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Fine del secolo americano? recensione, Sintesi del corso di Sociologia

Recensione del libro di joseph nye

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 25/05/2021

Ginevra2201
Ginevra2201 🇮🇹

5

(1)

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Fine del secolo americano? recensione e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! Recensione libro sociologia La questione che ormai divide da decenni studiosi e osservatori di politica internazionale è l’immagine e il ruolo che gli Stati Uniti hanno assunto a partire dalla fine della guerra fredda. Con il crollo dell’«impero del male», gli Stati Uniti avevano trionfato sul comunismo e i più ottimisti, avvalendosi della celebre e controversa elaborazione di Francis Fukuyama sulla «fine della storia», ritenevano che l’ordine liberal-democratico avrebbe finalmente abbracciato l’intero sistema planetario. Tra i più scettici rispetto a un sistema internazionale definitivamente pacificato, Samuel P. Huntington avanzò l’idea, alquanto preoccupante, di un mondo avviato verso un inevitabile «scontro di civiltà» e progressiva erosione del primato occidentale. A partire da queste due distanti narrazioni – seppur con alcune analogie di fondo, ossia il trionfo del liberalismo occidentale – sono proliferate innumerevoli produzioni relative all’effettiva legittimità del ruolo di supremo garante dell’ordine internazionale che gli Stati Uniti, per manifesta superiorità e  mancanza di seri rivali, hanno voluto e dovuto attribuirsi; l’avvento del XXI secolo ha portato con sé nuove sfide, scuotendo completamente la geografia delle relazioni internazionali e i paradigmi ad essa associati e mettendo dunque in discussione la stessa preminenza americana. Ascesa o declino, immortalità della «superpotenza solitaria» o inizio dell’età «post-americana»: quale peso gli Stati Uniti hanno e avranno nell’ordine globale? Ubi est veritas? A questo interrogativo il libro di Jospeh S. Nye Fine del secolo americano? risponde con un’impalcatura argomentativa densa di dati e convinzioni forti, smontando con estrema scientificità e rigorosità le tesi decliniste, ma dipingendo un panorama interpretativo comunque consapevole dei grandi cambiamenti a cui stiamo assistendo. Joseph Nye è a tutti gli effetti un uomo del Novecento strettamente legato all’establishment americano vicino al cosiddetto «liberalismo internazionalista», quindi molto sensibile alla necessità di estendere i valori liberal-democratici e del libero mercato come ricette per un ordine internazionale stabile. La sua caratura accademica è sicuramente legata alla felice coniazione dei concetti di hard, soft e smart power (potere militare- economico, potere di persuasione, sintesi dei precedenti) tre pilastri su cui edifica, anche in questo testo, le sue convinzioni. Partendo da una riflessione sulla cronologia e sui caratteri di quello che Henry Luce definì il «secolo americano», Nye mostra la difficoltà nel considerare l’ordine post-bipolare come egemonico: il Novecento è stato sì il secolo della pax americana, costruitasi sulle macerie della seconda guerra mondiale e toccante l’apice nel 1991, ma non è mai stato veramente di sua esclusività. L’unipolarità è contemplabile solo e soltanto assumendo gli Stati Uniti come “attore centrale nel sistema globale dell’equilibrio del potere” (p. 25), ma comunque non egemone, poiché prima dialetticamente opposti all’Unione Sovietica e poi esposti alle complessità prodotte dalla globalizzazione. In questo senso il concetto stesso di «declino» è fuorviante, poiché va ponderato rispetto a due potenziali fattori: l’avanzata di nuovi competitors internazionali – declino relativo – e l’attuale, presunta, crisi della politica americana – declino assoluto. Ne Il paradosso del potere americano (2002) Nye poneva già la questione come centrale: il declino dell’America era possibile, ma del tutto improbabile se Washington avesse sfruttato al meglio le proprie immense potenzialità, rigettando isolazionismo e unilateralismo, promuovendo un nuovo multilateralismo e soprattutto rafforzando il proprio soft power nell’«era dell’informazione globale». A posteriori, avendo sotto gli occhi i due mandati presidenziali di George W. Bush, con la sovra-estensione del potere americano nella war on terror e la più recente retreat di Obama, questa chiave di lettura appare più che mai valida, confermando quei timori che Nye aveva ribadito anche in un articolo apparso nel maggio-giugno del 2004 sulla rivista «Foreign Affairs» ed intitolato The decline of America’s soft power. Ma chi sono i potenziali sfidanti della «preminenza» americana? Assumendo che la forza relativa degli Stati Uniti sia l’unità di misura imprescindibile per soppesare la distribuzione del potere e della forza egemonica tra tutti i principali attori della chessboard globale, Nye ne esamina punti di forza e di debolezza, attraverso uno sforzo comparativo con le skills statunitensi. Avvalendosi delle più recenti statistiche economiche e demografiche, il politologo americano mostra come tutte le principali pretendenti abbiano in comune, in molti campi: energetico, tecnologico, finanziario e militare, un ritardo ancora incolmabile nel breve periodo. Non solo divari di hard power dividono le grandi potenze dagli Stati Uniti, ma soprattutto un’incapacità o comunque una difficoltà di elaborare una strategia di soft power in grado di competere con l’attrazione e l’appeal che gli Stati Uniti, seppur con inevitabili oscillazioni, continuano a detenere storicamente, da Hollywood al TTIP. L’Unione Europea è in questo caso forse l’unico vero attore alla pari in termini di creatività culturale e tecnologica, ma sconta, soprattutto dopo la crisi finanziaria del 2008, un deficit politico non indifferente, con un’integrazione minacciata dalla rinascita populista che scuote e impedisce una vera e propria «comunità d’intenti» soprattutto nel proiettare la sua Avviandosi verso la parte conclusiva, l’autore affronta un argomento altrettanto delicato e complesso, ovvero lo stato di salute della politica e della società americana, da sempre punti di forza della salienza normativa del messaggio democratico yankee. Lungi dal farsi contagiare dall’isteria declinista, anche Nye non sottovaluta la posizione di molti detrattori che vedono nella crisi delle istituzioni e dei valori americani un fatto che acclara la plausibilità di un declino. Questo declino assoluto potrebbe a sua volta determinare il declino relativo – quindi esterno – degli Stati Uniti? In risposta a questa domanda (anche se un precedente storico esiste ed è rappresentato dall’implosione dell’Impero romano) vengono illustrati e demistificati i vari sintomi della certo non recente, seppur acuitasi, crisi della comunità statunitense. La cultura americana è indubbiamente attraversata da alcune fratture: dal peggioramento delle condizioni di vita della middle class, alla conseguente polarizzazione ideologica dei due partiti, il che rende sempre più instabile il sistema politico e difficoltosa la compatibilità tra il Congresso e il Presidente. L’immigrazione diventa un tema sempre più caldo, foriero di razzismo e discriminazioni sociali, ma nulla in confronto agli anni delle «guerre culturali» che rimangono l’apice della conflittualità sociale nella storia americana. Nonostante la crisi del 2008, l’economia statunitense ha sì subito un rallentamento, ma ha superato la prova della tenuta del complesso finanziario, grazie al robusto intervento della Federal Reserve. Primi in termini di competitività economica globale, gli Stati Uniti mettono in campo la migliore expertise e ingenti investimenti in progetti di ricerca, sviluppo e merchandising, soprattutto nei settori all’avanguardia. La scoperta dello shale gas e del tight oil gettano le basi per una futura indipendenza energetica e sono il “frutto della combinazione dell’imprenditorialità, diritti di proprietà e mercati di capitali: le fondamenta su cui poggia da sempre l’economia americana” (p. 82). L’isteria da deficit che ossessiona la politica monetaria europea è invece meno influente negli Stati Uniti, dove regna una maggiore fiducia sulle possibilità di gestione del debito pubblico. Le preoccupazioni sull’efficacia dell’istruzione primaria e secondaria sono messe in secondo piano rispetto al livello raggiunto dalle università americane, le quali rappresentano la punta di diamante del passato e attuale soft power. Il tasso di fiducia nelle istituzioni democratiche e la rinnovata partecipazione elettorale costituiscono un buon segnale e l’elevata diversificazione etnica della società americana, in costante crescita, è un ulteriore valore aggiunto. Una vitalità e un pluralismo che non possono che giovare, secondo Nye, alla produttività e alla creatività di una cultura, il melting pot americano, estremamente aperta e solidale e supportata da un sistema federale che garantisce il dispiegarsi del suo potenziale innovativo. Certo, il libro edito nel 2015 non poteva prevedere l’elezione di Trump e l’ascesa di un leader così distante dall’universo ideologico dell’autore; resta il fatto che, nonostante il populismo galoppante, l’America ha sì “molti problemi […] ma non stanno provocando quel declino assoluto capace di far finire il secolo americano” (p. 92). In un recentissimo articolo pubblicato su «Foreign Affairs» e intitolato Will the Liberal Order Survive? The History of an Idea, Joseph Nye non fa che riprendere la riflessione che nel libro qui trattato propone come parte conclusiva della sua esposizione. Il secolo americano non può ancora essere storicizzato, in quanto soggetto a mutamento, ma l’egemonia americana non è minacciata in quanto mai davvero esistita. La fine del bipolarismo e della contrapposizione dei due blocchi, come nomos attraverso il quale regolare l’equilibrio del potere globale, aveva sì elevato il sistema liberal-democratico come idea trionfante e principale fonte di «beni pubblici globali», ma ha a sua volta favorito una progressiva entropia del potere, frutto della proliferazione di nuovi attori non-statali, mettendo in crisi, attraverso l’effetto penetrante della globalizzazione, la stessa capacità degli Stati Uniti di porsi come supremo arbitro dell’ordine internazionale. Ciò ha incoraggiato nuove potenze emergenti come la Cina ad avventurarsi verso la costruzione di un mondo multipolare, ma allo stesso tempo ha acuito la complessità di questa transizione di potere: non più solo gli Stati, ma nuove organizzazioni si sono imposte quali legittimi concorrenti. Nye parla di «reti di cooperazione» come l’unica e necessaria risposta per governare questo disordine e, tanto più gli Stati Uniti saranno capaci di costruirle in concerto con le altre potenze, maggiore sarà il beneficio che essi trarranno. In un’epoca di interdipendenza globale, che ha messo in discussione il paradigma weberiano del potere, diventa fondamentale concepire la politica mondiale nei termini del soft power piuttosto che affidarsi esclusivamente all’hard power. Collaborazione e cooperazione sono le chiavi che Nye individua per affrontare sfide globali – terrorismo, climate change, crisi finanziarie – che non richiedono l’unilateralismo degli Stati Uniti per essere risolte, ma la necessaria consapevolezza che la preminenza americana non sia terminata o in discussione, ma che debba soltanto adeguarsi ed assumere un aspetto differente: “Il secolo americano continuerà […] in termini di potere degli Stati Uniti con gli altri. Su molte issues transnazionali, far crescere il potere degli altri potrà aiutare gli Stati Uniti a raggiungere i propri obiettivi” (p. 111). Parlare di età post-americana non significa necessariamente intendere l’inevitabilità del declino statunitense. La stessa campagna elettorale presidenziale recente ha mostrato quanto questa «paura di cadere» abbia rilanciato il ritorno della grandezza americana attraverso lo slogan di Trump Make America Great Again. È una tensione che si manifesta ogniqualvolta il sistema di potere americano si sente minacciato dall’esterno e in questo caso ha prodotto, esasperando i termini del declino, tutto quello che Nye avrebbe sicuramente voluto non veder realizzato. Se l’eccezionalismo americano delle origini doveva essere tutto quello che fosse il contrario del nefasto imperialismo europeo, questo timore ha prodotto, già con la rinascita neoconservatrice e l’unilateralismo della prima decade del XXI secolo, proprio quei fantasmi che la democrazia americana voleva scongiurare. Le tesi decliniste si fondano principalmente sui passi falsi della politica estera americana nel post 11 Settembre, mentre l’argomentazione di Nye si impone di decostruire e problematizzare queste accuse. Il libro è senz’altro una rassegna ragionata di tutti i dubbi che si possono avanzare sulla salute dell’egemonia americana; Nye non nasconde, ma affronta con grandissima onestà intellettuale i problemi interni agli Stati Uniti contestualizzandoli rispetto all’indiscutibile predominanza statunitense in termini di hard power – comunque in ridimensionamento relativo – ma soprattutto rispetto al suo soft power. La leadership americana quale strumento di risoluzione dei problemi globali rappresenta un dato di fatto anche di fronte alle nuove forme di esercizio del potere nell’epoca globale, comunque congeniali rispetto alla crescita degli Stati Uniti. Dunque una transizione di egemonia rimane un’eventualità non plausibile, e chiunque vorrà imporre la propria influenza dovrà necessariamente fare i conti con la potenza americana, la quale non potrà crogiolarsi nella sua posizione confortevole, ma dovrà adoperarsi in diverse direzioni: rafforzando le istituzioni e i network economico-politici, perseguendo la promozione di beni pubblici globali, rinsaldando le alleanze storiche ed accettando un nuovo equilibrio multipolare. militare né, infine, sotto quello del soft power, si può negare, dati alla mano, che gli Stati Uniti siano ancora il Paese che mantiene un indiscutibile primato. Nessuno dei due confronti che si fanno abitualmente, con la Roma imperiale o con la Gran Bretagna, colgono nel segno. Roma si disgregò a causa delle sue divisioni interne. La Gran Bretagna, anche nel momento di sua massima potenza, non ebbe mai una posizione di preminenza (economica, militare e di soft power) paragonabile a quella degli Stati Uniti dopo il 1945. Il politologo Joseph Nye (1937) Ma il declino americano, si dice, è un declino relativo, non dovuto tanto alla perdita di forza degli Stati Uniti quanto alla crescente affermazione di alcune potenze emergenti. Nye esamina punti di forza e di debolezza di tali potenze emergenti mostrando che nessuna di esse ha i numeri per svolgere, in un futuro prossimo, il ruolo che i teorici del declino assegnano loro. Nemmeno la Cina, sulla quale Nye si sofferma a lungo, può aspirare a sostituire gli Stati Uniti e nemmeno a concorrere (per ragioni che l’autore spiega efficacemente) alla formazione di un sistema bipolare Cina-Stati Uniti in grado di sostituire il bipolarismo Unione Sovietica-Stati Uniti dei tempi della Guerra fredda. Il libro mostra che una «transizione di potenza» (il passaggio del testimone dagli Stati Uniti ad altre potenze) non è un’eventualità plausibile. Ma potrebbe esserci invece un declino assoluto, anziché relativo, dovuto a cambiamenti della società americana che facciano venire meno i suoi punti di forza? Qui l’indagine si sposta dalla scena internazionale ai fattori di incipiente debolezza (ma anche di perdurante forza) degli Stati Uniti. Nye esamina i problemi che affliggono quella società e le sue istituzioni. Alcuni di essi sono gravi (le accresciute disuguaglianze sociali, i limiti del sistema di istruzione inferiore, le crescenti difficoltà di funzionamento delle istituzioni della democrazia americana). Nye sostiene però che quei gravi problemi non sono irrisolvibili e, inoltre, che sono bilanciati dalla perdurante vitalità di una società demograficamente giovane, con un sistema di istruzione superiore che resta eccellente, una società libera che continua a generare sviluppo e che dispone tuttora di grandi risorse morali e intellettuali. Il futuro è aperto e imprevedibile ma, osserva Nye, i pur gravi problemi della società americana, se confrontati con quelli che affliggono le altre società (Cina e altri Paesi emergenti), non sono di portata tale da renderne inevitabile il declino. Se la transizione di potenza immaginata dai teorici del declino è improbabile, ciò non significa però, secondo Nye, che la potenza internazionale degli Stati Uniti potrà esercitarsi anche in futuro nel modo in cui si è manifestata nei molti decenni che hanno seguito la fine della Seconda guerra mondiale. Non ci sarà transizione di potenza, ma è in atto una trasformazione della società internazionale che favorisce la «diffusione» della potenza. Nei vari Paesi, Stati Uniti compresi, le élite devono oggi fare i conti con opinioni pubbliche molto più esigenti e condizionanti di un tempo. Inoltre, la rivoluzione informatica ha messo a disposizione di una pluralità di gruppi, un tempo senza potere, le risorse per agire politicamente e influenzare il comportamento dei governi. La rivoluzione tecnologica e l’interdipendenza economica e sociale, combinandosi, hanno generato una crescente complessità, hanno fatto emergere problemi che nessun governo (nemmeno gli Stati Uniti) è in grado di affrontare da solo: cambiamenti climatici, migrazioni, terrorismo, e altri problemi ancora, pongono sfide che i governi possono sperare di controllare solo cooperando. Pur non citandola, Nye adotta una concezione del potere simile a quella di Hannah Arendt quando osserva che molti problemi contemporanei, per essere affrontati, richiedono un esercizio del potere che non può limitarsi alla creazione di rapporti gerarchici (il potere esercitato da qualcuno su qualcun altro). Richiedono invece un «potere con», un potere condiviso che può essere alimentato solo mediante la collaborazione fra società e governi. Gli Stati Uniti, presumibilmente, manterranno una rete di alleanze e continueranno ad animare network informali utili per fronteggiare i problemi transnazionali. A differenza delle antiche colonie, quelle alleanze e quei network sono assets, risorse e opportunità, non fattori di debolezza. Non può sfuggire a nessuno l’importanza del tema sollevato da Nye. Se i declinisti hanno ragione, allora il mondo che ci si prospetta, guardato dal punto di vista di noi occidentali, è un mondo in cui sarà sempre più spiacevole vivere. Se i declinisti hanno ragione dobbiamo aspettarci una frantumazione della società internazionale in blocchi regionali tendenzialmente chiusi, ruotanti intorno alle varie potenze emergenti. Dobbiamo anche aspettarci un drammatico declino di quel soft power che, facendo leva sui valori e sul modo di vita occidentale, ha spinto molti Paesi extraoccidentali ad abbracciare la democrazia politica e l’economia di mercato. Altre potenze, in competizione con gli Stati Uniti, saranno in grado di proporre al resto del mondo soluzioni politiche ed economiche diverse (autocratiche per lo più) e il loro accresciuto soft power funzionerà da calamita, attirerà, nell’Africa subsahariana, in Medio Oriente o nel Caucaso, le élite di molti Paesi. Al declino degli Stati Uniti si accompagnerebbe un declino (economico, politico e infine anche militare) del mondo occidentale, Europa compresa, nel suo insieme. Crescerebbero alla fine anche i rischi di guerra tra le grandi potenze. Se invece Nye ha ragione, ciò non basterà a rendere meno complesso il mondo né a impedire le sue molte tragedie ma, almeno, resterà la speranza che esso non vada totalmente fuori controllo. Se il primato americano non finirà, e se la pressione dei problemi costringerà i governi a cooperare, alcune delle più cupe profezie dei teorici del declino americano non si concretizzeranno.
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