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Follia e letteratura - Guido paduano, Sintesi del corso di Drammaturgia

Breve sintesi del libro di Pauduano "Follia e letteratura"

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 04/08/2020

franca_canepa
franca_canepa 🇮🇹

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Anteprima parziale del testo

Scarica Follia e letteratura - Guido paduano e più Sintesi del corso in PDF di Drammaturgia solo su Docsity! Follia e letteratura di Guido Paduano Follia e letteratura, storia di un’affinità elettiva. Dal teatro di Dioniso al Novecento Paduano, filologo classico, storico del teatro e del melodramma, attento conoscitore delle teorie psicanalitiche affronta un tema così complesso come quello della follia e lo dipana per l’arco di venticinque secoli. Egli non si limita a passare in rassegna testi letterari genericamente accomunati dalla follia di questo o quel personaggio ma si prefigge qualcosa di molto più ambizioso: dare conto «dell’emozionante corpo a corpo che la nostra civiltà ha combattuto con l’oscurità esistenziale, cercando ogni mezzo per rischiararla, esorcizzarla, accettarla». 1. Aiace ed Eracle Si parte dall’Aiace, probabilmente la più antica delle tragedie di Sofocle (circa il 445 a.C.). La trama è nota: adirato perché non ha ottenuto le armi di Achille, l’eroe pensa di vendicarsi su Ulisse e sugli Atridi, ma Atena offusca la sua mente, e invece delle vittime designate uccide un gregge di pecore. Aiace quindi non riesce a farsi giustizia. Paduano non condivide la tesi secondo cui la follia – peraltro momentanea – di Aiace sarebbe una punizione per il modo irriverente con cui in precedenza si era rivolto ad Atena. La dea non muove nessun rimprovero all’eroe, anzi si vanta con Ulisse di averlo reso folle nonostante le sue virtù. Né ritiene più fondata l’opinione di chi – come Starobinski – vede nell’alterità (lui diventa un altro) che invade il Telamonio (Aiace) il maturare di una follia già nascosta nel suo smisurato orgoglio. La vendetta meditata da Aiace non è insensata, obbedisce a uno dei princìpi fondanti dell’etica arcaica: fare del male ai propri nemici. Il quale, principio, è strettamente collegato al fatto che in una shame culture (cultura della vergogna), quale è quella degli eroi omerici, è intollerabile “perdere la faccia” senza reagire. Aiace ritiene di essere stato leso nel suo onore dall’ingiustizia subita da parte dei capi della spedizione contro Troia, che non si sono comportati con lui da phíloi: dunque si sente autorizzato a trattarli da nemici. Che vendetta e follia non siano in relazione l’una con l’altra si ricava anche dalla circostanza che il desiderio di vendicarsi permane in Aiace anche dopo il suo rinsavimento. Ma poiché la divinità gli ha irrimediabilmente precluso il riscatto dall’onta, l’unica via che gli resta per conservare l’onore è il suicidio. Solo il coro continua a pensare erroneamente che Aiace si dia la morte perché soggiace ancora alla «follia divina» che lo ha colpito. Ma l’origine dell’errore è ben chiara: il coro portavoce istituzionale dei valori e delle istanze dell’uomo comune, è convinto che la “normalità” sia la conservazione della vita e il suicidio sia “follia”. Aiace per Paduano è tutt’altro che folle: analizza con freddezza la situazione e arriva alla conclusione – ineludibile dato il paradigma culturale a cui si attiene – di una reciproca incompatibilità tra sé e il mondo. Lucidamente finge con i suoi di accettare la sventura che si è abbattuta su di lui e afferma con toni concilianti di avere imparato che così va il mondo: ma è un mondo a cui non appartiene e non apparterrà mai. Il gesto estremo a cui approda gli vale in effetti il riconoscimento postumo della sua integrità e del suo valore. Non è stato un folle a suicidarsi: questo è ben chiaro ai suoi nemici, che partecipano della stessa cultura e che in circostanze analoghe si sarebbero con ogni probabilità comportati nello stesso modo. Ed è proprio il principale fra questi, Ulisse, a dargliene pubblicamente atto, riconoscendo, in una sorta di risarcitorio epitaffio (discorso di lode sulla tomba), che era stato, dopo Achille, il migliore dei Greci venuti a Troia. L’Eracle di Euripide: i sintomi clinici Dell’Aiace, l’Eracle di Euripide ripete la dinamica dell’evento centrale: una divinità ostile, stavolta Era, fa impazzire l’eroe che, reduce dall’ultima delle fatiche, la discesa 1 all’Ade per catturare il cane Cerbero, stermina i figli e la moglie Megara credendo di avere davanti a sé la famiglia del nemico Euristeo: l’accesso d’ira ha termine quando Atena scaglia contro di lui un masso che lo addormenta. Tornato in sé, anche Eracle medita il suicidio, e ne sostiene a lungo le ragioni, ma alla fine si lascia persuadere ad accettare l’esistenza e seguire ad Atene l’amico Teseo. La tragedia di Euripide mostra un interesse molto maggiore per i sintomi e la manifestazione della pazzia che sono analizzati in maniera dettagliata: 1) silenzio improvviso e occhi stravolti 2) bava alla bocca 3) suoni inarticolati 4) folle risata Il delirio crea uno scenario irreale e i suoi gesti nel vuoto mettono paura e insieme fanno ridere i servi presenti alla scena; Eracle fa mostra di salire su un carro inesistente e immagina di compiere un viaggio e si rivolge al suo vero padre (Anfitrione) come se fosse invece il padre di Euristeo (suo nemico). Quindi, Eracle uccide a uno a uno i 3 figli e la loro madre, Megara, moglie di Eracle. Si intuisce che Eracle torna dalla follia ad essere normale quando mostra di riconoscere il padre e quando mostra di non sapere nulla della strage che ha fatto. La teodicea di Euripide Ancor più che nell’Aiace sofocleo, nell’Eracle di Euripide è a una divinità che va imputata la follia del protagonista. L’intervento di Era, a differenza di quello di Atena nell’Aiace, sostanzialmente diversivo, è intenzionalmente distruttivo, e dettato per giunta da futili motivi: il rancore per i figli delle donne delle avventure di Zeus. La tragedia si compone di due parti: 1) la prima parte con la persecuzione subita dalla famiglia di Ercole e il racconto di tutte le sue fatiche per il bene dell’umanità; 2) la seconda parte con un coinvolgimento più diretto dell’eroe: della sua volontà di suicidio, del suo rapporto problematico con le divinità e della sua scelta in favore del padre umano rispetto al padre divino, Zeus. Nel finale assume importanza l’amicizia con Teseo che fornisce a Eracle la possibilità di sopravvivenza ad Atene. Si contrappone la negatività di Era alla positività di Eracle. Ciò pone il problema della teodicea (La teodicea è una branca della teologia che studia il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza nel mondo del male): le presunte colpe di Eracle appaiono insignificanti a fronte dei suoi meriti di civilizzatore – messi in risalto paradossalmente proprio da Lyssa, la personificazione della follia, che invano cerca di contrastare il volere della dea Era. Allora perché Eracle magnanimo deve subire una simile sciagura? Potrebbe essere (ma Paduano lo esclude) nella eccessiva bontà nei confronti dell’umanità (che si evince nella prima parte della tragedia con il racconto di tutte le fatiche che Ercole ha sostenuto per il bene dell’umanità) di Eracle l’origine della pazzia sparso per istigazione di Era. Paduano conclude che forse la sventura di Eracle è dovuta al fatto che le personalità forti suscitano diffidenza che porta a riconoscere in queste personalità una sorta di devianza dalla normalità, di follia appunto. Eracle non è folle ma è stato indotto alla follia da Era che teme la sua personalità. La presunta colpevolezza dell’Ercole di Seneca Le colpe di Eracle sono rese più pesanti da Seneca nella sua riscrittura della tragedia euripidea, l’Hercules furens. Qui l’azione di Era viene giustificata dal timore che Eracle, nella sua tracotanza, possa tentare addirittura l’assalto al cielo. Ma quella follia che vuole infliggere a Eracle, Era la fa vedere in se stessa, consapevole dell’irragionevolezza della sua decisione. E in ultimo sarà il padre mortale dell’eroe, Anfitrione, ad assolverlo, addossando a Era la responsabilità dell’eccidio da 2 La commedia meglio conservata di Menandro, il Dyskolos, presentata per la prima volta nelle festività delle Lenee nel 317 a.C., è molto simile a “Le Vespe” di Aristofane, infatti anche qui un vecchio è affetto da una “pazzia” che più che altro è una “mania” perché egli non vuole avere a che fare con nessuno (è un misantropo). La pazzia di Cnemone (vecchio contadino bisbetico, misantropo)nel Dyskolos di Menandro consiste quindi in un’irriducibile misantropia. All’inverso di Filocleone, che prova un aberrante piacere nel condannare tutti quelli che può e, quindi, per fare questo non può tenersi lontano dai tribunali, Cnemone ha già condannato preventivamente tutti i suoi simili, e gode unicamente della solitudine. Dalla sua pazzia, che tale tecnicamente non è, saprà comunque recedere da solo, quando prenderà atto che esistono anche uomini non malvagi. 4. Don Chisciotte Don Chisciotte immagine del rinascimento Dall’antichità classica Paduano balza direttamente al “siglo de oro” (siglo de ora è il 1600) e al suo testo più rappresentativo, il Don Chisciotte. Il protagonista è portato alla follia dall’assidua lettura dei romanzi di cavalleria, ma – Cervantes tiene a precisarlo, e Paduano con lui – non è affascinato soltanto dalle imprese meravigliose in se stesse ma anche e soprattutto dalla dimensione letteraria di esse, dallo stile e dal linguaggio dai quali si lascia sedurre e trasportare in un universo parallelo. Ma sarebbe più esatto dire che costruisce una propria realtà alternativa, nella quale l’immaginazione creatrice si impone sul reale, trasfigurandolo, Cervantes comunque accompagna il mondo irreale di don Chisciotte a quello reale e contingente (incarnato da Sancio Panza e da altri buoni amici) Don Chisciotte immagine del rinascimento Don Chisciotte della Mancia è un romanzo scritto da Cervantes tra il 1605 e il 1615, in esso il protagonista è un appassionato dei romanzi cavallereschi del 1100- 1200. Ma questi romanzi incarnano degli ideali che non sono più quelli della società a lui contemporanea. È proprio questo disallineamento che porta Don Chisciotte ad essere deriso e preso per pazzo. Don Chisciotte nel romanzo diventa l'emblema dei valori cavallereschi che, però, non possono essere messi in pratica nell'epoca in cui Cervantes scrive: da qui la convinzione che il protagonista sia folle Don Chisciotte impazzisce a causa della continua lettura dei romanzi di cavalleria. Egli dice che per accrescere il suo nome e per servire la patria gli sembra necessario diventare un cavaliere errante, girando il mondo per rimediare alle ingiustizie, conquistando fama terna. Don Chisciotte incarna il prototipo di colui che inseguendo sogni di giustizia e lealtà si scontra con la dura realtà. Come ogni cavaliere dei romanzi che ammira crede infatti nella pace, nell’onore, nella difesa dei deboli, negli incantesimi e nella missione di dover sconfiggere i nemici saraceni (certo non più un pericolo reale nel 1600). Don Chisciotte resta affascinato non tanto delle storie raccontate nei romanzi di cavalleria1 ma dallo stile, dal linguaggio raffinato. Non solo Don Chisciotte conosce i romanzi cavallereschi ma anche altri personaggi, a volte umili, del romanzo dimostrano la loro conoscenza (ad esempio un oste prosegue una citazione fatta da Don Chisciotte di un antico romanzo). Don Chisciotte, oltre a simboleggiare gli ideali passati e ormai insignificanti, rappresenta anche i contrasti che esistono fra realtà e finzione: per lui il rapporto con la realtà è distorto e filtrato dai canoni di comportamento della cavalleria. Non riesce a distinguere quello che è vero da ciò che è letteratura (e a volte è davvero difficile stabilire dove sia il confine). 1 La letteratura cavalleresca nasce in Francia nel 1050 circa e si diffonde in Italia tra il 1200 e il 1300. La letteratura cavalleresca si sviluppò in Francia prevalentemente a partire da due grandi tematiche: quella guerresca per il ciclo carolingio e quella amorosa per il ciclo bretone. La prima è formata dalle canzoni delle gesta, res gestae, dei paladini di Carlo Magno ed ha come opera principale la Chanson de Roland. La seconda è più romanzesca ed avventurosa (res fictae) e celebra le imprese di re Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Le canzoni di gesta francesi e i cantares de gestas spagnoli (XII secolo) rivisitano in chiave leggendaria eventi storici, come le guerre di religione contro gli Arabi che avevano occupato la Spagna, allo scopo di celebrare la civiltà cristiana contro quella islamica 5 Una pazzia che nasce dalla corretta applicazione dei dettami del codice cavalleresco. Il cavaliere non è però davvero “pazzo”, non si comporta cioè come qualcuno che ha perso la ragione anzi, si comporta in un modo impeccabile, segue a menadito tutti i dettami del codice cavalleresco ed è proprio da questo suo rigore, applicato a cause di poco conto, e in modi che ormai non sono più attuali, che emerge la sua stranezza e la sua follia. L’imitazione creativa Nel Don Chisciotte avviene un rispecchiamento sia a livello del testo che si rifà (si rispecchia) ad un modello superato come quello del romanzo cavalleresco del 1200, diventando una novità nel romanzo moderno del 1600; così il protagonista tentando di diventare come il modello (il cavaliere Amadigi di Gaula) si rispecchia in lui creando un nuovo personaggio. Crea se stesso, il cavallo Ronzinante e l’amata Dulcinea (un cavaliere deve sempre avere una donna per la quale combatte). Crea le sue avventure riprendendole a sua volta da modelli antichi, come la celebre “battaglia contro i mulini a vento”, che lui vede con sembianze di giganti, personaggi presenti anche nei romanzi cavallereschi, ma che qui si rifanno addirittura al mito greco degli Ecatonchiri. Il vero capolavoro delle trasfigurazioni è quello dell’incontro di due greggi di pecore che lui vede come poderosi eserciti impegnati in una guerra di religione. Egli si rispecchia nel suo eroe (Amadigi di Gaula) a tal punto da inscenare una pazzia per amore anche se non ne avrebbe la necessità visto che la sua dama non gliene da motivo. Ma egli spiega a Sancio Panza2, suo fedele servitore, che “il bello sta a impazzire senza motivo”. La sua quindi non è semplice copiatura del modello ma una creazione di nuove realtà e di nuovi personaggi. I dolori del cavaliere errante Le innumerevoli sconfitte di Don Chisciotte non scalfisco neppure per un attimo la sua convinzione di continuare nelle sue imprese di cavaliere errante perché egli le giustifica perché rientrano nelle regole dei romanzi cavallereschi. Egli infatti afferma che tutte le cose appaiono diverse a lui e agli altri (ad esempio lui vede un elmo mentre Sancio vede in quell’oggetto un semplice bacile) perché esistono degli incantatori che fanno succedere queste cose, che fanno apparire errori e stravaganze le cose dei cavalieri erranti. Il “secondo Don Chisciotte” Nella seconda parte del romanzo non è più Don Chisciotte a condurre l’avventura, ma sono gli altri personaggi che per farlo rinsavire e lo attirano in situazioni che secondo loro servirebbero a farlo rinsavire. Per “guarire Don Chisciotte dalle sue stravaganze, un suo amico (Sansone Carasco), finge di essere un cavaliere antagonista, il Cavaliere della Bianca Luna, ed escogita un modo per avere un duello con lui. In realtà i duelli furono due, ma il primo fu vinto da Don Chisciotte, mentre il secondo fu vinto dal Cavaliere della Bianca Luna, e a quel punto Don Chisciotte, come vuole tradizione cavalleresca, deve sottostare alle condizioni del vincitore, che gli impone di ritirarsi dalla vita di cavaliere per un anno, periodo che non fu terminato perché Don Chisciotte morirà prima. Nella seconda parte del romanzo, secondo Miguel de Unamuno che ha studiato a fondo l’opera, Don Chisciotte non è più padrone dell’iniziativa, è invece eterodiretto dagli altri personaggi (sono gli altri che lo attraggono in avventure e non è più lui a deciderle) che magari con buone intenzioni lo imbrogliano per farlo tornare “alla realtà”. Non solo l’amico lo induce al duello, ma anche Sancio Panza e anche il curato e il barbiere lo attirano in inganni che danno il via a spunti comici perché Don Chisciotte viene ridicolizzato. C’è, quindi, un “ribaltamento” che non è del tutto a 2 Sancho Panza: è un contadino che viene nominato da Don Chisciotte suo scudiero. Sancho inizialmente non crede a tutte le fandonie che dice Don Chisciotte e lo segue solamente perché è convinto che andando dietro a questo folle potrà davvero arricchirsi, infatti Don Chisciotte gli promette di farlo governatore di un’isola che prima o poi avrebbe conquistata. Rappresenta la parte “razionale” delle avventure narrate nel libro perché quando Don Chisciotte immagina scenari irreali e cavallereschi, Sancho nota sempre la realtà effettuale che hanno intorno anche se questo non convince mai il cavaliere a rinunciare alle sue missioni. 6 danno di Don Chisciotte, infatti, in questo modo egli obbliga gli altri, i “normali” a entrare nel suo mondo di stravaganze. Una pazzia circoscritta? Quando il barbiere e il curato conversano con Don Chisciotte su questioni politiche della società a loro contemporanea, sembra che sia rinsavito e per verificarlo alludono ad una guerra contro i Turchi (che non c’era nel 1600) e lui risponde candidamente che contro i Turchi si vince solo con i cavalieri erranti. Allora sembra che la pazzia di Don Chisciotte sia una pazzia circoscritta alla questione dei cavalieri erranti, escludendo questo argomento Don Chisciotte sembra normale anzi sembra una persona molto preparata dal punto di vista culturale. Sancio Panza riconosce al padrone talento più di predicatore che di cavaliere e sua nipote ammette che egli “sa tutto, riesce in tutto”. Sancio La “chisciottizzazione” di Sancio vale a dire l’influsso, la suggestione, l’assimilazione esercitati da Don Chisciotte sullo scudiero è uno dei tratti salienti del romanzo. La follia sembra uscire dalla cerchia di Don Chisciotte ed estendersi al servitore Sancio. All’inizio Don Chisciotte accetta Sancio come scudiero perché aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse, mentre Sancio sembra farlo per soldi, per uscire fuori dallo status di contadino. Ma è difficile spiegare la lunga durata della solidarietà tra padrone e scudiero visti gli innumerevoli insuccessi. Sancio pretenderebbe uno stipendio ma Don Chisciotte dice chiaramente che nei romanzi di cavalieri non si parla mai di soldi, infatti anche quando un oste chiede di essere pagato Don Chisciotte si rifiuta sprezzante perché dice non si abbassa a una cosa così vile come il denaro. Man mano che si procede nel romanzo si nota che Sancio sposta il suo interesse dal solo denaro alla gloria, anche sua e inizia un processo di assimilazione del servo col padrone. Ma la principale ragione della solidarietà incrollabile di Sancio nei confronti del padrone è l’affetto per lui, che aumenta via via. Alla fine rivolgendosi al suo padrone: “Non muoia, signor padrone, non muoia. Accetti il mio consiglio, e viva molti anni, perché la maggior pazzia che possa fare un uomo in questa vita è quella di lasciarsi morir così senza un motivo, senza che nessuno lo ammazzi, sfinito dai dispiaceri e dall'avvilimento”. Massenet e l’approccio romantico Il Don Chisciotte è ripreso da un’opera teatrale del compositore Massenet, che la mette in musica. L’opera di Massenet si rifà solo in parte al testo di Cervantes, per esempio Dulcinea diventa protagonista, è una donna molto ammirata che chiede a Don Chisciotte di recuperarle una collana a lei sottratta da un ladro. Quando Don Chisciotte chiede la sua mano viene deriso ma Dulcinea non lo deride e lo rifiuta senza offenderlo. Anche quando Don Chisciotte incontrerà i banditi, all’inizio lo derideranno e lo percuoteranno mentre in seguito saranno turbati da lui e chiederanno la sua benedizione. Il messaggio portante dell’opera è la vocazione cristiana di Don Chisciotte, che in Cervantes non appare così marcata. In Massenet il congedo di Don Chisciotte, alla sua morte, è il sunto di tutta la sua vita: “ho lottato per il bene, ho fatto una buona guerra”. 5. Re Lear e Nabucco Padri e figli Quasi contemporaneo del Don Chisciotte è un altro capolavoro della letteratura mondiale, il Re Lear3 di Shakespeare, composto nel 1605-1606. Paduano mette qui a 3 Trama: Lear, ormai vecchio, vuole dividere il suo regno fra le tre figlie: Gonerilla, Regana e Cordelia. Mentre le prime due dichiarano per il padre amore assoluto, per pudore non fa cosi Cordelia, la sola, in realtà, che lo ami davvero. Lear la disereda, bandisce il conte Kent, che la difende, e dichiara sue eredi Gonerilla e Regana. Cordelia sposa il re di Francia e là si trasferisce. Intanto le sue sorelle, ottenuto il potere, scacciano il padre. Questi, ormai fuori di sé per le sofferenze subìte, vaga in una violenta tempesta assistito dal buffone e dal fedele Kent, ritornato dall’esilio travestito da servo per proteggere il suo signore. Per difendere l’anziano re, il re di Francia sbarca in Inghilterra con Cordelia. L’amore e il rispetto che traspaiono dalle parole di Cordelia riescono a illuminare gradualmente la mente ottenebrata di Lear. Il vecchio re ricorda il male subìto dalle figlie maggiori che egli aveva beneficato e riconosce il torto fatto all’onesta Cordelia. Intanto si combatte una guerra devastante tra francesi e inglesi. I francesi vengono sconfitti, Cordelia è impiccata e Lear muore di dolore. Nel frattempo Gonerilla avvelena Regana e, scoperta mentre trama di assassinare il marito, si suicida. 7 diventato pazzo e che per questo sente vicino a sé: «l’uno ammattito di forza, l’altro di debolezza». Achab è capace di organizzare strategicamente la sua follia: come la Medea di Euripide – confronta Paduano – esamina le opzioni che ha davanti per poi scartarle e concludere, come aveva stabilito fin dall’inizio, che il sacrificio dei figli è inevitabile, così il capitano del Pequod imputa al fato o a un’inflessibile divinità quella che è la sua aprioristica volontà di autodistruzione. 9. L’idiota e Parsifal I primi contatti sociali del principe Myskin Paduano ha dedicato una tappa del suo itinerario attraverso follia e letteratura all’Idiota di Dostoevskij. È una scelta che desta qualche perplessità. Il principe Myškin soffre – come lo stesso Dostoevskij – di epilessia, che è una malattia non equiparabile alla follia. Il principe è un’anima candida, uno spirito puro incapace di adeguarsi al cinismo, alla meschinità dei suoi simili, e solo in senso distorto si può considerare follia l’aspirazione all'armonia totale che, a imitazione del Cristo, egli persegue con disarmante bontà e innocenza assoluta. Ugualmente è possibile avanzare dei dubbi circa la follia del protagonista del Parsifal di Wagner – altra opera presa in esame da Paduano – che di folle ha solo l’eroica, disumana volontà di rifiutare tutti gli allettamenti della mondanità e dell’erotismo. 10 Maupassant La possessione 1) Con Le Horla di Maupassant abbiamo una situazione inversa rispetto a quella di personaggi come Aiace ed Eracle, inconsapevoli della loro alienazione. Il personaggio dell’autore francese ha piena coscienza di essere posseduto da qualcosa di alieno, e analizza la sua situazione aggrappandosi alla propria ragione, fino all’estrema – e inutile – ribellione che si conclude con la morte dell’io narrante. 2) In diversi altri racconti Maupassant si confronta con la follia, ma nel racconto Moiron, che Paduano colloca – forse con troppa generosità – ai vertici dell’arte di Maupassant, la follia prende una dimensione teologica: un maestro di scuola uccide cinque suoi scolari per «rendere la pariglia» a un dio di sconfinata malvagità, che pretende per sé solo il potere di uccidere degli innocenti, tra cui il suo stesso figlio. 11. Follia e genio Il monaco nero Nel racconto di Čechov, Il monaco nero, Kovrin docente di psicologia e filosofia dai nervi compromessi, interagisce con l’apparizione fantasmatica del monaco del titolo, il quale gli conferma di essere un’allucinazione, ma allo stesso tempo gli certifica che soffrire di allucinazioni è un privilegio degli uomini di genio. Da questa rivelazione ha inizio per il protagonista una nuova vita: la potente iniezione di autostima dà nuovo impulso alla storia d’amore con la figlia del suo ospite e incentiva la sua produzione scientifica. Ma il suo comportamento “stravagante” desta allarme in chi gli sta intorno, e viene costretto a curarsi. Tornerà “normale”, ma non sarà più felice, né originale: sarà un mediocre, amareggiato e deluso dalla routine. Solo in punto di morte tornerà ad apparigli il monaco nero, e sarà l’occasione per fare il fallimentare bilancio della sua rinuncia alla follia. L’ultima opera che Paduano affronta nel libro, e nella cui analisi profonde sapere e sensibilità, è Lenz, un racconto di Georg Büchner apparso postumo nel 1839. Definito da Gilles Deleuze e Félix Guattari La promenade du schizophrène, descrive il viaggio del sente annichilito tanto da perdere il senso dello spazio e del tempo, mentre avverte alle proprie spalle come “il rombo dei cavalli della follia”. Raggiunto un villaggio, Lenz viene accolto amichevolmente nella casa del pastore Oberlin. Qui durante il giorno la sua condizione è sopportabile, ma quando scende la 10 sera lo prende l’angoscia, teme che incomba su di lui una malattia inevitabile. In effetti, il suo bipolarismo è il sintomo di una incipiente schizofrenia. Un messaggio del padre che gli chiede di tornare lo destabilizza ulteriormente, perché il pensiero di incontrarlo lo terrorizza. La malattia si aggrava quando si perde e incontra personaggi inquietanti. Il tumulto emotivo, reso nei moduli della “Sturm un Drang”, si alterna con l’apatia. La malattia, oramai conclamata, lo spinge a moltiplicare i tentativi di suicidio, fino a quando viene legato e portato a Strasburgo per essere curato. Durante il viaggio «pareva del tutto ragionevole (…) ma c’era un vuoto orribile in lui, non sentiva alcuna paura, alcun desiderio. (…) Così continuò a vivere». La lotta con la follia è finita, e Lenz ha perduto. A lettura ultimata, sorprende non trovare in questo libro consacrato alla contiguità tra letteratura e follia non tanto questa o quell’opera – ci sono certamente quelle importanti, ma forse che Il giro di vite e Così è se vi pare non lo sono? – quanto un accenno al topos del “divino furore”, a quella teoria che considera la creazione letteraria frutto di una possessione da parte di una «forza divina» (théia dýnamis, dicevano i Greci) e che da Platone in poi – come ci ha insegnato tra gli altri Ernst Robert Curtius – tanta fortuna ha avuto nella cultura occidentale. Paduano, che conosce la letteratura classica come pochi, avrebbe potuto ricordarci da par suo che per gli antichi l’ispirazione era enthousiasmós, frenesia indotta dall’esterno, in altre parole: follia; che per Aristotele coloro che soffrono per l’eccesso e il riscaldamento della bile nera (melancholía), «diventano folli oppure invasati, come accade (…) a quelli che diventano ispirati (éntheoi)»; che il neoplatonico Marsilio Ficino riprese la teoria del furor dando origine all’idea moderna di genio. E un comparatista di lungo corso come il Nostro avrebbe potuto accennare al fatto che Coleridge sosteneva di avere scritto il poemetto Kubla Khan quasi sotto dettatura di una forza impadronitasi della sua mente durante un sonno durato tre ore e che William Blake affermava di avere scritto il suo Milton «sotto dettatura immediata (...), senza premeditazione e persino contro la mia volontà». Né mette conto chiedersi se tali affermazioni siano veritiere. Quella che è sicuramente vera è l’affermazione di André Gide: «Le cose più belle sono quelle che la pazzia suggerisce e la ragione scrive». 11
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