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Retorica e metrica nella poesia italiana: figure, versi, sillabe e rime, Appunti di Letteratura Italiana

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Una panoramica sulla retorica e la metrica nella poesia italiana, con particolare attenzione alle figure retoriche di parola, ai versi, al computo delle sillabe e alle rime. Vengono illustrate le diverse tipologie di versi, la tradizione metrica isosillabica italiana, la distinzione tra verso piano, tronco o sdrucciolo, e le funzioni della rima. Vengono inoltre presentati schemi rimici e tipi di rime, come la rima baciata, alternata, incrociata, incatenata e repliCata.

Cosa imparerai

  • Che cosa significa la finzione nella poesia?
  • Che cosa sono le figure retoriche di parola?
  • Che cosa è la metrica isosillabica?
  • Che cosa è la rima e quali sono i suoi tipi?
  • Che cos'è il verso in poesia?

Tipologia: Appunti

2017/2018

Caricato il 19/05/2018

Debbie23
Debbie23 🇮🇹

4.5

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Scarica Retorica e metrica nella poesia italiana: figure, versi, sillabe e rime e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Corso di Letteratura Italiana prof. L. Rino Caputo Mod. A Appunti per le esercitazioni sui Fondamenti di metrica italiana Dott. Pamela Parenti a.a. 2009/10 Da Alessandro Manzoni, Lettera a Ruggero Bonghi … Manzoni parla del De vulgari eloquentia di Dante Alighieri: “[…] Dante intende parlare, cioè del linguaggio della poesia, anzi d'un genere particolare di poesia. […] poiché immediatamente dopo, viene il terzo capitolo, in cui «si distinguono i modi del poetare in volgare,» e sono «canzoni, ballate, sonetti e diversi altri modi legittimi e irregolari, come si mostrerà in appresso.» Sicché e in ciò che è venuto fino a noi; e in ciò che ci manca, tutto s'aggira intorno a canzoni, ballate, sonetti, tragedia, commedia, elegia, cose da cantarsi; sempre poesia, niente altro che poesia”. Dante • FICTIO: la finzione, l’artificio, la convenzione poetica • RETHORICA: retorica dei suoni/“figure retoriche di parola” (come l’allitterazione, l’anafora, l’onomatopea); retorica dei versi (come l’enjambement, o il chiasmo); retorica delle strofi o stanze e così nella combinazione delle strofi e delle stanze in metri e dei metri tra loro; retorica della semantica (le cosiddette “figure retoriche di pensiero”), che trova nella poesia il maggior campo di utilizzazione, proprio perché il discorso poetico, per sua natura, si distacca “dall’usato discorso” e pertanto non è mai portatore di significati oggettivi. Il linguaggio poetico è “plurisemico”, è dunque simbolico, metaforico, allegorico. • MUSICA: il ritmo, il tono, il tempo, perché la poesia, come la musica, presenta strutture che si estendono nel tempo, secondo segmenti equivalenti e ricorrenti, che determinano un certo ritmo, anziché un altro. Non solo, ma l’identità di alcuni elementi fonici (la rima), che si ripetono regolarmente secondo alcuni schemi, fanno parte di questo ritmo, così come la ricorrenza degli accenti. L’elemento della ripetitività, del ricorrere simmetrico di elementi equivalenti (stessi versi, stessi accenti, stesse rime), nonché il combinarsi di questi segmenti (versi) in strutture più complesse (strofa, stanza, sonetto, canzone, ballata, etc.), accomunano la poesia alla musica. Da Ugo Foscolo, Principi di critica poetica “L’effetto dell’armonia che la musica produce all’anima per gli orecchi, per mezzo di suoni uniti con diversi modi e gradi, vive pure ugualmente prodotto dalla scultura, dalla pittura e dall’architettura per via degli occhi e per mezzo di forme, di tinte e di proporzioni che armonizzano tra di loro. Ma la poesia unisce l’armonia delle note musicali per mezzo della melodia delle parole e della misura del verso; - e l’armonia delle forme, de’ colori e delle proporzioni per mezzo delle immagini e delle descrizioni”. Da Vittorio Alfieri, Lettera al Calzabigi “Nella poesia lirica parla il poeta, vuole allettare gli orecchi da prima, poi tutti i sensi; descrive, narra, prega, si duole: cose tutte, che in bocca al poeta volgiono armonia principalmente. Il nome di lirica denota che il fine suo principale sarebbe il canto: ed al canto si supplisce con cantilena nel recitare. Se i versi lirici prima di ogni cosa non fossero cantabili, e fluidi, e rotondi, peccherebbero dunque come non riempienti lo scopo”. Metrica Isosillabica • La tradizione metrica italiana è ISOSILLABICA, nel senso che i versi denominati allo stesso modo devono avere lo stesso numero di sillabe, contate secondo alcune convenzioni specifiche. • La sillaba che determina il tipo di verso è L’ULTIMA SILLABA TONICA, pertanto se l’ultima sillaba accentata è la decima, il verso sarà un endecasillabo, se è la sesta il verso sarà un settenario, se è la quarta il verso sarà un quinario, e così via. • Ed è per questa ragione che l’ultima parola del verso sarà fondamentale per indicare se si tratta di un verso tronco, piano o sdrucciolo (,  _, _ _). Verso piano, tronco o sdrucciolo • La tipologia del verso è legata alla parola finale (cui inerisce anche la rima, come vedremo successivamente). Tale parola finale, infatti, è portatrice dell’ultimo accento utile al computo delle sillabe del verso e può quindi essere tronca (se l’ultima sillaba è tonica, come ad es. la parola verità), piana (se la penultima sillaba è piana, come ad es. la parola vìta) sdrucciola (se l’ultima sillaba è sdrucciola, come ad es. la parola bàrbaro). • In base all’accento, dunque, contenuto nell’ultima parola, il verso sarà anch’esso detto tronco, piano o sdrucciolo. • Nella lingua italiana, la maggior parte delle parole sono piane, ne deriva che nella poesia il maggior numero di versi sono piani. Computo delle sillabe • Vocali poste a fine di parola, che incontrano vocali poste all’inizio della parola successiva, si fondano in un’unica sillaba. Tale prassi è di norma definita sinalèfe. L’esatto contrario della sinalèfe, quando cioè le due vocali vengono considerate autonome e quindi appartenenti a sillabe diverse, è detto dialèfe. • Analogamente è molto frequente che vocali vicine all’interno di una parola, che dovrebbero contare due sillabe, ne contino invece solo una. Tale prassi è di norma definita sinèresi. • Il contrario della sinèresi avviene quando un dittongo, per ragioni di “scarsezza” sillabica del verso, viene separato in modo da ricavarne due sillabe. Tale prassi è di norma definita dièresi. • L’apòcope è la parola abbreviata, alleggerita della vocale finale (cor, amor, e, negli esempi, ridir e pien). • Analoghe forme sono quelle dell’elisione, che viene però indicata con l’apostrofo (negli esempi tant’ ch’ i’, ecc..) e dell’afèresi, in cui la vocale mancante è prima della consonante (come la frequente forma: ‘l core). Cos’è la rima • Ripetizione di segmenti sonori • Perché la ripetizione dei segmenti sonori possa essere considerato un fenomeno metrico, è necessario che essa sia innanzitutto legata ai versi e poi che sia, in qualche modo, ritmica. • Non a caso al fenomeno fu dato il nome che è la derivazione del latino classico rythimus attraverso la forma del latino medioevale rithimus; e più tardi si chiamarono rime, per sineddoche, o un insieme di composizioni poetiche in volgare, […] o le singole composizioni (Antonio Pinchera, La metrica, Milano, Mondadori, 1999, p. 195) … • La rima costituisce pertanto una “relazione” fra due o più parole, benché il termine comunemente venga usato per indicare l’uscita della parola finale del verso dall’accento in poi, o la stessa parola rimante. Si dice, per esempio, che –ita, oppure vita, è la “rima” del verso Nel mezzo del cammin di nostra v-ita Qui entra in gioco anche la memoria poetica del lettore. Riconoscendo immediatamente l’incipit della Commedia dantesca e sapendo che si tratta, appunto, di un testo rimato, in lui scatta un meccanismo psicologico che lo dispone all’attesa; ma l’attesa sarà pienamente soddisfatta, e la relazione rimica sarà di fatto stabilita, solo dopo il verso 3: ché la diritta via era smarr-ita A questo punto sarà lecito dire che a una proposta di rima (“vITA”) ha fatto seguito una risposta (“smarrITA”), in quanto due parole sono state messe in relazione attraverso la ripetizione degli stessi suoni finali. Perciò a taluno è parso di poter dire che “rima è in realtà un verbo: è il rimare, il far rima” (Cirese 1988, p.401) Definizione di rima • Viene dunque convenzionalmente indicata come RIMA, l’identità dei suoni della parte finale di due parole a partire dalla vocale tonica compresa, e collocate alla fine del verso, poiché, generalmente, essa ne mette in relazione due o più di due. Tuttavia la rima può cadere anche all’interno del verso, riguarda cioè la fine di un verso e la prima metà di un altro (RIMA AL MEZZO o RIMA INTERNA) Dante Inf. I Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura esta selva selvaggia e aspra e forte che nel pensier rinova la paura! Petrarca, Rvf. I Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core in sul mio primo giovenile errore, quand’era in parte altr’uom da quel, ch’i' sono; del vario stile in ch’io piango e ragiono fra le vane speranze, e ‘l van dolore; ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, non che perdono. Ma ben veggio or sì come al popol tutto favola fui gran tempo, onde sovente di me medesmo meco mi vergogno; e del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto, e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno. Funzione strutturante della rima • La rima svolge un importante ruolo nel raggruppare in periodi complessi (strofi ed eventuali sottounità) un insieme di versi. Nei componimenti poetici una rima particolare ricorre in una posizione precisa e suggella la struttura del componimento stesso. • Alla rima è affidato il compito di segnalare la pausa di fine verso; o, nei casi di rimalmezzo, la pausa censurale. soccorri a la mia guerra, bench’i’ sia terra, et tu del ciel Regina. (Rvf. CCCLXVI) • E sulla sillaba tonica della parola in rima cade l’ultimo ictus del metrema, l’unico ictus, si può dire, assolutamente inamovibile, per essere quello che determina, prima di ogni altro, la regolarità e il tipo stesso del verso. … • RIMA REPLICATA ABC ABC … individua una terzina, come nella seconda parte del Sonetto oppure i piedi di una Canzone. • RIMA INVERTITA o RETROGRADA ABC CBA … come la precedente, individua una terzina, come nella seconda parte del Sonetto oppure i piedi di una Canzone. • RIMA IRRELATA Si tratta di un verso cui non ne corrisponde un altro in rima, in uno schema dove gli altri versi rimano tra loro. Il sonetto • “Il termine sonetto è la trasposizione italiana del provenzale sonet, e in origine, designa in senso proprio una melodia (diminutivo di so ‘suono, melodia’), e quindi un testo atto ad essere cantato, o più semplicemente, per traslato, un testo di minore impegno rispetto ad una canzone” (P. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 242). Struttura del sonetto • La forma canonica del sonetto è la seguente: la prima parte è costituita da due quartine di endecasillabi, mentre la seconda da due terzine (14 endecasillabi: 8 + 6). • La contrapposizione delle due parti realizza un gioco di equilibri, che si sviluppa nel rapporto tra uno schema binario e uno ternario: il primo più lento e posato, il secondo più mosso, con tutte le possibili variazioni ad essi legate. Le terzine del sonetto • Chiaramente diversa sarà la situazione nelle terzine, poiché lo schema ternario (in quanto dispari) non permette questa “chiusura” totale. Anche se alcuni schemi risultano più aperti di altri e inoltre bisogna considerare che le terzine hanno anche il compito di chiudere il componimento, perciò dovranno in qualche modo suggellarlo con una schema netto. La forma più ricorrente di chiusura è CDE CDE, cui si aggiungono: CDC DCD e, soprattutto in Petrarca, CDE DCE. Di nuovo Alfieri Solo, fra i mesti miei pensieri, in riva A al mar là dove il Tosco fiume ha foce, B con Fido il mio destrier pian pian men giva; A e muggían l’onde irate in suon feroce. B Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva A il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce) B d’alta malinconia; ma grata, e priva A di quel suo pianger, che pur tanto nuoce. B Dolce oblio di mie pene e di me stesso C nella pacata fantasia piovea; D e senza affanno sospirava io spesso: C quella, ch’io sempre bramo, anco parea D cavalcando venirne a me dappresso… C nullo error mai felice al par mi fea. D L’Ode L’Ode, o meglio Canzone-Ode, è un metro che si definisce a SCHEMA VARIABILE. Vale a dire che, a differenza del Sonetto, non presenta sempre la medesima struttura. Il cinque maggio Ei fu. Siccome immobile, a sdrucciolo dato il mortal sospiro, b piano stette la spoglia immemore c sdrucciolo orba di tanto spiro, b piano così percossa, attonita d sdrucciolo la terra al nunzio sta, e tronco muta pensando all’ultima f sdrucciolo ora dell’uom fatale; g piano né sa quando una simile h sdrucciolo orma di pie’ mortale g piano la sua cruenta polvere i sdrucciolo a calpestar verrà. e tronco Struttura generale del componimento 18 sestine per complessivi versi 108, divisibili dal punto di vista contenutistico in due distinte parti simmetriche, comprendenti ciascuna 9 sestine Figure retoriche “di parola” • Anafora Si tratta di una figura retorica, in cui una o più parole all’inizio di un sintagma verbale sono ripetute anche nei sintagmi successivi. In poesia, naturalmente, il sintagma è costituito dal verso, perciò si potrà dire che l’anafora è l’iterazione dell’incipit di un verso nei versi successivi. Celebre esempio, l’inizio del III Canto dell’Inf.: Per me si va ne la città dolente, per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Alfieri: O cameretta, che già in te chiudesti Quel grande, alla cui fama angusto è il mondo; quel sì gentil d’amor mastro profondo, per cui Laura ebbe in terra onor celesti: Manzoni: Tutto ei provò: la gloria Maggior dopo il periglio, La fuga e la vittoria, La reggia e il tristo esiglio; Due volte nella polvere, Due volte sull’altar. Onomatopea • Onomatopea Dal greco ónoma, nome e poiéo, fare, si ha l’onomatopea quando la resa fonica di una parola o di più parole insieme, tende a riprodurre (imita) il suono del significato cui si riferisce. «La corrispondenza tra suono e senso è essenziale» (Beccaria 2004), altrimenti verrebbe meno il valore onomatopeico, che per ogni lingua lessicalizza in modo differente, pur riferendosi ad uno stesso referente. L’onomatopea è una figura assai frequente in poesia sia per il suo effetto musicale che per la sua capacità di evocare atmosfere sonore, per il suo potere descrittivo e per il potere del legame tra suono e senso. Alfieri […] e muggían l’onde irate in suon feroce. Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva Foscolo […] e van con lui le torme delle cure onde meco egli si strugge; e mentre io guardo la tua pace, dorme quello spirto guerrier ch’entro mi rugge Paronomasia • Paronomasia Dal greco pará, vicino, accanto e ónoma, nome, si ha quando due o più sintagmi vicini hanno similarità dal punto di vista del significante e, anche della sonorità, ma differiscono nel significato. Si può avere la p. “apofonica”, quando due parole differiscono nella vocale tonica, ad es., ardore/ardire, e p. “isofonica”, quando tra due parole cambiano una vocale atona o una consonante, come tra core/coro, luci/lumi. «La p. viene impiegata nei giochi di parole in cui si fa perno su mutamenti anche impercettibili del corpo delle parole del tipo amore/amaro, stelle/stalle, traduttore/traditore», anche perché l’effetto è tanto più forte e immediato quanto più le parole sono affini nel suono, ma quasi opposte nel significato. Tali affinità vocaliche o consonantiche tra parole due o più parole vengono anche diversamente definite assonanze o consonanze (luci/lumi; ardore/ardire). Alfieri Quell’ermo lido, e il gran fragor mi empiva il cuor (cui fiamma inestinguibil cuoce) Figure retorico/sintattiche • Polisindeto Dal greco polýs, molto e syndéō, legare insieme, si ha quando due o più frasi sono legate tra loro attraverso la congiunzione “e”, formando un periodo paratattico, in cui il ripetersi di segmenti equivalenti conferisce al periodo stesso maggiore espressività proprio attraverso l’insistenza e la ripetizione, talvolta anche ossessiva: Manzoni E ripensò le mobili Tende, e i percossi valli, E il lampo de’ manipoli, E l’onda dei cavalli, E il concitato imperio E il celere ubbidir Enjambement • Enjambement Dal francese enjamber, oltrepassare il campo altrui (jambe, gamba), indica il caso in cui alla fine del verso non coincide anche la fine della frase o di parte di essa che abbia unità sintattica. L’ “a capo” del verso viene così a rompere la cellula di senso compiuto che necessariamente prosegue nel verso successivo. Ciò comporta un allungamento dell’enunciato, una tensione verso la risoluzione, paragonabile quasi in musica ad una “cadenza evitata” che tende alla risoluzione, ma che, inevitabilmente la prolunga agli accordi successivi, nella risoluzione vera e propria. «Ogni verso si piega sul seguente» (Marchese 2000), più che rompendo (“spezzatura”) piegando il ritmo del metro alle esigenze della sintassi e provocando così un flusso ritmico nel verso, tendente alla risoluzione nel verso successivo, cui si trova ad essere indissolubilmente legato». Figure retoriche “di pensiero” • Metafora Dal greco metaphérō, porto oltre, è una figura retorica che, attraverso accostamenti inconsueti, inusuali di concetti e significati lontani aggiunge qualcosa di ulteriore alla consueta percezione della realtà. La metafora, che è quindi «un caso di anomalia semantica», poiché viola determinate regole di selezione, combinando lessemi assolutamente inusuali, è, perciò, secondo le definizioni riportate nel Dizionario a cura di Beccarla, «uno strumento “di conoscenza additiva”[…],»[1] che attraverso «l’accostamento di cose dissimili, ci porta ad una comprensione più elaborata del significato. […] La metafora organizza e modifica la nostra visione della realtà, in quanto induce a una ristrutturazione di campo che induce a sua volta una comprensione più elaborata del significato».[2] La metafora è, per tradizione, definita una similitudine accorciata, secondo la nota affermazione di Quintiliano («similitudo brevior», Quint. VIII, 6,8,), per cui l’esempio: Ulisse è una volpe, che altro non sarebbe che l’abbreviazione di Ulisse è furbo come una volpe. In realtà, come è ampiamente documentato nel Dizionario di retorica e stilistica di Marchese, i moderni studi a riguardo, hanno approfondito, rivisto e classificato vari generi di metafora: [1] Angelo Marchese, Dizionario di retorica e stilistica, Milano, Mondatori, 2000, p. 189. [2] Gian Luigi Beccaria, Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Torino, Einaudi, 2004, pp. 490-491. Metafora La metafora verbale può riguardare un solo verbo (Osservare tra frondi palpitare / lontano di scaglie di mare; Montale) o il nesso sostantivo-verbo (Trema un ricordo nel ricolmo secchio, / nel puro cerchio un’immagine ride; Montale). Gli aggettivi metaforici sono comunissimi anche nel linguaggio standard: barba d’argento (= argentea), mani bucate, sguardo angelico, attacco fulmineo.[3] In Jakobson l’accostamento semantico avviene principalmente in due modi: per analogia (metafora) e per contiguità (metonimia). Nella metafora sono confrontati due termini che hanno fra loro un rapporto paradigmatico, di somiglianza: l’espressione capelli biondi può essere associata all’idea dell’oro (i due elementi sono esterni l’uno all’altro); nella metonimia il rapporto tra i due termini è sintagmatico, di contiguità (intrinseco): fra vela e nave (in ho visto una vela partire), sudore e lavoro (in si guadagna la vita col sudore della fronte), corona e re (in il discorso della corona) c’è un rapporto interno, perché la prima parola (metonimia-sineddoche) è una parte dell’altra, una sua causa o reificazione ecc. Giacché la distanza che separa i meccanismi della metonimia e della sineddoche, e queste due dalla metafora, è minima e i confini tra tutte sono labili, non sempre le opinioni circa la loro classificazione sono concordi. [3] Angelo Marchese, Op. cit., p. 187. Sineddoche • Sineddoche Dal greco syn, insieme, e hairéō, prendo, la sineddoche si ha quando una parola esprime il “proprio” concetto abituale al quale se ne “abbina” un altro, che ha con il primo una relazione di “quantità”. “Nei termini classici la sineddoche esprime totum pro parte ‘il tutto per la parte’, o pars pro toto ‘la parte per il tutto (ad. Es. L’Europa per i ‘paesi della Cee’, America per ‘Usa’; e inversamente ha sette bocche da sfamare per ‘persone’, vivo tra quattro mura o ho un tetto per ‘casa’)”.[7] La sineddoche rappresenta dunque: - la parte per il tutto: vela per nave, tetto per casa, bocche per persone - il tutto per la parte: l’uomo prese una sigarette e l’accese (in realtà è la «mano» che prende e accende la sigaretta - la parola di significato più ampio e la parola più ristretta: macchina per automobile, lavoratore per operaio, casa per abitazione - il genere per la specie: mortali per uomini, felino per gatto - la specie per il genere: il pane (= cibo) non manca, inglese per anglosassone - il singolare per il plurale: l’inglese è compassato, lo spagnolo è romantico - il plurale per il singolare: penso ai figli (= a mio figlio), è arrivato con la servitù (= la cameriera).[8] [7] Gian Luigi Beccaria, Op. cit., p. 700. [8] Angelo Marchese, Op. cit., p. 297. Ossimoro • L’ossímoro (o ossimòro) è una sorta di antitesi in cui si accostano parole di senso opposto e che sembrano escludersi l’un l’altra (es.: piacere amaro; oscura chiarezza; urlo silenzioso). Alfieri Malinconia ….grata … dolce fremito … Sinestesia • Sinestesia Dal greco syn, insieme, e aisthánomai, percepisco, è un particolare tipo di metafora che consiste nell’associazione di termini appartenenti a domini sensoriali diversi. Si può parlare di trasferimento di sensazioni (Beccaria 2004) o di accostamento attraverso l’equiparazione di campi sensoriali diversi (Marchese 2000), ma comunque il risultato è una fusione, come l’etimologia stessa del termine riesce ad indicare chiaramente. La sinestesia opera una fusione perché tende a far cogliere determinate sensazioni utilizzando meccanismi sensoriali che non appartengono loro, bensì ad altre. È un “tropo” di forte impatto, che non a caso è molto usato oggi nel linguaggio pubblicitario: “gusto morbido, biondo aroma, ecc.”[9] La sinestesia diventa “emblema” delle corrispondenze sentimentali e analogiche della poesia simbolista [Morier 1981] ricorrente nella poesia pascoliana: esile strido, fioco fragore, fragile squillo, muto calpestìo, dove la sinestesia è spesso incrociata con l’ossimoro e nei versi di d’Annunzio.[10] [9] Gian Luigi Beccaria, Op. cit, p. 701 [10] Ibidem.
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