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Finocchiaro diritto ecclesiastico, Appunti di Diritto Ecclesiastico

Riassunto completamente sostitutivo del manuale Finocchiaro,diritto ecclesiastico .

Tipologia: Appunti

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Scarica Finocchiaro diritto ecclesiastico e più Appunti in PDF di Diritto Ecclesiastico solo su Docsity! DIRITTO ECCLESIASTICO CAPITOLO 1: CONSIDERAZIONI INTRODUTTIVE 1.IL DIRITTO ECCLESIASTICO E LA SCIENZA GIURIDICA Il compito della scienza giuridica è quello di studiare la produzione, l’interpretazione e l’applicazione delle norme giuridiche; tali norme si distinguono dalle altre regole in quanto la loro osservanza è assicurata dall’ordinamento (a volte anche coattivamente). L’ampiezza della materia presa in esame dalla scienza giuridica è molto grande. Proprio per questo motivo, è utile operare una divisione degli studi giuridici nelle varie discipline (diritto costituzionale, commerciale, amministrativo, ecc.) per avere un maggior approfondimento delle stesse materie. Il DIRITTO ECCLESIASTICO studia il settore dell’ordinamento giuridico dello Stato che è volto alla disciplina del fenomeno religioso. Ma, quando parliamo di fenomeno religioso non intendiamo solo quello della Chiesa Cattolica, ma di tutte le confessioni religiose e tutti gli individui (in quanto credenti o non credenti). Il diritto ecclesiastico non è costituito solo dalle norme prodotte direttamente dal legislatore statale, ma molto spesso capita che si debbano applicare norme prodotte direttamente da ordinamenti confessionali. Se consideriamo l’ambito degli studi giuridici del diritto ecclesiastico, si nota come esso appartenga all’area del diritto pubblico: infatti, oggetto di studio di tale disciplina sono soprattutto le norme costituzionali e le norme che regolano l’attività della pubblica amministrazione. Ciò non toglie che il diritto ecclesiastico presenti legami anche con il diritto civile (matrimonio religioso, rapporti successori, ecc.), con il diritto internazionale (posizione della Santa Sede, la natura dei trattati e dei concordati da questa stipulati, gli atti internazionali che proteggono la libertà religiosa). Lo studio del diritto ecclesiastico concerne tutto il diritto efficace ed applicabile nell’ordinamento statale per la disciplina del fenomeno religioso. Le norme del diritto ecclesiastico pongono in rilievo la posizione soggettiva del singolo individuo, credente o non, nei confronti sia dello Stato sia delle confessioni religiose, quale posizione di libertà, ed ha perciò qualificato la disciplina come analisi di una legislatio libertatis. Ma se tale qualifica trova un riscontro positivo nelle norme della nostra Costituzione, tuttavia, non è esaustiva, poiché parte delle norme mal si presta a rientrare nello schema della garanzia della libertà individuale. Il diritto ecclesiastico non si presenta solo come studio di una legislatio libertatis, ma come analisi di un settore dell’ordinamento statale in cui, accanto alla garanzia della libertà individuale, vi è la considerazione delle vicende organizzative alle quali dà origine il fattore religioso. 2. LE FONTI DI COGNIZIONE DEL DIRITTO ECCLESIASTICO Le fonti di cognizione del diritto ecclesiastico civile si trovano in disposizioni legislative dello Stato, e sono di vario livello. 1) Nella Costituzione repubblicana vi sono numerose disposizioni nelle quali il fattore religioso è espressamente menzionato: art. 3,7,8,19 e 20. Altre disposizioni, in modo diretto e indiretto, possono valere a disciplinare i rapporti di religione, come l’art.2 e le norme degli art.13-18 e 21-25 che garantiscono le libertà civili. 2) Vi sono poi le norme di natura concordataria che sono garantite dall’art.7 cpv e 8, 3 co. Cost. Si tratta dei Patti lateranensi del 1929, stipulati fra Stato e Chiesa, consistenti in un Trattato per la soluzione della “questione romana”, con la creazione dello Stato Città del Vaticano e altre garanzie, cui è allegata una Convenzione finanziaria, e in un Concordato, volto a disciplinare il trattamento della Chiesa cattolica in Italia. È rimasto in vigore solamente il Trattato, in quanto il Concordato è stato abrogato dall’Accordo di revisione del 1984 che ha sostituito il Concordato del 1929. Sono garantite dall’art.8, 3°co, Cost, le leggi approvate in base alle intese con le confessioni religiose minoritarie. Attualmente, sono in vigore: la legge che riproduce l’Intesa fra lo Stato e le Chiese rappresentate dalla Tavola valdese; le leggi riguardanti le Intese con l’Unione italiana delle Chiese avventiste del settimo giorno e con le Assemblee di Dio; la legge sull’Intesa con le Comunità ebraiche; la legge sull’Intesa con l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia e la legge sull’Intesa con la Chiesa evangelica luterana d’Italia. Altre leggi di derivazione concordataria sono la n.121/1985 che dà esecuzione all’Accordo del ’84; la l. n. 206 /1985 riguardante gli enti ecclesiastici e il sostentamento del clero, entrambe queste leggi, che autorizzano la ratifica e danno esecuzione agli accordi con la Santa Sede, non sono garantite dall’art.7 cpv Cost., bensì dall’art.10 Cost.; e la l. n.222/1985 che riproduce i contenuti dell’ Accordo dell’84. 3) Le leggi dello stato unilaterali: nel nostro ordinamento vi sono leggi che dettano norme formalmente attribuite alla volontà unilaterale dello Stato come quella riguardante il matrimonio e quelle riguardante gli enti. Sono di unilaterale derivazione statale le norme sulle confessioni religiose, diverse da quelle che hanno stipulato le Intese con lo Stato, e le norme sulla previdenza sociale dei ministri di culto. 4) Le altre norme statali o regionali: a disciplinare il fenomeno religioso, ulteriori disposizioni si trovano sparse in testi legislativi coinvolgenti vari interessi. Si tratta delle norme contenute nei vari codici o in leggi speciali, o le disposizioni di leggi regionali. 3. LE FONTI DI PRODUZIONE DEL DIRITTO ECCLES. I rapporti fra la Repubblica e le confessioni religiose sono riservati alla potestà legislativa dello Stato (art.117 Cost), le fonti di produzione del diritto ecclesiastico, ossia i procedimenti dai quali sono poste legittimamente le norme che trovano collocazione nella disciplina, sono di vario livello. 1) NORME APPLICATIVE DEL CONCORDATO LATERANENSE: vi è un settore nel quale la fonte normativa può essere alternativamente sia la legge ordinaria che quella costituzionale. Si tratta delle norme protette dall’art.7 cpv e dall’art. 8, 3°co. Cost. Tali norme possono essere modificate da una legge ordinaria se questa dia esecuzione a un nuovo accordo; se, invece, il legislatore intende modificarle per propria autonoma deliberazione, la legge ordinaria è insufficiente e si necessita della legge costituzionale. Il meccanismo indotto da queste norme della Costituzione è quello di consentire una “decostituzionalizzazione” delle norme garantite. Quando vi sia un accordo fra Stato e Chiesa cattolica, diretto a modificare le norme concordate, per l’esecuzione o l’approvazione, basta una legge ordinaria che modifica validamente le norme garantite, senza la necessità di una legge costituzionale. Nel settore che non è garantito dagli art.7 cpv e 8, 3°co, è la legge ordinaria la fonte principale di diritto ecclesiastico. • SINGOLARE RAPPORTO TRA LE DUE L. N. 206 e N.222 del 1985 In occasione della modificazione del Concordato del ’29, la modificazione più rilevante investì la disciplina degli enti ecclesiastici, qui il legislatore ha agito in maniera confusa. È avvenuto che l’art.75 delle norme sugli enti, concordate dalla Commissione paritetica, prevedesse l’entrata in vigore delle norme con la contestuale pubblicazione di esse nella Gazzetta Ufficiale e negli Acta Apostolicae Sedis. Questa norma è passata nella legge 222/1985 che è una legge ordinaria e unilaterale dello Stato, sicché è avvenuto che per l’entrata in vigore di una legge fosse prevista non solo la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, ma anche sugli atti ufficiali di un altro ordinamento. Tali pubblicazioni sono avvenute, la legge è entrata in vigore, ma sarebbero sorti problemi se la Santa Sede avesse negato tale pubblicazione nei suoi atti ufficiali. Nel diritto statuale, due disegni di legge n.2336 e 2337 riguardanti l’autorizzazione alla ratifica e la prevista esecuzione del Protocollo del 1984, con cui le parti avevano approvato le norme concordate dalla commissione paritetica, e l’adozione di queste con legge statuale. Erano state previste per il tentativo di separare in due momenti logici distinti l’autorizzazione alla ratifica del protocollo e l’esecuzione nell’ordinamento italiano delle norme; ma questo tentativo non riuscì. Nel corso dell’iter parlamentare del d.d.l n.2336 sono state allegate al progettato provvedimento le norme adottate dalla commissione paritetica. Le stesse sono in vigore in base alla legge n.206/1985 che autorizza la ratifica del protocollo che le ha approvate, e la l. n.222 che, in modo indipendente, detta norme identiche. I due testi differiscono solo per il fatto che la l.n.222 ha recepito nelle proprie formule le poche modificazioni che si introdussero nelle disposizioni proposte dalla commissione paritetica, laddove tali disposizioni devono essere coordinate con le note di modificazione allegate al protocollo. Le norme espresse dalle due leggi sono identiche e nella gerarchia delle fonti di diritto, si trovano dopo le “leggi quadro”, le “leggi fotografia”, le “fonti atipiche” e le “fonti pseudo-atipiche” nella categoria delle “leggi fotocopie”. La duplicazione di fonti non è esclusa dall’art.2 della l.206/1985 che, anziché recitare la formula “piena e intera esecuzione è data”, afferma che “piena e intera esecuzione sarà data”, alludendo alla necessità dell’emanazione di un’ulteriore legge di esecuzione. Tale necessità era insussistente, perché lo prevedeva lo stesso art.2 che il protocollo avrebbe avuto esecuzione attraverso una legge pubblicata nella Gazzetta Ufficiale e lo scambio delle ratifiche. La l. n. 206/1985 è stata pubblicata sulla GU e le ratifiche sono state scambiate. Anche se il legislatore ordinario modificasse, derogasse o abrogasse la legge n. 222/1985, le norme concordate rimarrebbero in vigore in forza della legge 206/1985, finchè non fosse data esecuzione ad un nuovo accordo con la Santa Sede per la modifica, la deroga o l'abrogazione delle norme approvate dal protocollo del 1984. Nell’ ordinamento canonico, le norme concordate con il protocollo sono state rese esecutive inglobandole in un decreto emanato dal Segretario di Stato e pubblicato negli Acta Apostolicae Sedis. 4. CENNI SUL METODO NELLO STUDIO DEL DIRITTO Per lo studio del diritto ecclesiastico si possono intraprendere due diverse teorie: A) la prima ha imboccato la via del diritto positivo, del ius conditum, cercando di confrontare le vecchie norme con la Costituzione per vedere quali di esse potevano convivere con le nuove norme fondamentali e quali invece sarebbero risultate incostituzionali; B) la seconda teoria ha confuso lo ius conditum con lo ius condendum, ritenendo che una riforma della legislazione del 1929-1930 fosse praticabile al di fuori delle previsioni degli art.7 cpv. e 8, 3° comma Cost. Questa via è stata intrapresa sia da coloro che non apprezzano i concordati sia da coloro che, credendo nella purezza della fede, ritengono che la Chiesa non debba essere legata da patti di indubbia rilevanza politica con lo Stato. CAPITOLO 2: LA RELIGIONE E L’ORGANIZZAZIONE DEL POTERE CIVILE 1. L'UNIONE DEL SACRO CON IL POLITICO Religio, nella lingua italiana, aveva significati polivalenti, perché indicava sia il culto del divino sia la superstizione, ma ha avuto una grande importanza, rispettivamente, presso le società progredite e le società primitive. Nella Roma arcaica non vi era distinzione tra istituzioni politiche e organizzazioni religiose. Anche quando, con la repubblica romana, il governo civile venne a distinguersi dal sacerdozio, la funzione svolta dal collegio pontificale (per lo stretto legame esistente fra politica e religione) continuò ad essere funzione pubblica, adempiuta da un organo dello Stato; organo pubblico al pari dei consoli, del senato, dei comizi e delle magistrature. Il jus sacrum era un ramo del jus publicum, ossia del diritto che disciplinava il governo dello Stato. Solo con la Lex Duodecim tabularunt tutti i romani poterono conoscere le leggi civili da cui erano retti, perché sino a quel momento tali norme, di carattere consuetudinario, erano note solo ai sacerdoti. Con l’avvento dell’Impero, le funzioni di pontefice massimo furono assunte dal capo dello Stato, che, in quanto incarnazione vivente della perennità e sacertà dell’ordinamento imperiale, diventò divus, divinità oggetto di culto, un culto dovuto dai sudditi. Da ciò l’avversione dell’autorità imperiale nei confronti dei cristiani, perseguitati non per ragioni ideologiche, ma per ragioni d’ordine pubblico e politico, perché essi, disconoscendo la divinità dell’imperatore e rifiutando di partecipare al culto che gli era dovuto, si rendevano rei di lesa maestà. 2. I RAPPORTI FRA STATO E CONFESSIONI RELIGIOSE: A) IL CESARO-PAPISMO L’unione del potere politico col potere religioso esistente nell’organizzazione dell’impero romano non venne meno col riconoscimento del cristianesimo come religio licita, in forza degli editti di Milano e di Nicomedia emessi da Costantino e Licinio. Gli imperatori romani una volta fattisi cristiani, diventarono moderatori della nuova religione. Era l’imperatore che convocava i Concili, che rendeva esecutivi i decreti e i dogmi di fede. Tale sistema di rapporti fra Stato e religione, fra Stato e organizzazione ecclesiastica, fu definito col termine di cesaro-papismo, il quale scolpisce la situazione di un’autorità suprema insieme temporale e spirituale, l’unione del potere civile ed ecclesiastico. Il cesaro-papismo cessò con la fine dell’Impero romano di occidente, ma persistette nell’Impero di Bisanzio sino al suo crollo. Questo sistema fu adottato anche dagli zar nell’impero russo sino alla fine della monarchia zarista. Il Corpus juris civilis è il Codex giustinianeo che riporta le norme imperiali che sancivano il dogma della Trinità come legge che tutti i cristiani dovevano abbracciare. 3. B) IL GIURISDIZIONALISMO Il cesaro-papismo era cessato nell’Impero romano d’occidente per il venir meno dell’autorità politica centrale che potesse arrogarsi il potere supremo su tutta la Chiesa. Ma era venuta crescendo l’autorità del Vescovo di Roma che non mancò di rivendicare una potestà anche d’ordine temporale. I conflitti tra Papato e Impero dell’alto medioevo erano di ordine politico e non ideologico. Una volta rotto, con la caduta dell’Impero romano, l’unità del potere civile con il potere ecclesiastico, si era fatta strada la dottrina evangelica della distinzione tra i due poteri. Le lotte tra Papato e Impero cessarono con l’indebolirsi del potere temporale del Papa e il frantumarsi del sogno di un rinnovato impero romano-cristiano. Il sorgere di grandi compagini nazionali o di piccoli stati organizzati sotto il potere di un principe, se non gli attribuiva la forza per definire dogmi o convocare Concili, gli attribuiva la suprema potestà sul territorio. Per organizzare lo Stato, il principe dominava su qualsiasi altra potestà o ceto esistente sul territorio, anche se preesistenti al potere regio e se già titolari d’immunità o privilegi, in modo da ridurre la società civile sotto la propria signoria. Era l’alba dello Stato moderno. L’organizzazione della Chiesa non poteva sfuggire al potere regio. Il re, forte del principio di legittimità, si impegnava per l’unificazione di ogni potere sotto la propria giurisdizione. Il movimento di idee e le lotte politiche si manifestarono come contrasto fra la potestà civile e quella ecclesiastica e attraverso grandi eventi, come il grande scisma d’occidente, il manifestarsi delle eresie, la riforma protestante e le guerre di religione. Le controversie dottrinali, che miravano a sostenere il potere civile, trovarono sistemazione nelle tesi sostenute da Macchiavelli sullo Stato assoluto, territorialista e giurisdizionalista. Le guerre di religione furono concluse con la pace di Augusta (1555) che riconobbe solo ai principi la libertà di aderire o non alla religione riformata e attribuì loro il jus reformandi, ossia il potere di imporre la religione da essi professata a quei sudditi che non avessero preferito emigrare in un altro paese. Solo con la pace di Westfalia, un secolo dopo, si ebbe riguardo per le minoranze religiose, attribuendo uguali diritti a cattolici, luterani e calvinisti. • SISTEMI DI SUBORDINAZIONE DELLA CHIESA ALLO STATO Nel periodo intercorso fra la pace di Augusta e quella di Westfalia si consolidarono i sistemi nei quali la Chiesa era subordinata allo Stato, al potere civile, impersonato dal monarca assoluto. Tali sistemi hanno assunto varie denominazioni: -“territorialismo” in Germania, dove, con la trasformazione del regno in un nominale stato federale e la sua frantumazione in principati grandi e piccoli, i principi di ciascuno di essi esercitavano tutti i poteri pubblici, compresi quelli sulla locale Chiesa riformata, onde i beni di essa appartenevano al principe e i funzionari della stessa erano inquadrati nell’organizzazione statale; -“gallicanesimo” in Francia, dove si sosteneva che i poteri del Papa riguardavano solo le materie spirituali, mentre spettavano al re tutti i poteri in materia temporale; - “giuseppinismo” o “febbronianesimo” in Austria; -“leopoldismo”, dal granduca Leopoldo I, in Toscana; -“tanuccismo”,dal ministro Tanucci, nel regno di Napoli; -“diritto ecclesiastico siculo” in Sicilia. In Italia tali sistemi sono stati indicati con l’espressione di giurisdizionalismo, che indica il prevalere della “giurisdizione” statale su quella ecclesiastica. 5. D) IL SEPARATISMO L’idea separatista è stata proposta per realizzare l’indipendenza della Chiesa, tutelandone gli interessi anche contro quelli dello Stato. Lo Stato quando non si conformava alla legge divina, era opera malefica; la Chiesa poteva dipendere solo da Cristo, onde ogni dominazione dello Stato sulla Chiesa era dominazione dell’Anticristo. Ma la realtà ha deluso tali aspirazioni. Quando Cromwell conquistò il potere, si guardò bene dall’attuare il separatismo; concesse libertà ai dissidenti ma mantenne la chiesa ufficiale. Quando i congregazionalisti di origine inglese fondarono la prima colonia puritana non fu per nulla separatista, ma teocratica, essendo la Bibbia la sua legge fondamentale ed essendo governata da congregazioni di coloni che deliberavano insieme su affari civili ed ecclesiastici. Il separatismo come mezzo di affrancazione della Chiesa, nell’800, è stato sostenuto in Europa dal protestantesimo liberale tedesco e svizzero, e dal cattolicesimo liberale svizzero e francese. Tratto comune fra il protestantesimo tedesco e quello francofono è che la religione, il rapporto tra uomo e Dio, è un fatto personale. Non avrebbe dovuto esistere alcuna Chiesa di Stato. Il cattolicesimo liberale francese prese avvio dopo la rivoluzione del 1830. Lamennais sosteneva la libertà di coscienza, di stampa, di associazione e di insegnamento, nonché la separazione fra Stato e Chiesa. Questa avrebbe potuto svolgere così la sua missione benefica per la società. Ma tali tesi furono condannate da Gregorio XVI e Lamennais divenne apostata. • SEPARATISMO E PREVALENZA DELLO STATO Altro fine del separatismo è quello motivato dalla volontà di far prevalere l’autorità dello Stato, si tratta di una corrente anti-ecclesiastica. Ruggero Williams vedeva nello Stato un ente laico che si doveva astenere dall’ingerirsi in materia di religione, per rispetto di questa. La Chiesa era una corporazione privata che non aveva niente in comune con lo Stato. Era una tesi che tendeva a ridurre la Chiesa al rango di associazione privata per rinvigorirne lo spirito religioso. La rivoluzione francese introdusse il separatismo dopo che, sfumato l’anelito religioso dei membri dell’assemblea costituente, non accettata dalla Chiesa cattolica la c.d. Costituzione civile del clero e falliti gli sforzi di creare una nuova religione, i termidoriani non ebbero altra soluzione. Fu una separazione fondata sul presupposto che la religione fosse morta, uccisa dalla filosofia; era una separazione anti-ecclesiastica o antireligiosa. La legge di separazione del 1905 non si limitava a dichiarare il disinteresse dello Stato nei confronti del fenomeno religioso, ma pretendeva di disciplinare gli ordinamenti interni delle confessioni religiose, obbligandole a organizzarsi sulla base di associazioni culturali. Era una legge che disconosceva le preesistenti strutture confessionali. • IL SEPARATISMO IN USA La separazione negli USA era quello fondato sulla libertà religiosa. Questa era stata proclamata dalla Dichiarazione della Virginia, con un principio riprodotto nel Primo emendamento, il quale vieta al Congresso di approvare leggi che interdicano una confessione religiosa o che prevedano lo stabilimento di una determinata confessione. Ciò non ha impedito agli USA di distinguere tra Chiesa e Chiesa e di accreditare un proprio ambasciatore presso la Santa Sede. • IL SEPARATISMO NELL' EST EUROPEO Il separatismo nell’U.R.S.S vedeva la Chiesa separata dallo Stato, ma questo principio doveva essere inquadrato in un ordinamento nel quale le libertà individuali, e perciò anche la libertà religiosa, erano concepite nella visione marxista-leninista in funzione del fine che la società civile doveva raggiungere, e tale fine era determinato dal partito. Veniva garantita la libertà di coscienza, il diritto di professare qualsiasi religione o di non professarne alcuna, e il diritto di praticare il culto, ma riconosceva solo il diritto di svolgere propaganda ateistica e non religiosa. La separazione tra Stato e Chiesa è una separazione di tipo anti-ecclesiastico, in quanto importava una compressione della posizioni giuridiche dei singoli e delle confessioni religiose. • IL SEPARATISMO IN ITALIA Il separatismo in Italia non è stato il frutto di autoctone teorizzazioni dei rapporti fra Stato e Chiesa, ma un mezzo politico per risolvere la c.d. questione romana nel quadro dell’unità d’Italia. Ma in Italia il separatismo ha avuto modesta applicazione. Negli anni di contrasto con la Chiesa, le leggi eversive rientravano nel solco della tradizione giurisdizionalista, della tradizione dello Stato che si ritiene competente a giudicare quali enti ecclesiastici siano utili alla società e quali non, o che si ritiene signore dei beni di tali enti. La legge sulle guarentigie pontificie assicurò la libertà di discussione in materia religiosa e la libertà di riunione dei membri del clero si ispirò alle idee separatiste con l’abolizione dei vecchi istituti giurisdizionalisti, ma altri li mantenne in vita e non poté esimersi dal disciplinare la situazione della Santa Sede. Sino ai Patti Lateranensi del 1929, il sistema dei rapporti fra Stato e Chiesa in Italia non era qualificabile come separatismo bensì come giurisdizionalismo liberale. Agli inizi del secolo, il rapporto fra libertà religiosa e uguaglianza di trattamento delle confessioni religiose formò oggetto di una controversia tra Ruffini e Scaduto. Il PRIMO sosteneva che l’instaurazione di un regime giuridico uguale per tutte le confessioni, date le differenze esistenti tra di esse, non attuava una vera uguaglianza, la quale sarebbe consistita nel dare a ciascuno il suo; il sistema separatista non avrebbe avuto effetto favorevole sulla libertà religiosa. Il SECONDO sosteneva che, solo in regime separatista era possibile trattare in modo uguale tutte le confessioni e assicurare una libertà religiosa. Nel 1944, Jemolo riproponeva all’attenzione dell’opinione pubblica il separatismo, come sistema per assicurare la libertà religiosa e l’uguaglianza delle confessioni religiose. Ma tale tesi non ha influito sulla formazione dell’attuale Costituzione. • IL SEPARATISMO AUSPICATO IN ITALIA: - DALLA SINISTRA LAICA Dopo l’entrata in vigore della Costituzione, il confessionismo di fatto dello Stato, nel primo decennio della Repubblica, ha dato luogo alla riproposizione del separatismo in funzione anti-ecclesiastica, da parte degli intellettuali della sinistra laica. • - DAI CATTOLICI DEL DISSENSO Il separatismo, sempre in funzione anti-ecclesiastica, è stato sostenuto a decorrere dalla seconda metà degli anni ’60 da vari gruppi, cattolici e laici. Il Concilio Vaticano II, conclusosi nel 1965, ha fatto sorgere speranze di rinnovamento e fermenti di crescita religiosa. Ma l’inizio dell’ attuazione delle deliberazioni conciliari è coinciso col sorgere di un movimento generale di protesta contro le autorità e le istituzioni. Tale movimento toccò la Chiesa cattolica, dando luogo allo sviluppo di associazioni spontanee di laici in polemica e contrasto con le autorità ecclesiastiche. L’idea del separatismo è coltivata come mezzo per purificare la Chiesa. Una Chiesa non privilegiata, povera, non condizionata da accordi politici. La Santa Sede, che è parte del Concordato, è estranea alla Chiesa locale. Queste tesi si avvicinano a quelle di Lamennais. Eterodosse, dal punto di vista canonistico, e utopistiche da quello politico. • - DALLA DOTTRINA Il separatismo sostenuto da scrittori laici ha fondamento nell’idea che una legge uguale per tutte le confessioni religiose agevolerebbe la libertà dei singoli; la legge dovrebbe dar vita a un diritto comune delle confessioni religiose, dovrebbe deconfessionalizzare tale disciplina, entro la quale potrebbero operare tutte le aggregazioni sociali con fine religioso. Anche questa tesi è in funzione anti-ecclesiastica, sia perché il diritto comune dovrebbe essere introdotto unilateralmente dallo Stato, sia perché tale diritto potrebbe essere in contrasto con l’organizzazione delle varie confessioni religiose. Chi, criticando il separatismo di tipo ottocentesco, implicante l’indifferenza dello Stato nei confronti del fatto religioso, propone una forma ammodernata di separazione fra lo Stato e le confessioni religiose, nella quale il primo si dia carico degli speciali caratteri oggettivi sia del fatto religioso sia del fatto irreligioso, per la realizzazione personale del cittadino. Questo deve essere messo in condizione di formare i propri personali convincimenti di doverosità religiosa o laica. A loro volta, le confessioni religiose devono essere poste in condizione di realizzare il libero e completo adempimento del proprio compito, nel rispetto del principio di uguaglianza, inteso in ogni “tipo di rapporto” e in ogni “categoria di fattispecie”, di doverosità religiosa o laica. La meta del separatismo è la costruzione dello Stato di diritto che consista nell’organizzazione della libertà, che lasci liberi i propri cittadini di orientarsi senza vincoli giuridici in materia di religione, filosofia, scienza e politica. Ma lo Stato, secondo l’idea liberale, non può ignorare l’esistenza sul proprio territorio di istituzioni, quali le confessioni religiose. Nei confronti di queste, lo Stato liberale, data la sua incompetenza in materia di fede, deve operare una separazione dei propri poteri da quelli di essa. Una separazione in senso giuridico, attuata per lasciar liberi gli individui di accettare le dottrine morali e religiose. Il mezzo per la sua realizzazione è la legge dello Stato, laddove i Concordati avrebbero un contenuto privilegiario e, perciò, sarebbero atti in contrasto con il principio di uguaglianza. • CONSIDERAZIONI CRITICHE Nel separatismo bisogna distinguere il principio della separazione dei poteri, civile ed ecclesiastico da quell’aspetto dell’ideologia del separatismo secondo il quale ogni accordo dello Stato con le confessioni religiose avrebbe carattere privilegiario. Questo perché la disciplina privilegiaria a favore di una confessione può essere introdotta non solo da una legge che esegua un accordo, ma anche da una legge unilateralmente prodotta dal legislatore statuale. Quindi, il contenuto privilegiario non dipende né dal sistema separatista né dal sistema concordatario: può trovarsi tanto in uno che nell’altro. Dunque, aveva ragione Ruffini quando affermava che “il separatismo è una dottrina per origine storica, forse per necessità di cose, irriducibilmente e puramente utopistica”. 6. E) LA COORDINAZIONE E I CONCORDATI Un ulteriore sistema è quello della coordinazione fra tali entità. Tale sistema è quello indicato nella vigente Costituzione italiana per disciplinare i rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose. Il sistema prende corpo nei concordati stipulati dalla Santa Sede con gli Stati, uno strumento negoziale destinato a disciplinare le materie di comune interesse. Un accordo, talora a carattere transattivo, col quale le parti si obbligano, rispetto a tali materie, di tenere un dato comportamento nell’ambito della sovranità territoriale dello Stato stipulante. Il concordato ecclesiastico è un istituto che è convissuto col sistema giurisdizionalista, che è valso ad introdurre istituti giurisdizionalisti o a legittimare nei confronti della Santa Sede quelli introdotti unilateralmente dallo Stato. Il sistema di coordinazione è un sistema neutro, nel senso che è il contenuto dell’accordo, di volta in volta stipulato, a consentire una valutazione effettiva della posizione reciproca dello Stato e della Chiesa in un paese. • ABROGAZIONE DEL PRINCIPIO CONFESSIONISTA DA PARTE DELLA COST. Questa tesi sembra non tener conto del fatto che, se veramente l’art.7 Cost. avesse confermato il principio dell’art.1 del Trattato del Laterano, conferendo ad esso un valore pari a quello delle norme costituzionali, vi sarebbe stata una palese e insanabile contraddizione tra tal principio e le disposizioni degli art.3, 8 e 19 Cost., le quali assicurano un’incondizionata libertà ed uguaglianza ai singoli ed ai gruppi sociali in materia religiosa. Di contro, l’art.1 del Trattato del Laterano mirava a ridar vigore all’art.1 dello Statuto Albertino, il quale delineava uno Stato confessionista, che riconosceva come la sola religione e liberamente professabile quella cattolica, mentre le altre erano meramente tollerate. Dunque l’art.1 del Trattato voleva ridare vigore alla norma statutaria e vi riuscì dopo il 1929, quando solo la Chiesa cattolica e i cattolici godettero dell’esercizio della libertà religiosa, mentre le altre confessioni e gli acattolici, che nel periodo liberale godevano di detta libertà, regredirono da questa posizione ad un regime di tolleranza dispotica che limitava l’esercizio del culto ed escludeva la propaganda e il proselitismo. Se la Costituzione avesse inteso confermare tale significato normativo si sarebbe posta in contraddizione con le altre sue disposizioni. Inoltre, la norma derivante dall’art.1 del Trattato era in contrasto con l’art.7 della Carta dove si afferma che lo Stato è incompetente in materia religiosa. • ABROGAZIONE DEL PRINCIPIO CONFESSIONISTA SECONDO L'ACCORDO '84 La tesi che il principio confessionista è stato abrogato dalla Cost. trova conferma nel n.1 del Protocollo addizionale all’Accordo del 1984, nel quale le parti hanno convenuto di non considerare “più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”. La qualifica della Repubblica emergente dalla Costituzione formale, dagli art. 2, 3,7,8,19 e 20 è quella di uno Stato liberale e pluralista, che riconosce la libertà religiosa degli individui e dei gruppi sociali, che non differenzia lo status dei cittadini secondo la religione professata o non, che si riserva di intrattenere rapporti paritari con le confessioni religiose organizzate; e che assicura a tali ordinamenti una pari misura di libertà, anche se potranno essere previsti trattamenti differenziati. La Corte Costituzionale ha ritenuto che dalle norme degli art.2, 3, 19, 7, 8 e 20 Cost., le quali qualificano la Repubblica come liberale e pluralista, sarebbe desumibile “il principio supremo della laicità dello Stato italiano”. Tale principio implica non indifferenza dello Stato innanzi alla religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”. Ma sembra che il principio supremo non sia quello della “laicità”, bensì quello di “libertà e pluralismo”. La qualifica di “laico” risulta incongrua per uno Stato che assume nei confronti del fenomeno sociale religioso un interessamento. Dire che lo Stato è “laico” nel senso liberale è una forzatura, perché lo Stato è laico quando professa indifferenza nei confronti del fenomeno religioso. Se non è indifferente sarà liberale e pluralista, ma non laico. Non è corretto usare il termine per qualificare la Repubblica, così come sarebbe arbitraria qualificarla come “cattolica”. 8. LA POLITICA LEGISLATIVA ITALIANA DAL 1848 AL 1922 La politica ecclesiastica “italiana” inizia a decorrere dal 1848 e prese avvio in Piemonte, per estendersi nelle varie regioni. L’art.1 dello Statuto Albertino dichiarava “la religione cattolica la sola religione dello stato” e le altre confessioni esistenti tollerate “conformemente alle leggi”. Ma questa professione di confessionismo della corte fu ridimensionata dal Parlamento subalpino con l’approvazione della l.735/1848 che dichiarò che la differenza di religione non poteva dar luogo a discriminazioni nel godimento dei diritti civili e politici nell’ammissibilità alle cariche civili e militari. Il confessionismo statutario doveva essere contraddetto dall’andamento delle trattative con la Santa Sede per la revisione dei concordati stipulati con i Savoia e dalla lotta nei confronti di quelle organizzazioni ecclesiastiche le quali ostacolavano la politica delle forze dominanti. • LE LEGGI SICCARDI Gli anni 1848/1849 non erano i migliori per trattare con la Santa Sede una riforma dei vecchi concordati piemontesi. Fallite le trattative, il Parlamento approvò le leggi Siccardi riguardanti l’abolizione di ciò che rimaneva del privilegio del foro ecclesiastico e l’autorizzazione agli acquisti degli enti. In precedenza fu soppressa la Compagnia di Gesù, vietando “ogni sua adunanza in qualunque numero di persone” e la Corporazione delle Dame del sacro Cuore di Gesù, un provvedimento giurisdizionalista e per nulla liberale, giacchè non solo negava personalità giuridica delle congregazioni dei gesuiti, ma escludeva il diritto di associazione e il diritto di riunione degli stessi; diritti che sarebbero stati riconosciuti nuovamente con la Legge delle Guarentigie. La Destra storica, sebbene ispirata a idee liberali, nella sua azione politica non si sottraeva dall’usare gli strumenti del giurisdizionalismo al fine di raggiungere i propri scopi, ma di fronte al problema “Roma capitale” accettava di impostare i rapporti fra Stato e Chiesa in chiave separatista, secondo il programma proposto da Cavour nel 1861. Tale prassi giurisdizionalista proseguì varando la l.878/1855 la quale, distinguendo fra enti ecclesiastici utili e non, soppresse le associazioni religiose di vita contemplativa, i benefici semplici. Di impronta giurisdizionalista anche il d.lgt. 3036/1866 che soppresse tutte le associazioni religiose, incamerandone il patrimonio e convertì in rendita pubblica al 5% i beni di tutti gli enti ecclesiastici, eccettuati i benefici parrocchiali e le chiese recettizie. La l.3848/1867 soppresse categorie di enti ecclesiastici secolari, devolvendone allo Stato i beni, e provvide per la liquidazione dei beni acquisiti con tale legge e con le precedenti. • LA QUESTIONE ROMANA E LA LEGGE DELLE GUARENTIGIE Ma la debellatio dello Stato pontificio e la presenza in Roma della Santa Sede avevano posto il problema della situazione giuridica della stessa e del Papa che, nell’impossibilità di un’intesa, fu risolto con la legge delle Guarentigie n.214/1871. Questa era divisa in due titoli: il primo dedicato alle prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede, il secondo disciplinava le relazioni fra Stato e Chiesa. Tale legge è frutto di una commistione fra principi giurisdizionalisti e separatisti. Lo Stato rinunziava all’esercizio di alcuni poteri di controllo sulla Chiesa, ma si riteneva competente ad esercitare i poteri che erano stati mantenuti e a dettare in modo unilaterale le norme attinenti alle garanzie offerte alla Santa Sede e al Papa. Caduta la Destra storica nel 1876, non cambiò l’indirizzo liberal-giurisdizionalista della politica ecclesiastica. Sono di quegli anni la riorganizzazione degli Economati generali dei benefici vacanti, tipica istituzione giurisdizionalista; la legge che secolarizzò il giuramento dei testimoni, il codice penale del 1889 che, tutelando le libertà religiosa, previde una protezione uguale per tutte le confessioni, tipici provvedimenti liberali e separatisti. Sono a carattere giurisdizionalista la legge sulle istituzioni pubbliche di beneficenza, che concentrò presso un organo pubblico tutte le istituzioni elemosiniere e trasformò in tali istituzioni vari enti ed istituti ecclesiastici; la legge che incamerò i beni delle confraternite romane a favore degli istituti di beneficenza. Questi sono provvedimenti non accettabili da parte della Chiesa. Nel 1878, con la morte di Pio IX, si pensò che qualche intesa con Leone XIII potesse essere raggiunta, ma la sua posizione ebbe risonanza nei confronti del problema sociale. La Camera dei deputati era eletta a suffragio limitato, sicché rappresentava le idee e gli interessi di una sfera sociale limitata. I cattolici non potevano partecipare alle competizioni elettorali politiche, perché la Sacra Penitenziaria, nel 1874, aveva dichiarato non essere opportuna tale partecipazione (il non expedit). Tale presa di posizione pontificia, che mirava a indebolire le istituzioni, fu confermata fino al 1904, ma durò formalmente fino al 1919. Essendo stati i cattolici incoraggiati a partecipare al potere legislativo per ragioni gravissime, nell’interesse del supremo bene sociale, dall’enciclica di Pio X nel 1905, il “non expedit” si attenuò; così, nel 1913, ebbe luogo un’intesa elettorale fra Giolitti e il conte Gentiloni, presidente dell’ Unione cattolica italiana, l’intesa c.d. “Patto Gentiloni”, che diede luogo all’alleanza delle organizzazioni cattoliche con esponenti dei liberali conservatori. Nella Grande Guerra si vide la partecipazione di cattolici, questi non si erano rifiutati. Finita la guerra, i partiti di massa irruppero sulla scena politica, così il “non expedit” fu abolito. La fine della guerra e l’inizio a Parigi delle trattative per la pace diedero occasione ai presidenti del Consiglio di avere contatti con rappresentanti della Santa Sede in vista di una soluzione amichevole della “questione romana”. Ma decisioni importanti fu impossibile prenderle, nel 1922 il partito fascista riprenderà la politica legislativa in materia ecclesiastica. 9. DAL 1922 AL 1947 Il movimento fascista non aveva inizialmente una propria ideologia politica. Presentandosi alle elezioni del 1919, i fasci esposero un programma che mutava varie idee delle sinistra italiana e, fra queste, la tesi che occorresse di nuovo devolvere allo Stato i beni ecclesiastici. Un programma anticlericale. Ma i fascisti non mandarono nessun deputato al Parlamento in quell’anno. Quando, nel 1921, Mussolini ottenne il mandato parlamentare, nel suo primo discorso alla camera, il programma di politica ecclesiastica era cambiato. Egli, trattando della politica estera, sottolineò l’importanza del Papato e l’opportunità di buoni rapporti con esso, al fine di accrescere l’influenza dell’Italia nel mondo. Il partito fascista aveva fatto propria l’ideologia secondo cui la religione cattolica fosse un mezzo utile per incrementare l’unità spirituale della nazione. Era una concezione di assorbimento del religioso nel civile, di prevalenza dello Stato sulla Chiesa, dell’utilizzazione della religione come instrumentum regnii da parte delle forze politiche dominanti. La legge sulla stampa reintroduceva il delitto di vilipendio della religione dello Stato; disciplinando i programmi didattici dell’istruzione elementare. Un’ulteriore legge prevedeva che la dottrina cristiana fosse fondamento e coronamento di quella istruzione in ogni suo grado; nel 1925, il governo insediava una commissione mista per la revisione della legislazione ecclesiastica, alla quale partecipavano a titolo personale ecclesiastici. Nel 1926, la Chiesa dichiarò che questi lavori non la impegnavano, così il governo accantonò ogni proposito di nuove leggi, anche se nel frattempo il partito fascista diveniva l’unico. Fu in tale clima che, nel 1926, iniziarono le trattative per la stipulazione dei Patti Lateranensi, stipulati nel 1929. Gli accordi non riguardavano solo la soluzione della “questione romana”, alla quale è dedicato il Trattato, ma anche le condizioni della religione e della Chiesa in Italia, alle quali è dedicato il Concordato. La Santa Sede riconosceva lo Stato italiano e si impegnava a condonare le sanzioni canoniche a tutti coloro che erano venuti in possesso di beni ecclesiastici per effetto delle leggi eversive. Il Concordato del 1929 riconosceva ampia libertà alla Chiesa cattolica, rinunziava ad alcuni strumenti dell’apparato giurisdizionalista, ma manteneva quelli funzionali, come l’assenso governativo alle nomine di vescovi e parroci. Nel 1929, il governo sottopose le leggi per l’esecuzione dei Patti all’approvazione di una Camera eletta plebiscitariamente, con un'unica lista nazionale cui gli elettori potevano solo dire sì o no, e di un Senato largamente amico. Il Parlamento approvò rapidamente i Patti e leggi che ne davano esecuzione. Le trattative per la revisione si svolsero attraverso numerose bozze di Accordo. La prima bozza, presentata dal governo Andreotti alla Camera dei deputati nel 1976, fu criticata perché manchevole e deludente. Una seconda bozza è stata presentata dallo stesso governo ai gruppi senatoriali nel 1977 e una terza all’assemblea del Senato nel 1978, anche questa discussa. Queste due hanno costituito il precedente dell’Accordo del 1984 anche se, per giungere a questa, sono state redatte altre bozze che non furono discusse in Parlamento. Una quarta e quinta bozza sono state elaborate dalla commissione italo-vaticana, una quinta bozza bis è stata frutto di una revisione effettuata da una commissione di studio presso la Presidenza del Consiglio, e una sesta è stata formulata dalla commissione italo-vaticana. Il contenuto definitivo è stato esposto in sintesi nel pro-memoria della Presidenza del Consiglio ai parlamentari. Il tratto comune di questi progetti fu quello di lasciare ad un’altra intesa la disciplina della materia degli enti e del patrimonio della Chiesa. L’Accordo del 1984 è stato stipulato a Villa Madama dal Segretario di Stato Cardinale Casaroli e dal Presidente del Consiglio Craxi. L’Accordo e il successivo Protocollo del 1984 formano un nuovo Concordato, nonostante siano collegati. Inoltre, fra il vecchio e il nuovo Concordato vi è una differenza quantitativa. Il Concordato del 1929 conteneva in 45 articoli tutte le norme e i principi frutto di trattative bilaterali; i nuovi accordi, con 14+7 articoli dell’Accordo e Protocollo addizionale e 75 articoli del Protocollo successivo, hanno esteso l’ambito delle norme “concordate”. Il nuovo Concordato contiene 96 articoli. Quello che vi è di comune fra questi è il leiv motiv di fondo, la linea continua della politica ecclesiastica italiana: la soluzione concordataria delle questioni fra Stato e Chiesa, e che lo Stato ritiene toccare gli interessi della Chiesa. Le ragioni delle due stipulazioni sono diverse: nel 1929 lo Stato intendeva utilizzare la religione cattolica come mezzo di governo; nel 1984 le forze politiche si sono mosse nell’ottica della struttura corporativa della società italiana, struttura riconosciuta dagli art.7 e 8, 3°comma Cost. con riferimento alle confessioni religiose. Da qui, la stipulazione dell’Intesa con la Tavola valdese nel 1984, la stipulazione di altre due intese nel 1986 con le Assemblee di Dio in Italia e l’Unione italiana delle Chiese avventiste del settimo giorno. Successiva l’Intesa con l’ebraismo italiano che doveva elaborare uno statuto interno autonomo che sostituisse quello legale, stipulata nel 1987. Nel 1993, fu stipulata l’Intesa con l’Unione cristiana evangelica d’Italia (UCEBI); sempre nello stesso anno è stata raggiunta l’Intesa con la Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI). Sia l’Accordo con la Chiesa cattolica che le Intese con le varie confessioni presentano una norma comune, volta a far continuare nel tempo la normazione concordata. Tali norme giustificano politicamente eventuali future trattative, ma è dubbio che obblighino lo Stato anche sotto il profilo giuridico, perché l’avvio alle trattative può essere dato solo quando lo Stato riconosca che “ulteriori materie” o “materie coinvolgenti rapporti” esigano la collaborazione fra Stato e Chiesa cattolica o importino il coinvolgimento dei rapporti con una delle altre confessioni; e tale riconoscimento ha carattere discrezionale, perché frutto della politica legislativa, non suscettibile del controllo della Corte Costituzionale. Altri problemi sono sorti nel Paese in relazione all’immigrazione: problemi riguardanti non solo l’applicazione delle norme costituzionali disciplinanti il fattore religioso o la sovranità dello Stato; ma il concetto di democrazia e di possibile rilevanza pubblica della religione. Una democrazia che privatizzi la religione, la radicale separazione fra morale pubblica e morale privata, possono essere difficilmente accettabili da popoli non occidentali per cui la religione è un elemento a rilievo pubblico, e in cui l’elemento religioso e quello morale regolano ogni aspetto nella vita dei fedeli. CAPITOLO 3 : L’ORDINAMENTO STATUALE E IL FENOMENO RELIGIOSO. I SOGGETTI “RELIGIOSI” E I POTERI PUBBLICI L’ordinamento dello Stato, nel disciplinare il fenomeno sociale religioso, considera diversi soggetti: le persone fisiche che professino o meno una religione; gli enti personificati o non con un fine religioso o di culto; le confessioni religiose. L’ordinamento statuale attribuisce rilevanza giuridica alle norme delle confessioni religiose alle quali a volte rinvia. Lo Stato ha uffici con competenze specifiche in materia ecclesiastica e organizza uffici ecclesiastici per l’assistenza spirituale di talune comunità “separate”. 2. LE PERSONE FISICHE Nel diritto italiano, essendo assicurata la libertà dei singoli in materia di religione, con una garanzia che riguardava “tutti” (art.19 Cost), cittadini, stranieri e apolidi, la posizione religiosa individuale è indifferente, nel senso che la posizione giuridica del singolo nell’ordinamento statuale non subisce alcuna modifica in relazione agli atteggiamenti assunti dagli individui in sede confessionale. Nel vigore del Concordato del 1929, questa regola subiva delle deroghe per effetto di alcune norme che sono state abrogate dall’Accordo del 1984, in quanto ha realizzato uno dei postulati del diritto di libertà religiosa. La legge attribuisce rilevanza all’appartenenza ad una confessione religiosa o al fatto di rivestire particolari qualifiche. L’appartenenza confessionale è rilevante nell’ordinamento statale, sia in modo diretto, in immediato rapporto con l’appartenenza; sia in modo indiretto, presupponendo questa come motivo per il compimento da parte del singolo di atti giuridicamente rilevanti. Nel diritto dello Stato assumono rilevanza le qualifiche spettanti a talune persone fisiche, di “ecclesiastico”, “sacerdote”, “diacono”, “religioso”, “Arcidiacono”, “Vescovo”, “Abate”, “Prelato”, “Parroco”, “ministro del culto”, etc… La qualifica di “ministro di culto” è propria dell’ordinamento statuale e si riferisce a chi rivesta una posizione differente da quella del semplice “fedele”. La qualifica è una norma in bianco che si colora attraverso la qualifica attribuita al soggetto dalla confessione religiosa d’appartenenza. Sono ministri di culto il sacerdote cattolico, il pastore o l'anziano delle Chiese riformate, il rabbino ebraico. La qualifica di “ecclesiastico” è più ampia perché sono tali, secondo la Chiesa cattolica, non solo i sacerdoti, i chierici ordinati in sacris, ma anche coloro che hanno ricevuto il diaconato. “Religiosi” sono gli aderenti alle associazioni religiose di vita consacrata che abbiano pronunciato i voti. Le qualifiche possono valere (es. sacerdote) per ottenere talune prestazioni previste dalla legge 3. GLI ENTI Come per lo Stato è indifferente la posizione di un individuo in materia religiosa, così è indifferente ai fini del regime giuridico, che un ente abbia o meno carattere confessionale. L’art.20 cost., prevede che il carattere ecclesiastico e il fine religioso o di culto di un’associazione o di una fondazione non possono importare limitazioni legislative o speciali gravami fiscali per la sua costituzione, per la capacità giuridica e per ogni forma di attività. Un ente è “ecclesiastico” se è stato costituito o approvato dall’autorità ecclesiastica e se abbia in modo essenziale un fine religioso o di culto. Producono effetti civili le certificazioni dell’autorità ecclesiastica circa il proprio assenso o l’assenso della Santa Sede ed è presupposta la disciplina canonistica della CEI e degli enti che rientrano nella sfera di competenza della Chiesa cattolica. Lo stesso avviene per gli enti delle altre confessioni religiose. E’ rilevante agli effetti civili l’appartenenza dell’ente alla confessione religiosa. Nell’ordinamento italiano assumono rilevanza le formazioni sociali con fine religioso di culto. Tali formazioni rientrano nella previsione dell’art. 2 Cost., che le garantisce in quanto siano centri di svolgimento della personalità individuale. L’associazione a carattere religioso o culturale è tutelata dalla norma costituzionale, ma può dare problemi anche di qualificazione. 4. LE CONFESSIONI RELIGIOSE Le istituzioni operanti in materia di religione che assumono rilievo nella Costituzione sono le confessioni religiose. L’art.7, 1°comma Cost. menziona esplicitamente la Chiesa cattolica, la confessione religiosa di maggioranza in Italia, la cui organizzazione e i cui statuti sono noti all’ordinamento statale. L’art.8, 1°comma Cost. considera tutte le confessioni religiose; nel 2° e 3°comma le confessioni diverse dalla cattolica. Come l’art.7 Cost. non dà nessuna nozione sulla Chiesa cattolica, presupponendo che la sua nozione la danno l’ordinamento canonico e l’esperienza sociale, così l’art 8 non offre la nozione di “confessione religiosa”. Una nozione di tal genere non è agevole, poiché i vari gruppi sociali, qualificati come “confessioni religiose”, sono diversi l’uno dall’altro, sicchè è difficile astrarre un denominatore comune che consenta di inquadrare una realtà dai molteplici aspetti in un’unica categoria. Un dato implicito della norma costituzionale è che una confessione religiosa è un gruppo sociale con fine religioso, posto che gli artt. 7 e 8 non avrebbero senso se riferite ad una confessione di fede religiosa che equivalesse alla professione individuale di fede religiosa. Nel settore del fenomeno sociale religioso sono proliferate le iniziative più varie, che si auto qualificano come religiose; nuovi movimenti religiosi, nuove religioni, sedicenti religioni, pseudo religioni. Dopo l’inizio degli anni ’60, nel nostro paese sono presenti vari organismi: la Chiesa dell’Unificazione, fondata in Corea; la Chiesa di Scientologia negli USA; la Meditazione trascendentale, i Bambini di Dio. Al fine di qualificare tali organismi come “religioni” tutelate dagli art. 8,19 e 20 Cost., è poco produttivo esaminarle sotto il profilo ideologico. Dal punto di vista giuridico interessa considerare quale sia il rapporto fra i dirigenti di tali organizzazione e gli aderenti e quali siano le modalità del proselitismo, secondo i criteri stabiliti dalla risoluzione approvata dal Parlamento Europeo nell’ 84. Secondo detti criteri, i nuovi movimenti religiosi per essere considerati leciti: non dovrebbero accogliere minorenni; dovrebbero assicurare ai proseliti un sufficiente periodo di riflessione prima di assumere impegni finanziari o personali; dopo l’adesione dovrebbero essere assicurati i contatti dei proseliti con i parenti e amici, le telefonate dei parenti dovrebbero essere comunicate e la corrispondenza inoltrata ai destinatari. Oltre ad aver assicurati tali diritti, l’aderente dovrebbe poter: abbandonare liberamente l’organizzazione; chiedere consigli legali; chiedere assistenza medica. Le organizzazioni non dovrebbero incoraggiare gli aderenti a infrangere la legge; dovrebbero invece fornire alle pubbliche autorità informazioni sulla residenza o dimora dei membri; questi quando svolgano attività per le organizzazioni dovrebbero essere coperti da assicurazione sociale. Quando detti criteri non siano rispettati, il fenomeno sociale non può essere qualificato come religioso e le organizzazioni non possono essere considerate “confessioni religiose”. 5. LE CONFESSIONI RELIGIOSE COME ORDINAMENTI GIURIDICI La Chiesa cattolica dà origine ad un ordinamento originario e ciò risulta dall’art.7, 1° co, Cost., mentre è dubbio che tale qualifica competa alle altre confessioni religiose, in vista di quanto prevede l’art.8, 2°comma Cost. Tale disposizione dicendo che “Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano” enuncia norme che interessano le strutture di codesti gruppi sociali e il loro rapporto con lo Stato. La libertà, così riconosciuta dalla Carta, importa una garanzia più vasta del mero riconoscimento della liceità dell’attività di organizzazione. Il fine della norma costituzionale è di far sì che i gruppi sociali con finalità religiosa diversa dalla cattolica, quando diano vita ad un ordinamento giuridico siano riconosciuti dal diritto dello Stato come ordinamenti Qualcuno ha creduto di cogliere un collegamento fra l’art.8, 2°co. e l’art.18 Cost. riguardante la libertà di associazione. L’art.18 garantisce anche l’associazione stabile con fine religioso o di culto, però i due fenomeni, dell’esistenza di un ordinamento giuridico confessionale e dell’ammissibilità di un’associazione nella fede comune, se esteriormente presentano affinità sono diversi dal punto di vista della struttura interna, della qualità. Altro fenomeno attinente alla vita religiosa, ma che non dà luogo all’esistenza di una “confessione”, è quello dei dissidenti da una confessione già esistente, i quali, staccandosi da questa creino un organismo separato. Tale gruppo può essere considerato una “confessione religiosa” quando, oltre a recidere ogni legame organico con la confessione da cui s’è staccato, si differenzi da questa anche sul piano ideologico, offrendo una propria concezione del mondo diversa da quella coltivata dalla confessione da cui il gruppo ha tratto origine. • IL CRITERIO FORMALE PER QUALIFICARE LE CONFESSIONI Lo Stato, per attribuire a un gruppo sociale la qualifica di confessione religiosa, non può considerare il merito delle varie credenze di religione. Lo Stato deve limitarsi a compiere valutazioni formali. La Corte costituzionale con sentenza del 1993 n.195 ha enunciato i criteri che possono essere seguiti per assegnare questa qualifica: stipulazione di un’intesa, eventuali precedenti riconoscimenti pubblici, uno statuto che esprime i caratteri dell’organizzazione, la comune considerazione. Criteri da usare separatamente, e procedendo dal primo all’ultimo. Criteri, per sé, non esaustivi, perché difficilmente può essere qualificata come confessione religiosa un’organizzazione che compia riti contrari al buon costume o atti vietati da norme penali o agisca in contrasto con le regole segnalate da Parlamento europeo. • LE CONFESSIONI DIVERSE DALLA CATTOLICA COME ORDINAMENTI GIURIDICI La formula, dell’art.8, 2°comma cost., non dice che tutte le confessioni diverse dalla cattolica sono ordinamenti, né impone che si costituiscano come tali, giacché intende rispettare l’immagine che di sé hanno codesti gruppi sociali, i quali potrebbero pensare di vivere come comunità spirituali, senza che vi fossero diritti ed obblighi per i membri. Essa dice che una di tali confessioni, quando dia vita ad un ordinamento giuridico, è un ordinamento anche per il diritto dello Stato. La norma assicura che gli statuti di questi gruppi sociali valgono a disciplinare i rapporti interni fra i vari membri di essi, e dà rilevanza civile alle varie situazioni giuridiche promananti da tali statuti, compresi i poteri che gli statuti conferiscono a quanti occupino, nelle strutture dell’organizzazione, una posizione direttiva. La Costituzione, per la formazione di un ordinamento confessionale, il quale gode della posizione giuridica, esige che gli statuti organizzativi siano conformi all’ ordinamento giuridico italiano. Da questa previsione di conformità, una parte della dottrina ha tratto due conseguenze: La PRIMA riguarda la differenza che esisterebbe tra il riconoscimento della Chiesa cattolica come ordinamento primario, effettuato dall’art.7, 1°comma, dagli altri ordinamenti delle confessioni come non primari, subordinati a quello statuale e da esso derivante. A tale tesi si è ispirata la Corte Cost. che ha ritenuto che fosse giustificata la sanzione penale esclusiva o più grave prevista per gli atti di vilipendio della religione cattolica, rispetto alle sanzioni per il vilipendio delle altre religioni. La SECONDA concerne il significato conclusivo della disposizione, art.8,2°comma Cost., che, data la riserva della conformità degli statuti organizzativi all’ordinamento italiano, avrebbe lo stesso contenuto normativo dell’art.1, 1°comma della legge n.1159/1929 per il quale sono ammessi nello Stato i culti diversi dal cattolico purchè non professino principi e non seguano riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume. 6. INAPPLICABILITÀ DELL’ART.1 LEGGE 1159/1929 La seconda posizione per varie ragioni non è accettabile. Le leggi che hanno dato esecuzione all’Intese tra lo Stato e la Tavola valdese, con le Chiese cristiane avventiste e con le Chiese delle A.D.I., con l’Unione delle Comunità ebraiche, sull’Unione cristiana evangelica battista, con la Chiesa luterana, hanno dichiarato inapplicabili a tali confessioni le disposizioni sui culti “ammessi” dettate dalla legge n.1159/1929. Dunque, la disposizione citata dell’art.1 della legge del 1929 ha perduto il suo carattere di generalità e non è utilizzabile per intendere l’art.8, 2°co. Cost. La tesi è inaccettabile perché applica la norma costituzionale, dettata per garantire la conformità degli statuti organizzativi all’ordinamento statuale, alla diversa materia della conformità di tutte le altre regole statutarie di carattere etico-ideologico, concernenti i principi religiosi professati dalle confessioni diverse dalla cattolica. Questa interpretazione della legge è inammissibile sia perché applica per analogia un’eccezione, prevista rispetto al riconoscimento come ordinamenti giuridici delle organizzazioni diverse dalle cattoliche, all’esercizio della libertà religiosa, che è regolata dall’art.19 Cost. ed è riconosciuta come diritto di ogni individuo e di ogni gruppo organizzato e non, sia perché distorce il significato della stessa formula dell’art.8, 2°comma Cost. Questa concerne il “diritto” delle confessioni diverse dalla cattolica “di organizzarsi secondo propri statuti” non contrastanti con l’ordinamento giuridico italiano, ossia richiede che le norme di organizzazione di tali gruppi non deroghino ai principi statuali d’organizzazione dei gruppi sociali, ma i principi religiosi delle confessioni acattoliche sono fuori questioni, data l’incompetenza dello Stato in materia religiosa, resa palese dall’art.19, il quale limita il controllo dello Stato all’eventuale contrarietà dei riti e al buon costume. Da qui, si nota l’inapplicabilità dell’art.1, 1°comma della l.n.1159/1929 a tutte le confessioni, essendo in contrasto con le norme costituzionali; la Corte, se investita del problema, dovrebbe dichiararne l’incostituzionalità. Difatti, la legge del 1929 fu fatta in uno spirito confessionista, un principio travolto dalla Costituzione e che la stessa Santa Sede non ha più ritenuto in vigore, stipulando l'Accordo nel 1984. La Costituzione, invece, ha tramutato il regime di “tolleranza” in libertà religiosa uguale per tutti, ha consentito la possibilità di controlli statali entro limiti ed ha escluso da tutte le sue norme la menzione dell’ordine pubblico, quale complesso di motivi idonei a ridurre l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti ai singoli e ai gruppi sociali. La Corte di Cassazione ha ritenuto che la formula “culti ammessi”, dell’allora vigente codice penale, fosse collegabile con l’art. 8, 2°comma Cost., sicchè al fine di vedere se tali culti fossero tutelati dalla legge penale, sarebbe stato necessario controllare lo statuto della confessione interessata per accertare che esso non contrastasse con l’ordinamento giuridico italiano e che l’esercizio della religione non violasse norme penali dettate in materia di ordine pubblico e di tutela dei diritti della persona. L’intento era quello di evitare che le norme penali riguardanti la tutela della confessioni religiose fossero applicate a favore di entità che non fossero tali. Non è la conformità degli statuti organizzativi degli organismi a influire sulla loro qualificazione come confessioni religiose perché il nostro ordinamento non esclude l’esistenza di confessioni non organizzate; inoltre, tale conformità vale per il riconoscimento dell’autonomia primaria della confessione. Per una corretta qualificazione giuridica di un’entità sociale come “confessione religiosa” occorre considerare i fatti, ossia l’effettivo esercizio dell’attività da essa svolta. La tesi dell’applicabilità della legge 1159/1929 è dovuta al timore della diffusione di confessioni stravaganti, che incitino ad attività contrarie ai doveri imposti dall’ordinamento civile; ma questi timori sono infondati, perché il nostro ordinamento non esclude principi eterodossi, i quali, finché non si traducano in precetti normativi, sono privi di conseguenze, poiché l’ordinamento sanziona l’inadempimento dei doveri pubblici, degli obblighi di solidarietà familiare e sociale e garantisce la restaurazione dei diritti, eventualmente offesi. Entrambe queste posizioni sono infondate. • DIFFERENZA TRA ART.7, 1 CO., E ART.8, 2 CO., COST. La differenza fra l’art.7, 1°comma e l’art. 8, 2°comma Cost. non dipende dal fatto che la Chiesa cattolica sia un ordinamento primario, mentre le altre confessioni sarebbero ordinamenti subordinati allo Stato, ma da diverse ragioni. Anzitutto, sta nel fatto che la prima disposizione concerne uno specifico e determinato ordinamento giuridico, avente una struttura organizzativa notissima e con il quale il diritto è collegato per la disciplina di varie materie. La seconda disposizione si riferisce ad un numero indeterminato di confessioni religiose, considerate come ordinamenti, alcune esistenti e note per la loro struttura organizzativa; altre non note; ed altre ancora non esistenti, ma suscettibili di formarsi. La Costituzione ha precisato i termini in cui può avvenire il riconoscimento di tali gruppi sociali con fini di religione o di culto, come ordinamenti giuridici. L’art.8, 2° comma Cost. riconosce il carattere di ordinamento giuridico delle confessioni statutariamente organizzate. Un gruppo sociale dà vita ad un ordinamento giuridico in quanto si dia una normazione “propria”. In ciò sta il carattere “primario” di un ordinamento o la sua “indipendenza” o la sua “sovranità”. Le confessioni diverse dalla cattolica e organizzate, in quanto ordinamenti, sono “indipendenti” dall’ordinamento statuale come lo è l’ordinamento canonico. Ciò trova conferma nelle norme delle Intese stipulate dallo Stato con le varie confessioni religiose. Dunque, il fatto che gli statuti confessionali debbano essere conformi all’ordinamento statuale non indica la subordinazione degli ordinamenti confessionali allo Stato, ma solo che questo non riconosce come ordinamenti giuridici primari quelle confessioni i cui statuti siano abnormi rispetto ai principi del diritto statuale in tema di organizzazioni plurisoggettive, poiché, in caso contrario, sarebbero solo delle associazioni soggette alle norme dell’art.18 Cost. • SIGNIFICATO DELL'ART.8, 2 COMMA, COST. Dall’art. 8, 2°comma Cost. emerge che lo Stato riconosce come ordinamenti giuridici quelle confessioni i cui statuti organizzativi siano conformi al suo ordinamento, ossia non che non siano rilevanti agli effetti civili quelle norme statutarie non conformi a questo, bensì che, in presenza di tali difformità, la confessione non è un ordinamento ma una mera associazione. Le confessioni diverse dalla cattolica aventi statuti organizzativi non in contrasto con l’ordinamento italiano costituiscono ordinamenti originari e indipendenti nella sfera loro propria; mentre le confessioni rette da statuti abnormi sono entità subordinate allo Stato, non hanno un ordine proprio da questo riconosciuto, ma comunque tutelate dalle norme costituzionali, che riconoscono la libertà religiosa e le varie libertà e garanzie giuridiche cui questa si riconnette. 7. LA PERSONALITÀ DELLE CONFESSIONI RELIGIOSE NEL DIRITTO ITALIANO La Chiesa ha personalità nel diritto pubblico italiano, è un’istituzione di diritto pubblico con caratteri del tutto speciali poiché è titolare di poteri pubblicistici. Tale pubblicità non è paragonabile a quella degli enti che fanno parte dell’organizzazione statuale, sfuggendo la Chiesa al regime di questi, ma può essere accostata alla soggettività pubblicistica presentata dagli Stati stranieri nel diritto italiano. La Chiesa universale non ha nel nostro ordinamento personalità di diritto privato perché questa non le è mai stata riconosciuta, e perché è peculiare della tradizione giuridica italiana indicare come soggetti titolari dei beni ecclesiastici i singoli enti della Chiesa, e non questa considerata in modo unitario. Il fatto che la Chiesa sia per il diritto italiano un ordinamento giuridico primario non importa che essa, organizzandosi con proprie norme, abbia dato luogo ad un ente esponenziale dotato di personalità e capacità di diritto privato. La creazione di un ordinamento giuridico non importa quella di una persona giuridica, così come l’esistenza di una persona giuridica non importa che questa possa essere considerata un ordinamento. Neppure le altre confessioni religiose hanno personalità giuridica di diritto privato nell’ordinamento statuale. Anche se è vero che l’art. 8, 2°com Cost., ha attribuito ai gruppi sociali professanti religioni diverse dalla cattolica la soggettività giuridica, posto che tali gruppi possono esercitare il diritto di organizzarsi secondo propri statuti e possono essere parti delle intese con lo Stato. • RILEVANZA CVILE DEI PROVVEDIMENTI CANONICI: 1. DI CARATTERE GIUDIZIARIO Negli accordi del 1984 fra Stato e Chiesa, e nel Trattato lateranense del 1929, lo Stato ha riconosciuto effetti giuridici alle sentenze emesse dai tribunali ecclesiastici riguardanti la nullità dei matrimoni canonici trascritti nei registri dello stato civile; ha riconosciuto la giurisdizione degli appositi organi di composizione nominati dall’autorità ecclesiastica per risolvere le controversie tra sacerdoti e gli Istituti per il sostentamento del clero in materia degli assegni; ha riconosciuto la rilevanza civile dei provvedimenti disciplinari presi dall’autorità ecclesiastica nei confronti di ecclesiastici e religiosi. 2. DI CARATTERE AMMINISTRATIVO Ma gli accordi hanno previsto la rilevanza agli effetti civili di vari provvedimenti per l’erezione degli enti ecclesiastici e per la creazione degli Istituti per il sostentamento del clero, per l’estinzione dei vecchi enti beneficiari e di altri enti ecclesiastici, per la determinazione della sede e della denominazione delle diocesi e parrocchie, per la nomina agli uffici ecclesiastici, per la determinazione della situazione giuridica di beni patrimoniali, come gli edifici di culto e le cose sacre o che servono all’esercizio del culto, per il ritrasferimento di beni dagli Istituti diocesani per il sostentamento del clero alle diocesi e alle parrocchie. Importante è, poi, l’efficacia civile dei controlli canonici sulla gestione degli enti ecclesiastici e dei controlli esercitati dalle autorità delle singole confessioni, i cui rapporti con lo Stato sono disciplinati da specifiche leggi sugli enti da essa dipendenti. Inoltre, il potere di governo della Chiesa ha effetti civili per lo svolgimento o per l’instaurazione e la permanenza di taluni rapporti di pubblico impiego. Gli accordi hanno riconosciuto alla Conferenza episcopale italiana diverse competenze normative ed amministrative. 3. DI CARATTERE CERTIFICATIVO Connesso all’esercizio di tale potestà dell’autorità ecclesiastica è il riconoscimento del potere di certificazione, giacché gli atti non solo producono effetti nel diritto dello Stato, ma certificano la situazione giuridica esistente nell’ordinamento della Chiesa. Tale certificazione ha luogo, per es., sia quando il parroco attesta la celebrazione di un matrimonio ai fini della sua trascrizione civile sia quando la Segnatura apostolica attesta che la sentenza di nullità su tale matrimonio è divenuta definitiva; sia quando un provvedimento determina la misura dell'assegno dovuto dall'Istituto per il sostentamento del clero ad un sacerdote , provvedimento che certifica agli effetti civili tale misura; sia quando il vescovo determina l'ambito territoriale e la denominazione di una parrocchia certifica questa situazione canonistica agli effetti civili. Connessa alla rilevanza del potere di certificazione riconosciuto alle confessioni religiose nei confronti della qualità di ministro di culto rivestita da un soggetto appartenente ad una di esse o della qualità confessionale di un ente, in occasione del riconoscimento di esso come persona giuridica, è la rilevanza del potere di certificazione degli eventuali fatti sfavorevoli riguardanti tali soggetti. Infatti, quando una confessione certifichi che un suo appartenente abbia perduto la qualifica di ministro di culto, tale persona non sarà più considerata investita di tale qualifica anche ai fini del diritto dello Stato. Del pari, quando un ente, riconosciuto come persona giuridica inquadrato in una confessione, cessi di far parte di questa organizzazione, la comunicazione del distacco darà luogo ad una modificazione dell'assetto dell'ente. Altre norme statuali riconoscono taluni poteri anche ad autorità delle confessioni religiose diverse dalla cattolica. Anche qui si riconosce il potere di certificazione. • LIMITI DEL RICONOSCIMENTO CIVILE DELLE POTESTA' CONFESSIONALI La potestà di governo delle confessioni religiose e l’esercizio della giurisdizione confessionale, quando siano riconosciuti nell’ordinamento dello Stato come lecita estrinsecazione dell’autonomia del gruppo confessionale, come esercizio della libertas Ecclesiae, secondo la prospettiva canonistica, incontrano un limite nei diritti inviolabili garantiti ai singoli dalla Costituzione. Ma anche quando l’esercizio dei poteri attribuiti dagli ordinamenti confessionali ai propri esponenti sia riconosciuto efficace nel diritto dello Stato, tale riconoscimento non è esente da limiti o controlli. Così, le sentenze di nullità dei matrimoni canonici, trascritti nei registri dello stato civile, devono essere dichiarate esecutive dalla competente autorità giudiziaria italiana; i provvedimenti disciplinari emessi nei confronti di ecclesiastici e religiosi, per produrre effetti civili, devono essere in armonia con i diritti garantiti dalla Cost; ancora, l'ecclesiastico che intenda contestare il rifiuto dell'assegno può rivolgersi sia agli appositi organi ecclesiastici sia al giudice civile. 9. POTERI E UFFICI DELLO STATO AVENTI COMPETENZA IN MATERIA ECCLESIASTICA Numerosi organi costituzionali e uffici dello Stato hanno specifiche competenze nella disciplina del fenomeno sociale religioso. 1. PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA Il Presidente della Repubblica, per ciò che concerne i rapporti con la Chiesa cattolica, ha il potere di nominare plenipotenziari per la conclusione di concordati e di ratificare, previa autorizzazione del Parlamento, i concordati conclusi (art.80 e 87, co.8 Cost). Per quanto riguarda le confessioni minoritarie diverse dalla cattolica, esercita il suo potere di promulgazione delle leggi basate su intese con tali ordinamenti; accredita gli ambasciatori italiani presso la Santa Sede e riceve le credenziali del nunzio apostolico accreditato presso la Repubblica italiana. 2. IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Il Presidente del Consiglio dei ministri rappresenta lo Stato negli accordi con le confessioni religiose e coordina l’attività dei vari dicasteri in materia ecclesiastica, ma il governo è responsabile dell’andamento generale pure in tale settore della politica. 3. IL CONSIGLIO DEI MINISTRI Il Consiglio dei ministri delibera su atti concernenti i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica e le altre confessioni, e oltre ad approvare per la presentazione in Parlamento i disegni di legge riguardanti sia l’autorizzazione alla ratifica e l’esecuzione degli accordi con la Santa Sede, sia l’esecuzione di Intese con le altre confessioni religiose, determina e mantiene l’indirizzo politico in materia ecclesiastica. Esso ha competenza sul piano amministrativo quando il Ministro dell’interno chieda il suo parere sul riconoscimento della personalità giuridica di un ente delle confessioni di minoranza. 4. IL MINISTRO DELL'INTERNO Il Ministro dell’interno è l’organo dell’amministrazione centrale che ha competenza generale in materia ecclesiastica. Organi periferici del Ministero dell’interno, sempre in materia ecclesiastica, sono le singole Prefetture. La Direzione generale degli affari di culto e la Direzione generale del fondo per il culto e del fondo di religione e di beneficenza per la città di Roma, le due direzioni generali presso il Ministero dell’interno, sono state fuse in un unico ufficio centrale, la Direzione centrale degli affari dei culti (con il d.p.r. n.617 del 1977). 5. LA DIREZIONE CENTRALE DEGLI AFFARI DI CULTO Le competenze della Direzione centrale degli affari dei culti riguardano: le materie concernenti gli enti della Chiesa cattolica e delle altre confessioni, la vigilanza e la tutela sugli enti delle confessioni, l’approvazione della nomina dei ministri di culto delle confessioni. Fino al 1986 questa gestiva tre Fondi: il Fondo per il culto, il Fondo di religione e di beneficenza nella Città di Roma e i Patrimoni riuniti ex economali, nonché i Fondi di religione delle nuove province. La funzione principale svolta dal FONDO PER IL CULTO è stata quella di corrispondere “i supplementi di congrua” agli appartenenti al clero cattolico che ne avevano il diritto. L’Accordo del 1984 e la legge 222/1985, dopo aver abrogato le norme concernenti l’erogazione di tali “supplementi”, hanno previsto la soppressione del Fondo di religione e di beneficenza nella Città di Roma, sono state soppresse anche le Aziende speciali di culto e aventi scopi di culto, di beneficenza e religione gestiti dalle Prefetture. Il patrimonio dei Fondi e delle Aziende speciali è riunito in un unico patrimonio, il FEC, FONDO EDIFICI DI CULTO, il quale succede in tutti i rapporti attivi e passivi dei fondi, aziende e patrimoni. I proventi di tale massa patrimoniale sono destinati al perseguimento dei fini del Fondo e sono integrati dallo Stato con un contributo annuo a decorrere dal 1987. Fanno parte del patrimonio del Fondo gli edifici di culto cattolici acquisiti dallo Stato, con tutti gli accessori e pertinenze, in forza delle leggi eversive dell'asse ecclesiastico emanate nell'800. Di tali edifici di culto, quelli che servano da sede di enti-chiesa, parrocchie e diocesi sono in via di dismissione da parte del Fondo. PERSONALITA' GIURIDICA DEL FONDO EDIFICI DI CULTO: il Fondo edifici di culto è una persona giuridica pubblica, rappresentata giuridicamente dal Ministero, in sede centrale, attraverso la Direzione centrale per l’amministrazione del Fondo edifici di culto, e, in sede provinciale, attraverso i Prefetti nei limiti dell’ordinaria amministrazione. L’attribuzione al FEC della personalità giuridica vale a sottolineare l’autonomia della gestione del patrimonio ad esso attribuito. La sua organizzazione coincide con quella della Direzione centrale per l’amministrazione del Fondo edifici di culto e il Fondo non è altro che un ufficio dello Stato, un organo statale dotato di personalità giuridica. Nell’amministrazione del Fondo edifici di culto, il Ministro dell’interno è coadiuvato da un consiglio, nominato dallo stesso, composto da 9 membri, durano in carica 4 anni e non possono essere immediatamente confermati più di una volta. Il Consiglio di amministrazione è presieduto dal Presidente nominato dal Ministro dell’interno e, in caso d’assenza o impedimento, dal direttore generale degli affari di culto. Il segretario del Consiglio è nominato con decreto del Ministro dell’interno fra i funzionari della carriera direttiva dello stesso Ministero, aventi una qualifica non superiore a vice prefetto e non inferiore a direttore di sezione. GESTIONE DEL FONDO EDIFICI DI CULTO: il Fondo edifici di culto, in quanto ente pubblico, è amministrato secondo le norme che disciplinano le gestioni patrimoniali dello Stato, con i privilegi, le esenzioni e le agevolazioni fiscali ad esse spettanti. Il suo bilancio e il suo conto consuntivo sono allegati al bilancio e al conto del Ministero dell’interno. Il suo fine è quello di curare la conservazione, il restauro, la tutela e la valorizzazione degli edifici di culto appartenenti al Fondo, nonché di adempiere gli altri oneri posti a carico di esso in tale materia. Si tratta di interventi finanziari per contributi per la costruzione, ricostruzione e riparazione di edifici di culto cattolici, previsti da varie norme di legge. La singolarità della creazione del Fondo edifici di culto sta nel fatto che, per la prima volta, lo Stato crea una persona giuridica pubblica, appartenente alla sua organizzazione, non per un autonomo atto di volontà, liberamente deliberato dal Parlamento, ma in forza di un accordo con la Sana Sede (Protocollo del 1984), che il legislatore, investito della ratifica, non poteva far altro che accettare o respingere in blocco. Il Fondo può procedere alla liberazione del patrimonio da vari pesi e può: 1) affrancare i canoni enfiteutici perpetui o temporanei gravanti sulle masse patrimoniali ad esso pervenute con la successione ai Fondi, aziende e patrimoni autonomi soppressi pagando una somma pari a quindici volte il valore dei canoni stessi; 2) affrancare tutte le altre prestazioni, comunque denominate e determinate, gravanti sulle dette masse patrimoniali, pagando una somma pari a dieci volte la misura delle prestazioni stesse. In entrambi i casi, il consenso all’affrancazione da parte degli aventi diritto è presunto se non comunicano il loro rifiuto entro trenta giorni dalla notificazione del provvedimento del Fondo; in caso di rifiuto, l’affrancazione ha luogo in sede contenziosa. • RAPPORTI ESTINTI L’amministrazione, per quanto concerne il recupero crediti del Fondo, è semplificata con l’estinzione dei rapporti perpetui, reali o personali, in forza dei quali l’ente ha diritto a riscuotere canoni o altre prestazioni in denaro o in natura. Le partite contabili, presso gli uffici percettori, sono chiuse senza oneri per i debitori e di ciò è data comunicazione a costoro e agli altri uffici interessati. • I CAPPELLANI DEL RE Nello Stato confessionista degli anni passati, era normale che il re avesse al proprio servizio un cappellano maggiore o elemosiniere, nominato in base a concessioni della Santa Sede, a Concordati o ad antiche consuetudini; un ufficio che non aveva mere attribuzioni spirituali, ma del quale il capo dello Stato si avvaleva per esercitare i suoi diritti di patronato, di nomina agli uffici ecclesiastici beneficiari, di percezione dei redditi dei benefici vacanti e simili. Vi erano, soprattutto nel regno delle Due Sicilie, chiese, annesse a palazzi reali o a residenze di truppe, rispetto alle quali il re aveva il diritto di nominare direttamente il clero ad esse preposto. L’amministrazione di tali chiese era soggetta a un regime particolare, quello delle cappelle palatine. Tali diritti regi vennero a cessare nel corso del processo di unità nazionale: ad alcuni lo Stato rinunziò con la legge delle guarentigie pontificie (l. n. 214/1871); altri rimasero in vigore per ciò che riguardava le chiese palatine o annesse a palazzi reali. • IL CAPPELLANO MAGGIORE NELLA LEGGE DEL 1939 La posizione del cappellano del re e del clero palatino fu disciplinata da una convenzione fra la Santa Sede e il governo italiano del 1939 che specificò le cappelle che dovevano essere considerate palatine. La nomina del primo era riservata al re, previe confidenziali intese con la Santa Sede . Il cappellano aveva dignità vescovile e proponeva al re, previo assenso degli ordinari competenti, la nomina del clero palatino, anche per quelle chiese e cappelle che, avendo carattere parrocchiale, erano sottoposte alla giurisdizione del vescovo del luogo. L’avvento della Repubblica non ha importato la decadenza della convenzione, sicchè col Protocollo 1984 la materia è stata riordinata. • LE RIFORME INTRODOTTE NEL 1984 Nelle nuove norme non vi è un’esplicita rinunzia dello Stato alla nomina del clero addetto alle chiese e cappelle, ma vi è la dichiarazione di libertà della Chiesa nella nomina, di esclusiva competenza dell’autorità ecclesiastica competente , secondo le norme di diritto canonico. Gli edifici di culto oggetto della riforma continuano ad appartenere agli enti che ne sono proprietari. Una norma transitoria prevede che l’ex clero palatino conservi gli emolumenti sinora percepiti, a titolo di assegno vitalizio personale, rivalutabile nella stessa misura prevista per i dipendenti dello Stato nei periodici accordi sindacali. Per quanto attiene gli appartenenti alle confessioni minoritarie, l’assistenza spirituale presso le caserme, le carceri e i luoghi di cura è organizzata secondo le richieste avanzate dagli interessati aggregati a tali comunità. Norme specifiche sono state emanate per gli appartenenti a quelle confessioni che abbiano stipulato Intese con lo Stato. CAPITOLO 4: LA COSTITUZIONE ITALIANA E IL FENOMENO RELIGIOSO 1. LE GARANZIE DI LIBERTÀ E I RAPPORTI FRA ORDINAMENTI Trattando la materia religiosa, la Costituzione ha seguito un duplice criterio: da un lato, ha garantito la libertà religiosa individuale e dei gruppi informali (art. 2, e art. 19 Cost.), d’altro canto, ha garantito la libertà delle confessioni religiose in misura uguale per tutte (art. 8, 1° comma Cost.) e ha riconosciuto il carattere originario e indipendente dell’ordinamento della Chiesa cattolica (art. 7, 1° comma Cost.) e delle altre confessioni religiose (art. 8, 2° comma Cost.). Inoltre, la Cost, nell'art.20, ha garantito la libertà e il trattamento paritario nei confronti degli altri enti civili, degli enti ecclesiastici e con fine di religione o di culto, e, negli art. 7, co.2 e art.8, co.3, ha dettato norme riguardanti le fonti del diritto idonee a disciplinare i rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose. Tutte queste norme possono essere coordinate in un sistema, a cui possono essere collegate le altre disposizioni costituzionali che riguardano un settore comune con il diritto di libertà religiosa, come il diritto di manifestare il proprio pensiero (art. 21 Cost.), il diritto di riunione (art.17 Cost.) e il diritto di associazione (art.18 Cost.). Dando uno sguardo approssimativo alla nostra Costituzione, ci accorgiamo che essa ha un carattere totalmente pluralista: infatti, essa non prende in considerazione solo la libertà di scelta dei singoli individui, ma anche il diritto all’esistenza, all’organizzazione e alla funzionalità delle varie istituzioni che sorgono da iniziative del tutto autonome da quelle dello Stato e di altri enti pubblici. Non potrebbe esistere alcuna libertà di scelta ideologica, religiosa o politica senza un adeguato riconoscimento delle istituzioni e senza un’adeguata garanzia delle loro libertà. L’art.7 e l’art. 8 sono le disposizioni fondamentali in materia religiosa, in quanto regolano i rapporti tra lo Stato e tutte le confessioni religiose. Art.7 Cost.: “lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi. Le modificazioni dei patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Art. 8 Cost.: “tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Risulta molto importante capire come si sono venute a formare queste disposizioni. Durante i lavori preparatori per l’art. 7, si cercò di mettere da parte l’onnipotenza dello Stato: tant’è vero che Dossetti propose una formula che riconosceva lo Stato come membro della comunità internazionale, e, quindi, riconosceva come originari gli ordinamenti degli altri Stati e della Chiesa. Però, nella formazione di questo articolo, ci furono alcune critiche sollevate dai laici; questi non accettavano che tale disposizione fosse contenuta nella Carta Costituzionale, ma affermavano che essa poteva essere l’argomento di un trattato internazionale (in cui due potestà riconoscono la reciproca indipendenza e sovranità). Mentre l’approvazione del 1° comma è stata rapida, l’elaborazione e l’approvazione del 2°comma dell’art. 7 (riguardante i Patti Lateranensi) è stata abbastanza laboriosa. La disputa nasceva sul valore che la norma doveva attribuire ai Patti, poiché non si sapeva se il loro valore fosse uguale o minore alle norme della Costituzione. Una volta approvata la parte sui Patti, il legislatore ha voluto mettere in evidenza come questi accordi non hanno un valore vincolante eterno: infatti, la disposizione prevede che ci possono essere delle modifiche da apportare a tali accordi. Tutti quelli che furono convinti sostenitori dell’approvazione di tale disposizione, con altrettanta convinzione, affermavano che il richiamo delle norme ai Patti non attribuiva ad esse un valore uguale a quello delle norme costituzionali: quindi, l’art.7 non era altro che una norma sulla produzione giuridica che indicava l’iter da seguire per formulare le norme che avrebbero potuto modificare i Patti. Gli oppositori, invece, sostenevano che tale disposizione costituzionalizzasse gli Accordi del 1929. Comunque, obiettivamente, non si può affermare che il 2° comma dell’art.7 attribuisca valore costituzionale alle norme contenute nei Patti; in più, da nessuna parola contenuta in questa disposizione si può dedurre che il legislatore avesse intenzione di fare ciò. Le difficoltà nell’approvazione di questa disposizione erano anche di origine politica: infatti, con o senza costituzionalizzazione, l’approvazione di tale testo significava mantenere vivi gli Accordi del 1929. Minor importanza ebbero gli iter per la formazione degli altri articoli in materia religiosa, e cioè gli art. 8, 19 e 20. L’attuale art. 8, co.1 è frutto di un emendamento aggiuntivo all’art.5 del Progetto della Costituzione, che è stato approvato dall’Assemblea scegliendo tra due diversi testi, i quali esprimevano due differenti concezioni dei rapporti fra lo Stato e le confessioni religiose. Il primo emendamento, presentato da Laconi, mirava ad introdurre una norma che parificasse tutte le confessioni religiose (tutte le confessioni religiose sono eguali davanti alla legge); tale norma valeva ad affermare la laicità o aconfessionalità dello Stato. L’Assemblea, invece, approvò l’emendamento aggiuntivo Cappi-Gronchi, corrispondente all’attuale testo del 1°comma dell’art. 8 cost. “Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge”. Il Cappi non accettava l’emendamento Laconi perché questo poteva implicare “una specie di giudizio di merito, sul contenuto delle singole confessioni religiose: un giudizio di parità tra le fedi che è impossibile ammettere”, infatti si parla di uguaglianza nella libertà e non nel trattamento. L’Assemblea costituente ebbe anche a discutere sul 2 comma, poichè si voleva eliminare la riserva “in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”. L’approvazione dell’art.19 Cost., che garantisce a “tutti” la libertà religiosa, nonché l’esercizio del culto, “purchè non si tratti di riti contrari al buon costume”, non ha dato luogo a problemi. La disposizione prevedeva che l’esercizio della libertà religiosa fosse escluso quando la confessione seguisse “principi o riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume”, ma la disposizione fu approvata dopo che l’Assemblea aveva soppresso le parole “principi” e “ordine pubblico”. La disposizione dell’art.20 Cost. era stata proposta nella relazione Dossetti alla Commissione per la Costituzione, secondo cui questa era voluta anche da alcune confessioni acattoliche. La disposizione valeva ad impedire un trattamento odioso e d’eccezione per gli enti ecclesiastici o con fine di religione o di culto (privazione della personalità giuridica, incapacità di acquistare o di possedere); lo Stato avrebbe potuto porre limiti alla posizione di tali enti solo quando avessero riguardato tutte le persone giuridiche. Disposizione approvata senza discussione. 2. LE TESI DOTTRINALI SULL’ART.7, CO.1 COST. Come per tutte le situazioni, anche intorno al 1° co. dell’art.7 nacquero critiche e giustificazioni: da un lato, c’era chi vedeva in questa disposizione un “omaggio politico” alla Chiesa; dall’altro lato, c’era chi sottolineava il valore di tale disposizione dal punto di vista del diritto positivo. Ad ogni modo, risulta importante il riconoscimento dell’originarietà dell’ordinamento canonico: il suo carattere primario deriva dal fatto che esso è nato per forza propria, senza l’intervento esterno di nessun altro ente. Il fatto che l’originarietà sia riconosciuta all’interno della Carta, fa sì che la posizione della Chiesa sia elevata a presupposto costituzionale nei confronti del diritto statuale. Dunque, tutti gli atti statuali che considerano la Chiesa come un ordinamento subordinato allo Stato, sarebbero in contrasto con tale norma. La Costituzione non esclude che lo Stato possa intervenire nelle materie ecclesiastiche di sua competenza, ma esclude che lo Stato possa considerare la Chiesa come ordinamento subordinato: quindi, in Italia non potrebbe mai esserci un regime cesaropapista dove il capo dello Stato è anche capo della religione; o un regime giurisdizionalista, nel quale lo Stato eserciti una somma di poteri per tutelare la Chiesa o tutelarsi da essa. Quindi, il 1 co. dell'art.7 esclude anche la Chiesa di Stato, la teocrazia, la potestà diretta o indiretta della Chiesa in temporalibus. Ovviamente, la norma tende a garantire che anche lo Stato non può essere subordinato alla Chiesa. L’equiparazione della legge di esecuzione dei Patti alle leggi costituzionali importa che le norme di essa possono derogare, quando rispettino i “principi supremi”, le norme della Costituzione formale, ma tali deroghe sollevano notevoli perplessità anche per la difficoltà di cogliere il confine fra “principi supremi” e principi non supremi dell’ordinamento costituzionale. Per quanto riguarda l’individuazione delle norme protette dall’art.7 Cost, la Corte si è dimostrata alquanto indecisa ed oscillante. Inizialmente, la Corte considerava protette non solo le norme di origine concordataria introdotte dalla legge di esecuzione n.810 del 1929, ma anche quelle dirette ad indicare una delle tante applicazioni possibili delle norme che erano state così adattate. In una successiva sentenza del 1977, la Corte tenne a precisare che l’art. 7 Cost. protegge solo la legge n.810 del 1929, e le cui norme potevano essere dichiarate illegittime solo se in contrasto con i principi supremi dell'ordinamento costituzionale. Mentre le leggi di applicazione n.847 e 849 del 1929 erano comuni leggi ordinarie (che potevano risultare illegittime per contrasto con le norme costituzionali). Dopo l’entrata in vigore degli Accordi del 1984, che hanno abrogato il Concordato del 1929, la garanzia offerta dall’art.7 Cost. dovrebbe essere limitata al Trattato del Luterano (l’unico protocollo superstite dei Patti del 1929); invece, la Corte Costituzionale sembra presupporre che l’art.7 garantisca anche i nuovi Accordi. 6. GLI ACCORDI DEL 1984 E LA COSTITUZIONE Questi Accordi (e le leggi che ad essi hanno dato esecuzione) hanno avuto un effetto molto più ampio di una semplice modificazione, in quanto essi hanno abrogato tutte le norme del vecchio Concordato del 1929 e della legge che l’ha eseguito. Quindi risulta fuori di dubbio che il Concordato sia stato solamente modificato. Comunque, sia che i nuovi trattati si considerino una modificazione o una totale sostituzione dei vecchi accordi, è da escludere che le leggi di esecuzione n.121 e n.206 del 1985 e gli accordi cui esse si riferiscono siano garantiti dall’art.7, 2°comma Cost. Chi, invece, afferma la tesi opposta si basa su questa considerazione: se ai nuovi Accordi, riguardanti la Chiesa cattolica e alle nuove leggi di esecuzione di tali accordi non viene riconosciuta la garanzia dell’art.7 Cost., sarebbe riservato un trattamento deteriore rispetto a quello previsto dall’art.8, 3° comma Cost. per le intese con le altre confessioni, le cui leggi di approvazione sono sempre e in ogni caso garantite da tale norma. Risulta inequivocabile che l’art.7 Cost. tutela solo ed esclusivamente i Patti Lateranensi, senza curarsi degli sviluppi futuri. Gli accordi fra lo Stato e la Santa Sede sono parificabili ai trattati internazionali, sicché risulterebbero garantiti non dall’art.7 bensì dall’art.10 Cost. Questa tesi è ora rafforzata dall'art.117 Cost, il quale, secondo le modifiche apportate dalla l.cost. n.3/2001 sancisce al co.1 che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. Ma è possibile pensare che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica, quando siano disciplinati da accordi con la Santa Sede, attengano alla materia costituzionale a prescindere dalla previsione dell’art.7 Cost. Anzi può sembrare che l’art.7 Cost., a prescindere dalle sue disposizioni, rappresenti un continuum, nel senso di testimoniare e ribadire il principio che la materia dei rapporti in questione attenga alla sfera costituzionale, un principio esteso, tramite l’art.8, alle altre confessioni religiose. Perciò, ove si ritenga che, in forza degli art.10 e 117 Cost, i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica appartengano alla materia costituzionale, da ciò stesso discende la conseguenza che gli accordi, stipulati tra le 2 parti e resi esecutivi nell'ordinamento dello Stato, sono garantiti dalla Cost. nei confronti delle leggi ordinarie che avessero l'effetto di abrogare, modificare o derogare le norme di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione di codesti accordi. Inoltre, occorre avvertire che l'ordinamento vigente sembra orientarsi nel senso che l'art.7 Cost. garantisca anche gli Accordi del 1984. Infatti, la Corte Costituzionale con le sentenze del 1989 e del 1991 ha affrontato questioni di legittimità riguardanti norme di esecuzione dell'Accordo del 1984: ed ha ritenuto che, anche in tali casi, il giudizio di legittimità delle norme contestate potesse essere espresso non con riferimento a qualsiasi norma costituzionale, ma solo avvalendosi del parametro dei principi supremi dell'ordinamento costituzionale. In futuro non è esclusa una diversa posizione, ma per il momento dobbiamo registrare questa posizione. CAPITOLO 5: STATO E CONFESSIONI RELIGIOSE NELLA COSTITUZIONE 1.LE CONFESSIONI RELIGIOSE NELLA COSTITUZIONE Oltre all’art.7 (riguardante i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica), nella Costituzione risulta fondamentale l’art.8: questo detta le norme fondamentali sui rapporti con tutte le altre confessioni. In particolare modo, il 2° ed il 3° comma sono importanti per capire quale posizione tiene lo Stato nei confronti di tali confessioni. Già il fatto che, nel 2° comma, le qualifichi come “confessioni religiose diverse da quella cattolica”, fa capire che in realtà non esiste quell’imparzialità che lo Stato dovrebbe avere nei confronti di tutte le confessioni. Quindi, data questa situazione si può dedurre che mentre l’art.7 Cost. disciplina i rapporti con la confessione di maggioranza, l’art.8 Cost. regola i rapporti con le confessioni di minoranza, così intese tutte le altre manifestazioni del religioso. Tutte le confessioni religiose organizzate danno vita ad altrettanti ordinamenti originari ed indipendenti da quello dello Stato. Questo implica che i rapporti tra queste confessioni e lo Stato devono essere “regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”, 3° comma dell’art. 8 Cost., ed essa vale per tutte le confessioni. 2. LE INTESE DELLE CONFESSIONI RELIGIOSE CON LO STATO: LA LORO NATURA GIURIDICA Le intese che si stipulano tra lo Stato e le confessioni religiose fanno sorgere molti problemi come la natura giuridica delle intese, la posizione delle intese nei confronti del procedimento legislativo, a chi spetta la capacità di stipularle ed altri ancora. L’art.8, 2°comma garantendo ad esse la libertà organizzativa, disciplina i rapporti dello Stato con tali organizzazioni riguardo alla sfera interna di ciascuna, escludendo l’ingerenza statuale nella formazione degli statuti. Il 3 comma prevede il caso che si renda necessario od opportuno che il legislatore detti norme riguardanti le confessioni diverse dalla cattolica, quando si pongano in rapporto col mondo esterno e agiscano nell’ambito della società civile, garantisce a tali organismi che la legge sarà emanata “sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Il 3° comma dell’art. 8 Cost. contiene una riserva di legge nella materia della disciplina dei rapporti tra Stato e confessioni di minoranza diverse dalla cattolica; questa riserva, poiché garantisce la libertà religiosa (che ha un importanza pari alla libertà personale), deve essere compresa tra le riserve assolute di legge o le riserve rafforzate o aggravate nel senso che il potere legislativo può essere esercitato solo con modalità particolari (cioè sulla base di accordi ed intese previste dagli art.7 e 8 Cost. con le confessioni religiose interessate). Sotto questo aspetto, risulta rafforzata la libertà religiosa di tali gruppi sociali, essendo escluso che l'attività di essi, anche nel campo non garantito dalle norme costituzionali, possa essere limitato da prescrizioni generali dettate dall'esecutivo. Non vi è dubbio che la norma in questione usa alle confessioni di minoranza un trattamento analogo a quello previsto per la Chiesa cattolica e, perciò, assicura ad esse un rispetto formale senz'altro maggiore di quello mostrato per qualsiasi altro gruppo sociale che entri in rapporto con lo Stato. Questa previsione è, però, del tutto giustificata dalla precedente norma, dettata dal co.2 dell'art.8, la quale riconosce alle confessioni organizzate il rango di ordinamenti giuridici indipendenti e non subordinati. Una tesi estrema che riguarda le intese è quella che nega loro qualsiasi natura giuridica, considerandole solo come atti politici che non vincolerebbero il legislatore ad adeguarsi alle statuizioni di esse; ma questa tesi è stata confutata, in quanto è stato osservato che “le intese appartengono effettivamente al campo del diritto”. Infatti, essendo costituzionalmente garantito il fatto che le norme riguardanti i rapporti tra le confessioni di minoranza e lo Stato debbano essere poste su basi di intese, una legge che regolasse tali rapporti non in base a tali intese sarebbe incostituzionale (lo stesso vale per l’abrogazione di tali norme, che possono avvenire solo con accordi). Possiamo perciò definire le Intese come una condizione di legittimità costituzionale, come un “LIMITE PER IL LEGISLATORE ORDINARIO”, il quale, per non eludere la garanzia costituzionale offerta alle minoranze religiose, deve attenersi alle intese per poter legiferare, trasformando il contenuto di queste nell'eventuale legge. Il compito del Parlamento, perciò, dovrebbe essere solo quello di “tradurre in forma giuridica le disposizioni concordate”; però, siccome il Parlamento ha il potere di rifiutare l’approvazione di una legge di esecuzione di intese con una confessione di minoranza, esso ha un potere deterrente nei confronti di accordi che non siano accettabili dallo Stato. Se, invece, si pensa all'interesse della confessione religiosa, è evidente che il Parlamento non abbia motivo per modificare un regolamento di rapporti che la confessione religiosa ha accettato consentendo all'intesa. 3. LA CAPACITÀ DELLE CONFESSIONI A STIPULARE LE INTESE: PLURIME E COLLETTIVE Per quanto riguarda la capacità a stipulare le Intese, essa spetta solo a quelle confessioni di minoranza organizzate, cioè a quei gruppi che (usufruendo della libertà di organizzazione) abbiano assunto un preciso assetto istituzionale. Questa tesi sembra accettabile per almeno 2 motivi: anzitutto, perchè sarebbe strano che un gruppo con fini di religione o di culto, il quale volesse essere solo una comunità spirituale, non contaminata dall'ombra di diritti e di doveri che leghino i soci tra di loro ed il gruppo verso i terzi, sentisse il bisogno di una legge disciplinatrice dei suoi rapporti con lo Stato. In secondo luogo, perchè un gruppo anorganico difficilmente potrebbe esprimere quei rappresentanti che dovrebbero concordare le intese con l'autorità statuale. Va, inoltre, ricordato che la Cassazione ha di recente affermato che il potere esecutivo non può sindacare discrezionalmente con quale confessione religiosa poter stipulare un'intesa, ritenendo che rientri tutt'al più nell'ambito della discrezionalità tecnica l'accertamento preliminare relativo alla qualificazione dell'istante come confessione religiosa, e dichiarando pertanto il correlato obbligo di negoziare con qualunque soggetto confessionale, purchè reputato tale. Un altro problema riguarda le cd. INTESE PLURIME: cioè bisogna vedere se le intese possono essere stipulate solo tra lo Stato ed una sola confessione religiosa, o se possono essere stipulate con il concorso di più confessioni e dar luogo ad una legge che le riguarda. Alcuni autori appoggiano la prima tesi affermando che ogni confessione ha un proprio carattere, diverso dalle altre confessioni, e quindi le intese devono essere fatte singolarmente; ma queste difficoltà possono essere superate, dato che confessioni di minoranza potrebbero avere interessi comuni e quindi potrebbero dare vita ad intese plurime. In ogni caso, è evidente che la legge risulterà applicabile solo a quegli organismi confessionali che siano stati parti delle intese. 4. L’ORGANO STATUALE COMPETENTE A STIPULAR LE INTESE La competenza a stipulare le Intese spetta senza dubbio al GOVERNO. Siccome le intese comportano l’emanazione di una legge, esse rientrano nella responsabilità politica del Governo; inoltre, sono accordi che devono essere valutati sotto il profilo dell’opportunità politica e del rispetto della Costituzione. Quando viene stipulata una intesa generale o una intesa che è ricca di contenuti, c’è bisogno dell’intervento del Presidente del Consiglio: quando si stipulano intese che rientrano nella competenza di un singolo dicastero, basta l’intervento del Ministro di quel determinato settore. È chiaro che le decisioni prese da queste personalità devono essere esaminate dal Consiglio dei Ministri: esso ha il potere sia di autorizzare la stipulazione dell’intesa, sia di deliberare il disegno di legge di approvazione dell’intesa stipulata. Norme interne emanate dal Presidente del Consiglio prevedono l’istituzione, presso la Presidenza, di un’apposita Commissione interministeriale, presieduta dal Sottosegretario alla stessa Presidenza, la quale ha il compito di preordinare gli studi e le linee operative per realizzare le intese che siano richieste dalle confessioni religiose. 8. L’ART.8, 3° COMMA DELLA COST. E LE LEGGI SUI CULTI AMMESSI EMANATE PRIMA DEL 1948 Il 3° comma dell’art. 8 Cost. ha tolto la possibilità allo Stato di poter modificare le leggi precedenti concernenti i culti di minoranza senza intese, ma la legge emanata sulla base di intese ha la possibilità di abrogare le norme delle leggi del 1929-30 che siano in contrasto con la Costituzione (se limitano l’uguale libertà di tutte le confessioni). Quindi, le norme delle leggi del 1929/1930, ove fossero in contrasto con la Costituzione, sarebbero inapplicabili e la Corte Costituzionale dovrebbe dichiararne l'illegittimità, senza che sia necessario l'istituzione di intese per l'abrogazione delle stesse; invece, qualora il legislatore volesse sostituire le norme abrogate con norme nuove, dovrebbe attendere che il governo concluda le intese necessarie. Il 3° co., art.8 è una norma che limita la competenza del legislatore ordinario nella materia dei rapporti fra Stato e confessioni religiose. Poiché la legislazione del 1929-1930 riguarda tali rapporti e, in base alla stessa, le confessioni religiose hanno ottenuto il riconoscimento di enti, l'autorizzazione alla destinazione al culto di templi o di oratori, l'approvazione della nomina di ministri di culto ecc., l'abrogazione di queste leggi metterebbe a rischio una serie di diritti acquisiti eccedenti rispetto al diritto comune. Dunque, il legislatore ordinario può abrogare quelle norme delle leggi 1929/1930 che, essendo limitatrici dell’uguale libertà di tutte le confessioni, siano in contrasto con la Costituzione, ma non può abrogare quelle norme che abbiano consentito alle confessioni di minoranza l’acquisizione di diritti e di potestà non conseguibili in base al diritto comune. CAPITOLO 6: LA LIBERTÀ RELIGIOSA NELL’ORDINAMENTO ITALIANO La libertà religiosa è offerta nel nostro Paese alle persone fisiche, agli enti, alle formazioni sociali e alle confessioni religiose, ed è garantita dalla Costituzione: pensiamo agli art.2, 3, 7, 8, 19 e 20, alle quali possiamo affiancare quelle degli art.17, 18, 21, 33, 51 che garantiscono diritti di libertà strumentali per l'esercizio della libertà religiosa. Però, oltre queste norme, dobbiamo ricordare anche le leggi introdotte nell’ordinamento in esecuzione di convenzioni internazionali. 1.1. NEI TRATTATI INTERNAZIONALI BILATERALI Per quanto riguarda i trattati internazionali bilaterali, l’ordinamento italiano ha cominciato ad assumere obbligazioni rilevanti nell’ambito internazionale, in materia di libertà religiosa, dopo la fine della guerra nel 1918. Siccome l’Italia conquistò territori come l’Istria, cominciò ad essere di rilevante importanza il problema degli ortodossi: così furono stipulati vari accordi, tra cui quello tra l'Italia e la Jugoslavia del 1924, reso esecutivo nel 1934, ma tale accordo non fu mai convertito in legge, sicchè rimase in vigore sino alla stipulazione ed esecuzione di un nuovo accordo. Ma tali accordi furono completamente stravolti dalla 2° Guerra Mondiale e dal Trattato di pace che l’ha conclusa. Ad ogni modo, questi tipi di accordi erano diretti a garantire la libertà religiosa delle istituzioni ecclesiastiche ortodosse, ma non la libertà dei singoli fedeli. Infatti, tale libertas Ecclesiae non escludeva l'esercizio sulle comunità serbe di quei poteri giurisdizionalisti che, in quel tempo, erano esercitati dallo Stato italiano sulla Chiesa Cattolica in base alla legge sulle guarentigie pontificie. Questi accordi possono essere iscritti fra la normazione derivante dall’ordinamento internazionale, diretta a garantire la libertà religiosa, in quanto gli accordi consentivano alle comunità istituzionali una libertà che si rifletteva sui singoli, come fedeli di una minoranza religiosa avente anche una base etnica: il singolo che professava quella determinata confessione era completamente libero da impedimenti che potessero derivare dall’ordinamento statuale; inoltre lo Stato doveva rispettare tale libertà e non poteva interferire nel suo esercizio. Un ulteriore accordo bilaterale in cui è garantita la libertà religiosa è il Trattato di amicizia, commercio e navigazione stipulato fra l’Italia e U.S.A nel 1948. Tale Trattato, oltre ad assicurare la libertà di coscienza e di culto, in privato e in pubblico, con il limite della pubblica morale o dell’ordine pubblico, considera una serie di attività pratiche volte al conseguimento di fini religiosi. 1.2. NEI TRATTATI INTERNAZIONALI MULTILATERALI Per quanto riguarda i Trattati internazionali multilaterali, dopo la fine della 2° Guerra Mondiale, la libertà religiosa è stata proclamata come principio fondamentale da osservare da una serie di convenzioni internazionali e da molte dichiarazioni dell’ONU;molto importanti risultano le norme sulla libertà religiosa, contenute in convenzioni, rese esecutive nel nostro ordinamento interno. Le più importanti sono il Trattato di pace del 1947 tra l’Italia e vari Paesi; la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 a Roma, integrata da un Protocollo addizionale stipulato a Parigi nel 1952, atti resi esecutivi dalla l. n.848/1955. L’art.15 del Trattato di pace obbliga l’Italia a rispettare la libertà di culto. La Convenzione europea riconosce ad ogni singolo individuo la libertà di coscienza e di religione, inclusa la facoltà di cambiare liberamente religione o credo, di manifestare con il culto, l’esecuzione di riti e l’insegnamento della propria religione, sia in forma individuale sia in forma associata, col solo limite, stabilito per legge, della protezione dell’ordine pubblico, della salute, della moralità pubblica e dei diritti e libertà degli altri. Inoltre garantisce la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di riunione, la libertà di un uomo e di una donna di unirsi in matrimonio per fondare una famiglia secondo la propria legge nazionale. L'art.2 del Protocollo addizionale riguarda il diritto all'istruzione, che non può essere rifiutato ad alcuno, ed il diritto dei genitori di curare l' educazione dei figli, assicurando ad essi un insegnamento conforme alle loro convenzioni religiose Il diritto di libertà religiosa, garantito dalla Convenzione europea del 1950, è assicurato anche dal Trattato sull’UE stipulato a Maastricht nel 1992, il quale richiama espressamente la Convenzione. La Carta dei diritti fondamentali dell’UE del 2000 garantisce ad ogni individuo il diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e religione. Tale diritto include quello di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti. Nel 2007, il Consiglio dell’UE ha adottato il regolamento CE n.168/2007 che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali, allo scopo di fornire alle istituzioni competenti della Comunità e agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario, assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali. Da tempo, inoltre, apposite Convenzioni, rese esecutive con legge, hanno escluso il fattore religioso come motivo di discriminazione nel campo del lavoro e in quello dell'insegnamento. Le norme derivanti da tali accordi internazionali sono state poste nell’ordinamento italiano da leggi ordinarie; tali leggi ordinarie hanno la caratteristica che, fino a quando saranno in vigore nell’ordinamento internazionale gli accordi fra gli Stati che li hanno ratificati, non potranno essere modificate o abrogate unilateralmente dal legislatore ordinario. Di tali disposizioni solo quella riprodotta nel 1947, dando esecuzione al trattato di pace, ha avuto carattere di novità nel nostro Paese; poiché, le altre, essendo ripetitive di norme costituzionali già vigenti in Italia, non hanno avuto un effetto innovativo, ma solo quello di ribadire i diritti assicurati dagli artt. 2,3,7,8,13. 1.3.NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO Un importante peso nell'esperienza giuridica in materia di libertà religiosa hanno assunto le decisione della Corte Europea dei diritti dell'uomo. L'art.9 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo prevede, al 1 comma, che ogni persona ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione; un diritto che include la libertà di cambiare religione o credo, così come la libertà di manifestare la propria religione, individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l'insegnamento, le pratiche e l'osservanza dei riti. Un testo che propone un'ampia tutela della libertà di religione. Il testo della Convenzione prevede però anche un 2 comma, il quale contempla alcuni limiti all'esercizio di tale libertà: la libertà di manifestare la propria religione o credo non può essere oggetto di restrizioni diverse da quelle che sono stabilite dalla legge e che costituiscono misure necessarie alla pubblica sicurezza, alla protezione dell'ordine, della salute o della morale pubblica. La Corte, in una sentenza del 2011, in tema di libertà religiosa, ha affermato che tale libertà non può limitarsi al mondo interiore della persona, ma deve avere necessaria manifestazione esterna. Essa ha così distinto tra freedom to believe (libertà di aderire ad una religione o credo) e freedom to act (libertà di manifestare tale credenza o credo). La prima che comprende la libertà di scegliere non ammette restrizioni; la seconda, invece, ammette delle eccezioni, purché previste dal diritto. 1.4. NELLO STATUTO DELL'ONU E NELLE CONVENZIONI Nello Statuto dell’ONU troviamo che uno dei fini di tale organizzazione è quello di promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali senza distinzioni di sesso, razza, lingua o religione. Nell’ONU sono state stipulate delle Convenzioni (a cui l’Italia ha aderito) dove il fattore religioso è garantito sotto vari aspetti. Le Convenzioni sono trattati internazionali multilaterali che obbligano gli Stati ratificanti ad applicare le norme in esse contenute. 1.5. NELLE DICHIARAZIONI DELL'ONU Infine, la libertà religiosa è ricordata anche nelle Dichiarazioni dell’ONU: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 e ad altre risoluzioni sul genocidio, sui diritti del fanciullo, sulla discriminazione delle donne, in cui la religione è dichiarata come diritto di libertà e non può essere considerata come fattore discriminante dei diritti dei singoli. I principi contenuti in queste Dichiarazioni non costituiscono un autonoma fonte del diritto internazionale generale, in quanto l’Assemblea dell’ONU ha solo il potere di emanare raccomandazioni di valore esortativo, ed è quindi priva di poteri legislativi mondiali. Per cui, queste Dichiarazioni non hanno effetti giuridici obbligatori, ma quando queste influiscono sulla prassi degli Stati e danno vita a comportamenti conformi tra i vari Stati, allora tali Dichiarazioni possono formare una consuetudine internazionale. Inoltre, la Dichiarazione può valere come accordo, in forma semplificata, tra quegli Stati che abbiano votato a favore della sua approvazione, specie quando la Dichiarazione abbia equiparato la violazione dei principi in essa contenuti alla violazione della Carta dell'Onu o del diritto internazionale generale. 1.6. NEI DOCUMENTI DELLA C.S.C.E. O DELL' O.S.C.E. Il diritto alla libertà religiosa, a volte, può essere trovato anche in atti internazionali che non hanno efficacia giuridica, essendo essa esclusa o dalle dichiarazioni delle parti o dal testo stesso del documento. Fanno parte di questi accordi i documenti che hanno concluso le riunioni della CONFERENZA SULLA SICUREZZA E LA COOPERAZIONE IN EUROPA (CSCE). Questi accordi sono risultati molto importanti, soprattutto per i rapporti tra il mondo occidentale e i Paesi dell’Est europeo: ma questi non possono essere considerati come produttivi di effetti giuridici. Nel 1994, nella Conferenza dei Capi di Stato e di governo della CSCE, questo organismo è stato trasformato in OSCE (ORGANIZZAZIONE PER LA SICUREZZA E LA COOPERAZIONE EUROPEA). Nella Dichiarazione conclusiva è sottolineato come tutti i Paesi facenti parte a tale organizzazione si debbano impegnare per “garantire la libertà di coscienza e di religione e per promuovere un clima di tolleranza e rispetto tra le diverse comunità di credenti e non credenti”. 1.7. NELLE RISOLUZIONI DEL PARLAMENTO EUROPEO Anche il Parlamento Europeo si è interessato al problema della libertà religiosa, anche se non può essere considerato un organo legislativo dell’Unione, pur essendo un organo eletto dal popolo a suffragio universale e diretto. Quindi, le risoluzioni date dal Parlamento Europeo non pongono in essere norme giuridiche, ma valgono come indicazione delle tendenze dominanti nell’Ue. Vi sono varie tesi, una tra queste, pur preoccupandosi della protezione della religiosità del singolo e pur individuando nell'ateismo un atteggiamento spirituale non dissimile da quello religioso, vuole dare al diritto di libertà un contenuto non solo formale, ma anche reale. Questa tesi, oltre ad attribuire allo Stato la funzione di rendere concretamente possibile una scelta di carattere religioso veramente libera, considera la libertà religiosa come scelta tra i valori posti dall’ ordinamento, in cui l’importanza della libertà sta nella facoltà di ognuno di “fare le cose che sono degne di essere fatte”. Ma, da questo punto di vista, la libertà è intesa come virtù, come impegno civile secondo una concezione aristocratica: invece, sappiamo che la Costituzione, garantendo a tutti la libertà religiosa, ha inteso proteggere gli uomini comuni. Quindi non vi è solo il diritto di scegliere, ma vi è anche il diritto di non compiere alcuna scelta. Questa tesi finisce con l'avere carattere riduttivo del contenuto del diritto di libertà religiosa. Durante gli anni ’60, si andò diffondendo la tesi della libertà religiosa come partecipazione: cioè, si pensava che l’uomo fosse veramente libero quando partecipava in maniera diretta all’esercizio di quegli atti, alla formazione delle decisioni e delle scelte a cui fosse interessato. L’equivalenza tra libertà e partecipazione all’interno dell’ambito religioso comporta sicuramente un vivo interessamento da parte del singolo alla vita di un dato gruppo religioso o di culto, ma trascura il diritto alla miscredenza e alla non partecipazione ad alcun gruppo (diritti garantiti dalla nostra Costituzione). Anche in questo caso, la libertà, intesa come partecipazione al potere, per l'eccessiva dilatazione del suo aspetto attivo, finisce con l'avere un significato riduttivo. Un’altra tesi è quella della libertà religiosa come libertà “formale”: formale nel senso che tale libertà sarebbe a favore solo di coloro che possono esercitare di fatto le facoltà ad esse connesse. Essa è una libertà che potrebbe essere utilizzata a pieno solo da confessioni meglio organizzate (in particolare dalla Chiesa cattolica, religione privilegiata dal Concordato del 1929 e dagli Accordi del 1984). L’equilibrio pluralista garantito dalla Costituzione, però, non consente allo Stato di intervenire per ridistribuire le risorse a disposizione dei singoli o dei gruppi. Allo Stato si può solo chiedere di non favorire le confessioni di maggioranza in confronto a quelle di minoranza. Si tratta di stabilire non una uguaglianza formale bensì sostanziale secondo la concezione democratica. 5. LIBERTÀ RELIGIOSA COME LIBERTÀ PRIVILEGIATA Alle tesi che cercano di ridurre l’ambito della libertà religiosa, possiamo contrapporre quelle teorie che considerano la libertà religiosa come una libertà “privilegiata”. Questa teoria scaturisce dall’interpretazione dell’art.19 Cost. con gli altri articoli della Carta che prevedono altri tipi di libertà: se pensiamo alla libertà di riunione e di associazione (art.17-18 Cost.) o alla libertà di manifestazione del pensiero (art.21 Cost.) considerate all’interno della libertà religiosa, si potrebbe pensare che la libertà religiosa sia una libertà disciplinata da norme costituzionali speciali e più favorevoli. Quest'ultima opinione ha base nella lettura della Cost., nel senso che attribuisce a tutti il diritto di riunione e il diritto di associarsi in materia religiosa, in quanto diritti inerenti alla personalità umana. Inoltre, la disciplina dei controlli sull'attività di culto, in vista della conformità al buon costume, non può essere confusa con quella prevista dall'art.21 ultimo comma per prevenire e reprimere le violazioni dello stesso limite ad opera di spettacoli e altre manifestazioni. Di fatto, i riti religiosi non sono né uno spettacolo né una manifestazione, come presuppone l'art.21, ma sono estrinsecazione dell'associarsi dei fedeli nel culto della divinità; per questo sono sottratte a quei controlli preventivi che, invece, sono ammessi per gli spettacoli. Invece, non sembra dubitabile che lo svolgimento delle riunioni e l'esercizio del diritto di associazione per scopo di religione o di culto siano tutelati anche dagli art.17 e 18. Infine, sembra da negare che la libertà religiosa abbia natura privilegiata, perchè il legislatore avrebbe voluto accordare una sfera di libertà particolarmente rigida alla professione delle convinzioni religiose. Una tale esigenza sarebbe comune all'esercizio di tutte le libertà che dessero luogo a manifestazioni verso l'esterno, sicchè verrebbe meno il motivo per differenziare la tutela costituzionale della libertà religiosa da quella delle altre libertà. L’esistenza di una norma apposita a garanzia della libertà religiosa non deve essere ricercata nel fatto che essa sia una libertà privilegiata, ma in ragioni d’ordine storico e recenti.Infatti, la libertà religiosa è stata una delle prime libertà ad essere rivendicata come diritto nei confronti dello Stato. Una volta escluso che la libertà religiosa sia una libertà privilegiata in sede costituzionale, adesso dobbiamo vedere se essa non lo sia in sede di legislazione ordinaria: in questo caso, vengono subito a mente le agevolazioni finanziarie nei confronti delle confessioni religiose, che prevedono facilitazioni tributarie e l'erogazione di contributi. Ma quando queste vengono erogate in maniera prominente a favore di una confessione di maggioranza, si finisce con l’alterare la posizione di uguaglianza che dovrebbero avere tutte le confessioni. Questa disparità di trattamento non è giustificabile con il fatto che le confessioni di maggioranza debbano essere favorite in quanto contano un maggior numero di fedeli. Lo Stato dovrebbe mantenere una posizione imparziale: dovrebbe dare a tutti in maniera giusta e non solo secondo il criterio proporzionale, per concedere un minimo di risorse anche alle confessioni religiose di minoranza. Le agevolazioni non privilegiano la libertà religiosa nei confronti delle altre libertà, giacchè anche queste usufruiscono degli interventi dello Stato. 6. LA LIBERTÀ RELIGIOSA NEI RAPPORTI PRIVATISTICI: NELLA FAMIGLIA La libertà religiosa è un diritto pubblico soggettivo che i singoli e le formazioni sociali possono far valere nei confronti dello Stato. Ma essa è anche un diritto soggettivo valido ed efficace nei rapporti interprivati. Il nostro ordinamento offre gli strumenti adatti per far valere tale diritto in tutti i settori del diritto privato in cui esso venga messo in discussione. All’interno del diritto di famiglia, l’art.147 c.c. del 1942 imponeva ai genitori d’ impartire ai propri figli una educazione e una istruzione “conformi ai principi della morale”; ma tale norma è stata sostituita dall’art.29 della legge n.151/1975, il quale impone ad entrambi i coniugi di “mantenere, educare ed istruire la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei propri figli”. Anche se in nessuna delle due norme si parla di educazione in materia religiosa, è chiaro che i genitori sono liberi di educare i propri figli a questa o a quella religione o all’ateismo: però, questo è soltanto un avviamento, in quanto i figli hanno la massima libertà di scegliere la religione da professare anche prima del compimento del 18° anno di vita. Nei rapporti tra genitori non hanno validità giuridica i patti intorno all'educazione religiosa della futura prole, che fossero intercorsi tra le parti, sia perchè tali accordi investono l'esercizio della potestà attribuita dalla legge ai genitori, la quale non è suscettibile di atti dispositivi, sia perchè riguardano la materia della libertà religiosa, anch'essa indisponibile. Per quanto riguarda l’influenza che un coniuge può esercitare nell’educazione religiosa dei propri figli, non sorge alcun problema quando i genitori seguono lo stesso orientamento religioso; quando invece appartengono a religioni diverse o vi erano dei mutamenti nell’ambito della vita coniugale, era il padre che decideva (e ciò avveniva anche per altre decisioni riguardanti l'educazione dei figli). Ma tale situazione era in contrasto con i principi contenuti all’interno degli art. 29 e 30 Cost., i quali pongono i genitori sullo stesso piano in merito alla potestà sulla prole. Oggi, a norma dell’art.316 c.c., novellato dal d.lgs.154 del 2013 entrambi i genitori possono influire sull’educazione religiosa dei figli in uguale maniera: nel caso in cui i genitori siano separati e in disaccordo sulla scelta religiosa da presentare ai propri figli, ci si rivolge al tribunale per i minorenni. Ovviamente, il credo religioso dei genitori non è un criterio valido per l'affidamento dei figli, essendo l'ordinamento italiano non confessionista e rispettoso delle libere scelte individuali. Anche fra i coniugi vige il diritto di libertà religiosa nel senso che entrambi sono liberi di professare la propria religione, di non credere, di cercare di influire in modo lecito sull’altro coniuge per convertirlo alla propria religione o per allontanarlo dalla miscredenza: chiaramente deve sempre vigere il principio del rispetto delle idee dell’altro coniuge, senza mai sfociare nel fanatismo religioso. La giurisprudenza ha ribadito che la professione di una fede religiosa non condivisa o apprezzata dall’altro non può essere motivo d’addebito della separazione, in quanto un soggetto esercita un diritto garantito dalla Costituzione. Solo quando tale esercizio sfoci nel venir meno dei doveri nell’ambito del rapporto col coniuge e sia tale da influire sull’educazione dei figli, questo comportamento assume rilevanza ai sensi dell’art.151 c.c. col conseguente addebito di separazione, e può divenire motivo incidente nell'affidamento dei figli. Nei rapporti tra privati, la libertà religiosa potrebbe trovare dei limiti nell’ambito successorio: in quegli atti di ultima volontà del de cuius che condizionano l'acquisto dell'eredità al fatto che il beneficiario compia o tenga un certo comportamento religioso (muta religione, segua la via del sacerdozio, contragga matrimonio religioso). La validità di tali condizioni è dubbia; infatti, nel caso in cui il testatore, con quelle disposizioni, cercasse di far compiere al beneficiario un atto contrario alle proprie convinzioni, gli atti non sono validi; invece, nel caso in cui tali disposizioni siano poste in favore del beneficiario, tale condizione sarebbe lecita. 7. NEI RAPPORTI DI LAVORO E PUBBLICO IMPIEGO Un altro settore in cui in cui la libertà religiosa può incontrare delle limitazioni è quello dei rapporti di lavoro. Esistono delle norme che hanno tolto ogni dubbio circa l’illiceità delle discriminazioni religiose e della limitazione della libertà religiosa nel rapporto di lavoro subordinato: gli atti e gli accordi diretti a subordinare l’occupazione, il licenziamento, i trasferimenti di un lavoratore in base alla sua appartenenza religiosa o alla sua attività in materia religiosa sono dichiarati nulli dalla l. n. 300/ 1970. Ciò vale anche per il rapporto di pubblico impiego: in quanto non è ammissibile che la posizione religiosa dell'individuo costituisca motivo di discriminazione per l'assunzione, le promozioni i trasferimenti, la fine del rapporto. Per quanto riguarda quelle norme che escludono la possibilità ad alcune persone di poter svolgere determinate professioni o alcune funzioni pubbliche, queste non violano la libertà religiosa di costoro, in quanto esse sono poste in essere non per fissare una incapacità, ma per stabilire una incompatibilità tra due uffici diversi, allo scopo di garantire un altro interesse costituzionalmente tutelato, come l'imparzialità della P.A. Diverso è il caso di un ente confessionale che richieda ai propri dipendenti (specie se impegnati in un lavoro che tocchi da vicino l'ideologia religiosa) di appartenere ad una determinata confessione religiosa e preveda che l'abbondono di questa comporti la risoluzione del rapporto di lavoro. Infatti, loro hanno il potere di assumere o licenziare un proprio dipendente a seconda della religione da quest’ultimo professata, poiché qui entra in ballo l’autonomia e la libertà dell’organizzazione stessa e il diritto di questa alla propria identità confessionale, garantita ai vari ordinamenti menzionati nell’art.7, 1°comma e 8, 2°comma Cost. In questo caso sarebbe legittimo sia subordinare l'assunzione all'appartenenza religiosa, sia licenziare il dipendente che abbia mutato religione. È evidente che, in questo caso, l'ideologia entra a far parte del contenuto del contratto. La Direttiva CE 78/2000, sulla parità di trattamento in ambito occupazionale e lavorativo, prevede che possano esservi disposizioni che contemplino una differenza di trattamento basata sulla religione o sulle convinzioni personali, nel caso di attività professionali di chiese o di organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o convinzioni personali. Ciò non costituisce discriminazione, laddove, per la natura di tali attività, la religione o le convinzioni personali rappresentino un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell'attività lavorativa, tenuto conto dell'etica dell'organizzazione. Tale differenza di trattamento si applica sulla base di disposizioni e principi costituzionali degli Stati membri, nonché dei principi generali del diritto comunitario, e non può giustificare una discriminazione basata su altri motivi. Il d.lgs. n216 del 2003, di attuazione della Direttiva, determina che, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza, nell'ambito del rapporto di lavoro, non costituiscono atti di discriminazione le differenze di trattamento dovute a caratteristiche connesse alla religione, all'handicap, all'età o all'orientamento sessuale di una persona, qualora, per la natura dell'attività lavorativa, si tratti di caratteristiche che costituiscono un requisito essenziale per lo svolgimento dell’attività medesima. Ciò è necessario perché qualora le disposizioni sulla Chiesa cattolica non trovino corrispondenza con quelle riguardanti le altre confessioni, assumerebbero carattere di privilegio che sarebbe in contrasto con il 1°comma, art.8 . La concezione liberale, sul presupposto che la libertà religiosa fosse un diritto del cittadino verso lo Stato, faceva presente che la religione è “un campo in cui lo stato nulla può dare, il cittadino invece tutto può pretendere”, ma non intendeva dar fondamento ad eventuali pretese economiche per l’esercizio della libertà religiosa. Se il 1°comma dell’art.8, può essere inteso come diretto ad assicurare l’uguaglianza di tutte le confessioni religiose nei “punti di partenza”, ciò non dà la misura di quella che potrebbe essere la concreta possibilità di azione dello Stato. Nell’attuale quadro costituzionale, la regolazione di tale uguaglianza nei “punti di partenza” è utopistica. Essa implicherebbe che tutte le confessioni religiose avessero assicurata la stessa “opportunità”, ossia che tutte disponessero degli stessi mezzi per il raggiungimento dei propri fini. Ma questa parità non esiste nei fatti e lo Stato dovrebbe crearla, dotando di congrui mezzi tutte le confessioni religiose esistenti, in modo che possano non essere da meno della confessione di maggioranza, o iniziando nei confronti di questa una politica diretta a ridimensionarne i mezzi, specie economici. La prima via è impercorribile perché da nessuna norma costituzionale emerge un obbligo dello Stato di finanziare questa o quella confessione religiosa, anzi tali interventi sono inammissibili nell'ambito dei diritti di liberà. La seconda via è impraticabile perché l’art.20 Cost. vieta qualsiasi limitazione legislativa e qualsiasi speciale gravame fiscale a carico degli enti ecclesiastici o aventi un fine di religione o di culto, sicchè sarebbero incostituzionali tutte quelle misure legislative dirette a pareggiare le varie confessioni religiose nella disponibilità di mezzi materiali utili per l’esercizio della libertà religiosa. 10.1 La Corte Costituzionale tutte le volte in cui ha dovuto giudicare sulla legittimità di norme derivanti dai Patti lateranensi e garantite dall’art.7,2°co.Cost., con riferimento al principio d’uguaglianza ha ritenuto che l’art.7 consentisse una deroga in sede concordataria a tale principio. Sembra che per la Corte il principio di uguaglianza non sia ascrivibile fra i principi supremi dell’ordinamento costituzionale con tutte le caratteristiche elencate dall’art.3, 1°comma Cost. L’uguaglianza giuridica sarebbe principio supremo dell’ordinamento costituzionale solo come mero criterio di ragionevolezza delle scelte del legislatore. La tesi secondo la quale l’art.7 Cost. consentirebbe di derogare al principio dell’uguaglianza giuridica senza distinzione di religione, può trovare fondamento solo nella ricostruzione logica del pensiero della Corte. Anche nel settore della religione sarebbero ammissibili differenziazioni purché fossero ragionevoli. Se è cosi, occorre aggiungere che come l’art.7, 2°co. può giustificare le differenziazioni a favore della Chiesa cattolica, così l’art.8, 3°co., poiché garantisce le Intese con le confessioni nella stessa misura in cui tutela i Patti lateranensi, consente che tali Intese possano ragionevolmente derogare al principio di cui all’art.3,1°co.Cost. quando particolari esigenze di tali confessioni lo richiedano. 11. LE FACOLTÀ PROMANANTI DAL DIRITTO DI LIBERTÀ RELIGIOSA Sotto il profilo della posizione riconosciuta ai singoli, ossia considerando la libertà religiosa come diritto soggettivo individuale, sembra evidente che la Costituzione conceda a tutti gli uomini, cittadini, stranieri e apolidi, la facoltà di poter professare la propria confessione religiosa in maniera individuale ed associata, la facoltà di esercitarne il culto privato e pubblico, di propagandarla, di esprimere con ogni mezzo il proprio pensiero religioso (art. 21 Cost.), la facoltà di potersi riunire con altri individui a scopo di religione o di culto (art.17 Cost.) e di poter fondare associazioni con fini di religione o di culto e di aderire a quelle già esistenti (art.18). Più, in generale, la facoltà di esercitare tutti i diritti garantiti dalla Carta, in materia di libertà religiosa. In questo senso, il contenuto essenziale della libertà religiosa è quello di assicurare all’individuo la possibilità di esprimere la propria personalità religiosa in molteplici direzioni: dal soddisfacimento dei bisogni del proprio spirito (atti di culto), al bisogno di comunicare le proprie idee ad altri individui (propaganda) e di costituire organizzazioni collettive o di partecipazione ad esse. Sotto il profilo della posizione riconosciuta ai gruppi sociali, non vi è dubbio che quando essi perseguono un fine religioso o di culto, oltre ad essere titolari di quelle facoltà che competono ai gruppi sociali in quanto tali, sono anche titolari di quelle stesse facoltà, costituzionalmente garantite, appartenenti agli individui e che possono essere esercitate da un organismo collettivo. A ciò induce l’art.2, 7 e 8 Cost., ma anche l’art.19 e 21 che, riconoscendo a tutti la libertà religiosa e quella di manifestare il pensiero, mostrano di tutelare sia l’esercizio delle facoltà comprese in tali diritti da parte degli individui, sia l’esercizio delle stesse facoltà da parte di organizzazioni sociali da questi create. Ma vi sono diritti i quali, seppure esercitabili da parte dei singoli, sono più propensi ad un esercizio da parte dei gruppi sociali e delle confessioni religiose, come l'apertura dei templi ed oratori. 12. LA LIBERTÀ DI COSCIENZA: L’ATEISMO La libertà principale che discende dalla libertà religiosa è la libertà di coscienza, ossia della libera e personale posizione che l’individuo assume di fronte al problema dell’essere e dell’esistere (sotto l’aspetto politico, etico, religioso, ecc.). Ammettere o non l'esistenza di Dio, aderire a questa, o a quella o a nessuna fede religiosa, prima di dar luogo ad atteggiamenti esterni, importa la formazione di un convincimento. Occorre, però, avvertire che la libertà di coscienza, al pari di quella di culto, vengono in rilievo dal punto di vista giuridico, in quanto si manifestano all'esterno. Il significato della parola coscienza può cambiare a seconda di come lo si vuole interpretare: la coscienza è “consapevolezza di sé e di ciò che avviene intorno a sé”, ma è anche “consapevolezza del valore morale delle proprie azioni”. Ad ogni modo, solo recentemente si è arrivati alla conclusione che prima ancora di garantire la manifestazione esterna della propria coscienza religiosa o areligiosa, lo Stato dovrebbe assicurare la libera e indipendente formazione della stessa. Per garantire la libertà, concepita come libertà psicologica, lo Stato dovrebbe eliminare i fattori che pregiudicano una formazione indipendente della propria coscienza religiosa sia dando alle proprie leggi un contenuto tale che possano essere osservate dai singoli senza urtare il loro sentimento di doverosità etica, sia eliminando i condizionamenti esterni, sia mettendo a disposizione di tutti gli strumenti sociali utili alla formazione e maturazione degli spiriti. La libertà di scelta consapevole è insidiata dal sorgere di nuovi miti di massa, dalla manipolazione delle idee, dai privilegi a favore di certe confessioni religiose che sfavoriscono una formazione ateistica. L’ordinamento italiano, però, non sembra garantire un diritto alla formazione della coscienza diverso dal diritto fondamentale di esprimere il proprio pensiero e di ricevere la comunicazione del pensiero altrui. In realtà, questi diritti coincidono tra di loro: quindi, compito dello Stato sarà di evitare condizionamenti derivanti dall’ambiente (pensiamo ai servizi scolastici), senza però creare un ambiente sterile. È anche vero che la formazione di una volontà libera può essere messa a repentaglio da accidenti di varia specie; ma l'ordinamento non mostra di attribuire ad essi un'efficacia determinante, tanto che nella disciplina dei vizi della volontà, in materia negoziale, non dà alcun rilievo alle condizioni ambientali ai fini della validità del negozio, ma solo alla capacità delle parti, all'errore, alla violenza e al dolo, ossia a ciò che, direttamente e immediatamente, ha inciso in modo giuridico sfavorevole sulla formazione della volontà dell'agente limitandone la libertà. Se questo avviene nel campo negoziale, non si vede perchè l'ordinamento debba considerare in modo diverso la formazione della volontà nell'esercizio del diritto di libertà religiosa e, perciò, la formazione della coscienza religiosa o areligiosa. La legge tutela la libertà di formazione della coscienza nei confronti di elementi perturbatori quali l’incapacità, l’errore, il dolo o la violenza e non nei confronti dei condizionamenti ambientali, culturali o altri (es. diritto di voto). Una questione si è proposta con riguardo ai simboli religiosi esposti o mostrati in un luogo pubblico o aperto al pubblico, con riferimento alla questione del Crocifisso. In particolare, ci si è chiesto se non leda il principio di laicità l'esposizione in un luogo pubblico (scuola o aula giudiziaria) del crocifisso. Al riguardo, il Consiglio di Stato ha ritenuto che non vi sia contraddizione tra gli artt.2,3,7,8,19 e 20 Cost e l'esposizione del crocifisso, in quanto questo è volto ad esprimere in chiave simbolica, ma adeguata, l'origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione; principi che emergono dalle norme costituzionale e che delineano la laicità propria dello Stato italiano. Una conferma di ciò può essere data dalla disciplina riguardante l'esercizio del diritto di voto e, pertanto, la formazione della coscienza politica, essenziale per il funzionamento del sistema democratico, nel quale l'ordinamento protegge la formazione della volontà dell'elettore. Qualora si dovessero riscontrare, quanto alla formazione libera di una coscienza religiosa o areligiosa, condizionamenti derivanti dall' esistenza di entità culturali privilegiate da leggi ordinarie, essi potranno essere rimossi solo se tali privilegi limitano la libertà del soggetto di informarsi in modo compiuto; di formare, in modo compiuto, la propria coscienza e di contribuire alla formazione delle coscienze altrui. In questi casi, il privilegio sarà in contrasto con l'art.19 e 21 e con il principio di eguaglianza sostanziale e non con il diritto alla formazione di una coscienza individuale non condizionata. Risulta essere di particolare importanza il problema dell’ateismo, ossia la possibilità da parte dell’individuo di non aderire ad alcun credo religioso (come garantito dall’art.19 Cost.). La decisione di assumere una posizione religiosa,areligiosa o antireligiosa da parte di un individuo non deve mai essere causa di discriminazioni nell’ambito del diritto comune, della capacità civile o politica, o in ogni altro settore della vita sociale. L’ateismo attivo è protetto dagli art.19e21 Cost. e da tutte le altre che garantiscono l'uguaglianza dei cittadini, il diritto di associazione, il diritto di riunione e la libertà di insegnamento. In base a ciò, la propaganda ateistica, le eventuali associazioni atee sono protette dalla Costituzione; dalla partecipazione a tali manifestazioni non può derivare alcuna conseguenza favorevole o sfavorevole nel campo dell'ordinamento statuale. Le organizzazioni atee, ove esistessero, non sarebbero confessioni religiose e, perciò, non godrebbero del regime previsto dall'art.8 Cost. Ciò non toglie però, che esse poiché svolgono un'azione in materia religiosa, negando la validità delle religioni positive e proponendo una propria concezione del destino dell'uomo, risultano garantite sia dall'art.8 sia dall'art.21; inoltre, gli enti con fine negativo di religione sarebbero tutelati anche dall'art.20. Quindi, la Costituzione garantisce ampiamente la libertà di coscienza, ossia la libertà di seguire la religione che si voglia o di non seguire alcuna religione o di avere una visione del tutto laica della vita. In rapporto a tale garanzia, gli atei hanno il diritto di contestare tutte le limitazioni che, in contrasto con gli art.2,3,19,21 Cost, derivassero a danno della loro azione dall'esistenza di privilegi altrui non compatibili con la Cost., ma non possono contestare in blocco l'esistenza nell'ordinamento di un favor religionis. 13.2. PROFESSIONE DI FEDE E ISTRUZIONE RELIGIOSA Fino al 1985, cioè fino a quando è rimasto in vigore il Concordato del 1929, il sistema dell’istruzione religiosa nelle scuole pubbliche ha avuto una impronta confessionistica (chiaramente orientata verso l’insegnamento cattolico): i non cattolici e i non credenti potevano ottenere per i propri figli la dispensa all’insegnamento religioso, e i primi potevano ottenere anche un locale scolastico per far impartire ai figli un'istruzione religiosa diversa dalla cattolica. Ma questo sistema risultava in contrasto con i principi contenuti negli art.3, 8, 19 e 21 della Cost. in quanto l’insegnamento della religione cattolica era obbligatorio e chi chiedeva la dispensa si autodiscriminava. Con l’entrata in vigore dell’Accordo del 18-02-1984, il sistema è cambiato. Secondo tale Accordo, lo Stato “continuerà ad assicurare l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie”, “riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico italiano”. Quindi, adesso la religione cattolica non è considerata come religione dello Stato, ma come valore culturale: il suo insegnamento non è obbligatorio ma facoltativo, tant’è che al momento dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori devono decidere se avvalersi o meno di tale insegnamento. Al fine di rendere effettivo il diritto alla scelta, lo Stato deve organizzare la scuola in modo che, nelle classi in cui vi siano alunni che abbiano deciso di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica, tale insegnamento avvenga secondo orari e modalità non discriminanti. In linea di principio, il nuovo sistema sembra conforme alle norme che garantiscono la libertà religiosa, in quanto è stata eliminata l'obbligatorietà dell'insegnamento: ma essa non risulta esente da problemi. Quello più frequente riguarda il programma scolastico della materia religiosa: infatti, secondo alcuni ci sarebbe bisogno di una riforma dei programmi per offrire un panorama esauriente di tutte le credenze (sia religiose che areligiose) e dell’ateismo. 13.3. LA PROFESSIONE DI FEDE E IL GIURAMENTO NEL PROCESSO Nel nostro ordinamento processuale, le norme che prevedono il giuramento dei testimoni imponevano di dire la verità essendo consapevoli della responsabilità della loro testimonianza davanti a Dio. Questo violava la libertà religiosa degli atei, poiché giurando, con quella formula, erano obbligati a dichiarare di credere nell’esistenza di un essere superiore. Per questo motivo, nel 1979, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità della formula del giuramento nella parte in cui si richiamava la responsabilità del dichiarante “davanti a Dio”. Il richiamo alla rilevanza anche religiosa del giuramento doveva essere effettuato fuori formula dal giudice ed era condizionato al fatto che l'interrogato fosse credente. La formula del giuramento della parte, ex art.238 c.p.c, è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Cost. con sentenza del 1996, limitatamente alle parole “davanti a Dio e agli uomini” di cui al co2. Invece, il 1co. dello stesso art. è stato dichiarato illegittimo limitatamente alle parole “religiose e” Con l’entrata in vigore della nuova disciplina del processo penale del 1989 questo problema è stato completamente superato, in quanto questo nuovo sistema non prevede più che i testimoni prestino un giuramento; il giudice, una volta avvertito il dichiarante dei rischi che potrebbe incorrere dichiarando il falso o adottando una posizione reticente, lo invita a rendere una dichiarazione in cui il testimone si impegna a dire tutta la verità e a non nascondere nessun avvenimento a sua conoscenza. Nel processo civile, però, continuavano ad esistere questi problemi perché il giuramento dei testimoni era sempre previsto dall'art.251 c.p.c. Senonché la Corte Costituzionale ha ritenuto irragionevole il diverso trattamento riservato ai testimoni nel processo civile e in quello penale e ha dichiarato illegittimo l’art.251 del c.p.c. (che prevedeva il giuramento): così, il giudice istruttore deve invitare il testimone a lasciare una dichiarazione dove si impegna a dire la verità e a non nascondere alcun fatto di quanto sia a sua conoscenza. 13.4. LA PROFESSIONE DI FEDE DEI GRUPPI SOCIALI E L'OBIEZIONE DI COSCIENZA La professione di fede del gruppo sociale comporta (per il gruppo) il diritto sia di affermare i propri principi, sia di manifestare la propria adesione ai gruppi che accettino lo stesso credo, sia di distinguersi da quelli che accettino principi religiosi in tutto o in parte diversi: in poche parole, viene affermato il diritto alla propria identità. Infatti, anche se il gruppo sociale non acquisti la personalità giuridica, non per questo è privo di quei caratteri che fanno sì che sia una formazione diversa o simile dalle altre. Il gruppo professionale è protetto nei confronti dello Stato, il quale non può pretendere che esso muti i principi cui dichiara di aderire, ed è protetto anche nei confronti degli altri gruppi sociali, che volessero modificare tali principi. La professione di fede è una manifestazione essenziale dell’ autonomia del gruppo sociale totalmente garantito dagli art.7 e 8,2°e3° comma Cost., i quali rendono inammissibile qualsiasi interferenza sui principi professati dal gruppo. Siccome la Cost. non dice esplicitamente quali sono quei principi che possono formare oggetto della professione di fede né pone limiti di alcun genere alla loro formazione, compito dell’operatore giuridico è quello di tener conto del sentir comune, condizionato dalla cultura, dalle tradizioni e dal grado di civiltà dell'ordinamento in cui si trova ad operare. Nel nostro Paese, data l’influenza del cristianesimo, per fede religiosa si intende la fede in un essere perfetto e soprannaturale che voglia il bene degli uomini. Chi pensa di professare la propria fede in un essere che non sia soprannaturale o che agisca per il male degli uomini, non professa una fede religiosa. La superstizione e il satanismo possono dar luogo a manifestazioni di pensiero, a riunioni di persone ed associazioni, ammissibili a norma e nei limiti degli art.17,18,21, ma non a situazioni ricomprese nell'ambito della libertà religiosa. I principi religiosi non incontrano limiti nella nostra Costituzione: né quello dell’ordine pubblico, né quello del buon costume (che viene richiesto per l’esecuzione dei riti, ma non per i principi). (Il giuramento degli ebrei ha un fondamento obiettivamente religioso per un credente, poiché con esso si chiama Dio a testimone della propria veridicità o del proprio impegno; è un atto assimilabile alla preghiera. Poichè gli ebrei pregano a capo coperto, si prevede la possibilità di richiedere di prestare il giuramento previsto dalle leggi dello Stato a capo coperto). Per quanto riguarda l’obiezione di coscienza, questo è un problema che rientra nell’ambito del compimento di quei doveri che sono imposti dall’ordinamento. Anche se un individuo segue i principi di una determinata confessione religiosa, i quali escludono determinati comportamenti dei propri aderenti, se tali comportamenti sono imposti dalla legge nessuno può sottrarsi. Non può far pensare in modo diverso l'art.2 Cost, il quale, da un lato, garantisce i diritti inviolabili dell'uomo e perciò la sua coscienza religiosa o non, dall'altro chiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, i quali non possono essere elusi solo perchè l'adempimento di essi implicherebbe una qualche menomazione del sentire religioso dell'obiettore. Tuttavia, il diritto di libertà religiosa (intesa come diritto di seguire i dettami della propria coscienza) si espande tutte le volte in cui l’ordinamento, pur imponendo un obbligo, prevede che il singolo possa esserne esonerato (con clausole di salvaguardia più o meno ampie). La legge n.772/1972 ha riconosciuto l’obiezione di coscienza “degli obbligati alla leva militare che dichiarino di essere contrari all’uso personale delle armi per motivi di coscienza”, attinenti a una concezione generale della vita basata su profondi convincimenti religiosi, filosofici o morali. Al servizio di leva era sostituito un servizio militare non armato o un servizio civile sostitutivo, di durata superiore di 8 mesi alla durata del servizio militare. Ma la l. n.958/1986 ha parificato il servizio civile sostitutivo al servizio militare, poiché si tratta di due modi analoghi di adempiere al dovere di difendere la patria; sicchè, la Corte Cost. dichiarò illegittima la differenza di durata. L’obiezione di coscienza al servizio militare diventa diritto soggettivo dei giovani di leva con d.P.R. 1994 n.608. Infatti, sino a quando l'obiezione di coscienza doveva essere discrezionalmente valutata da una Commissione ministeriale, gli obiettori erano titolari non di un diritto soggettivo, ma di un interesse legittimo al corretto operare di tale organo dell'Amministrazione militare. La nuova visione del problema ha portato il legislatore all'ultima riforma: la l.n.230/1998 ha previsto che i cittadini i quali, per obbedire alla propria coscienza contraria all'uso delle armi, nell'esercizio della libertà di pensiero, di coscienza, di religione, non accettano l'arruolamento nelle Forze armate e nei Corpi armati dello Stato possono adempiere gli obblighi di leva prestando, in sostituzione del servizio militare, un servizio civile. Tale servizio è stato considerato una forma valida di adempimento del dovere di difendere la Patria. 13.5. LA PROFESSIONE DI FEDE E I GIORNI FESTIVI Ogni confessione religiosa ha i suoi giorni festivi. Per la Chiesa cattolica e altre confessioni cristiane il giorno festivo è il giorno del Signore, ossia la domenica, insieme ad altre festività (fisse e mobili); per gli ebrei ed alcune confessioni cristiane il giorno festivo è il sabato; per i musulmani è il venerdì. Il rispetto dei giorni festivi è un obbligo di coscienza dei credenti. Con l’Accordo del 1984 fra l’Italia e la Santa Sede, sono stati riconosciuti come giorni festivi tutte le domeniche e le altre festività religiose determinate d’intesa tra le parti. Con tali norme, la festività prevista dalle disposizioni ecclesiastiche diventa una festività civile, con tutte le conseguenze da ciò derivanti nel diritto dello Stato, come, ad es., in materia di termini legali. In quanto, ipoteticamente, le festività religiose riguardano tutti i cittadini, queste vanno a formare il calendario comune. Ma la stessa cosa accade per le confessioni religiose diverse da quella cattolica, per le quali è previsto per il culto un giorno diverso dalla domenica: per questo motivo, la materia dei giorni festivi è stata disciplinata (mediante Intese) con delle variazioni rispetto alle previsioni della Chiesa cattolica. La l.n.516/1988 di approvazione dell'Intesa con l'Unione delle Chiese Avventiste e la l.n.101/1989 di approvazione dell'Intesa con le Comunità ebraiche, prevedono il riconoscimento civile della festività del sabato. Ma il sabato degli avventisti non coincide con quello degli ebrei: quest'ultimo va da mezz'ora prima del tramonto di venerdì a un’ora dopo il tramonto del sabato; mentre per i primi il riposo va dal tramonto del venerdì al tramonto del sabato. Sia gli avventisti sia gli ebrei hanno diritto di fruire, a loro richiesta, del riposo sabatico come giorno di riposo settimanale. Restano, però, salve le imprescindibili esigenze dei servizi essenziali previsti dall'ordinamento civile. In ogni caso, il diritto al riposo sabatico comporta il recupero della giornata lavorativa nella domenica o in un altro giorno, senza diritto a compenso straordinario. Nella scuola si considerano giustificate le assenze di alunni avventisti o ebrei nel giorno del sabato, effettuate a richiesta dei genitori o di alunni maggiorenni. Inoltre, la l.n.101/1989 estende la disciplina prevista per il sabato ad altre 7 festività ebraiche, per 15 giorni complessivi. Il calendario di tali festività è comunicato dall'Unione delle Comunità ebraiche al Ministro dell' interno, con decreto e con pubblicazione sulla GU. Questa situazione ha portato al riconoscimento di alcune festività che prima non erano contemplate, ma non sembra che esse abbiano apportato una variazione nel computo dei termini, ex art.2963 c.c. Infatti, tale norma prevede che i termini siano computati secondo il calendario comune, cioè il calendario seguito dalla generalità dei cittadini. 15. ASSOCIAZIONI A CARATTERE RELIGIOSO O CULTUALE Le associazioni a carattere religioso o cultuale sono protette e disciplinate dall’art.18 Cost. e dal successivo art.20: questo significa che, per la loro formazione o per l’adesione ad esse, non c’è bisogno di alcun provvedimento autorizzativo da parte dello Stato e che nessuna legge ordinaria può prevedere norme limitative o speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica o attività, diverse da quelle fissate per qualsiasi altra associazione. Però, questo significa anche che lo Stato possa informarsi sulle attività di questa associazione per assicurarsi che non si tratti di un’associazione segreta (cioè vietata dalla Costituzione). Essendo delle associazioni lecite, lo Stato non può permettersi di interferire nelle decisioni prese da questi; se avvenisse ciò, lo Stato violerebbe l’art. 19 Cost. interferendo sulla libertà della associazione. La creazione di nuove associazioni, se esclude qualsiasi controllo preventivo da parte dello Stato, può dare luogo a controversie in sede giurisdizionale. Una di queste potrebbe riguardare la denominazione che una nuova associazione intende darsi. Infatti, nel caso in cui questa nuova associazione avesse la pretesa di collegarsi con un organismo preesistente o un’altra confessione religiosa e i rappresentanti di questa confessione fossero contrari, la nuova associazione non potrebbe denominarsi in quel modo. Ciò avviene perché oltre a garantire la possibilità di creare nuove associazioni, si garantisce anche l’identità delle associazioni preesistenti. Infatti, la garanzia della libertà religiosa, offerta dalla norma dell'art.19, assicura a tutti la facoltà di creare qualsiasi associazione con fine di religione o di culto. La stessa norma, però, garantisce l'identità delle formazioni sociali preesistenti, caratterizzate dalla comunione in una data fede e dall'esistenza di determinati statuti organizzativi, sicché l'appartenenza a tali formazioni o il rapporto con esse deve avvenire in base a tali regolamenti interni. In caso contrario, vi sarebbe un abuso della denominazione che violerebbe il diritto della formazione preesistente, poiché affiancherebbe ad essa un'entità dalla stessa non approvata, né riconosciuta come parte di essa. Anche gli enti hanno diritto all'identità personale. Il problema del rapporto tra organizzazione preesistente e associazione nuova (in particolar modo se dissidente) avviene spesso in materia religiosa. Questo è il c.d. fenomeno della DISSIDENZA che non mira alla creazione di nuovi organismi confessionali, ma cerca di operare all’interno di una confessione religiosa con l’intento di riformarla. Nell’attuale ordinamento costituzionale un’ associazione con fine di religione o culto potrebbe anche svolgere attività politica, direttamente o affiancandosi a un partito, purché agisca “con metodo democratico”, secondo l'art.49. 16. LA PROPAGANDA E IL PROSELITISMO Anche la libertà di propaganda e di proselitismo è garantita a tutti dall’art.19 Cost.; tuttavia, dobbiamo distinguere tra il regime riservato alla Chiesa cattolica e quello riservato alle altre minoranze religiose. La religione cattolica ha usufruito di tale diritto sia prima dell’avvento della Costituzione (in base al Concordato del Laterano), sia dopo la stipulazione dell’Accordo del 1984. Qui, l’art.2 garantisce ai cattolici e alle loro organizzazioni la libertà di manifestare il proprio pensiero con ogni mezzo di diffusione. È evidente che l'opera di propaganda può essere realizzata sia con l'esercizio del potere spirituale sia esercitando la libertà di manifestazione del pensiero. Le minoranze religiose, invece, non sempre hanno potuto esercitare il diritto di propaganda. Questo fenomeno era facilmente rilevabile prima dell’entrata in vigore della Costituzione; ma anche dopo, la diversità di trattamento tra Chiesa cattolica e confessioni di minoranza è rimasta evidente. Entrata in vigore la Cost., l'attività di propaganda di tali confessioni è inciampata in 2 diversi articoli: 113 del t.u. delle leggi di p.s. del 1931 e dall'art.402 c.p. In applicazione della prima disposizione, l'autorità di polizia aveva la pretesa di autorizzare, di volta in volta, la distribuzione di volantini, di opuscoli e di altri scritti di propaganda effettuati da appartenenti a queste confessioni e denunciava all'autorità giudiziaria anche quanti distribuissero questo materiale non in luogo pubblico o aperto al pubblico, ma anche di casa in casa, ossia in privato. Talora, domandata la licenza di diffondere volantini, la diffusione era stata vietata dagli organi di polizia in base a motivazione definite dall'autorità giudiziaria in netto contrasto con le garanzie costituzionali. La Corte Costituzionale con sentenza del 1956 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di quasi tutte le disposizioni dell'art.113 del t.u. delle leggi di p.s. Oggi, la Corte costituzionale, con sentenza del 2000 n.508, ha dichiarato l’illegittimità dell’art.402 c.p. che punisce per vilipendio della religione cattolica colui che, per far propaganda del proprio credo, neghi drasticamente (e senza motivazione) i dogmi affermati dalla Chiesa e i suoi riti. In base a tale norma, gli appartenenti alle confessioni di minoranza non possono criticare immotivatamente la Chiesa cattolica e non possono usare quegli slogan che rappresentano il modo più semplice comune di fare propaganda. Non solo: la giurisprudenza ha riconosciuto il diritto di poter criticare la religione cattolica solo a seguito di “studi condotti con serietà e preparazione”. Questo significa che solo i teologi sono liberi di poter criticare i principi della Chiesa cattolica: ma questo stato di cose contrasta con le disposizioni contenute nell’art. 19 Cost., il quale dà a tutti la libertà di poter propagandare (e quindi di poter criticare la Chiesa cattolica). D'altra parte, l'art.402 c.p. proteggeva solo la religione cattolica e i suoi membri, non anche le confessioni di minoranza. Esso era pertanto in palese contrasto sia con l'art.3 Cost, sia con l'art.8, 1 co., sia con l'art.19 e 21 Cost. Da qui, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art.402 con riferimento sia ai citati articoli della Cost. sia al principio supremo di laicità dello Stato. In materia di propaganda religiosa bisogna distinguere la legittima prospettazione di una coscienza del mondo e della vita, la legittima proposta di adesione ad una fede da un’attività non legittima, il cd. “lavaggio del cervello”. Un’attività di propaganda che riesce a far presa su persone immature, disorientate con la manipolazione di bisogni del neofita e il controllo strategico di informazioni da questo ottenute sul suo passato e sulla sua famiglia. Un’attività che non ha il fine di diffondere una fede religiosa, ma ha tale fine allo scopo di reclutare soggetti disponibili per elargizioni o per lavorare nell’interesse dei dirigenti dell’organizzazione pseudo-religiosa. In proposito, per valutare la legittimità dell'opera di proselitismo, occorre vedere se i promotori di essa rispettano i principi desunti dall'esperienza e dettati dal Parlamento europeo. La critica in materia religiosa e dei principi espressi da una determinata fede non può estrinsecarsi in affermazioni verbali prive di argomentazioni e di dialettica, che trascendano nella diffamazione di una confessione religiosa. Entità che possono trovare garanzia nell'art.595 c.p. che punisce il delitto di diffamazione. 17. LA RISERVATEZZA SUI DATI PERSONALI RIGUARDANTI LA RELIGIONE La tutela della libertà di religione e dell’uguaglianza dei cittadini a motivo di religione apprestata dall’ordinamento si è arricchita con la l. 675/1996 volta ad attuare in Italia la Direttiva comunitaria 95/46/ CEsulla protezione dei dati personali. L’art. 22, 1°comma di questa legge, stabiliva che potevano “essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante”, una serie di “dati personali idonei a rivelare l’origine razziale o etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale”. L’art 7, con un’aggiunta da parte del d.lgs. n. 255/1997, prevedeva che il trattamento dei dati non fosse soggetto a notificazione al Garante da parte di associazioni, fondazioni e comitati di vario genere e a carattere religioso. Tali entità potevano raccogliere i dati degli associati o dei soggetti con cui fossero in contatto anche attraverso i propri organismi rappresentativi, istituiti per scopi non di lucro e per finalità lecite. Resta fermo l’obbligo di informare gli interessati e, ove fosse necessario, ottenere il loro consenso. L’art.22 è stato integrato di un comma 1 bis, in virtù di un d.lgs del 1999, che aveva dichiarato non applicabile il divieto di trattamento dei dati in questione, salvo il consenso scritto degli interessati e l’autorizzazione del Garante, quando avessero riguardato gli aderenti alle confessioni religiose o coloro che abbiano contatto con esse, sempre che tali dati non fossero comunicati o diffusi fuori delle confessioni. Tale disciplina riguarda le confessioni che avevano stipulato accordi con lo Stato ex art.7 e 8 Cost. Tale limitazione, che escludeva le confessioni senza intese con lo Stato, sembrava criticabile perché non tutela queste organizzazioni né il mero associazionismo religioso. Questa lacuna fu superata dal Garante della privacy, che aveva emanato nel 1997 un provvedimento di autorizzazione a carattere generale col quale ha ammesso al trattamento dei dati sensibili vari organismi di tipo associativo e fondazioni, fra cui “le confessioni religiose e le comunità religiose” senza distinguere tra confessioni con accordi o senza accordi con lo Stato. Il d.lgs. n.467/2001 ha modificato la legge e le nuove norme hanno consentito un bilanciamento degli interessi che possono limitare la tutela della privacy del singolo. Ciò in riferimento alla necessità di “perseguire un legittimo interesse del titolare o di un terzo destinatario dei dati, qualora non prevalgano i diritti e le libertà fondamentali, la dignità o un legittimo interesse dell’interessato”. Il Codice in materia di protezione dei dati personali ha riorganizzato la materia, prevedendo che i dati sensibili possono essere oggetto di trattamento solo col consenso scritto dell’ interessato, e previa autorizzazione del Garante per la protezione dei dati personali. Non sono soggetti a questa disciplina i dati relativi agli aderenti alle confessioni religiose e ai soggetti che hanno contatti regolari con le medesime confessioni, sempre che il trattamento sia effettuato dai relativi organi, o da enti civilmente riconosciuti, e che i dati non siano diffusi o comunicati fuori delle confessioni. Queste devono determinare idonee garanzie per quanto attiene ai trattamenti effettuati, nel rispetto dei principi indicati al riguardo con autorizzazione del Garante. 18. IL GOVERNO DELLE CONFESSIONI RELIGIOSE Un’altra libertà importante a favore delle confessioni religiose è la libertà di corrispondenza, garantita dall’art.15 Cost.: cioè la libertà di comunicare con i propri fedeli e con i terzi, anche per ciò che sia ritenuto necessario al fine del governo del gruppo sociale. Questa libertà comprende anche la facoltà di poter pubblicare atti o provvedimenti; perciò, essendo questa una libera manifestazione del proprio pensiero, essa è garantita anche dall’art.21 Cost. L'art.2 del Concordato del 1929 aveva assicurato alla Chiesa Cattolica la libertà di comunicazione tra la gerarchia, la pubblicazione e l'affissione di atti alle porte esterne degli edifici di culto. Queste norme costituivano un privilegio a favore della Chiesa, la quale sfuggiva al controllo preventivo di polizia, previsto per qualsiasi altra organizzazione o individuo dall'art.113 del tu. delle leggi p.s. L'art.3 della normazione del 1930, n.289, riguardante i culti diversi dal cattolico, ha autorizzato la pubblicazione senza licenza dell'autorità di polizia degli atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli di queste confessioni religiose. Però, a godere di tal privilegio erano solo i ministri di culto la cui nomina fosse stata approvata dal Ministero dell'Interno. Tale norma non è più applicabile. Quando un atto di governo di una determinata comunità confessionale viene pubblicato, è suscettibile di essere valutato dall’ordinamento statuale come libera manifestazione del pensiero; l’atto avrà contenuto lecito se esso non contrasti con i valori garantiti dalla Costituzione; avrà contenuto illecito nel momento in cui esso provochi un contrasto con questi valori. Il diritto garantito all’autorità ecclesiastica dall’art.2 dell’Accordo del 1984 non ha un contenuto diverso da quello dei diritti garantiti a tutti dagli art.15 e 21 Cost. e incontra stessi limiti di questi. Inoltre, le norme del 1929-1930 continuano a produrre effetti ulteriori rispetto a quelli delle norme costituzionali, nella parte in cui esentano le pubblicazioni di atti e l'affissione di essi da qualsiasi tributo, e, sotto questo aspetto, sono state confermate sia dall'Accordo del 1984 sia dalle norme sull'Intesa con la Tavola valdese; però, non hanno più carattere privilegiario, perchè oggi pur altri organismi sociali (partiti, sindacati) godono di un'esenzione analoga per le loro pubblicazioni ed affissioni. La libertà di corrispondenza, assicurata da tali norme alla Santa Sede e ai vescovi, vale ad escludere che l’autorità giudiziaria possa frapporre ostacoli all’esercizio di essa ai sensi dell’art.15, comma 2 Cost. Questa norma prevede che la limitazione possa essere imposta “con le garanzie stabilite dalla legge”, ma nel caso della Santa Sede e dei vescovi, la legge, con l’art.2, 1° e 2° comma dell’Accordo 1984, esclude la possibilità stessa di qualsiasi limitazione preventiva. Ma questa tesi viene criticata con la specificazione che questo articolo al suo 1° co. non riconosce più il “potere spirituale” della Chiesa sui fedeli bensì il “ministero spirituale” della Chiesa stessa. 20. GLI ENTI CONFESSIONALI E LA COSTITUZIONE L’art.20 Cost. dispone che “Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”. Con tale disposizione, la Cost. ha voluto garantire la facoltà dei singoli e delle confessioni religiose di dare vita ad enti esponenziali: cioè ad associazioni ed istituzioni aventi “carattere ecclesiastico” e “fine di religione o di culto”. Questi enti non devono essere discriminati dal legislatore rispetto ad associazioni di diritto comune. L’esistenza di tale norma sta a significare che la legge potrebbe attribuire a tali enti una posizione simile a quella degli enti pubblici, e che le norme dettate per questi possano essere applicabili anche agli enti ecclesiastici (sempre che non ne derivino limitazioni). 21. ENTI GARANTITI DALL’ART.20 COST.: RICONOSCIMENTO DELLA PERSONALITÀ GIURIDICA Essa tutela associazioni ed istituzioni aventi carattere ecclesiastico e fine di religione o di culto. Secondo la dottrina, questa garanzia riguarda tutti gli enti che sono generati dalle confessioni religiose. Inizialmente, con “carattere ecclesiastico” si intendevano solo gli enti della Chiesa cattolica, mentre adesso sono compresi anche tutti quegli enti che appartengono ad una Chiesa (anche diversa da quella cattolica). L’art.20 Cost. garantisce non tutti indiscriminatamente gli enti confessionali, bensì solo quelli di essi che perseguono un fine di religione o di culto: tra gli enti aventi questo fine sono da inserire le associazioni e le istituzioni cui dessero vita gruppi dissidenti dalle confessioni religiose presenti nel paese, nonché le associazioni o istituzioni che perseguissero un fine religioso di segno negativo, ossia la diffusione dell'ateismo. La disposizione riguarda associazioni ed enti sia che abbiano o che non abbiano ottenuto il riconoscimento della personalità giuridica: non è pensabile che essa tuteli solo gli enti riconosciuti, anche perché tale norma protegge e garantisce anche il momento di formazione dell’ organismo e dell’acquisto della personalità giuridica; perciò riguarda anche gli enti solo di fatto, il loro primo inizio e l'accoglimento dell'istanza di riconoscimento della personalità giuridica. L'art.20 sembra che voglia precisare che le materie della costituzione, della capacità giuridica, dei gravami fiscali e dell'attività degli enti garantiti, nell'ambito dell'ordinamento statuale, siano di competenza di questo, ossia rientrano nell'ordine proprio dello Stato. Ma è da escludere che la Costituzione comporti agli enti garantiti da questa norma un trattamento meno favorevole di quello previsto per gli enti della Chiesa cattolica dal regime concordatario del 1929 e per gli enti delle altre confessioni religiose dalle leggi del 1929-1930. La disposizione garantisce a tutti questi enti un regime non deteriore rispetto a quello riservato dal diritto comune a tutti gli enti, anzi consente l'emanazione di enti più favorevoli. Di conseguenza, la legislazione in materia di enti confessionali, nella parte in cui sia meno favorevole a quella di diritto comune, è illegittima, perchè in contrasto con l'art.20. Tale norma produce non pochi effetti in sede di applicazione della legislazione precedente, la quale deve essere inquadrata nello schema offerto dalla Cost.: uno degli effetti provocati da questo articolo è il riconoscimento della personalità giuridica agli enti della chiesa cattolica. Secondo un'opinione, le disposizioni concordatarie del 1929 avrebbero ammesso il riconoscimento della personalità giuridica solo degli enti ecclesiastici esplicitamente previsti dalla legislazione del Concordato; mentre non avrebbero ammesso che enti ecclesiastici, privi delle caratteristiche, potessero acquistare la personalità come enti di diritto comune. Questa tesi era in contrasto con l'art.20, sicché, con l’avvento della Costituzione, è stato consentito all’autorità governativa di attribuire la personalità giuridica di diritto comune agli enti ecclesiastici che non avessero i requisiti per ottenere il riconoscimento ai sensi della legislazione di origine concordataria. Diversamente, sarebbe venuta meno la parificazione degli enti ecclesiastici, o con fine di religione o di culto, con gli enti di diritto comune. L’art.20 Cost. esclude che il legislatore ordinario possa approvare leggi che privino gli enti ecclesiastici (o con fine di religione o culto) della personalità o che possa procedere alla trasformazione di essi. Privazione della personalità giuridica e trasformazione sarebbero possibili, in astratto, solo ove riguardassero anche gli enti di diritto comune. 22. GARANZIE COSTITUZIONALI IN TEMA DI AMMINISTRAZIONE DEGLI ENTI L’importanza dell’art.20 Cost. è evidente ove si consideri che la materia dell’amministrazione degli enti ecclesiastici o con fine di religione o culto, essendo tali enti collegati con le confessioni religiose, influisce sulla misura di libertà religiosa di cui queste possono godere e disporre. Anche dopo l’Accordo del 1984 fra Italia e Santa Sede, rimase intatto il controllo statale sugli acquisti degli enti (per cui si applicavano le leggi civili relative alle persone giuridiche); ma, quando furono avviate le riforme nella P.A, tutte le norme sul controllo degli acquisti degli enti furono abrogate. Sicchè tale settore dell'attività delle persone giuridiche civili e confessionali è stato liberalizzato. Questo valeva anche per gli enti ecclesiastici. Inoltre, è cessato il 1° Gennaio 1986 il controllo sugli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione previsto dalle disposizioni concordatarie. 23. GARANZIE COSTITUZIONALI IN TEMA DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA Il divieto dell’approvazione di “speciali gravami fiscali” dà luogo a 2 diversi problemi: il primo, di carattere sistematico, riguarda il rapporto tra l’art.20 Cost. e le altre norme costituzionali riguardanti la materia dei tributi; il secondo riguarda gli effetti giuridici del divieto stesso. Per quanto riguarda il primo problema, sembra esatta l’opinione che considera la norma in esame come l’applicazione del principio della capacità contributiva fissato dall’art.53 Cost.: quindi la capacità contributiva di essi non è influenzata dalla qualificazione o dai fini confessionali. Invece, per quanto riguarda il secondo problema, la norma considerata esclude la possibilità di introdurre un qualsiasi tributo speciale a carico dei beni degli enti stessi, estendendo tale garanzia anche agli enti delle confessioni diverse dalla cattolica e, più in generale, agli enti con fine di religione o culto. A maggior ragione, l'art.20 esclude che lo Stato introduca dei gravami fiscali per poi operare una ridistribuzione delle risorse tra gli enti di tutte le confessioni religiose. Invece, la norma non impedisce che lo Stato possa, con legge, che sia esecutiva di un accordo con la Santa sede o di un'intesa con una o più confessioni, attribuire efficacia civile ad un tributo introdotto da un’autorità religiosa sugli appartenenti alla propria confessione o sugli enti ad essa collegata. Quindi, la garanzia costituzionale protegge le associazioni e le istituzioni ecclesiastiche o con fine di religione o di culto da speciali gravami fiscali imposti dallo Stato per incrementare le proprie entrate; mentre non vieta che le confessioni religiose, avvalendosi dell'autonomia organizzativa, possano conseguire il contributo finanziario dei propri aderenti e degli enti ad esse collegati e che, per l'attuazione di tale interesse, ottengano l'assistenza dello Stato. Risulta, perciò, conforme all'art.20 Cost. il sistema di finanziamento della Chiesa cattolica. CAPITOLO 7: LA SANTA SEDE E LO STATO CITTA’ DEL VATICANO 1. LA SANTA SEDE NEL DIRITTO ITALIANO Con l’espressione Santa Sede, il diritto canonico indica, in modo congiunto e complessivo, il Romano Pontefice ed anche, ove non risulti diversamente dal contesto del discorso o dalla natura delle cose, gli uffici che, in nome di lui ed esercitando l’autorità delegata dallo stesso Pontefice, provvedono agli affari della Chiesa universale, ossia la Segreteria di Stato, il Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa e gli altri istituti della Curia romana. Perciò l’espressione Santa Sede ha due significati: in senso stretto, s’intende come Santa Sede l’ufficio del Sommo Pontefice; in senso lato, come Santa Sede, s’intendono anche gli uffici e gli istituti della Curia romana che collaborano con il Papa. Lo stesso avviene nel diritto italiano, nel quale l’espressione Santa Sede indica solo l’ufficio del Pontefice, per es., in quelle norme, le quali in vari modi riconoscono la sovranità di tale organo, mentre indica la Santa Sede in senso ampio in quelle altre norme le quali riguardano le esenzioni di dignitari e funzionari, gli stipendi corrisposti ai dipendenti o la disciplina della visita dei musei e dell’apertura delle biblioteche o che assicurano la libertà di comunicazione del governo centrale della Chiesa con le varie Chiese. Nell’ordinamento italiano, la Santa Sede oltre ad avere il rilievo pubblicistico, è un ente dotato di personalità giuridica anche nel settore dei rapporti di diritto privato. L’art.29 lett.a del Concordato del 1929 ( l.n.810), menzionando gli enti ecclesiastici la cui personalità giuridica era sino ad allora, riconosciuta dal diritto italiano, ha indicato la Santa Sede come il primo di tali enti. Il dato che l’art.29 del Concordato del 1929 sia stato abrogato dall’entrata in vigore delle norme sugli enti ecclesiastici, di cui al protocollo del 15 novembre 1984, non ha alcuna influenza sulla qualificazione della Santa Sede come persona giuridica secondo il diritto italiano, perché tale qualifica ad essa spetta non in forza della norma concordataria del 1929, ora abrogata , bensì per antico possesso di stato, ossia per il fatto che la sua personalità giuridica non era stata soppressa dopo l’unione di Roma all’Italia. La posizione della persona giuridica “Santa Sede” nel diritto italiano è quella di un ente ecclesiastico, ma è una posizione differente da quella fatta alla generalità degli enti ecclesiastici dalle norme della l.n.222 del 1985, la cui applicazione è, per l’appunto, esclusa dall’art.2 del protocollo 1984 per “la natura del tutto sui generis” della personalità giuridica in questione. La Santa Sede, in conseguenza, non è tenuta agli adempimenti previsti dalle norme sugli enti ecclesiastici (per es., l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche). 1.1. LA QUESTIONE ROMANA Gli eventi del settembre del 1870 congiunsero Roma all’Italia, ma, con la debellatio dello Stato pontificio, aprirono la “questione romana”. Una questione che il legislatore del tempo cercò di risolvere in modo unilaterale con la l. 13 maggio 1871 n.214, il cui primo titolo aveva come oggetto le prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede. Ma si trattò di una soluzione mai accettata da parte vaticana, proprio perché unilaterale. D’altronde, nel 1870 e per molti anni dopo, non era possibile un accordo, sicchè la legge sulle Guarentigie pontificie, unilateralmente osservata dallo Stato, ha avuto la funzione di assicurare alla Santa Sede, per quanto in via di fatto dal punto di vista di essa, la piena libertà nello svolgimento della sua missione in un periodo non breve, sino al 1929, data di nascita dello Stato Città del Vaticano. Per la soluzione della “questione romana”, la Santa Sede si è ben guardata dal chiedere il ripristino di una sovranità territoriale che importasse l’onore del governo di uno Stato vero e proprio; la trattativa ha avuto luogo riguardo alla determinazione della misura di una sovranità simbolica. Sia la l.n. 214 del 1871 sia il Trattato del 1929 hanno avuto lo scopo di assicurare alla Santa Sede una serie di guarentigie reali e personali Il presidente della Commissione Cardinalizia è assistito dal Consiglio dei Direttori, da lui periodicamente convocato e presieduto per la predisposizione e l’esame dei bilanci, da sottoporre al Sommo Pontefice per il tramite della Segreteria di Stato. Gli organi giudiziari sono costituiti dal Giudice unico, dal Tribunale dalla Corte d’appello e dalla Corte di Cassazione, disciplinati dall’ordinamento giudiziario, dettato dalla legge (vaticana) del 1987, e competenti per l’applicazione delle leggi civili. Inoltre, nelle cause attinenti a materie disciplinate dal diritto canonico, funzionano come tribunali dello S.C.V. il Tribunale Apostolico della Rota Romana e il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che sono tribunali della Santa Sede. Le controversie attinenti ai rapporti di lavoro tra i dipendenti dello Stato e l’Amministrazione sono di competenza dell’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica. 3. RAPPORTI TRA ITALIA E CITTA DEL VATICANO Il fatto che lo S.C.V. sia intercluso dal territorio della Repubblica italiana, importa l’esistenza di non pochi problemi, che sono stati risolti sia dal Trattato del 1929 sia da ulteriori accordi. Così, l’art.5 del Trattato ha posto a carico della Santa Sede la recinzione del territorio vaticano; l’art.6 ha provveduto per gli allacciamenti necessari (acqua, ferrovia, telefono ); l’art.7 ha vietato in territorio italiano nuove costruzioni che costituissero introspetto nel territorio vaticano; l’art.19 prevede il transito dei diplomatici e dei dignitari ecclesiastici e l’art.20 il transito delle merci. 3.1. I RAPPORTI NEL CAMPO GIUDIZIARIO Il Trattato ha provveduto, altresì, a disciplinare i rapporti giudiziari fra l’Italia e lo S.C.V. Le sentenze pronunciate dai tribunali dello S.C.V. potranno essere eseguite in Italia secondo le norme del diritto internazionale, potranno cioè essere delibate ai sensi degli art.64-71 della l.n.218 del 1995 le sentenze civili e a norma degli art.12 c.p. e art.730 e segg. c.p.p. le sentenze penali. Per ciò che riguarda la giurisdizione penale, l’art.22 del Trattato prevede che la Santa Sede potrà delegare, nei singoli casi o in via permanente, allo Stato italiano la punizione dei delitti commessi nel territorio dello S.C.V. La delega non occorre e si procederà senz’altro a norma delle leggi italiane contro l’imputato, ove costui si sia rifugiato in territorio italiano. Inoltre, è prevista la consegna allo Stato italiano delle persone imputati di fatti ritenuti delittuosi anche dalle leggi dello S.C.V. , che si siano rifugiate ivi o negli immobili immuni di cui all’art.15 del Trattato. In quest’ultimo caso, i preposti a tali immobili potranno invitare gli agenti italiani ad entrarvi per procedere direttamente all’arresto. Tutte le volte in cui per un delitto commesso nello S.C.V., la Santa Sede richiede allo Stato italiano di procedere, i nostri giudici applicheranno il diritto penale italiano, poiché la funzione punitiva attiene all’esercizio di una prerogativa sovrana, alla quale lo Stato non può rinunciare applicando le leggi di un altro paese. Sicché, avuta la richiesta della Santa Sede, i giudici italiani applicheranno le leggi penali italiane. 3.2. IL REGIME DI PIAZZA SAN PIETRO Un problema particolare è dato dal regime di Piazza San Pietro, che è l’unica parte del perimetro vaticano rimasta aperta al pubblico e, perciò soggetta ai poteri di polizia delle autorità italiane sino ai piedi della scalinata della Basilica. Secondo una giurisprudenza costante, quando l’imputato di un delitto commesso nella piazza sia stato catturato dagli agenti italiani o sia stato a questi consegnato, si considera rifugiato nel territorio italiano e, perciò, il caso sarà disciplinato a norma dell’art.22 1° comma del Trattato, procedendosi contro di lui senza che occorra una richiesta della Santa Sede. Nel caso più grave verificatosi (l’attentato del maggio 1981 a Giovanni Paolo II), il reo è stato catturato da agenti italiani, sicchè i giudici del nostro paese potevano procedere direttamente contro di lui, ma a tale condizione di procedibilità si è unita la richiesta vaticana. 3.3. LA NOTIFICAZIONE DEGLI ATTI La notifica degli atti in materia civile (e commerciale) nei rapporti fra lo S.C.V. e l’Italia è disciplinata da una convenzione con la Santa Sede del 1932, resa esecutiva dalla l. del 1933 n.379. Tale convenzione che, per espressa volontà delle parti, deroga alle ordinarie disposizioni sulle notificazioni per le vie diplomatiche prevede che, per le notificazioni da effettuare nello S.C.V., occorre che l’interessato faccia istanza al Procuratore della Repubblica, il quale farà domanda al promotore di giustizia del Tribunale di prima istanza dello stesso S.C.V., che provvederà a fare notificare l’atto; mentre, per le notificazioni da effettuare in Italia occorre una domanda del secondo al primo dei due organi. 3.4. LA RINUNCIA DELLA SANTA SEDE AL PRIVILEGIO DEL FORO ECCLESIASTICO La convenzione citata è importante per ciò che prevede l’art.4, il quale disciplina i casi in cui possa avvenire che siano convenuti in giudizio, in Italia, la Santa Sede, lo S.C.V. o il (patrimonio privato del) Sommo Pontefice. Nei casi della citazione della Santa Sede o del Pontefice, la citazione deve avvenire in persona del Cardinale Segretario di Stato. Invece, nel caso della citazione in giudizio dello S.C.V. la citazione va fatta in persona del Governatore dello stesso S.C.V. Poiché la convenzione prevede l’ipotesi di giudizi che siano introdotti nei confronti della Santa Sede e del Papa, la dottrina giustamente ritiene che, con tale accordo, la Chiesa abbia rinunciato nei confronti dell’Italia al privilegio del foro civile, ossia dell’immunità giurisdizionale dei suoi soggetti nei riguardi dello Stato italiano in tale materia. È ovvio, infatti, che, se possono essere citati in giudizio la Santa Sede e il Papa in persona, possono essere convenuti davanti al giudice italiano anche tutti gli altri soggetti dell’ordinamento della Chiesa gerarchicamente subordinati alla Santa Sede. Essendo la Santa Sede rappresentata in giudizio davanti al giudice italiano dal Cardinale Segretario di Stato, è sorta questione se a lui possa essere deferito il giuramento decisorio. Ma tale possibilità è stata esclusa, giacché il Cardinale Segretario di Stato, a norma della citata convenzione, ha la rappresentanza processuale della Santa Sede, ma non la disponibilità dei suoi diritti, necessaria perché sia ammessa una prova legale come il giuramento. Questo sarebbe ammissibile solo se, con un provvedimento di carattere generale o emesso per il singolo caso, la Santa Sede conferisse al Cardinale Segretario di Stato la facoltà di disporre della sorte della lite e dei diritti in questa coinvolti. 4. LE GARANZIE REALI A FAVORE DELLA SANTA SEDE: GI IMMOBILI IMMUNI Le ulteriori guarentigie reali riconosciute dal Trattato del 1929 negli art.13,14,15 e 16, attengono, oltre che alla piena proprietà delle Basiliche patriarcali di San Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore e San Paolo, del Palazzo Pontificio e della Villa Barberini di Castel Gandolfo e di altri immobili ivi indicati, al riconoscimento a tali immobili delle immunità previste dal diritto internazionale per le sedi degli agenti diplomatici. Questa stessa garanzia è stata riconosciuta agli immobili in cui si trovano i dicasteri della Santa Sede che non hanno trovato spazio nello S.C.V. e così i palazzi della Cancelleria, di Propaganda Fide, del Santo Offizio, del Vicariato, e, comunque, anche degli altri edifici in cui la Santa Sede crederà di sistemare i suoi uffici. La stessa immunità si applica alle chiese, ovunque si trovino in Italia, quando vi sono celebrate funzioni con l’intervento del Papa, purché non siano aperte al pubblico. Questo non significa che le funzioni dovrebbero essere celebrate a porte chiuse, ma importa solo che ciascuno degli intervenuti abbia ricevuto un biglietto d’invito personale. I fatti giuridicamente rilevanti, sia leciti, sia illeciti, verificatisi in tali edifici avvengono in Italia e soggiacciono, salvo che siano esenti per l’immunità, al giudizio che ne danno le leggi e le competenti autorità italiane. Così, i rapporti di lavoro instaurati con terzi dagli uffici collocati in tali luoghi immuni, quando non ineriscano all’esercizio di funzioni afferenti alla sovranità della Santa Sede, sono competenza del giudice italiano. Chi nasce in tali luoghi, nascerebbe in Italia. La successione di chi abbia il domicilio in tali edifici si apre in Italia e non all’estero. Un reato che sia commesso all’interno degli edifici immuni è commesso in territorio italiano ed è perseguito a norma delle leggi italiane, con la sola cautela: il divieto che le autorità di polizia esercitino i loro poteri all’interno degli edifici in questione senza che siano stati invitati gli agenti di polizia a entrare Rispetto ad altri immobili, la garanzia riguarda soltanto l’esclusione dell’assoggettamento a vincoli o a espropriazioni per p.u., se non previo accordo con la Santa Sede, e l’esenzione da tribunali ordinari e straordinari, tanto verso lo Stato che verso qualsiasi altro ente pubblico. Si tratta di una serie di Istituzioni pontifici, dall’Università Gregoriana ai due palazzi di Sant’Apollinare. La guarentigia reale attiene anche all’esenzione di tutti gli immobili in questione dall’ingerenza delle autorità civili competenti in materia edilizia ed urbanistica. Prevede, infatti, l'art.16, 2°co., che la Santa Sede è libera di dare a codesti immobili “l’assetto che crede, senza bisogno di autorizzazioni o consensi da parte di autorità governative, provinciali o comunali italiane”. Peraltro, occorre un comune accordo, quando l’autorità italiana dovesse attuare o consentire mutamenti edilizi o stradali in Piazza Pio XII e nelle zone adiacenti al colonnato del Bernini, ove non si estende la extraterritorialità di cui all’art.15 del Trattato. La generica previsione di un comune accordo per disciplinare le questioni che possano sorgere in proposito, sembra autorizzare un’intesa tra l’autorità vaticana e l’autorità italiana competente nel settore dell’edilizia e della viabilità, ossia il Comune di Roma. La norma è inserita in una serie di disposizioni riguardanti obblighi assunti dal governo italiano, sicché potrebbe ipotizzarsi anche un accordo tra la Santa Sede e l’Italia che, reso esecutivo per legge, dovrebbe essere soltanto eseguito dal Comune. 5. LE GARANZIE PERSONALI A FAVORE DELLA SANTA SEDE: LA SOVRANITA' DEL SOMMO PONTEFICE Le guarentigie personali riguardano, in primo luogo, il Sommo Pontefice. Egli, con la debellatio dello Stato pontificio, aveva perduto la qualità di capo di Stato e perciò era diventato un cittadino italiano, ma un cittadino in una posizione particolarissima, disegnata con precisione dalla l.n. 241 del 1871. Questa dopo aver dichiarato “sacra e inviolabile” la persona del Sommo Pontefice, gli riconosceva il diritto agli oneri sovrani, gli manteneva la preminenza riconosciutagli dai sovrani cattolici, gli riconosceva il diritto di legazione attiva e passiva e puniva l’attentato, la promozione a commetterlo, le offese e le ingiurie pubbliche contro di lui con le stesse pene previste per analoghi reati commessi contro la persona del re. Con la legge del 1871, il Papa si trovava nella strana e speciale situazione di essere un cittadino dotato delle prerogative e delle garanzie di un sovrano. Il trattato del 1929 ha posto termine a questa posizione singolare riconoscendo la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo. Gli attributi inerenti alla qualità di soggetto di diritto internazionale della Santa Sede non erano andati perduti a seguito della debellatio dello Stato pontificio, perché, pur essendo venuta meno la sovranità su un territorio, il Papa aveva continuato a intrattenere rapporti con gli Stati e ad esercitare la legazione attiva e passiva. Il riconoscimento contenuto nell’art.2 del Trattato riguardava il rapporto fra lo Stato italiano e la Santa Sede e serve da base al successivo riconoscimento della sovranità territoriale effettuato, con riferimento allo S.C.V. , nel quale non vi è altra autorità che quella della Santa Sede; un riconoscimento, implicante anche la soggezione alla sovranità della Santa Sede di tutte le persone residenti nello S.C.V. e la riconferma del riconoscimento del diritto di legazione. L’art.8 del Trattato considera sacra e inviolabile la persona del Sommo Pontefice, e ne parifica la tutela penale (attentato, provocazione a commetterlo, offese e ingiurie pubbliche) a quella del Presidente della Repubblica. Qualificando la persona del Pontefice sacra e inviolabile, alla stregua di quella del re secondo lo Statuto albertino, la legge, quanto alla materia penale, ha prodotto un duplice effetto. Anzitutto, ha escluso che al Papa possa essere applicata la legge penale. Non si tratta di una immunità nei confronti di tale legge, ma è di più: quella formula fa sì che il Papa manchi del tutto della capacità di diritto penale. 7. GLI ENTI CENTRALI DELLA CHIESA Gli enti centrali della Chiesa, a norma dell’art.11 del trattato, sono esenti da ogni ingerenza da parte dello Stato italiano (salvo le disposizioni delle leggi italiane concernenti gli acquisti dei corpi morali) nonché dalla conversione nei riguardi dei beni immobili. L’espressione <ENTI CENTRALI> non ha rispondenza nell’ordinamento canonico. Si tratta di una figura civilistica introdotta in una norma che ha inteso ampliare quella garanzia già offerta dall’art. 8 della legge sulle guarentigie pontificie n.214 del 1871, che vietava ispezioni, perquisizioni o sequestri di carte, documenti o registri negli uffici e nelle Congregazioni pontificie. La nuova disposizione riguarda non solo l’esenzione da quegli interventi che erano esclusi dalla legge del 1871, ma anche l’esenzione “da ogni ingerenza” e, perciò, pur da quegli interventi di tipo giurisdizionalista, quali la conversione dei beni immobili, che non erano stati esclusi da quella legge e che, invece, erano stati previsti dall’art.17 della l. del 1873. <Enti centrali> della Chiesa, secondo la dottrina tradizionale, sono le Congregazioni, i Tribunali e gli Uffici della Santa Sede, ossia gli enti che costituiscono la Santa Sede e che abbiano la personalità giuridica. In una parola, gli organismi costituenti la Curia romana, che provvedono al governo supremo della Chiesa. La “centralità” degli enti è considerata con riferimento alla struttura dell’organizzazione della Santa Sede per lo svolgimento della sua missione spirituale nel mondo. Ma la centralità è configurata dall’art.11 del Trattato anche con riferimento al precedente art.10 e al protocollo del 1932, reso esecutivo dal r.d. n.1422. Tali disposizioni prevedono le esenzioni dal servizio militare e da altre prestazioni personali anche per i funzionari di uffici della Santa Sede che non svolgono attività nel campo spirituale, lasciando intendere che l’espressione “enti centrali” equivalga a quella di “enti pontifici”, ossia di enti gestiti direttamente dalla Santa Sede, anche se autonomi rispetto agli enti e agli uffici della Curia romana e svolgenti attività in settori lontani dalla missione spirituale della Chiesa. Così per fare un esempio, l’Istituto per le opere di religione (I.O.R.), che è nell’ordinamento canonico una persona giuridica svolgente attività finanziaria, è certamente un ente pontificio ed è qualificabile come ente centrale, perché le due qualifiche coincidono; ma non sarebbe ente centrale se, come tale, s’intendesse un ente che facesse parte organica della Curia romana, perché lo I.O.R. è autonomo nei confronti di questa. Secondo altri, lo I.O.R. sarebbe da qualificare come ente vaticano, ossia come una persona giuridica civile dello Stato Città del Vaticano, in considerazione del fatto che tale organismo è stato istituito nello Stato Città del Vaticano. Questa tesi sottolinea il dato dell’estraneità dello I.O.R. all’organizzazione della Chiesa cattolica, rispetto a cui tale ente, creato in funzione strumentale, non ha alcuna posizione centrale, tanto che non fa parte della Curia romana. Tali enti centrali o pontifici, quando svolgono la loro attività nell’ambito dello S.C.V. o degli edifici immuni sfuggono a qualsiasi ingerenza dello Stato per il fatto stesso di operare fuori del territorio in cui si esercita la potestà di governo dell’ordinamento italiano. L’art.11 del Trattato, invece, garantisce tali enti dall’ingerenza dello Stato per l’attività da essi svolta in territorio italiano mediante proprie sedi ivi esistenti o in altro modo. Ma questa garanzia della non ingerenza non importa l’immunità dello I.O.R. e dei suoi amministratori e funzionari dalla giurisdizione italiana allorchè compiono atti rilevanti nell’ordinamento dello Stato. Le questioni sorte a proposito dei negozi dei quali sia parte tale Istituto, stipulati o da eseguire in Italia, rientrano nella competenza giurisdizionale del giudice italiano in quanto lo I.O.R., ente finanziario, opera nel campo del diritto civile e commerciale. Ove agli amministratori e funzionari di tale Istituto siano imputati fatti costituenti reati consumati o tentati in territorio italiano, essi soggiacciono alla giurisdizione penale dello Stato. L’art.11 del Trattato esclude l’ingerenza dello Stato nei confronti dell’attività lecita degli enti centrali della Chiesa, ma non impedisce allo Stato di reagire nei confronti della commissione in Italia di reati ad opera dei titolari di tali enti. Fra l’altro, la responsabilità penale è personale di costoro e non ricade sugli enti da essi gestiti o rappresentati, semmai responsabili civili dell’operato dei propri addetti. L’inesatta tesi della carenza di giurisdizione del giudice italiano sugli affari degli enti vaticani è stata riconfermata in relazione a contratti stipulati da tali enti con società commerciali italiane, per obbligazioni da eseguire in Italia, nonché per l’inquinamento elettromagnetico causato in territorio italiano dalle trasmissioni della radio vaticana. La giurisprudenza non si è resa conto del dato che la non ingerenza delle autorità italiane sugli enti centrali della Chiesa riguarda non l’esclusione del potere dei giudici italiani sui casi portati al loro giudizio, bensì garantisce tali enti da eventuali inframmettenze governative di polizia ecclesiastica. Il diritto preconcordatario garantiva “uffici e Congregazioni pontificie da visite, perquisizionio sequestri di carte, documenti, libri o registri” solo se tali uffici avessero attribuzioni meramente spirituali. Gli altri uffici e Congregazioni potevano essere perquisiti dall’autorità del governo italiano. L’art.11 del Trattato ha allargato la vecchia garanzia a tutti gli enti centrali sia che avessero attribuzioni meramente spirituali sia che avessero attribuzioni economiche o finanziarie. Questa e non altra è la garanzia offerta dalla norma del 1929. La posizione degli addetti agli enti centrali, pontifici o vaticani, nell’art.10 del Trattato, non ha le stesse caratteristiche di quella attribuita dalle norme di diritto internazionale ai diplomatici stranieri accreditati presso il nostro paese, i quali godono dell’immunità della giurisdizione penale per un’espressa disposizione di legge, una disposizione che manca nel Trattato lateranense. Questo, nell'art.10, infatti, esonera dignitari e funzionari vaticani da vari servizi e, nel 3° comma, si limita ad escludere che possano essere soggetti “a nessun impedimento, investigazione o molestia da parte delle autorità italiane” gli enti ecclesiastici che “per ragione di ufficio, partecipano fuori della Città del Vaticano all’emanazione degli atti della Santa Sede”. Ma tale esenzione nulla ha a che vedere con i contratti stipulati in Italia dagli enti centrali, pontifici o vaticani, o con gli eventuali reati consumati nel nostro paese dai rappresentati o dai funzionari di essi. In entrambi i casi, la giurisdizione dello stato è inderogata alla stregua delle norme del Trattato del 1929. Gli enti centrali hanno personalità giuridica anche secondo il diritto italiano. Questi enti, in territorio italiano sono ad ogni effetto rappresentati dalla Santa Sede che, nell’ordinamento dello Stato, è persona giuridica. 8. I RAPPORTI DI LAVORO DEI DIPENDENTI DELLA SANTA SEDE E DEGLI ENTI CENTRALI Un trattamento fiscale di favore è previsto per i dipendenti vaticani. Le retribuzioni di qualsiasi natura, corrisposte dalla Santa Sede, dagli enti centrali della Chiesa e dagli enti gestiti direttamente dalla Santa Sede, in Roma e fuori di Roma, a dignitari, impiegati e salariati, anche non di ruolo, sono esenti da qualsiasi tributo nei confronti dello Stato italiano e di ogni altro ente. Il progressivo riconoscimento del valore morale, sociale ed economico del lavoro ha fatto sì che anche la Santa Sede provvedesse all’istituzione di un Ufficio del lavoro della Sede Apostolica (ULSA) . Il nuovo statuto di tale organismo (approvato da Benedetto XVI nel 2009) precisa che la sua attività riguarda il lavoro, in tutte le possibili forme e applicazioni, prestato alle dipendenze della Curia romana, dello Stato Città del Vaticano e di organismi ed enti, operanti anche fuori dello S.C.V., la cui amministrazione sia gestita direttamente dalla Santa Sede. Tale Ufficio svolge molteplici funzioni: promuovere l’uniformità e il miglioramento delle condizioni economiche, assistenziali e previdenziali del personale. Lo statuto disciplina anche le controversie individuali e plurime o collettive di lavoro, di cui prevede la soluzione in sede amministrativa di conciliazione, o, in difetto di conciliazione, attraverso il giudizio di un Collegio di conciliazione e arbitrato. Questa nuova disciplina del contenzioso, cui possono dar luogo i rapporti di lavoro dei dipendenti della Santa Sede, è entrata in vigore il 1° marzo 1989. Il coinvolgimento dell'organo speciale resta escluso quando il rapporto di lavoro sia sorto nello Stato Città del Vaticano e si svolge con un ente che abbia sede e operi all’interno di tale Stato, onde si tratta di un rapporto estraneo all’ordinamento italiano sotto il profilo territoriale e giuridico. Varie volte, infatti, è sorto il problema del regime dei rapporti di lavoro dei dipendenti della Santa Sede operanti in territorio italiano, con riferimento alla giurisdizione dello Stato sulle controversie cui possono dar luogo. La regola fissata, al riguardo, è analoga a quella seguita nei confronti dei rapporti di lavoro dei dipendenti italiani di ambasciate straniere. In entrambi i casi, occorre distinguere se l’impiegato svolge una funzione istituzionale propria dell’organizzazione cui appartiene o un’attività che potrebbe essere prestata presso un qualsiasi altro datore di lavoro. (Così, è da ritenere che svolga una funzione propria dell’istituzione un giornalista impiegato presso la radio vaticana, sicché il suo rapporto di lavoro sfugge alla giurisdizione statale; invece, rientrano nella sfera di questa, i rapporti di lavoro di un autista o di un addetto alle pulizie di un ente centrale della Chiesa, perché tale genere di lavoro può essere svolto alla dipendenza di chiunque). Correttamente, invece, è stata riconosciuta la competenza giurisdizionale dello Stato in varie altre ipotesi: nel caso di un tipografo di una Università pontificia, perché l’attività di una tipografia, specie quando operi anche per conto terzi, non è diretta a perseguire finalità di religione o di culto, né si ricollega a quella della Santa Sede o a quella istituzionale dell’Università. Nel caso di un medico dipendente dell’Ospedale del Bambin Gesù, perché l’attività ospedaliera non è collegata con gli scopi istituzionali della Santa Sede e non è esercitata in posizione autoritativa e di supremazia, ma nell’ambito dell’ordinamento italiano, secondo le regole da questo stabilite per il servizio sanitario, con la relativa rinuncia della Santa Sede ad avvalersi dei propri poteri sovrani. 2.1. L'ISCRIZIONE NEL REGISTRO DELLE PERSONE GIURIDICHE Una volta ottenuta la personalità giuridica civile, gli enti acquistano la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti e hanno l’onere di iscriversi nel registro delle persone giuridiche, in modo da rendere conoscibili le norme sul funzionamento dell’ente e i poteri degli organi di rappresentanza. L’iscrizione dell’ente ecclesiastico nel registro avviene in modo differente agli altri enti del c.c: infatti, mentre gli enti semplici devono depositare l’atto costitutivo e lo statuto, gli enti ecclesiastici non devono depositare lo statuto, bensì il decreto canonico di erezione. In questo documento dovranno risultare la denominazione, la natura e sede dell’ente, o per gli enti già eretti prima del 1985, il deposito di una dichiarazione dell’autorità ecclesiastica integrativa del decreto canonico che fosse privo di tali indicazioni. Il deposito dello statuto può essere sostituito dall’ allegazione di un attestato della Santa Sede o del vescovo diocesano, da cui risultino tali elementi. Quest'ultima norma si giustifica per il fatto che vi sono enti, di antichissima istituzione, i quali non hanno statuti approvati agli effetti civili, contenenti norme sul funzionamento e la rappresentanza. Nei casi in cui gli enti abbiano acquisito la personalità giuridica prima del 1929, per antico possesso di stato o in forza di provvedimenti sovrani, e nei casi in cui non era possibile reperire il formale decreto di riconoscimento, al posto di questo è necessario produrre un attestato del Ministro dell’interno, da cui risulti, oltre al possesso della personalità giuridica da parte dell’ente, l’assenso dell’autorità ecclesiastica al riconoscimento e che non sia intervenuta alcuna causa di estinzione della personalità. La relativa domanda deve contenere: la data dell’atto costitutivo, quella del decreto di riconoscimento, la denominazione, lo scopo, il patrimonio quando vi sia, la durata se prevista, la sede della persona giuridica e il cognome e nome degli amministratori e di coloro che hanno la rappresentanza dell’ente. Nel registro, inoltre, devono essere iscritte le vicende degli enti successivi al riconoscimento della personalità giuridica: le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto, il trasferimento della sede, l’istituzione di sedi secondarie, la sostituzione degli amministratori e rappresentanti e tutte le deliberazioni circa lo scioglimento o estinzione dell’ente, i liquidatori. Tali iscrizioni devono avvenire entro 15 giorni dal verificarsi degli eventi da iscrivere. Per l’iscrizione dei nuovi amministratori, il termine inizia a decorrere dall’accettazione della nomina. Gli enti che erano stati riconosciuti prima dell’entrata in vigore delle nuove disposizioni dovevano anch’esse iscriversi nel registro delle persone giuridiche entro giugno 1987. Nel caso di mancanza di iscrizione nel registro entro i termini stabiliti, gli enti non sono legittimati a concludere alcun negozio giuridico finché non provvederanno all'iscrizione. Il difetto di legittimazione, posto a carico dell’ente riconosciuto come persona giuridica ma non iscritto nel registro, colloca, in via transitoria, questi enti in una posizione diversa da quella prevista per gli enti privati ma non iscritti. In quest’ultima ipotesi, l’ente non perde la legittimazione negoziale, ma i suoi amministratori rispondono personalmente e in solido con la persona giuridica delle obbligazioni assunte. A differenza degli enti ecclesiastici dove si prevede il congelamento degli affari sino all’iscrizione, proprio per questa transitorietà. Per quanto riguarda l’iscrizione nel registro e i negozi giuridici compiuti dagli enti la cui personalità è stata o sarà riconosciuta dopo giugno 1985, in base alle nuove normative, si applica il regime previsto dal codice civile. Il diritto comune non prevede alcuna sanzione per la mancata iscrizione, se non quelle dell’art.35 c.c., che non concernano l’imputabilità dell’attività, bensì si limitano a sanzionare in via amministrativa i liquidatori e gli amministratori che non provvedano alle iscrizioni. E, soprattutto, non vi è differenza di trattamento fra questi enti ecclesiastici e le persone giuridiche private. Gli enti ecclesiastici in tale sistema rappresentano un'eccezione prevista dal legislatore della riforma, in quanto categoria di enti che possono essere riconosciuti senza iscrizione, e in cui la registrazione mantiene la sua antica funzione dichiarativa e di pubblicità per un'efficace tutela dei terzi che entrino in rapporto con l'ente stesso. Tuttavia, c’è chi ha ritenuto inammissibile queste due differenze di trattamento degli enti ecclesiastici riconosciuti prima di giugno1985 dalle altre persone giuridiche private e dagli enti ecclesiastici che saranno riconosciuti dopo giugno 1985. Ma tale differenziazione non contrasta con la Costituzione. 2.2. IL PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO PER IL RICONOSCIMENTO Il procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica degli enti ecclesiastici da parte dello Stato ha inizio con presentazione della domanda: questa deve essere effettuata da chi rappresenta l’ente secondo il diritto canonico, o dall’autorità ecclesiastica competente. Nella domanda oltre ad essere indicati la denominazione, la natura e i fini dell’ente, devono essere precisate la sede e la persona che lo rappresenta. Alla domanda devono essere allegati i documenti, atti a provare i requisiti necessari al riconoscimento (quali, il provvedimento canonico di erezione e un estratto dello statuto, contenente le norme sulla struttura dell’ente). Insieme alla domanda e ai documenti detti, deve essere allegato anche l’atto di assenso al riconoscimento manifestato dall’autorità ecclesiastica competente. Quando occorre, è necessario provare anche la consistenza patrimoniale dell'ente. La domanda dovrà essere presentata presso la prefettura del luogo in cui l’ente ha sede, in quanto questo rappresenta l’organo periferico della Direzione generale degli affari dei culti del Ministero dell’interno. Se la domanda viene presentata ad un prefetto che non sia territorialmente competente a riceverla, questo lo trasmette al prefetto competente, dandone notizia agli interessati, ossia al rappresentante dell'ente o all'autorità ecclesiastica. Il prefetto, dopo aver istruito la pratica, la trasmette (completa di un proprio rapporto) al Ministero che cerca di conoscere il parere del Consiglio di Stato. Nel caso in cui vi siano tutti i requisiti previsti dalla legge, il Ministro emana il decreto con il quale concede il riconoscimento. Tale decreto è comunicato al rappresentante dell’ente e all’autorità ecclesiastica che ha domandato il riconoscimento o vi ha dato l’assenso. A queste stesse persone viene comunicato il provvedimento che non accolga la domanda. Ipotesi rara può esservi quando per il riconoscimento si necessiti di un decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Questa evenienza avviene quando il Consiglio di Stato, facoltativamente interpellato, dia parere contrario al riconoscimento stesso che, invece, il Ministro intende concedere e, perciò, chiede che sulla questione deliberi il Consiglio dei Ministri. Se la deliberazione fosse favorevole, il riconoscimento dovrebbe essere attribuito con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri. Quando si tratti di enti che operino esclusivamente nell’ambito delle materie di spettanza regionale, il potere del riconoscimento della personalità giuridica è affidata alle regioni. Una volta ottenuto il riconoscimento, l’ente ha l’onere di richiedere l’iscrizione nel registro delle persone giuridiche istituito presso la prefettura del luogo. Dalla registrazione devono risultare: la data della costituzione dell’ente e del decreto di riconoscimento, la denominazione, lo scopo, il patrimonio, la durata e la sede della persona giuridica, nonché il nominativo e il codice fiscale degli amministratori con la menzione di quelli ai quali è attribuita la rappresentanza, i loro poteri e le norme statutarie che disciplinano l’attività dell’ente. Devono risultare dal registro i controlli esercitati sull'amministrazione e sui negozi dell'ente dall'autorità ecclesiastica superiore. 2.3. LA DISCREZIONALITA' NEL RICONOSCIMENTO DELLA PERSONALITA' GIURIDICA L’acquisto della personalità giuridica da parte degli enti privati dipende da un atto totalmente discrezionale dell’autorità governativa: infatti, oltre a valutare se vi siano tutte le necessarie prerogative, l’autorità governativa valuta se l’ente sia necessario e utile e se abbia i mezzi finanziari per raggiungere i suoi scopi. Però, bisogna valutare se gli stessi poteri siano attribuiti all’autorità governativa nel riconoscimento degli enti della Chiesa cattolica. La prima cosa da notare è che gli eventuali poteri discrezionali dell’autorità dovranno essere esercitati nel rispetto dell’art. 19 Cost. (che garantisce la libertà religiosa degli enti). In secondo luogo, siccome gli enti della Chiesa possono appartenere a diverse categorie (fondazioni, associazioni) ed essendovi differenze tra enti ed enti nell'ambito di una stessa categoria, è chiaro che i poteri di valutazione dell’autorità governativa cambino da caso a caso: è ovvio che la valutazione riguarda la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge per ciascun tipo di ente. Una prima parte dell’esame è di mera legittimità: cioè, si comparano i requisiti prospettati con le previsioni di legge. Invece, il requisito attinente ai fini dell’ente può essere valutato sotto il profilo della legittimità solo rispetto ad alcuni enti, ma è soggetto ad una valutazione di merito in altri casi. Gli enti della Chiesa cattolica sono riconosciuti come “enti ecclesiastici” quando abbiano un fine di religione o di culto che sia “costitutivo ed essenziale”. Tale fine è riconosciuto ipso iure come proprio di quegli enti che fanno parte della costituzione della Chiesa, di istituti religiosi e seminari. Il requisito della sufficienza del patrimonio o dei mezzi economici per il raggiungimento dei fini dell’ente non può essere valutato che discrezionalmente, in quanto si tratta di un giudizio non giuridico, ma economico. Ma questo requisito non sembra essere rilevante per il riconoscimento di tutti gli enti ecclesiastici. Certamente, esso deve essere preso in considerazione tutte le volte in cui si tratti di riconoscere la personalità giuridica di un ente appartenente al genere delle fondazioni, dato che la fondazione può nascere solo in rapporto ad un patrimonio destinato ad un dato fine. In tutti questi casi, l'autorità è chiamata ad accertare che il patrimonio sia sufficiente. Rientrano tra gli enti ecclesiastici soggetti a tale analisi, le chiese aperte al culto pubblico e le fondazioni di culto, enti per cui la sufficienza dei mezzi è richiesta dalla legge. Invece, tale requisito è irrilevante per il riconoscimento di enti che fanno parte della costituzione gerarchica della Chiesa. Un’altra categoria di enti per i quali non occorre l’accertamento della sufficienza dei mezzi è quella delle associazioni in generale, degli istituti ecclesiastici e delle società di vita comune. Non occorre che tali enti, al fine del riconoscimento, abbiano un patrimonio proprio, ma occorre, invece, che abbiano l'attitudine a procacciarselo. Ma, a tal fine, l'esame deve svolgersi sotto il profilo della legittimità, per accertare se l'ente abbia la capacità di acquistare e di possedere. Per quanto riguarda il riconoscimento della personalità giuridica degli enti della Chiesa cattolica, l’autorità governativa non ha il potere di effettuare una valutazione sulla loro utilità sociale: non solo perché il giudizio non le spetta, rientrando nell’ordine della Chiesa, ma anche perché è molto difficile che una autorità statale possa essere in grado di effettuare una valutazione del genere. A proposito del riconoscimento degli enti ecclesiastici, l’Italia e la Santa Sede nel 1997 hanno raggiunto un’Intesa tecnica interpretativa e applicativa degli Accordi del 1984, la quale ha escluso che per il riconoscimento degli enti ecclesiastici potessero essere applicate le norme allora vigenti del libro I c.c. in materia di costituzione, struttura, amministrazione ed estinzione delle persone giuridiche private. L’indicazione del patrimonio era necessaria solo per il riconoscimento degli Istituti religiosi di diritto diocesano, delle chiese aperte al culto pubblico e delle fondazioni di culto. La P.A. non può chiedere legittimamente tale indicazione per il riconoscimento degli altri enti. Si è previsto, per il riconoscimento della personalità giuridica degli Istituti per il sostentamento del clero, delle diocesi e parrocchie, nonché per l’estinzione degli enti “chiesa parrocchiale” una procedura abbreviata, attribuendo la competenza al Ministro dell’interno, il quale ha provveduto, con proprio decreto, entro 60 giorni dalla ricezione dei provvedimenti canonici. Tale procedimento abbreviato è stato previsto in via transitoria e poteva essere utilizzato sino al termine dell'anno 1989 4.3. Fra le attività non qualificate dalla legge come attività di religione o di culto, hanno una grande importanza le attività assistenziali svolte da enti ecclesiastici ospedalieri. È fuor di dubbio che gli enti ecclesiastici che svolgono tale attività ospedaliera non possono essere qualificati come enti pubblici, affermando, perciò, sui rapporti di lavoro da essi intrattenuti la giurisdizione del giudice ordinario. Gli enti ecclesiastici che svolgono attività ospedaliera sono solo enti ecclesiastici e non enti pubblici. Mentre se l’ente svolge solo tale attività e non abbia fine di culto o di religione, non può essere considerato un ente confessionale, ma sarà una persona giuridica privata. In entrambi i casi, nello svolgimento dell'attività assistenziale, l'ente dovrà conformarsi a tutte le norme statuali riguardanti sia l'espletamento del servizio sia la disciplina dei rapporti di lavoro e della previdenza sociale del personale. 5. QUALIFICA GIURIDICA DEGLI ENTI ECCLESIASTICI La qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti vale a risolvere un problema di inquadramento. In proposito, ricordiamo che, secondo una parte della dottrina, gli enti ecclesiastici, in quanto disciplinati da norme di un altro ordinamento, in quanto mirano a soddisfare esigenze collettive, sarebbero da considerare come quid medium tra gli enti privati e gli enti pubblici: quindi, dotati di una pubblicità speciale. Altri, invece, affermano che tali enti sarebbero da considerare privati, altri ancora che dovrebbero essere considerati pubblici. In realtà, gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti non sono né privati né pubblici, ma enti che godono di una più grande ed autonoma organizzazione confessionale (a cui lo Stato si limita a riconoscere la personalità giuridica). A tali enti, però, sono applicabili, oltre alle norme specificatamente previste per essi dall'art.7 dell'Accordo dell'84 e dalle l.n. 206 e 222 del 1985, le disposizioni dettate dal c.c. per le persone giuridiche e altre disposizioni statuali che siano riferibili anche agli enti ecclesiastici Il carattere non pubblico degli enti della Chiesa cattolica trova conferma nella diversa disciplina legislativa che vigeva per gli istituti di altre confessioni. In proposito, dobbiamo ricordare che le Comunità israelitiche erano da qualificare per il diritto italiano come enti pubblici. Ciò, fa notare che la legge, quando ha inteso esprimere il carattere della pubblicità ad istituzioni di natura confessionale, lo ha fatto prevedendo per esse un regime analogo a quello degli enti dell'organizzazione propria dello Stato; una disciplina ben diversa da quella prevista per gli enti della Chiesa cattolica dal Concordato del 29 e dagli Accordi del 84. Del pari, assimilati agli enti pubblici sono gli enti delle confessioni religiose che sono soggetti alla vigilanza e tutela governativa, incluse le facoltà di visita, ispezioni e commissariamento, nonché all’annullamento d’ufficio degli atti illegittimi. Ma questa parificazione è dovuta allo sfavore del legislatore del tempo nei confronti delle minoranze religiose. Da tale disciplina sfavorevole sono stati affrancati gli enti delle Chiese Valdesi, gli enti delle Chiese avventiste, gli enti ebraici, gli enti delle Chiese sia battiste sia luterane, gli enti di tutte le altre confessioni i cui rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese, che hanno escluso ogni ingerenza dello Stato. 5.1. L'ECCLESIASTICITA' DEGLI ENTI Un altro problema di rilievo nei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose è quello del collegamento con gli enti espressi da queste o che si riferiscono a queste. Un problema relativo, perciò, anche all'identità delle confessioni religiose che, con riguardo alla Chiesa cattolica, è stato considerato dalla dottrina come problema della ecclesiasticità degli enti nell'ordinamento italiano. Già nel Concordato del 1929 era affermato che il collegamento degli enti con la Chiesa doveva essere attestato dall’autorità ecclesiastica: perciò, l'ecclesiasticità degli enti dipendeva dall'essere stati costituti secondo il diritto canonico. L’Accordo del 1984 non ha fatto altro che riprendere tale principio. Nessun istituto religioso di diritto diocesano, nessuna associazione pubblica di fedeli può ottenere il riconoscimento della personalità giuridica civile senza l’assenso della Santa Sede. E, fuori di questa ipotesi, anche quando un'associazione intenda conseguire il riconoscimento secondo il diritto comune, deve essere stata costituita o approvata dall'autorità ecclesiastica. La domanda di riconoscimento deve essere proposta dall'autorità ecclesiastica o da chi rappresenti l'ente secondoi l diritto canonico e con l'assenso dell'autorità ecclesiastica. Questo significa che nessuna associazione di religiosi o di laici, che non sia gradita a tale autorità, può ottenere il riconoscimento della personalità giuridica come ente che, in qualche modo, sia collegato all'organizzazione della Chiesa cattolica. O meglio, loro potrebbero ottenere tale riconoscimento, ma non potrebbero fregiarsi della qualifica di “cattolica”. Lo stesso discorso vale non solo per le associazioni, ma anche per qualsiasi ente che intenda presentarsi come cattolico. Quindi, non vi è alcuna possibilità che un ente sia considerato come ecclesiastico, incardinato nell'organizzazione della Chiesa cattolica, senza o contro il volere dell'autorità ecclesiastica. Stessi principi valgono per gli enti collegati alle altre confessioni religiose, sia che possano o non possano ottenere il riconoscimento della personalità giuridica da parte dello Stato. In particolare, il collegamento è assicurato tra gli enti delle Chiese Valdesi e tali confessioni, in quanto si prevede che il riconoscimento di questi enti sia domandato non dai rappresentanti di essi, ma dalla Tavola valdese. Infine, ai fini del riconoscimento civile, gli enti della Chiesa cattolica per essere qualificati come ecclesiastici devono avere come fine costitutivo ed essenziale quello di religione o di culto. Un ente della Chiesa (e perciò ecclesiastico secondo l'ordinamento canonico), ma che non abbia tale fine di religione o di culto come costitutivo ed essenziale, non è per lo Stato un ente ecclesiastico, ma un ente di altro tipo, eventualmente riconoscibile secondo il diritto comune. Analoga regola vale anche per gli enti delle altre confessioni: i quali, quando non abbiano i requisiti richiesti, non possono essere riconosciuti come collegati alla rispettiva organizzazione confessionale, ma eventualmente potrebbero essere disciplinati come enti dal diritto comune. 6. I VARI ENTI DELLA CHIESA CATTOLICA L’ENTE DELLA CHIESA CATTOLICA: LA CEI Nell’organizzazione permanente della Chiesa cattolica in Italia, dopo la Santa Sede, assume rilievo la Conferenza episcopale italiana. La Conferenza Episcopale Italiana è un istituto permanente, la cui struttura di base è data dall’assemblea dei vescovi di una nazione o di un determinato territorio, che esercitano congiuntamente alcune funzioni pastorali nei confronti dei fedeli della loro diocesi. Queste Conferenze sono erette, soppresse o innovate dalla Santa Sede e acquistano ipso iure la personalità giuridica (nell’ordinamento della Chiesa) non appena vengono erette legittimamente. Data l’importanza di questo istituto, non poteva non essere presente all’interno dell’Accordo del 1984. In questo documento, viene assicurata la libertà di comunicazione e di corrispondenza tra la Santa sede, la CEI e le Conferenze Episcopali regionali; inoltre, sempre questo documento, legittima la CEI a stipulare intese con le autorità dello Stato per le materie in cui vi è l’esigenza di collaborazione tra Chiesa e Stato. Infatti, la CEI è legittimata a compiere numerosi atti giuridicamente rilevanti nell’esercizio di poteri sia normativi che amministrativi. TRA I POTERI NORMATIVI LA CEI: - Definisce l’esercizio del ministero del clero; - Determina periodicamente quanto dovuto al clero; - Emana le disposizioni necessarie per l’attuazione nel diritto canonico delle norme sui beni ecclesiastici e sul sostentamento del clero; - Emana le direttive per la formazione degli statuti dei vari Istituti diocesani per il sostentamento del clero; - Stabilisce la procedura per i ricorsi e per la composizione delle controversie determinate dai provvedimenti degli Istituti diocesani per il sostentamento del clero, circa la misura dell’ integrazione dovuta ai sacerdoti che abbiano altri proventi; - Stabilisce il valore degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione per i quali gli Istituti diocesani hanno bisogno dell’autorizzazione della Santa Sede; - Stabilisce le modalità per la designazione, da parte del clero, di un terzo dei membri del consiglio di amministrazione dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero stesso. Nell'esercizio di queste competenze normative, la CEI, ha approvato nel 1986, 10 delibere in materia sostentamento del clero, di assegnazione a diocesi, parrocchie, nonché di costituzione dell'organo per la composizione delle controversie. Queste delibere, promulgate con decreto, hanno nell'ordinamento canonico il valore e l'efficacia di decreti generali. TRA I POTERI AMMINISTRATIVI E DI GOVERNO, LA CEI: - Ha eretto e dotato l’Istituto centrale per il sostentamento del clero; - Stabilisce la ripartizione degli avanzi di gestione degli Istituti diocesani tra questi istituti e l’Istituto centrale; - Dà il proprio parere per la concessione dell’autorizzazione della Santa Sede, quando il valore degli atti superi di almeno tre volte quello massimo; - Designa 3 componenti del consiglio d’amministrazione del Fondo edifici di culto; - Designa il presidente dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero e i membri del Consiglio d’amministrazione di tale Istituto; - Riceve dallo Stato una determinata somma di denaro, e ne determina la destinazione; - Determina annualmente la destinazione delle somme ricevute dallo Stato; - Trasferisce all’Istituto centrale per il sostentamento del clero la quota ricevuta dallo Stato; - Trasmette annualmente all’autorità statuale un rendiconto circa l’effettiva utilizzazione delle somme ricevute, dalle singole persone fisiche e dallo Stato; - Pubblica tale rendiconto sul proprio organo ufficiale e diffonde una adeguata informazione sullo stesso rendiconto e sugli scopi cui ha destinato le somme ricevute dallo Stato; - Nel periodo di transizione dal sistema beneficiale al nuovo sistema di sostentamento del clero ha assunto tutti gli oneri riguardo la remunerazione dei titolari degli uffici ecclesiastici già congruati. La CEI è disciplinata da uno statuto del 1985, riformato una prima volta nel 1998, con decreto del suo Presidente e previa recognitio della Santa Sede. Tali statuti sono poi stati sostituiti nel 2000. 6.4. E) LE CHIESE Appartengono al genere delle fondazioni le Chiese, laddove è riconosciuta la personalità giuridica ad un ente che curi la manutenzione dell’edificio di culto e della sua officiatura. Gli enti chiesa esistenti prima dell’unità d’Italia non furono soppressi dalle leggi eversive, e il Concordato del 29, su questo presupposto previde che la personalità giuridica potesse essere riconosciuta anche ad una qualsiasi chiesa che fosse aperta al culto pubblico e disponesse di un patrimonio sufficiente per la manutenzione e l’officiatura. L’art.11 afferma il riconoscimento quando sussistano i 2 requisiti e quando non siano annesse ad altro ente ecclesiastico. Aperta al culto pubblico significa che la chiesa è officiata regolarmente, e non saltuariamente o occasionalmente, in modo continuativo, potendo ad essa accedere chiunque, nell’interesse della generalità dei fedeli. Anche l’edificio di culto di proprietà di un privato potrà ottenere il riconoscimento senza che questo importi che diventi res pubblica. Infatti, con il provvedimento governativo non vengono eretti in persona giuridica i muri e gli accessori dell'edificio, ma è riconosciuta la personalità giuridica di una fondazione che ha il fine di mantenere ed officiare il tempio ancorché ne abbia solo l’uso. Il nostro ordinamento non prevede esproprio senza indennizzo e l’edificio di culto non fa eccezione, perché non si può sostenere che l’espropriazione possa essere sottratta al normale procedimento, in quanto diretta a soddisfare un interesse generale. Ex art 831, 2°co. c.c., nel caso della deputatio ad cultum di un edificio, il proprietario non può mutarne la destinazione e, quando l’edificio non è officiato, può goderne compatibilmente con la destinazione al culto. La nuova norma, escludendo il riconoscimento in caso di annessione ad altro ente, mira all’ accorpamento degli enti. La tesi seguita dalla P.A, però, è quella che per il riconoscimento della p.g. dell'ente-chiesa è sempre necessario che l’edificio di culto sia di proprietà dell’ente riconoscendo. Perciò, è escluso il riconoscimento di un ente-chiesa quando l’edificio di culto sia di proprietà di privati. Il Consiglio di Stato ritiene che l’attribuzione della p.g. comporta che il sostrato sostanziale, ossia l’edificio di culto, si trasformi in oggetto di dominio e in elemento patrimoniale: se il proprietario dell'edificio di culto non trasferisce la proprietà non sarà possibile riconoscere un ente-chiesa, ma una fondazione di culto, un’associazione, una confraternita. Tali proposizioni contrastano con l’art.11 della l. 222/85 che non richiede che l’edificio di culto diventi di proprietà dell’ente erigendo. La norma prevede che in caso di chiesa aperta al culto pubblico, assoggettata al vincolo di destinazione, ex art.831 c.c., la funzionalità di un ente che ne curi l’officiatura e la manutenzione è pienamente assicurata. Il vincolo di destinazione comporta che solo un atto dell’autorità ecclesiastica o la distruzione materiale potranno sottrarre l’edificio alla destinazione di culto, con ampio sacrificio del diritto di proprietà del privato, sul quale prevale il diritto reale di godimento dell’autorità ecclesiastica, riconosciuto dalla legge, esplicitamente richiamato come requisito per il riconoscimento dalla norma concordataria (art.11 l..222). 6.5. F) I SANTUARI Connesse al tema delle chiese sono le questioni dei santuari e delle fabbricerie. I primi non sono altro che le chiese, le seconde riguardano la manutenzione e l'officiatura delle chiese. Per i santuari, l'art.27 del Concordato lateranense ha previsto che le Basiliche di San Francesco d'Assisi e di Sant'Antonio di Padova fossero cedute alla Santa Sede. Per gli altri santuari, invece, amministrati da privati, sarebbe subentrata la libera amministrazione dell'autorità ecclesiastica. Occorre tenere presente che il termine santuario non è stato proprio del diritto canonico, ma è stato usato dal diritto statuale per indicare quelle chiese mete di pellegrinaggi, dove si venerano immagini o reliquie fatte segno di particolare devozione. Il termine, perciò, serve ad indicare una chiesa che soddisfa una necessità di culto diversa da quella ordinaria. Il diritto canonico li definisce con il codice dell’83 come le chiese in cui, con l’approvazione dell’ ordinario competente per territorio, si reca in pellegrinaggio un gran numero di fedeli per un motivo di pietà. Per l’attribuzione della p. g. dei nuovi santuari, come enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, l'amministrazione ritiene che essi, rientrando fra gli enti il cui fine di religione e di culto è presunto, basta che siano costituiti nelle forme proprie dell’ordinamento canonico, senza che occorra un atto costitutivo creato nelle forme proprie del diritto dello Stato. L'amministrazione, inoltre, nel procedere alle cessioni ha operato fissando, per riscontrare l'esistenza di un santuario, una serie di regole in positivo e in negativo. In positivo, la chiesa doveva aver acquistato la personalità giuridica in epoca anteriore al ’29 e doveva essere amministrata, in modo esclusivo o prevalente, da laici o per provvedimento dell’autorità civile o in via di fatto. In negativo è esclusa l’esistenza del santuario se la chiesa fosse disciplinata da altre norme, perchè parrocchiale o cattedrale, o fosse stata di proprietà di privati o di enti pubblici e se amministrata civilmente per disposizione dell’autorità ecclesiastica o per norme canoniche. 6.6. G) LE FABBRICERIE Con l'espressione fabbriceria si intendono 2 cose diverse: la fondazione o la massa patrimoniale autonoma o anche le oblazioni dei fedeli, raccolte e amministrate giornalmente, beni tutti destinati alla manutenzione e alla officiatura del tempio (fabrica ecclesiae); e l' eventuale consiglio competente ad amministrare tali beni, costituito da ecclesiastici o da laici, oppure (dopo il 1929) di composizione mista di laici ed ecclesiastici denominato in vario modo: fabbricerie, opere, cappelle etc, a seconda della zona. Le fabbricerie hanno una composizione diversa a seconda che gestiscano una chiesa cattedrale o un edificio di culto dichiarato di rilevante interesse storico o artistico; oppure siano annesse ad una chiesa che non abbia tali caratterizzazioni. Se gestiscono una chiesa cattedrale o un edificio di rilevante interesse storico, il consiglio è composto da 7 membri, per un triennio, 2 nominati dal Vescovo, 5 dal Ministro dell’Interno, sentito il vescovo. Hanno uno statuto approvato con decreto ministeriale. Se gestiscono una chiesa normale, il consiglio è composto dal parroco o dal rettore e da 4 membri, nominati per 3 anni dal prefetto, d’intesa con il vescovo. Hanno un regolamento approvato dal prefetto, sentito il vescovo. Eleggono al loro interno il Presidente del consiglio di amministrazione Tutti i membri della fabbriceria prestano la loro opera gratuitamente. Apposite norme disciplinano i casi di incompatibilità, per la nomina a fabbriciere, dipendenti dalla sussistenza di eventuali conflitti di interesse, o dalla presenza di coniuge, parenti e affini entro il 3 grado. Il presidente della fabbriceria, oltre ad eseguire le deliberazioni del consiglio e ad erogare le spese deliberate, adotta in caso di urgenza i provvedimenti necessari; promuove la tutela dei diritti riguardanti i beni della chiesa; prepara i bilanci e i conti consuntivi che ogni anno devono essere approvati dal consiglio. Con le norme dell’87, sono state confermate i previgenti principi della non ingerenza della fabbriceria nei servizi di culto e della soggezione di essa alla vigilanza e alla tutela governativa. La fabbriceria ha competenza limitata: spese di manutenzione e restauro della chiesa e degli edifici annessi; amministrazioni di beni ed offerte destinati a tale scopo; amministrazione delle rendite patrimoniali destinate all’officiatura; provvedere alle spese per arredi, suppellettili ed impianti necessari alla chiesa e alla sacrestia; nonché ogni altra spesa prevista dallo statuto/regolam. La vigilanza e la tutela governativa: consiste nel potere di disporre ispezioni da parte del prefetto sentito il vescovo; sospensione degli organi statutari e nomina di commissario per gestione provvisoria, sentito il vescovo, quando siano accertate gravi irregolarità o per motivi di urgente necessità. Il prefetto poi riferisce al Ministro dell’Interno, il quale, sentito il vescovo e il parere del Consiglio di Stato, può sciogliere il consiglio e nominare un commissario straordinario che non può amministrare per più di 6 mesi e solo in casi eccezionali per 1 anno. Entro tale termine, la fabbriceria deve essere ricostituita. Per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione occorreva l’autorizzazione governativa, sentita l'autorità ecclesiastica competente. L'autorizzazione era concessa dal Ministro dell'Interno. Tali disposizioni sono state abrogate. Le fabbricerie potevano essere soppresse entro il 31-12-1989 con decreto del Ministro dell’Interno, udito il parere del Consiglio di Stato, d’intesa con la CEI. Dopo tale data, se la fabbriceria è dotata di personalità giuridica, il suo destino si stacca da quello della chiesa, e non può essere soppressa se non per perdita dei beni amministrati non potendo, in tal caso, più realizzare il suo scopo. La soppressione avviene con D.M., sentito il vescovo e il Consiglio di Stato. Se non ha il riconoscimento segue le sorti della chiesa, estinguendosi quando questa perdesse la personalità giuridica o in caso di perdita dei beni da amministrare. L’estinzione avviene sempre con D.M , ma come atto ricognitivo di una realtà già verificatasi. 6.7. H) LE ASSOCIAZIONI RELIGIOSE Il fenomeno associativo è disciplinato nei canoni del cod. dell’83 dedicati agli istituti di vita consacrata e alle società di vita apostolica. A tal proposito, distinguiamo: Gli istituti religiosi: sono associazioni alle quali i soci aderiscono pronunziando voti pubblici, perenni o temporanei, che impegnano a condurre una vita fraterna comune, diretta a rendere pubblica testimonianza a Cristo e implicante una separazione dal mondo. Can.607. Gli istituti secolari: non implicano alcuna separazione dal resto della società umana, essendo costituiti da fedeli, laici o chierici, che, dopo l’adesione, continuano a vivere nel secolo la vocazione alla carità e contribuendo dall’interno alla santificazione del mondo. I soci possono vivere soli, in famiglia o in comunione di vita fraterna. Le società di vita apostolica: si denotano perché l’adesione avviene senza pronuncia di voti, ma con l’assunzione dei consilia evangelica. Comporta, però, la vita comune dei soci diretta alla perfezione della carità attraverso l’osservanza delle costituzioni dell'associazione. 6.7.1. Nei confronti di queste associazioni, lo Stato ha avuto, nel tempo, un atteggiamento variegato. Queste associazioni non avevano riconoscimento della personalità giuridica nella seconda metà dell’800. Il Concordato del ’29 ripristina il riconoscimento se sussistevano determinati requisiti: che tali enti fossero di diritto pontificio, ossia approvati, lodati o commendati dalla Santa Sede; che avessero la sede principale in Italia; e che la rappresentanza fosse propria di un cittadino italiano, residente in Italia. Questi principi sono stati sostanzialmente confermati dalle nuove norme e l’autorità governativa è chiamata solo a valutare la sussistenza dei requisiti solo sotto il profilo giuridico, comparando le previsioni di legge ai documenti prodotti. Le associazioni non devono provare l’esistenza di un patrimonio proprio, in quanto i soci con i loro contributi possono costituire e incrementare il patrimonio dell'organizzazione, non occorrendo necessariamente un patrimonio attuale al momento del riconoscimento. Basta che, anche in relazione al numero dei soci e dallo statuto risulti la capacità di acquistare e di possedere. Diversa è, invece, la posizione della pubblica amministrazione, la quale ritiene che, nel riconoscimento della p.g. delle associazioni, occorre distinguere tra il riconoscimento degli istituti religiosi come entità globali e il riconoscimento delle singole case religiose (e, con riferimento a quest'ultima, accertare che l'ente abbia una stabile vita autonoma). Il riconoscimento della personalità giuridica spetta anche agli istituti secolari L’accordo dell’85 ha previsto, parificandole alle associazioni private ex art 20 Cost., il riconoscimento della personalità giuridica civile anche alle associazioni religiose di diritto diocesano, escluse dal Concordato del 1929, sul presupposto della dubbia stabilità di esse. Ora, il riconoscimento avviene con l’assenso della Santa Sede e sempre che abbiano il requisito della stabilità; requisito oggetto di valutazione discrezionale da parte dell’autorità governativa A tal proposito, l’Intesa del 97 tra l'Italia e la Santa Sede ammette la possibilità della valutazione della consistenza patrimoniale come indicativo di situazione di stabilità.
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