quando Kant ripensa i categoriali parte da una certezza per lui ossia che l’uomo di fronte alle cose/al mondo fenomenico è “attivo” > le categorie possono apparire simili a quelle aristoteliche ma in realtà sono molto diverse perché per Kant le categorie sono modi dell’essere. => per millenni al centro dell’indagine conoscitiva era l’oggetto, per Kant al centro vi è l’uomo/il soggetto che agisce attivamente. Ecco perché le categorie per Kant non sono semplici modi di essere della realtà” perché se così fosse l’uomo rischierebbe ICH DENKEN, rischierebbe di subire gli enti e la realtà stessa ma per Kant l’uomo viene prima degli oggetti non può subirli. Differenza tra Kant e Aristotele  le categorie per Aristotele sono dei modi d’essere della realtà mentre per Kant non sono semplici modi della realtà in quanto l’uomo è attivo di fronte alla realtà non subisce gli enti (rivoluzione copernicana operata da Kant) 7 SESSIONE HANNAH ARENDT E ILNATALITY  Arendt in realtà utilizza il termine categoria in senso politico.  L’UOMO può essere compreso solo a partire da quella categoria di pensiero che è la nascita. > l’uomo non ha bisogno di essere categorizzato in modi diversi in quanto l’uomo nasce tra altri uomini- la concezione umana per eccellenza per Arendt è quella della pluralità. => In virtù del fatto che si nasce e dunque della RELAZIONE che si stabilisce con il mondo. (mondo come spazio abitato, spazio plurale in cui ci si scopre profondamente umani 6 L’uomo è un chi che nasce, è un natale e non è possibile comprendere alcunché se non a partire dal fatto che l’uomo viene al mondo (azione politica per Arendt). => la morte non può dirci nulla dell’essere umano In “ Vita activa ”, Arendt scrive : “Gli uomini, sebbene DEBBANO MORIRE, non sono nati per morire, ma per incominciare”. Utilizza due espressioni - Nell’originale inglese è riferito come  IN ORDER TO DIE e IN ORDER TO BEGIN. IN ORDER  al fine di. > questo in order è un passaggio teoretico molto forte. Arendt insiste teoricamente  da una parte sulla morte come dovere – “they must die” (è evidente che dobbiamo morire) LA MORTE è quasi una sorta di TELOS NEGATIVO un “dovere”. Dobbiamo sì morire  la morte è un fatto.  Dall’altra invece  descrive il VIVERE come una FINALITA’  descrive la nostra esistenza come un TELOS POSITIVO! VIVERE  si costituisce come un diritto. Sono i neoi, i nuovi, che salvano il mondo e che hanno DIRITTO DI VIVERE.  Dunque la morte è qualificata come un dovere mentre la nascita è un diritto e ci qualifica come creature che hanno diritto di vivere. NASCERE per Arendt è lo scopo ultimo di un’azione  che è poi l’azione del vivere Arendt associa alla categoria del natality altre categorie – categorie poco in uso: miracolo, promessa, fede, speranza. Sono dei termini che chiariscono il significato del natality e che vanno ad illuminare il concetto di nascita. - La natalità è promessa – promessa di un nuovo mondo - È anche fede, speranza, in un nuovo mondo, di un nuovo inizio che va a rompere la legge della morte e la fissità naturale.  Il natality ha questa forza che rompe con la struttura immobile della realtà. Questo miracolo della nascita dice Arendt, si ripete sempre e si ripete ogni qual volta che qualcuno nasce. Eppure la filosofia occidentale ha sempre escluso la nascita a favore della morte – questo è accaduto a causa di quei pregiudizi di quelli che lei chiama “i pensatori di professione”- pensatori che hanno fatto della filosofia di una semplice professione (come Heiddeger) e che hanno insistito sull’idea preconcetta che il valore uomo non passi dal nuovo e dal al generato ma dalla distruzione del bios => si forma fin da Anassimandro, Parmenide ecc. l’idea preconcetta che la morte sia l’unico valore dell’esistenza e che solo essa sia etica. Dobbiamo ricordare che Arendt è una pensatrice che critica il materialismo (Marx) e il positivismo = tute quelle dottrine che si alimentano di evoluzionismo. In questi scenari la nascita arendtiana diventa una sorta di vittoria del singolo sulla specie, la nascita è la facoltà di interrompere questa corsa biologica contro la morte e sono le nuove generazioni che possono rovesciare la storia. La nascita è un radicamento rispetto al quale non s può trascendere. Quando Arendt parla di nascita- descrive due nascite (influenza di Agostino) che lei chiama: - Prima nascita quella biologica: inserimento corporeo dell’uomo nel mondo, apparizione fisica nel mondo; apparire ci è dato da un impulso ad agire, agire significa prendere iniziativa nel lessico arendtiano. = nasco, vengo al mondo e agisco, spingo. - Seconda nascita quella politica: nascita che avviene attraverso la relazione, ovvero quella nascita che si realizza con l’inserimento nel mondo  APPUNTO attraverso la parola e l’agire. 7  Arendt vuole uscire da queste definizioni della scienza. Ritiene che una rivalutazioni dell’uomo possa avvenire attraverso una rivalutazione dell’agire – quando si parla di azione, nel lessico arendtiano, dobbiamo intendere nascita. 9 SESSIONE Arendt cerca di portarsi fuori dalle secche della scienza e di arrivare d un comprensione differente rispetto al tema dell’uomo. La preoccupazione di Arendt in vita activa è quella di riscoprire il valore uomo – la risposta alla domanda chi è l’uomo la si può trovare nella rivalutazione dell’agire e della nascita.  Comincia a riflettere sull’uomo come attore/ ente e riflette anche su quelle che sono le condizioni dell’agire umano. Con vita activa va a costruire una “nuova scienza della politica”. = edifica una scienza filosofica radicandola nell’antropologia. Il metodo che utilizza in questa opera è fenomenologico  parte dall’interpretare l’agire manifesto dell’uomo perché è con lazione che l’uomo si rivela. Ovviamente l’azione per eccellenza per Arendt è la nascita = attraverso la nascita l’uomo si presenta agli altri nel suo modo unico e autentico.  Per Arendt quando si parla di uomo non è sufficiente parlare di natura umana perché questa espressione secondo lei è troppo stretta sul sentire scientifico; preferisce parlare di condizione umana.  Arendt prede le distanze dall’espressione “natura umana” affermata con le scienze; non si può parlare di natura ma di condizione perché l’essere umano non è solo un essere meramente naturale/biologico proprio perché agisce/nasce e si posiziona nel mondo in un modo unico che non è quello animale – si posiziona nel mondo tramite il suo agire e le sue azioni, facendo esperienza nel mondo. Inoltre, arriva a precisare che la condizione umana è plurale perché sono plurimi gli esseri umani che vivono la terra. => la pluralità è la condizione della nostra pluralità = senza gli altri esseri umani, nascer e agire è impossibile. L’agire umano è complesso, è diverso da quello animale  l’uomo lavora, fabbrica, produce e al contempo agisce in maniera plurale, entrando in relazione con gli altri.  La concezione della condizione umana che Arendt arriva ad elaborare nel suo saggio è una condizione da intendersi in senso fenomenologico in quanto prescinde dalle condizioni scientifiche in senso stretto. Il problema per Arendt è che l’uomo non agisce mai per sé stesso in quanto la vita vera è tra gli altri; con l’attività fabbrile noi provvediamo alla nostra sussistenza, costruiamo un mondo artificiale in quanto la nostra sopravvivenza biologica dipende da questi oggetti. Questo agire è un agire che garantisce la sopravvivenza ma non il vivere in quanto quest’ultimo si ha nel momento in cui l’uomo prende la consapevolezza che la vera azione è quella politica che mi fa entrare in contatto con gli uomini – io mi realizzo come uomo nel momento in cui imparo a comunicare e a relazionarmi con gli altri portandomi fuori dalla materia.  L’essere umano si completa come essere umano, diventa un cittadino quando mi assumo la responsabilità di tessere relazioni con gli altri. In questa dimensione plurima l’uomo si realizza. Hanna Arendt in vita activa va a perimetrare tre dimensioni dell’agire: LABOR, WORK, ACTION LABOR  Questa dimensione per Arendt è l’attività rispetto alla quale l’uomo si garantisce la sopravvivenza; questa attività si innesca grazie al proprio corpo in quanto ciascun essere umano per sopravvivere ha bisogno di lavorare e per lavorare ha bisogno del proprio corpo/mani.  in questa 10 dimensione l’uomo è un semplice animal laborans. => Il lavoro (labor) è quell'attività che corrisponde ai processi biologici e necessità dell'esistenza umana. L’insieme cioè di tutte le quelle pratiche che sono necessarie per il mantenimento della vita stessa. In questo aspetto della sua esistenza l’essere umano è, dunque, più vicino agli animali e così, in un certo senso, il lavoro è tra tutte le attività ciò che lo rende il meno umano  condizione dell’animal laborans.  È una attività che non lascia alcuna traccia di sé perché con il lavoro noi ci procacciamo semplicemente quello di cui abbiamo bisogno – e la realizzazione di quanto abbiamo prodotto si conclude con il consumo di essi. 10-11 SESSIONE Continuando sulla scia della condizione dell’animal laborans sappiamo che il lavorare è una forma di attività necessitata, una attività utile per la sopravvivenza dell’uomo. La seconda condizione individuata da Hannah Arendt è l’operare (WORK)  l’operare è una attività che ha la sua piena manifestazione quando l’essere umano realizzata oggetti fabbricati. = è decisiva l’opera delle mani dell’essere umano. Tutti quegli oggetti realizzati sono necessari all’uomo per costruire quel mondo artificiale nel quale viviamo la nostra quotidianità.  non parliamo più di prodotti di consumo (nella prima condizione gli oggetti vengono prodotti e immediatamente consumi); qui, gli oggetti sono oggetti d’uso, questo perché l’uomo è un essere vulnerabile, con dei limiti che ha bisogno di questi oggetti che gli garantiscono una certa sicurezza. (nella categoria oggetto rientra tutto ciò che è necessario per costruire una civiltà e una certa stabilità: leggi, edifici..)  Nella costruzione del mondo artificiale, l’uomo trova un equilibrio.  Differenza tra lavoro e opera. Il lavoro è svoto da un’anima laborans all’interno di un ciclo naturale e invece l’opera delle mani è realizzata dall’homo faber in un mondo artificiale che non è sempre uguale a sé stesso.  All’opera, Hannah Arendt, fa corrispondere la condizione esistenziale dell’essere nel mondo (animal laborans = condizione esistenziale del possesso della vita) Nell’espressione homo faber compare la parola “homo” = segnale che questa attività è più alta dell’attività dell’animal laborans (uomo in una condizione animale); Rappresentati dell’homo faber e della sua attività fabbrile sono il costruttore, l'architetto, l'artigiano, l'artista e il legislatore, in quanto creano il mondo pubblico - sia fisicamente che istituzionalmente- uno spazio costruito, edificato anche giuridicamente. Lavorare e operare sono delle attività con cui l’uomo va a controllare il mondo naturale. N.B. vita activa è un’opera anti-marxista. Questo scandire l’operare dall’agire darà ad Arendt il pretesto teorico per sviluppare una critica a Marx: partiamo da una premessa – Arendt sostiene che nell’antica Grecia le tre dimensioni erano in equilibrio, nettamente distinte l’una dall’altra ma in equilibrio; questo perché ai greci era chiaro l’idea che il lavoro non rende liberi. Questo equilibrio è ciò che Marx è andato ad incrinare > queste tre attività iniziano a collassare proprio nella teoresi di Marx il quale ha fatto del lavoro la vera essenza umana. - Arendt sostiene che nella tesi di Marx c’è un limite: il lavoro è una attività che isola gli uomini gli uni dagli altri e non costruisce relazioni autenticamente umane => Marx sacrifica il teorein alla praxis. - altra critica: Marx non coglie la distinzione che sussiste tra lavorare e operare -> In primo luogo, considerando che il lavoro è legato alle esigenze di animalità, la biologia e la natura; mentre l’operare va a violare il regno della natura, dandogli forma per trasformarlo secondo i piani e le esigenze degli esseri umani.  tornando a Marx, l’anima laborans nella modernità prende il sopravvento: la società moderna è 11 diventata una società di lavoratori che però ha finito con l’appiattire con le altre due attività necessarie (operare e agire politico) Quando l’uomo lavora, di fatto l’uomo non è ancora veramente libero: l’uomo a che fare con oggetti che devono essere consumati o prodotti => l’uomo è ancora stretto da una parte, dalla necessità e dall’altra dalla materialità. In termini arendtiani l’essere umano è libero solo quando si libera dalla materia ossia quando nelle relazioni con l’altro non interviene la materialità, i beni, gli oggetti, le cose => l’uomo è libero quando riesce a stabilire delle relazioni attraverso il dialogo (ACTION) = QUI LA Relazione tra uomo e uomo non si interrompe a causa della materia. È allora che l’uomo è veramente libero quando impara a dialogare in senso politico insieme agli altri.  All’azione non a casa, Arendt fa corrispondere la condizione della pluralità: ovvero sulla terra ci siano GLI uomini, non l’uomo.  Arendt è consapevole che l’essere umano è condizionato dalla contingenza, dalla necessità dai bisogni individuali; a differenza dell’animale l’uom è capace di trascende da questi bisogni elencati e questa trascendenza si realizza per il fatto che l’uomo è consapevole di non essere da sola sulla terra e di doversi assumere la responsabilità degli altri Il problema di fondo, nella tesi di Arendt, è quello della libertà: l’uomo nasce libero tra gli altri ma questa libertà natale può essere erosa dalla necessità. Vi è un altro passo in questa riflessione: i greci erano consapevoli che il lavoro è una forma di schiavitù, tant’è che quando volevano negare i diritti dell’essere umano lo condannavano a lavorare forzatamente. L’operaio, dice Arendt, è l’equivalente dello schiavo, uno slave, non è un uomo autenticamente libero. Aggiunge poi, che il lavoro è quella attività che corrisponde alla innaturalezza della natura umana.  Capiamo ora quell’anti marxismo di cui si parlava. > in contrapposizione con l’idea che il lavoro posso qualificare l’uomo. Arendt, nutre rispetto per Marx nonostante il suo anti-marxismo. Si rende conto che l’ideologia marxista corrisponde alle esigenze della società di allora. L’idea rispetto alla quale Arendt non condivide è che alla domanda ontologica “chi è l’uomo?”, Marx risponde “un lavoratore”. (Marx intende il lavoro come la più alta forma di praxis)  Sul piano filosofico, a causa di Marx, è accaduto che l’animal laborans abbia preso il sopravvento sull’homo faber => complicazioni: Marx non è stato in grado di riconoscere che vi sono due forme più alte di attività rispetto al lavoro = l’operare (homo faber) e action (agire politico)  => Quando Arendt lavora su questo tripode, la action la pone al vertice della piramide in quando lo identifica come agire autentico politico. Nonostante questo, Arendt tiene in considerazione anche le altre dimensioni ritendo che l’essere umano con l’opera fabbrile costruisce le civiltà, il mondo in cui la vita umana si svolge. Quindi l’operare crea un mondo oggettivo e comune che, comunque sia, sta fra gli esseri umani e li unisce in qualche modo. 12 SESSIONE Grazie all’attività dell’operare l’uomo arreda l’agorà – il mondo comune. Dunque il work ha una più alta dignità rispetto al labor perché quest’ultimo è differente dal work 12 stare in relazione. E quindi come inteso da Marx l'uomo rimane solo e smette di agire con gli altri come conseguenza (la vera condizione umana è la pluralità). L’errore di Marx è quello di credere che sia il lavoro ad umanizzare l uomo. - Arendt sostiene che il lavoro è necessario per garantirsi la propria sopravvivenza ma sopravvivere non è vivere. L'energia viene consumata e l'uomo si ritrova solo con i suoi oggetti - ma questo non lo realizza del tutto. Secondo Arendt il lavoro e produzione non si realizzano come qualità specificamente umane. Quando ci qualifichiamo come uomini? È l'agire con gli altri che ci qualifichiamo come uomini. Parliamo di pluralità : nel lessico arendtiano pluralità è una parola chiave in quanto è con la nascita che ci inseriamo nel mondo con altri esseri umani. 14 SESSIONE PRIMO CAPITOLO DISOBBEDIENZA  il bambino di Arendt è un bambino disobbediente, un bambino che non risponde ai comandi. Per Arendt l’obbedienza non è una virtù perché lei è stata vittima delle macchine totalitarie azionate da uomini terribilmente obbedienti. - Inoltre, nei fatti Arendt, prende le distanze dalla concezione politica di Aristotele e Platone. Questi due per lei ebbero un grave torno: quello di distinguere la società tra governati e governanti ossia chi detiene il potere e chi lo subisce. – secondo lei questi due pensatori ebbero il torto di aver trasformato la politica in un mero impartire e rispondere ordini. – la politica non è questo per Arendt. Questa frattura che si viene a creare con questi due filosofi è stata generata da una confusione linguistica; questi due hanno identificato due termini: Archein e prattein. La prima parola in latino significa agire (=iniziare)e invece la seconda parola significa governare ossia portare a compimento qualcosa.  Nella lettura arendtiana il significato fecondo di iniziare si è spostato fino a coincidere con il significato di governare: Platone e Aristotele hanno confuso questi termini perché con essi questi due verbi sono stati utilizzati con un uso sinonimico (iniziare si è spostato fino a coincidere con quello di prattein ossia governare ) => è prevalso il significato di prattein. Questa confusione linguistica ha anche stravolto il linguaggio della politica in quanto governare è stato inteso come semplice “conduzione”.  La politica ha smesso di essere “agere”. E dunque agire per Arendt, che aveva un significato complesso, accusa dell’idealismo platonico prima e del razionalismo poi di Aristotele, che questo termine si è appiattito facendo prevalere il significato di prattein. Agire per Arendt significa agire, migliorare, progredire, costruire dentro.  Conseguenze importanti sulla politica e sugli esseri umani: impoverimento della politica che ha cessato di essere un progetto e un miglioramento. La politica è stata intesa come prattein e dunque come mera conduzione delle “masse”.  Arendt imputa a Platone ed Aristotele una volta anti-socratica della filosofia. Da Platone in avanti si ha una perdita della dimensione partecipativa. Con questa confusione linguistica si è introdotta una ulteriore sanzione: Platone è andato a distinguere tra chi sa (chi deve comandare) e chi fa (chi deve prestarsi ai comandi) => questa puntualizzazione di Arendt la troviamo alla pagine 138. In Platone, la sua idea di polis che è una idea verticistica, è costruita nell’opera “La Repubblica” – il protagonista della vicenda è il maestro Socrate; nella Repubblica Platone si occupa di giustizia e vagheggia questo Stato perfetto che chiama “callipolis” (città ideale” = Platone immagina che i 15 cittadini siano divisi tra filosofi, guardiani (i guardiani sono coloro che custodiscono lo Stato) e artigiani (coloro che lavorano per chi è al potere). = la politica non è questo per Arendt perché non possono essere trattati alla stregue di semplici materiali. Tornando a Platone> il fine di giustizia è quello di escludere la violenza dalla polis. Platone sostiene che una città così costruita, possa escludere la violenza dalla polis. Le motivazioni di Platone erano giustificazioni buone, aveva delle buone intenzioni  al di là di queste buone intenzioni Platone ha distinto chi sa e chi sa fare rendendoli meri oggetti. (introduce un elemento totalitario per Arendt in quanto distingue chi conosce il bene e chi invece deve soltanto prestarsi a realizzare quel bene che pochi conoscono). => questo però non è Action per Arendt, in politica non si può tollerare che sia UNO a imporre un modello di azione in quanto è necessaria la pluralità. 15 SESSIONE SIAMO ANCORA AL PRIMO CAPITOLO - AGNIZIONE Topos, termine traducibile dal greco come “luogo” = sorta di meccanismo narrativo che è tipico del teatro greco che troviamo anche nella narrativa moderna. È quel qualcosa che, all’interno di un’opera artistica, è cardinale nella narrazione. Nelle tragedie greche, si ripetono determinati topoi (luoghi comuni)  si possono individuare luoghi comuni tra cui la cosiddetta esposizione del bambino; il colpo di scena è spesso affidato ad un bambino. (bambino destinato a qualcosa di grande). Aristotele tra i vari topoi iniziava come topoi l’agnizione > riconoscimento ma anche accettazione. Dunque l’agnizione, all’interno della tragedia, è quel momento in cui accade qualcosa di cruciale. ANITIO accezione giuridica, artistica (momento in cui veniva svelata l’identità del protagonista).  Momento cruciale in cui si arriva a sciogliere l’intreccio narrativo. L’agnizione è il momento in cui cadono le maschere, si rivela il tema principale. Il meccanismo dell’agnizione ha avuto molta fortuna nei vari generi letterari(leggende, fiabe, romanzi di avventura).  Perché parliamo di bambino arendtiano come sorta di agnizione? > partiamo con il dire che ci troviamo di fronte ad un bambino che risolve il dramma dell’umanità. Accostiamo questo termine al natality arendtiano perché è un termine che fa parte del lessico filosofico. N.B. Aristotele è il rimo filosofo ad aver elaborato una teoria dell’agnizione (del riconoscimento). Nel suo lessico l’agnizione indica il passaggio da uno stadio di ignoranza ad uno stadio di consapevolezza. Secondo Aristotele in tutte le opere letterarie c’è un momento topico in cui il personaggio prende consapevolezza e dunque passa da uno stadio di ignoranza ad uno stadio di sapienza  questo capovolge gli eventi e gli equilibrio interpersonali nella tragedia. Per Aristotele l’agnizione è anche quel escamotage letterario che consente l’annuncio di un qualcosa di inatteso. => si sciolgono i nodi della trama e si rivela un evento che prova una svolta degli eventi. Questo colpo di scena deve essere razionale, credibile e dunque per quanto sorprendente deve essere giustificato dai fatti perché la realtà svelata dall’agnizione deve appare del tutto naturale.  qual è il senso dell’agnizione in Aristotele? > non si può mai essere sicuri della realtà perché quest’ultima può capovolgersi da un momento all’altro. Perché usiamo questo termine aristotelico e lo associamo al bambino arendtiano? Nelle opere di Arendt il topos è il bambino inatteso che viene al mondo il quale viene finalmente riconosciuto dagli altri. Dunque in questo senso il nascere arendtiano presenta molte somiglianze 16 dell’agnizione di Aristotele (definita peripezia). Nello specifico l’agnizione con Arendt si realizza in due modi diversi: - Nascita biologica - Seconda nascita: un inserimento che non viene imposto dall’utilità. PAG 35 – PARAGRAFO 8 16 SESSIONE CAPITOLO 5 – METAFORA DI’INFANZIA, PAG 99. Arendt sceglie di fondare questo suo corpus filosofico sulla metafora d’infanzia – scelta in contro-tendenza con la filosofia poiché questa ha sempre rimosso questo desiderio d’infanzia. Infanzia  questo termine viene utilizzato insistentemente da Arendt. Questo temine a che fare con il verbo latino ”fari” = vivere, parlare, profetare =>l’infanzia deriva dal termine infans che si riferisce all’età in cui non si è in grado di parlare bene. In filosofia, la celebrazione dell’infanzia non è ricorrente, anzi il bambino viene descritto in maniera imperfetta; una creatura mancante. Per esempio – Aristotele quando parla di bambini li definisce dei semplici adulti impotenti (insiste su delle caratteristiche negative dell’infanzia). John Locke definisce i bambini “figli imperfetti di Adamo”. Anche Hobbes parla di “bambini terribilmente violenti”. => il bambino appare poco educabile poiché in esso c’è sempre una parte “animale”.  I bambini di Arendt vengono al mondo per iniziare qualcosa di nuovo e per salvare il mondo. Arendt usa la metafora del puer nascenti il quale non è mai divinizzato (no bambin Gesù), è un bambino profondamente umano. Il lettore arendtiano si trova di fronte ad bambino “Alba” ispirato ai versi delle bucoliche di Virgilio. – nell’opera “On Revolution” di Arendt vediamo che si cimenta nella quarta egloghe di Viriglio che legge come una sorta di “egloga cruciale” -Virgilio parla della prima crescenti originis mundi (allude ad una prima Alba del mondo nascente) => Virgilio sta riprendendo una profezia molto nota nell’antichità: Sibilla cumana > questa profetessa aveva annunciato l’avvenuta di un bambino prodigioso che avrebbe annunciato l’età del l’oro (abbondanza, felicità, benessere)  Arendt è molto attratta da questa quarta egloga, è ispirata dal bambino di Virgilio. – Virgilio scrive dei versi in cui descrive il sorriso di questo bambino che porta pace nel mondo. => Arendt remane sedotta da questo bambino che porta pace il quale sorriso al primo volto = madre. Nella lettura arendtiana c’è una sorta di comandamento politico – il bambino si assume il compito di prendersi cura del mondo e di reggere il mondo stesso. La nascita sulla rivoluzione viene qualificata proprio come un compito di responsabilità => il compito politico sarà quello di avere cura del mondo proprio avendolo avuto in eredità dalle generazioni precedenti. Quest compito di cura lo troviamo nel testo “disobbedienza politica”: il mondo è abitato da esseri umani (plurale) i quali sono unici poiché hanno fatto ingresso nel mondo con la nascita e che con essa erano “i nuovi” = dei bambini straordinari che ad un certo punto andranno incontro alla morte (invecchieranno e dovranno lasciare il mondo quando avranno acquistato la familiarità che permetterebbe loro di essere saggi).  il mondo non ha bisogno di esseri umani ossessionati dalla morte (i vecchi), ossessionati dallo status quo, anzi la politica ha bisogno di cambiamento “non è possibile governare con la sola saggezza”. 17 21 SESSIONE Siamo ancora al capitolo 5- pag. 121,122,123 PREAMBOLO: Confronto Arendt e Heidegger Sappiamo che Arendt ha uno stretta connessione con Heidegger sotto il profilo filosofico – si sono influenzati e si possono naturalmente individuare delle assonanze  Heidegger si è occupato del tema della cura dell’altro. questi nodi di pensiero li troviamo nell’opera “essere e tempo” e nell’opera più minimale “i seminari di Zolikon” Affronta il tema della cura facendo riferimento al mito di Cura, ispirandosi alla favola di Igino. > Cura era una dea romana, molto amata da essi. Il mito di cura che sarà ripreso da Heidegger è la fabula 220: è un mito delicato che narra della creazione dell’uomo. Heidegger inserisce questo mito nel paragrafo 42 nell’opera “essere e tempo”.  Heidegger riporta la fabula di Igino prima in latino e poi in tedesco. > questo mito narra la creazione del mondo; gli uomini non sono ancora stati creati, la dea cura è sola e passeggia solitaria attraverso le Lande disabitate perché non esiste ancora la Terra abitata. Ad un certo punto si accorge che i suoi piedi affondano nel fango: assorta nei suoi pensieri, raccoglie un pugno di terra bagnata e inizia a dare una forma al fango. > dopo la creazione dello strano oggetto creato con le sue mani, si avvicina il Padre Giove al quale, Cura, chiede di fare qualcosa per questa statuetta. Giove acconsente alla preghiera di Cura. Giove insuffla l’anima a questa statuetta che prende vita. a quel punto dice Igino, Giove rivendica per sé questa creatura => comincia un diverbio tra la Cura che la rivendica per sé perché l’ha fatta e Giove che la rivendica sostenendo che era stato lui a darle vita. in questa diatriba interviene anche la dea Terra che a sua volta la rivendica sostenendo che questa creatura è fatta di terra (humus). => conflitto che sembra non trovare soluzione. Interviene il dio del Tempo Saturno il quale riconosce a tutti e tre una forma di “genitura”: - Alla terra, dopo la morte sarebbe tornato il corpo della creatura - A Giove sarebbe tornata l’anima perché egli aveva insufflato l’anima - La creatura sarebbe rimasta a Cura perché era stata lei a forgiarla con le sue mani Restava il problema di assegnare il nome alla creatura: Saturno si riserva il diritto d i darle un nome e decide che il nome opportuno fosse “homo” da humus= terra perché questa creatura era nato dal fango. Heidegge, studiando Burdacj incontra questa favola e la inserisce in essere e tempo proprio perché comincia a riflettere sulla cura e a farne un tema suo proprio – “cura= sorge”. Ritiene che l’uomo resti uomo proprio perché capace di avere cura.  questo lavoro è interessante anche perché cura rinvia alla parola cor= cuore e quindi rinvia a qualcosa di emotivo. (responsabilità nel prendersi cura dell’altro che diventa anche una inquietudine nel prendersi cura l’altro per la responsabilità di cui riveste). N.B.  Heidegger a questo punto inserisce due termini: Besorgen = prendersi cura e fusorgen = avere cura. - prendersi cura: forma di cura imperfetta, inautentica > procuriamo all’altro le cose di cui l’altro ha bisogno (oggetti materiali) > non c’è una vera assunzione di responsabilità ma semplicemente forniamo all’altro quello che serve all’altro (ci affidiamo agli oggetti materiali per soddisfare questi bisogni). Se entriamo in relazione con questa modalità con l’altro anche le relazioni sono inautentiche poiché circondiamo l’altro di oggetti materiali. - avere cura: forma di cura autentica perché si insegna all’altro ad avere cura di sé. = l’altro è sempre salvaguardato. Non mi limito a fornirgli degli oggetti ma gli dedico del tempo, lo assisto. Il tempo della cura è un tempo in cui si progetta la relazione con l’altro. 20 22 SESSIONE Pagg. 122-123 - Deiezione: alienazione dell’individuo dalla vita autentica. È una dimensione in cui tuto perde di significato, è una sorta di caduta o cura negativa – perché l’essere umano nella deiezione agisce per luoghi comune “di pensa”, “Si dice”, in cui ci si conforma, perdendo di senso ciò che si fa. Nella deiezione il soggetto non si assume le responsabilità che l’incontro comporta; semplicemente si limita ad un agire tecnico mancante del vero incontro con l’altro. In questa dimensione il soggetto non assiste l’altro – ab-sistere significa fermarsi, sostare e dunque assistere richiede tempo. La cura ha una sua temporalità, specifica dell’incontro e dunque nel lessico Heideggeriano la cura comporta una scelta che comporta un’assunzione di rischi (l’latro mi interpella ed io deve sentirmi sempre coinvolto sentimentalmente). Questa filosofia della cura ha influenzato moltissimo Arendt – quando Arendt in “vita attiva” parla di tripode, sembra che dialoghi a distanza con Heidegger. Arendt utilizza il termine cura in modo più disinvolto perché non ne fa una questione ontologica ma una questione “politica”. Per lei la politica è avere cura del mondo e nel lessico arendtiano vale a dire che noi siamo responsabili non solo di noi stessi ma anche degli altri. Per comprendere l’influenza di Heidegger su Arendt non si può non passare dalle tre dimensioni dell’agire definite da Arendt - Labor : è inteso come una sorta di besorgen, un’attività che ci angoscia ma che è volta a garantirci la nostra sopravvivenza - Work : l’opera come mera fabbricazione sembra a sua volta sintetizzare il besorgen di Heidegger  labor e work sembrano rinviare a quella cura non autentica in cui l’uomo incontra gli oggetti. - Action : action stabilisce delle relazioni autentiche ed inoltre in questa dimensione le relazioni si fanno veramente umane perché l’umano comunica con la voce, con il dialogo  La deiezione è quella condizione in cui ci conformiamo – la condizione viene resa sull’espressione di Arendt: “loss of word” = perdita del mondo. 23 SESSIONE CAPITOLO SESTO Arenti nei suoi scritti affronta temi politici, storici, di carattere pedagogico. E poi c’è un Arendt poco “coltivata”, più al latere, che è la Arendt degli scritti giovanili dedicati alle figure femminili. > emerge una sensibilità che emerge anche nel descrivere le piccole cose. Arendt ha il merito di porre il femminile su un piano politico – “Rahel Varnhagen” ad esempio. Nei suoi scritti Arendt insiste su un noto passo biblico della genesi “maschio e femmina Dio li creò” – questo passo non sempre è tradotto in questi termini, Arendt insiste su “e” ed “li” in quanto riteneva che la condizione dell’azione fosse la pluralità.  A proposito di questo passo biblico, Arendt fa una critica a san paolo di Tarso ritendo che esso si discosti dall’insegnamento di Gesù Cristo quando nei corinzi afferma che la “donna fu creata per” = questa interpretazione paolina assegna un tipo di importanza alla donna.  la visione di Paolo era la visione di allora in merito alla donna – fragilità della donna stessa.  Muove anche una critica ad Agostino il quale, in una sua opera, sembra ignorare questo passo – “l’uomo fu creato uno e singolo” = insiste sulla singolarità dell’uomo 21  Quindi vediamo che la pluralità è la condizione sine qua non l’uomo non potrebbe agire – l’uomo può agire solo a condizione che ci sia differenza in quanto la differenza è a sua volta garanzia della pluralità => se gli esseri umani non fossero differenti non sarebbero neanche pluralità e dunque non ci sarebbe neanche possibilità di agire. N.B. nonostante questa sensibilità, Arendt rimarrà dissonante/distante rispetto ai temi del pensiero femminista. – Arendt, a quei tempi, non sentiva l’emancipazione femminile come una emergenza politica. (sosteneva che l’essere donna era un dato di fatto) – per certi aspetti era una forte conservatrice e questo ce lo dimostra una intervista del 1964 la quale è stata editata e ad oggi considerata un termine quasi accidentale che non però messo a sistema -> sul piano filosofico risulta estremamente interessante per comprendere meglio Arendt Il giornalista in questione è Gurten Goss -in questa intervista Arendt si definisce un “individuo ebreo femini generis”. Nel corso dell’intervista viene tirato fuori il tema del femminismo: “si, ma sono all’antica, certe posizioni la donna non deve occuparle”; il giornalista la provoca dicendo che lei riveste una professione maschile – di risposta Arendt dice che lei non si è mai posta il problema e che si è avvicinata alla filosofia per il suo desiderio di comprensione. 24 SESSIONE CONCETTO DI MATERNO Il concetto di materno negli iscritti arendtiano non è esplicito – secondo Arendt se di materno si deve parlare bisogna fare ferimento al concetto della lingua delle origini – la lingua tedesca. La figura della madre nei testi arendtiani non appare malgrado il fatto la categoria della nascita sia centrale. C’è un’attenzione per il tema del venire al mondo piuttosto che dei successivi eventi. (parliamo di maternage ossia rimandi deboli alla figura della madre, rimandi che lasciano intendere una visione al femminile). Anche quando parla di cura non parla mai di cura del figlio ma si riferisce alla cura per/del mondo.  Possiamo però provare a parlare “di un materno” che è quello del materno linguistico  nella celebre intervista citata precedentemente, il giornalista provoca Arendt: “signora Arendt cosa le è rimasto della Germania pre-hitleriana” – senza esitazione Arendt risponde: “La lingua materna”  questa risposta lascia perplesso il giornalista il quale vuole portarla a parlare di nazismo: “anche nel periodo più sfrenato?” – risposta: “sempre”.  risposta sorprendente perché in quegli anni nei circoli intellettuali si discuteva in merito alla lingua tedesca, delle responsabilità che si celavano dietro alla lingua tedesca (ideologia del nazismo impregnata nel linguaggio tedesco) => lingua che andava denazificata. Arendt cerca di puntualizzare sostenendo che non ci possono essere alternative alla lingua tedesca, non è colpa sua ad essere impregnata di significati ideologici da eliminare – la lingua non ha responsabilità nei confronti della storia e dell’impazzimento degli esseri umani. Inoltre la funzione della lingua materna è il racconto, il ricordo: una madre ci ha insegnato la lingua, una lingua che conserva il ricordo e la virtù. La lingua materna inoltre non ci fa perdere il contatto con il mondo, un contatto poetico: la lingua è una protolingua per Arendt ossia è indispensabile tessere quella pluralità di cui parlavamo in precedenza.  Scritti in cui troviamo riferimenti al materno – riferimento a Rosa luxemburgh: rivoluzionaria di origine polacche, socialdemocratica, una eroina di quel dibattito socialista internazionale dei primi del 900 (rappresentate del socialismo europeo) e fondò il partito rivoluzionario tedesco. Fu poi assassinata nel 1919. Arendt tributa un ritratto dal titolo “elogio a Rosa Luxemburgh” – Hannah Arendt commenta con astio il lavoro del biografo di John Pitter Nettel > ritiene che questa biografia pecca di pregiudizi 22 tecnicizzazione della nascita. Arendt accoglie questi nuovi scenari scientifici con molta perplessità e con un certo sospetto. La creazione della vita in laboratorio, è per lei, è una condizione di controllo per la vita stessa; è un’operazione non neutra in quanto dietro a ogni agire in laboratorio c’è anche un’idea dell’uomo – nei laboratori si sta tendando di rendere artificiale la vita. = si sta mettendo in discussione il tema della nascita, tema a lei molto caro (Arendt, è lungimirante, non conosce ancora il tema della maternità surrogata)  Arendt è stata testimone di quei primi passi in cui l’uomo sta sperimentando le tecniche di fecondazione artificiale. Ci dice che con questi test tube l’uomo sta agendo in modo innaturale, sta tentando di controllare la nascita/l’atto generativo avvicinandosi ad un passo dalla immortalità. Arendt dice che per questo desiderio di mortalità ,l’uomo sta tentando di evadere dai confini della Terra la quale sente come una prigione. E da qui anche il desiderio di “mescolare il sotto il microscopio il plasma germinale congelato di persone di comprovato valore per produrre essere umani superiori e modificarne la forma, grandezza e funzione” > l’idea è quella di creare esseri superiori partendo “dai materiali” germinali da uomini di comprovato valore intellettuale.  Arendt è sconcertata che questi strumenti di laboratori possano trasformare le generazioni future in un processo modificabile, un qualcosa di controllare – teme il rischio dell’introduzione dell’artificiale nell’atto procreativo naturale. > ecco qua la spiegazione dell’espressione vita frozen: teme che questa vita ghiacciata possa diventare uno strumento di controllo sociale, di selezione per introdurre dei criteri biochimici di valutazione della vita per arrivare a realizzare un progetto di umanità superiore. > dal suo punto di vista, la nascita così modificata interrompe la casualità l’imprevedibilità che a suo parere sono le caratteristiche irrinunciabili dell’azione del venire al mondo. 27 SESSIONE A fronte di quanto abbiamo detto, ci sono delle conseguenze gravi – nel 1958 si riteneva che il natale (lo spazio dell’apparire, delle relazioni) possa essere governato = si sta introducendo l’artificialità nella vita pubblica, si pensa alla vita come una procedura e si stanno creando degli equivoci ossia che il natale possa essere governato (prattein= portato a compimento) Sempre nel prologo di vita attiva dice che la sua preoccupazione è che per rispondere alla domanda chi è l’uomo bisogna davvero passare dai linguaggi scientifici? > denuncia di Arendt: la biologia sta purtroppo imponendo i suoi linguaggi e l’uomo per dire sé stesso ambisce a sua volta ad usare il linguaggio scientifico  perché l’uomo si dice con le parole della scienza? – la risposta la troviamo già nelle origini quando Arendt era arrivata a riflettere sul fatto che per governare la vita e controllare il tasso di natalità, bisognava migliorare nelle doti naturali (Germania nazista – voleva provare che chi controlla la vita naturale è in grado di controllare il bios ossia vita sociale = chi controlla la vita controlla anche la politica). => per cui Arendt sostiene che le biotecnologie sono nei fatti degli strumenti di selezione con cui si possono eliminare i malati, i difettosi ossia coloro che nella mentalità nazista rappresentano un aggravio per la polis.  Ha paura che il natale ossa essere governato dalle parole le quali mistificano/autorizzano e dunque utilizzare le parole scientifiche per dire dell’uomo comporta dei grossi rischi. – noi ci definiamo con delle parole e dunque siamo le parole che definiamo. Nel tentativo di migliorare e controllare le future generazioni ne deriva una riduzione delle libertà – la cosa più grave per Arendt è che la tecnica ha introdotto una logica di tipo funzionale ossia pretende di dirci chi è l’uomo – la via frozen è una vita manipolata e dunque quando la vita è manipolata cessa di essere diverso e 25 imprevedibile proprio perché la vita che si ottiene in laboratorio diventa programmabile e cessa di essere inaspettata. Tornando al test tube si entra pericolosamente in una logica migliorativa: costruire uomini forti – e dunque cos’è l’uomo a questo punto? > si riduce l’uomo a mero materiale biologico tenendolo incatenato alla materia cessando di essere libero. 28 SESSIONE CAPITOLO 4 – pag. 75: PROMESSA E PERDONO Promessa e perdono sono per Arendt due dispositivi di controllo dell’azione umana- sono entrambi necessari perché l’azione umana presenta due peculiarità: imprevedibilità e irreversibilità. 1) Mente per la promessa parla di rimedio  la promessa per Arendt è un genuino atto politico; è necessaria perché rimedia all’imprevedibilità dell’agire umano. – la promessa rimedia alla caotica incertezza del futuro > quindi dare e mantenere la parola data è innanzitutto un atto linguistico. Quindi promettere in quanto atto politico, è un atto di moralità forte in quanto io lo rendo ad alta voce di fronte a qualcuno, un atto pubblico. => ci impegna di fronte agli altri. Ed inoltre la promessa è un atto di reciprocità perché per promettere bisogna essere in due in quanto se la promessa viene davanti a sé stessi diventa un atto privo di realtà. Tra l’altro, da un punto di vista politico, la promessa è fondante: ci rivela come gentil morali perché il far promesse ci costringe ad assumere delle responsabilità e a fare dei conti con l’altro. Mantenere promesse è un vero e proprio impulso, un’azione peculiarmente umana (non è un’azione umana in quanto l’animale non promette mai) => fa da discrimine tra l’uomo e l’animale perché la promessa ci libera dall’animalità e dalla naturalità. Un pensatore che ha lavorato molto sulla promessa è Nietzsche – Arendt riconosce ad esso il valore della promessa. Arendt facendo delle riflessioni in Nietzsche vede una torsione negativa in quanto il pensatore si lascia trascinare da una volontà quasi indipendente = si porta fuori dalla pluralità. Arendt vede quindi che la promessa di Nietzsche sia egoista – effettivamente Nietzsche mette in luce il rischio della promessa.  Se da un lato Arendt elogia Nietzsche, dall’altra non è convinta fino in fondo da quel Nietzsche che insiste sulla volontà di potenza e dunque su questa volontà indipendente e di quell’uno che si porta fuori dalla pluralità. – per Arendt la promessa non può essere espressione di una volontà individuale e autoreferenziale in quanto la promessa è espressione di una volontà buona e bidirezionale. L’uomo non è mai sovrano di sé, non può pensare a sé a discapito degli altri e dunque non può portarsi fuori dal mondo in quanto sennò avverrebbe la perdita del mondo (loss of word) Altre riflessioni: Arendt sostiene che la promessa è una forma di potere, una memoria forte (quando prometto tengo a mette ciò che ho promesso). Non è un potere autoreferenziale, in quanto non si tiene in mente per sé stessi. 2) Per quanto concerne il concetto di perdono, Arendt va oltre e parla di aporia dell’azione – ossia strada senza uscita = il perdono ci porta a delle strade senza uscita.  IRREVERSIBILITA’ Prima di agire bisognerebbe chiedersi l’esito delle nostre azioni, ma sappiamo anche che esiste l’imprevedibilità – dunque qual è il rimedio? > il rimedio è perdonare, in caso di errore. Il perdono non può essere fatto a sé stessi in quanto il perdono è un dono fatto dagli altri. Permettere e perdonare sono due dispostivi che hanno a che fare con il tempo: 26 - la promessa rimedia al futuro: il futuro è imprevedibile, inatteso e dunque la promessa mi permette di stabilizzare temporalmente un’azione nel futuro - il perdono rimedia il passato perché ci libera dalle conseguenze di un nostro errore che altrimenti resteremmo intrappolati e resteremmo vittime di noi stessi. In una nota di vita attiva Arendt parla dello stregone di Gothe: in una ballata si narra dell’aiutante di un mago, mago che ordina a questo servo di tenere in ordine lo studio. In assenza del mago, il giovane cerca di scantonare il lavoro rubando una formula magica del suo mago => conseguenze: la scopa prende vita e anche gli oggetti intorno. Questo giovane aiutante che ha rubato una formula del suo maestro in realtà va incontro ad un terribile disastro. L’apprendista stregone deve chiedere il perdono: “scope siate quello che foste”.  Arendt passa dall’apprendista stregone di Gothe per parlare del perdono. Il perdono riporta indietro a com’era una volta. 29 SESSIONE Riflessione politica- Cristo impone e in quanto Dio comanda di perdonare – gli uomini però non possono comandarsi tra di loro perché non sono, appunto, Dio. Secondo Arendt c’è differenza tra il perdono di Dio e quello di cui sono capaci gli uomini: Dio comanda, l’uomo invece deve donare il suo perdono.  RIFLESSIONE SULLA COLPA E SUL COLPEVOLE: si perdona la persona e dunque il persona; non si cancella il danno, la colpa. Aggiunge: lo stesso Gesù cristo nell’episodio di Giovanni della donna adultera, perdona la donna non l’errore. Sempre in questo episodio evangelico si diceva che la donna non era conosciuta da Gesù  Arendt partendo da questo episodio arriva a riflettere: il perdono non è una questione privata, è facile perdonare chi amiamo. Cristo insegna che bisogna perdonare gli sconosciuti proprio perché il perdono è un dono Arendt arriva a distinguere tra colpa imperdonabile e peccato: - Il peccato sarà perdonato perché dice il segno che siamo vivi, è il segno che agiamo tra gli altri e che costruiamo le nostre relazioni tra gli altri. È indispensabile peccare perché senza peccato non potremmo mai agire in quanto si sbaglia. – Arendt insiste sul fatto che è vero che il perdono ci consente di restare agenti liberi/plurali e che comunque senza perdono non sarebbe possibile la nostra rinascita. - Ci sono delle circostanze in cui non si può perdonare: il male criminale, il mare che fa male e che oltraggia. Essendo un male immenso non può essere perdonato perché “scandalizza i bambini” e tutto ciò che li scandalizza sfugge alla comprensione umana e siccome è incomprensibile evidentemente non può essere né punito, né perdonato. => ad avvalorare queste sue tesi passa ancora dalla figura di Gesù Cristo: parla di Luca > “a colui che reca scandalo non rimane che legarsi una pietra al collo e gettarsi in mare” => è Cristo stesso che distingue il peccato che non sfugge alla comprensione dell’uomo e come tale può essere perdonato; quando parla di ”macina al collo” Cristo sta parlando di un male imperdonabile, un male che reca scandalo = bel lessico arendtiano significa che è un’azione maligna che rompe i legami plurali. Il male immenso non può essere perdonato. – per mare immenso Arendt intende quelle fabbriche di cadaveri, i crimini contro l’umanità. È assurdo condannare all’impiccagione un uomo che ha preso parte alla fabbricazione di cadaveri in quanto tutte le punizioni non andrebbero a perdonare quanto realizzato. (male derivante da una obbedienza cieca). Dopo quanto accaduto nella Germania nazista, di fronte a questo male inaudito, non posiamo neanche più parlare di male radicale – parliamo di male incomprensibile perché è un male senza radici, un male che si espande e dunque imperdonabile. => qui Arendt è vicino ad altri pensatori; uno fra tutti Jankelevitch il quale sostiene che il male commesso nei lager non può essere riparato perché quando si ripara si 27 2-3 APPROFONDIMENTO – DUE IN UNO DI ARENDT Con l’immagine due in uno Arendt si riferisce ad una sorta di dialogo silenzioso che l’io intrattiene con sé stesso = mettersi in dialogo con la propria coscienza (“un amico interiore” che si limita ad esaminare con noi le nostre azioni).  una voce che non è mai prescrittiva ovvero si limita a metterci di fronte al nostro agire. È proprio Socrate a parlare di due in uno  in un passaggio di “vita della mente” scrive: “persino Socrate così innamorato dell’agorà (dove avveniva la politica) deve pur fare ritorno a casa dove sarà solo per poter incontrare l’altro” = quella voce interiore che si accende quando siamo da soli. Il riferimento di Arendt è ad un dialogo platonico (l’Ippia maggiore) in cui l’allievo di Socrate, Platone, riferisce degli insegnamenti del suo maestro – il tema di questo dialogo è la bellezza ma anche implicitamente sulle brutture con cui l’essere umano deve fare i conti  questo dialogo vuole essere una sorta di guida: “Come si fa distinguere il bello dal brutto?”. È un dialogo inoltre, che incuriosisce perché Platone si ferma a descrivere una giornata tipo del maestro Socrate: egli dopo un’intera giornata nella polis in compagnia dei suoi concittadini, deve tornare a casa; Socrate torna a casa e sarà costretto a dare retta a “questo amico molesto”.  perché Socrate deve patire questa voce? > Socrate sa che in fondo le azioni più belle sono anche le più difficili da farsi; non è facile tornare a casa sapendo che dovremo lasciarsi interrogare dalla nostra coscienza. È un’azione difficile, ma necessaria, un’azione che ci costringe a riflettere sulle nostre azioni mettendoci in dialogo con noi stessi. Tuttavia Socrate sostiene che non tutti sono capace di questo dialogo interiore  Ippia è un nuovo che sa molto ma anche tracotante e dunque molto diverso da Socrate in quanto le manca la raffinatezza, la profondità ecc. Ippia è un uomo che appena tornato a casa non saprà diventare “due”, non saprà sdoppiarsi, rimarrà da solo. => Ippia è incapace di mettersi in dialogo con gli altri, di interrogarsi in merito alle sue azioni – nella sua boria non sente l’esigenza di dialogare con sé stesso inquanto vuole sempre e solo avere ragione. Dunque, una volta lasciati i chiacchiericci della gente, torna a casa e resta solo; è felice, ma è una felicità effimera che sperimentano gli esseri vuoti. Ad un certo punto in questo dialogo platonico si assiste ad un confronto tra Ippia e Socrate  Socrate dice a Ippia: “Beato te!” – perché Ippia ama godere di questa effimera felicità?  prendendo punto da questo dialogo Arendt va a riflettere sull’immagine socratica del due in uno andando a costruire una sua personale riflessione sul dialogo con la coscienza che ognuno di noi, a suo dire dovrebbe tenere. Arendt arriva a riflettere anche sui lunghi mutismi della coscienza, su quello che accade quando mettiamo a tacere la voce del due in uno => tutte le volte che mettiamo a tacere la voce interiore si insinua il male; il male ha bisogno di lunghi silenzi perché non vuole testimoni intimi, il male non sopporta la testimonianza.  Per Arendt questo dialogo è l’unico modo che ci fa restare umani, quel dialogo che fa “di un io un io” = un essere umano autentico che si sente responsabile di sé stesso ed egli altri. Eichmann si è scrollato di dosso le responsabilità morali delle sue azioni proprio mettendo a tacere la voce della coscienza interiore.- Il dialogo con noi stessi che costringe a tenere a mente ciò che abbiamo fatto, evidentemente anche il mal che abbiamo fatto agli altri con il nostro agire.  Perché obbediamo alle leggi? Perché abbiamo paura? Perché si deve fare ? > NO! Arendt parla del pensare da sé ossia essere capaci di giudizio e saper preservare in noi uno spirito critico. Non bisogna seguire la massa, né scomparire in essa. Nella società di massa accade che la capacità 30 critica si indebolisce perché nei processi di massificazione gli individui non sono soli con sé stessi ma sono estranei, semplici ingranaggi di un apparato che distrugge la capacità di pensare = l’annientamento della singolarità e dunque della particolarità della persona umana, è ciò che di fatto innesca questo appiattimento, la nostra capacità di pensare e dunque giudicare – questo è effettivamente quanto accaduto con il nazismo. Nella banalità del mare Arendt arriva a riflettere sulle atrocità commesse dai “buoni padri di famiglia” – Eichmann è stato uno dei responsabili della cosiddetta soluzione finale  secondo Arendt, Eichmann nel corso del processo storico ha esibito questa sua incapacità di pensare e assenza di incoscienza. – la tesi che sostiene Arendt è che l’olocausto è stato innescato da questo eccesso di obbedienza, obbedienza rassegnata degli ebrei che da vittime non reagiscono alla follia nazista, e dall’altra l’obbedienza acritica dei tedeschi che senza mai giudicare, senza mai ascoltare la voce della loro coscienza hanno agito e obbedito alle leggi del terzo reich. => Eichmann “non è un demonio” dice Arendt, il guaio era che uomini come Eichmann in Germania c’erano tanti, uomini normali ma terribilmente obbedienti. – con la figura di questo uomo è evidente che le sue azioni possono essere commesse da soggetti del tutto insignificanti, banali, padri di famiglia, padri docili. (“io ho semplicemente obbedito”)  in un passaggio della banalità scrive: “è obbediente come un cadavere”.  Questo sconcerta Arendt la quale si chiede come un essere umano possa compiere azioni del genere – Eichmann non è uno stupido, un uomo che ha però rinunciato a pensare da sé e a rinunciare ad essere giudice di sé stesso. = non è neanche più capace di riflettere sul proprio agire. Eichmann non è il male incarnato, un uomo banale che si accontenta del “si deve fare”, è un uomo irriflessivo. => attenzione dice Arendt: è propri grazie all’obbedienza di queste persone che Hitler riesce a mettere in piedi la macchina dello sterminio e ridurre nei lager gli ebrei a cadaveri viventi. = l’obbedienza acritica ha aperto le porte del male criminale. Lei cerca di comprendere ma non di giustificare. Nel prologo delle origini del totalitarismo scrive che Eichmann ad un certo punto non si è neanche più interrogato, ma ha volto interrompere il suo dialogo coscienziale rinunciando al pensiero; rinunciando al pensiero ha procurato il male terribile. È importante continuare ad essere giudici di sé stessi. Pensare, giudicare, sono capacità che possono essere perdute. Alla somma per Arendt, quel pezzo di storia della Germania, persone buone, padri di famiglia possono impazzire e diventare terribilmente obbedienti pensando esclusivamente a sé stessi. La perdita di sé stessi comporta la rinuncia ad essere persona e ad essere nato. 31
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