Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Formazione - I metodi, Sintesi del corso di Psicologia Della Formazione E Dell'orientamento

Riassunto del manuale "Formazione - i metodi" di Gian Piero Quaglino. I capitoli riassunti all'interno del documento sono: cap. 1 "Autocaso"; cap. 6 "Caso"; cap. 7 "Cinema"; cap.8 "Coaching"; cap. 9 "Coltivazione di sè"; cap. 14 "Counselling"; cap. 18 "Esercitazione"; cap. 23 "Lezione"; cap. 25 "Mentoring"; cap. 26 "Outdoor"; cap. 30 "Role play"; cap. 34 "Storytelling"; cap. 37 "Teatro"; cap. 38 "Tutoring".

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 08/03/2021

Francescaquaglino
Francescaquaglino 🇮🇹

4.5

(27)

19 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Formazione - I metodi e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Della Formazione E Dell'orientamento solo su Docsity! 1 FORMAZIONE - I METODI Gian Piero Quaglino CAPITOLO 2 - AUTOCASO Il racconto è presente da sempre, comincia con la storia stessa dell’umanità: la narrazione è un modo attraverso cui gli individui si fanno presenti a se stessi e agli altri. La narrazione è una metafora di base attraverso cui gli individui comprendono il mondo e attraverso il quale ha luogo la conoscenza. L’autocaso diventa così il racconto prodotto dal soggetto in formazione di una sua storia personale e la dinamica relazionale attraverso la quale viene confezionato questo racconto. A partire da un punto di vista soggettivo, frutto di caratteristiche personali e influenze culturali, l’individuo mette in relazione temporale e sequenziale gli eventi attorno ai quali si organizza la sua curiosità, il suo interesse, il suo sapere e il suo comprendere. Il valore di questo metodo formativo ha a che fare con le funzioni della narrazione, che permette di sviluppare e mantenere sia la dimensione di identificazione con gli altri che quella di differenziazione da loro a partire dal racconto che facciamo di noi stessi: una narrazione ha senso solo all’interno delle relazioni sociali. Possiamo dire che le caratteristiche principali della narrazione (e quindi dell’autocaso) sono: ̶ Una sua particolarità (unicità) e un suo genere letterario (es. dramma, commedia, ecc.) ̶ Una maggiore o minore verosimiglianza e plausibilità ̶ Un problema all’origine, dentro al quale sono gli eventi collocati, organizzati e strutturati ̶ Quando narrano, gli individui, stabiliscono connessioni coerenti e organizzano gli eventi, sulla base temporale e di uno schema interpretativo che prevede l’intenzionalità dei personaggi ̶ Mette in campo abilità cognitive e simboliche ma è anche un processo creativo a carattere pratico. AUTOCASO: IL CORAGGIO DI PENSARE E PENSARSI (RI-PENSARSI) Anche se parliamo della naturalità e della spontaneità del processo narrativo, non si può dire che sia naturale e semplice costruire un contesto formativo nel quale è possibile far diventare centrali l’attività narrativa e la riflessività attiva. Infatti, la dimensione narrativa è meno attrattiva rispetto all’esperienza altrui, alle teorie delle lezioni frontali: occorrono sforzo, pazienza e tempo per apprendere dalla propria esperienza. Perché è così difficile fermare l’azione e riflettere sul presente? Perché è più facile utilizzare la formazione di-vertente (che allontana dalle solite vicende); interrogarsi sui modi dell’accadere vuol dire rivivere e problematizzare esperienze non gradevoli, confrontarsi con difficoltà che si vorrebbe dimenticare. È faticoso affrontare vicende dimenticate o lasciate in sospeso, rimettendosi in discussione mostrando fragilità e difficoltà che possono far vacillare la nostra identità personale e professionale. UNA POSSIBILE DEFINIZIONE DI AUTOCASO La nostra definizione si colloca: ̶ All’interno della formazione esperienziale = fare esperienza attiva e utilizzare le esperienze del proprio recente passato in modo che possano insegnare qualcosa. È imprescindibile la motivazione dei partecipanti a migliorare la condizione presente. ̶ All’interno della volontà di recuperare il soggetto e perseguire la costruzione della conoscenza situata di se stessi = sviluppo di una più ampia e profonda consapevolezza di sé e del proprio contesto organizzativo. Quindi, per metodo dell’autocaso si intende il processo di costruzione di un setting all’interno del quale si fa diventare oggetto di lavoro una situazione problematica accaduta realmente ad uno o più partecipanti di un gruppo in formazione, narrata dal protagonista e sottoposta alla ricognizione dei colleghi e dei docenti al fine di apprendere da essa. 2 GLI OBIETTIVI FORMATIVI DELL’AUTOCASO A partire dalla volontà di ridurre la difficoltà di trasferire i contenuti dell’esperienza formativa (spesso troppo teorica) nella propria realtà lavorativa, focalizzandosi su situazioni concrete verificatesi, gli obiettivi formativi dell’autocaso sono: ̶ Sviluppare la capacità di presenza mentale ed emotiva, coltivare la capacità di controllo e dominio della propria mente e delle proprie emozioni e dei propri sentimenti rispetto al mondo sia interno che esterno = insegnare ai partecipanti a padroneggiare le situazioni, rilassarsi, sospendere l’azione a vantaggio della riflessione = l’ambizione dell’autocaso è l’ecologia della mente e dell’anima. ̶ Far venire dubbi, far riconoscere che i propri pensieri ed emozioni sono eventi mentali e non fatti = ci si riferisce ai fatti oggettivi in modo da capire come essi ci riguardano e come siamo legati ad essi in modo soggettivo. ̶ Recuperare pensieri e vissuti personali rispetto all’esperienza rievocata, attraverso i quali conoscersi e riconoscersi. ̶ Sviluppare la capacità di analisi e diagnosi di problemi = rileggere e rielaborare l’esperienza personale e organizzativa nella sua complessità e unicità mediante il confronto e la condivisione. ̶ Sviluppare la capacità di soluzione dei problemi = sostenere l’adozione di modelli di pensiero alternativi. ̶ Favorire la consapevolezza di possedere una visione parziale dell’evento critico accaduto e di poter trarre utilità dal cercare il confronto con altri attori organizzativi. ̶ Portare alla luce conflitti interni ed esterni per studiare strategie positive di governo del conflitto utili a stimolare il cambiamento del soggetto e del gruppo. ̶ Sviluppare la meta-competenza di apprendere ad apprendere = acquisire un metodo di lavoro, di analisi e diagnosi delle situazioni e un metodo di aiuto all’elaborazione dei problemi degli interlocutori. I confini tra consulenza e formazione dipendono dalle definizioni che si danno ai due processi. Se la consulenza è la risposta ad una domanda rivolta a una persona/gruppo da una committenza per attivare un processo di sviluppo organizzativo e se la formazione è un processo di produzione di apprendimento/cambiamento delle competenze individuali possiamo dire che: ̶ La formazione che utilizza l’autocaso in un percorso formativo è totalmente sovrapponibile alla consulenza. ̶ La formazione che utilizza l’autocaso in un percorso formativo che vede la domanda della committenza non collegata a precisi obiettivi riorganizzativi è poco, o per nulla, sovrapponibile alla consulenza. L’autocaso si può rivelare particolarmente utile in alcune situazioni organizzative: ̶ Quando la formazione accompagna processi organizzativi di cambiamento o ristrutturazione ̶ Quando l’occasione formativa si rivolge a nuovi ruoli o funzioni o gruppi di lavoro in organizzazione ̶ Quando i cambiamenti sono legati a conseguenze sul piano individuale (cambiamento di ruolo, identità professionale, relazione con altre figure professionali). Inoltre, l’autocaso è particolarmente adeguato ad affrontare con la necessaria profondità tutte le questioni in cui è in gioco la storia dell’individui: cambiamento, esercizio di potere, dinamiche relazionali, leadership/followership, comunicazione, empatia, comprensione emotiva, processo decisionale, gestione dei conflitti e dello stress, motivazione. LA GESTIONE DELL’AUTOCASO: LA SUA SCRITTURA Per prima cosa, lavorare con l’autocaso, significa far impegnare i discenti (partecipanti) in un’attività preliminare di scrittura (o comunque di richiamo alla memoria) di una propria esperienza. Essendo il processo di attivazione della memoria di una propria storia e di traduzione di un racconto (scritto o orale) delicato ed impegnativo, non si può utilizzare all’inizio del percorso formativo. 5 Interviene a questo punto l’utilizzo del metodo del role-play. Ci sono due varianti dell’autocaso riprogettato: 1. Far giocare la simulazione alla stessa persona protagonista del caso raccontato, la quale adotterà la strategia e la tattica comportamentale messa a punto durante il processo interpretativo e prognostico. Gli interlocutori verranno impersonati da chi nel gruppo presenta i profili più simili a quelli degli attori raccontati nella storia. 2. Inversione dei ruoli: l’attore principale assume la parte di uno degli interlocutori e qualcuno tra i colleghi formativi si metterà nei panni del partecipante che ha raccontato la propria storia personale. LA GESTIONE DELL’AUTOCASO DURANTE EVENTUALI INTERMEZZI Laddove l’autocaso è inserito in un percorso a tappe progressive che vede l’alternarsi di momenti d’aula e lavori sul campo, è importante prevedere che i protagonisti dei casi trattati vivano l’intermezzo che li separa dal successivo incontro come uno spazio sperimentale di attivazione di nuovi comportamenti. Per far ciò ad esempio si possono prevedere: ̶ Forum e classi virtuali in cui si consolidano/ricordano i punti principali trattati e gli impegni di sviluppo presi da ciascuno. ̶ Possibilità per i partecipanti di usufruire di colloqui individuali di coaching o di counselling. VANTAGGI, VINCOLI E LIMITI DELL’AUTOCASO Il vantaggio più evidente è sicuramente quello di realizzare il passaggio dalla teoria alla pratica portando in aula la realtà così come viene vissuta dai partecipanti, con le sue sfaccettature e problematicità. Altrettanto importante è il coinvolgimento diretto e attivo delle persone e, indirettamente, dei loro capi, colleghi e collaboratori. I rischi e gli inconvenienti riguardano invece la difficoltà di mantenere un alto livello di efficacia, ad esempio se: ̶ Il partecipante non è chiaro ed esauriente ̶ Il problema esposto non suscita interesse o è poco ricorrente ̶ I partecipanti non sono esperti della materia che problema richiede ̶ La sicurezza psicologica dei partecipanti è bassa ̶ La capacità di confronto del gruppo è scarsa ̶ L’apertura del gruppo è scarsa ̶ Vi è poco tempo a disposizione ̶ I gruppi sono troppo numerosi ̶ Ecc. I principali limiti riguardano invece: la difficoltà, per il docente, di programmare situazioni graduali e complete delle questioni che sono l’obiettivo dell’incontro formativo, la possibilità che il partecipante aumenti le sue difese, le distorsioni percettive personali degli avvenimenti raccontati, ecc. Inoltre, va ribadito che il mondo rappresentato, sia da un caso classico scritto da un docente che da un autocaso di un partecipante, è sempre frutto di una selezione. Sia il racconto orale che la scrittura falsano sempre la realtà: è quindi auspicabile che il partecipante confronti la vicenda realizzata nel gruppo di apprendimento con le persone all’interno della sua organizzazione che potranno aiutarlo a verificare la verosimiglianza delle interpretazioni e delle conclusioni, non tanto alla ricerca della verità dei fatti, ma alla ricerca di una interpretazione sulla quale sia possibile raggiungere un consenso con gli attori in gioco = questo limite, se i partecipanti provengono dalla stessa organizzazione, è molto ridotto, per questo si può dire che l’autocaso è un metodo da privilegiare nella formazione in house. IL DOCENTE/CONSULENTE PER L’AUTOCASO Come abbiamo già detto, la figura del formatore che gestisce l’autocaso è articolata (es. consulente, docente, agente di cambiamento, ecc.) e le condizioni di difficoltà in cui spesso si trova ad operare suggerisce ai giovani formatori di non impegnarsi in questa metodologia. I vertici di osservazione da cui presidiare e dai quale guardare per poter elaborare e razionalizzare un autocaso sono tre: ̶ Vertice organizzativo ̶ Vertice di gruppo ̶ Vertice individuale 6 Il vertice all’interno del quale si colloca la formazione e l’oggetto dell’autocaso stesso. Può essere un contesto non conosciuto dal formatore, ma è importante che si riescano a cogliere le reti di significati impliciti che costituiscono la cultura organizzativa ed il sistema di regole di senso e significati che si manifesta nelle dinamiche strategiche, politiche e culturali che caratterizzano la storia raccontata. L’autocaso stesso può essere l’espressione del sistema di regole e delle dinamiche dell’agire organizzativo, diventandone l’emblema utile a comprenderle. È il gruppo che, confrontandosi sulle dinamiche e i nodi critici dell’autocaso, ne offre una possibilità di lettura e soluzione: è importante che il docente sappia gestire il clima del gruppo. inoltre, la competenza analitica e restitutiva del docente, oltre essere rilevate per il contenuto esplicito, lo è anche per gli aspetti impliciti di questo (es. contraddizioni, lacune, sottolineature enfatiche, ecc.). Un’altra competenza importante per il docente è quella dell’improvvisazione progettuale e di alleggerimento della pesantezza della scoperta di sé, delle proprie ambivalenze e contraddizioni (che alle volte può assumere caratteri depressivi): può essere quindi utile alternare questo metodo con altri (es. role-play, lezione, testimonianza, film, ecc.). Infine, il docente dovrà essere rigido nel non consentire che nel gruppo qualcuno non si impegni: perché l’indifferenza può uccidere la formazione. CAPITOLO 6 - CASO INTRODUZIONE L’utilizzo del metodo dei casi nella formazione ha una storia molto antica che parte dal diritto socratico per poi essere ritrovato nelle law school statunitensi, dove ha influenzato la formazione dei giuristi americani a cui non si insegnano direttamente le regole della legislazione, ma si giunge ad esse discutendo di casi concreti (= lo studente ricava la regola a partire da casi correlati). Il metodo arriva in Italia negli anni Cinquanta = le grandi industrie iniziano ad utilizzarlo nei loro programmi di formazione manageriali. Essendo una simulazione della realtà, il caso permette di imparare facendo. DEFINIZIONE E TIPOLOGIA Un caso è una descrizione più o meno breve di una situazione, reale o immaginata, presentata con alcuni o molti dettagli, del tutto inventata o ricostruita a partire da dati reali. Tale metodo consiste nel far analizzare ai partecipanti una situazione problematica che richiede una soluzione (non è detto che sia univoca). L’approccio utilizzato è non direttivo, deve coinvolgere le persone e far emergere differenti opinioni sul problema in questione. Rispetto alla lezione tradizionale può far ragionare i partecipanti sugli elementi della cultura organizzativa come, per esempio, le norme di comportamento, i criteri con cui interagire tra le posizioni, la necessità di gestire i “ruoli informali”. Il caso parte da un’esperienza specifica o un episodio problematico e punta a renderlo generalizzabile, chiedendo ai partecipanti di risolverlo mediante un processo di proiezione di sé nella situazione per interpretarla. Il metodo che ne consegue punta dunque sull’attivazione di processi di analisi di fatti e dati di un determinato contesto organizzativo alla ricerca di risposte alle classiche domande “come è successo?” e “che cosa fare?”. Costituisce un vero e proprio passaggio dall’approccio accademico a quello attivo dove si privilegia la discussione e il confronto al semplice ascolto = il caso rientra quindi nelle metodologie attive, fondate sull’elaborazione dell’esperienza e riconducibili a una visione costruttivista, centrata sui soggetti. L’uso dei casi si colloca a metà tra la lezione accademica i metodi più attivi (role playing, simulazioni) fornendo un’alternativa alla lezione. Alcuni autori differenziano tra “studio di casi” (=descrizione generale di una situazione) e “metodo dei casi” (= il caso ha in sé informazioni adatte per essere utilizzato come paradigma di insegnamento). Negli anni sono stati distinti alcuni tipi di casi, a seconda dell’obiettivo: ̶ Casi diagnostici = situazione complessa con molte variabili e informazioni che richiede una diagnosi della situazione, selezionando e interpretando i dati forniti. Punta a sviluppare la capacità di analisi critica. ̶ Casi decisionali = descrivono una situazione critica iniziale per la quale si deve trovare una soluzione individuando l modalità più adeguate e prevedendo i rischi. Punta a migliorare la capacità di decisioni anche in situazioni di incertezza. 7 ̶ Casi relazionali = riproducono situazioni di gestione delle relazioni e che non prevedono una soluzione unica e corretta. Punta a sviluppare la capacità di affrontare problemi complessi e ad aumentare la consapevolezza della pluralità delle strade possibili. Questa diversità tra i vari tipi di casi lasciano intuire che non solo verranno utilizzati in modo diverso a seconda degli obiettivi, ma anche in relazione ai temi trattati e al docente (e le sue capacità) che li porterà in aula. OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO DEL CASO Come già detto la tipologia di casi è riconducibile agli obiettivi di apprendimento e allo sviluppo di capacità intellettuali relative alla soluzione di problemi. I problemi si differenziano in due grandi categorie: ̶ Problemi che si basano su informazioni e dati definiti o definibili/selezionabili che per essere risolti richiedono ragionamenti complessi e procedure analitiche che conducono a soluzioni a volte precodificate ̶ Problemi che richiedono di adottare schemi di ragionamento liberi e non codificati relativi non a procedure standard ma ad approcci diversi, che possono portare ad una gamma di soluzioni ognuna con un suo grado di valore Questi due tipi di problemi richiedono modalità di utilizzo differenti del metodo: nel primo caso si tratterà di individuare la risposta corretta e univoca, nel secondo caso di adottare un ragionamento complesso e meno codificabile (rientrano in questa categoria i casi meno tecnici ma più manageriali). Altri studiosi identificano come obiettivi, per il metodo dei casi, quelli di: ̶ Fornire realismo all’esperienza indiretta ̶ Focalizzarsi su problemi concreti ̶ Sviluppare competenze di soluzione di problemi ̶ Condividere esperienze dei partecipanti ̶ Vedere diversi punti di vista Si potrebbe dire quindi che i risultati a cui aspira il metodo possono essere: ̶ La riflessione approfondita e l’analisi dei problemi e della loro vicinanza con la realtà lavorativa dei partecipanti ̶ L’emergere di vari punti di vista e di assunti soggettivi, da trattare tutti con pari dignità ̶ La consapevolezza di differenti azioni gestionali a risposta del caso Quest’ultimo obiettivo è particolarmente connesso con i casi relazionali, dove sono presenti aspetti di gestione delle persone oltre che delle attività. La possibilità di riflettere su diverse opzioni consente ai partecipanti di approfondire differenti punti di vista con cui ogni partecipante affronterebbe la situazione, cogliendone i punti di forza e i limiti di ogni alternativa, favorendo così l’apprendimento connesso al contenuto del caso e la consapevolezza della mutlidimensionalità delle soluzioni possibili. In altre parole, dai casi si può imparare ad affrontare l’incertezza e la complessità sviluppando attenzione verso i vari aspetti della situazione piuttosto di individuare la “soluzione corretta”. Sui risultati della discussione in gruppo di un caso è possibile apprezzare e misurare diverse dimensioni: ̶ Area cognitiva = analisi, problem solving, innovazione ̶ Area relazionale = collaborazione, influenza, gestione dei conflitti, stabilità emotiva ̶ Area realizzativa = decisionalità, concretezza, iniziativa Questi elementi sono già presenti in letteratura e sono sintetizzabili nelle fasi di: ̶ Analisi ̶ Valutazione ̶ Concettualizzazione ̶ Discussione delle applicazioni Il postulato di base del metodo è la trasferibilità delle capacità sviluppate in aula nel contesto di lavoro reale. 10 ̶ Utilizzo di formatori in grado di stimolare e consolidare l’apprendimento con la loro passione e competenza. Limite: Necessità che i formandi abbiano qualche esperienza organizzativa, almeno parziale, che consenta loro di cogliere i vari livelli problematici e riuscire ad individuare qualche possibile linea di intervento per affrontare la situazione. Critica: I casi dovrebbero essere così precisi e concreti da risultare di per sé un metodo di apprendimento. Risposta: è la riflessione post-discussione in aula ad essere una parte essenziale per il processo di apprendimento (ad esempio facendo scrivere un report riflessivo). Un report riflessivo adeguato dovrebbe includere: ̶ Dimostrare la comprensione dei materiali formativi ̶ Sottolineare gli insegnamenti-chiave emersi ̶ Correlare gli insegnamenti alla propria esperienza ̶ Sottolineare le applicazioni pratiche ̶ Documentare il cambiamento o la conferma dei propri punti di vista ̶ Mostrare le connessioni con altri argomenti Critica: I casi si applicano bene solo quando si devono analizzare conoscenze già acquisite, ma non consentono di scoprire nuovi principi. EVOLUZIONE DEL METODO DEI CASI Ci sono diverse linee evolutive del metodo dei casi: A. Metodo dei casi in tempo reale = Si basa sul metodo dei casi tradizionale, ma la differenza si manifesta tramite la tecnologia, che modifica sia le attività di apprendimento che i materiali del caso. Il caso si trasforma secondo le due principali caratteristiche del caso in tempo reale: (1) una copertura estesa (il caso in tempo reale riguarda una singola organizzazione per un intero semestre o più); (2) un’interattività in tempo reale = lo studente riceve dati e informazioni sull’organizzazione ed il suo andamento lungo i mesi considerati, con scansioni settimanali. Gli studenti possono porre domande direttamente all’organizzazione e fare considerazioni sugli argomenti di tipo decisionale dell’organizzazione. B. Insegnamento basato sui problemi = i problemi devono essere articolati e consentono di giungere ad una gamma di possibili soluzioni = viene stimolata la riflessione sulle diverse possibilità di affrontare un problema. C. Metodo dei casi interrotti = il docente svela alla classe di volta in volta varie parti del problema, con l’obiettivo di far cogliere ai partecipanti che il loro processo decisionale dipende tal tipo di informazioni i loro possesso. D. Metodo dei casi dialogici = gli autori presentano in aula lo stesso caso attraverso diverse possibili letture, a seconda della metafora organizzativa di riferimento, facendo analizzare il problema a alcuni sottogruppi di partecipanti che ricoprono vari ruoli: lo psicologo dell’organizzazione, l’esperto di team, l’esperto di leadership, il teorico dell’organizzazione ed il sociologo (ognuno analizza la situazione presentata dal punto di vista del proprio ruolo). E. Raccolta dei casi di successo per valutare gli esiti della formazione manageriale ed il loro essere più o meno allineati con la strategia organizzativa. I casi di successo si individuano con interviste e questionari, in modo da far emergere le condizioni ottimali per il trasferimento degli apprendimenti. F. Metodo dei casi diretti per insegnare temi scientifici G. Metodi dei casi estesi da utilizzare in etnografia H. Management versus consultant case method (MCM) = l’aula si suddivide in un due gruppi, uno svolge il ruolo dei manager e l’altro dei consulenti. Il primo gruppo analizza il caso e ne scrive l’analisi e le ipotesi di intervento. Il secondo gruppo analizzerà quanto presentato dai compagni e fornirà nuove ipotesi di intervento = aumento delle capacità comunicative e interpersonali. I. Metodo dei casi come strumento di ricerca J. Storytelling = formazione attraverso il racconto di storie organizzative, in connessione all’approccio della cultura organizzativa basato su miti e saghe aziendali e alla etnografia organizzativa (raccontare per iscritto un’organizzazione) = per alcuni autori viene proposto un caso problematico con poche informazioni di avvio che viene approfondito e poi raccontato dagli studenti; altri autori lo identificano come un metodo a sé. 11 CONCLUSIONI Il caso può essere non tanto uno strumento per far risolvere problemi ma, almeno in ambito manageriale, un testo che fa da pretesto, cioè in grado di far ragionare gli adulti sulla complessità del modo in cui operano e stimolando in loro sia un apprendimento riflessivo sia lo spunto per raccontare i casi propri, simili a quelli presentati dalla docenza (autocaso), in un processo di condivisione che è anche crescita. CAPITOLO 7 - CINEMA Alla fine del decennio scorso, il cinema si è qualificato a tutti gli effetti come un metodo di formazione. Il cinema è anche un supporto per altri metodi: lezioni, role play, studi di casi possono beneficiare in vari modi dell’utilizzo di un materiale narrativo in forma audiovisiva da parte del formatore. Il cinema è applicabile non solo nella formazione manageriale, ma in tutti i contesti che vogliono promuovere l’apprendimento ed il cambiamento degli adulti. C’è differenza tra materiali tratti dal cinema vero e proprio e materiali audiovisivi di diverso tipo (filmati didattici, documentari, show, spot pubblicitari, …). Il formatore deve comunque tenere a mente che in questi anni i partecipanti della formazione appartengono ai nativi dell’era digitale, per cui la sola presenza di immagini non risulta di per sé una ragione di stimolazione intellettuale e, pertanto, deve progettare la formazione in modo puntuale e mirato. IL CINEMA PER L’APPRENDIMENTO E IL CAMBIAMENTO Il cinema come metodo di formazione degli adulti si colloca nell’ambito dei metodi art-base = categoria che comprende altri metodi quali teatro, letteratura, disegno, pittura, …. L’esperienza artistica è in grado di attivare processi di decostruzione e ricostruzione delle proprie rappresentazioni di sé e della realtà e dei propri schemi di azione e relazione. Pertanto, il cinema viene utilizzato nella formazione con finalità molto diverse (es. sensibilizzazione culturale, formazione ai comportamenti organizzativi, ecc.). La sua efficacia nel favorire apprendimento e cambiamento va ricercata nella sua specificità artistica, in quanto le differenti tecniche di produzione fanno sì che lo spettatore si immerga in un’esperienza da una parte estremamente realistica e dall’altra capace di superare la realtà per estensione e intensità; inoltre, in questa esperienza lo spettatore non è passivo fruitore di un prodotto, in quanto osserva, percepisce coglie e interpreta fino a diventare il protagonista essenziale. L’utilizzo del materiale filmico sollecita un’elevata attivazione dell’individuo sia sul fronte cognitivo che su quello emozionale = questo duplice ordine di stimolazioni crea le condizioni per l’avvio di un significativo processo di apprendimento. L’ attivazione cognitiva che deriva dalla visione di un materiale filmico è: ̶ Di tipo generale = sollecita diverse aree/funzioni nervose che favoriscono la comprensione ̶ Di tipo specifico = (1) sostiene la concretizzazione grazie al “ritratto visivo” di un concetto astratto; (2) contribuisce al reframing ovvero l’esplorazione della situazione da diversi punti di vista; (3) mette a fuoco i processi di costruzione della realtà e di attribuzione di significato. Sul fronte dell’attivazione emozionale è facile notare come il cinema possa suscitare potenti reazioni emotive e facilitare l’immaginazione. È questo il maggior vantaggio, in termini di apprendimento, che deriva dall’utilizzo dei film: permette di superare la barriera razionale ottenendo l’insorgenza di immagini, considerazioni, valutazioni ed emozioni che rappresentano un’esperienza originaria, spontanea e di verità. Inoltre, oltre alla “messa in moto” delle emozioni, il cinema permette di sollecitare un’immaginazione personale che consente di richiamare i frammenti della propria esperienza, di portare “tutto se stesso” nella situazione di apprendimento (anche quegli aspetti che senza oggetti di identificazione rimarrebbero sullo sfondo senza poter essere oggetto di lavoro nel setting formativo). 12 L’UTILIZZO DEL CINEMA: PROCESSO E MODALITÀ I processi da affrontare quando si vuole utilizzare i materiali filmici nella formazione sono essenzialmente quattro. ❖ LA SELEZIONE DEI FILM E/O SEQUENZE Il formatore deve individuare il materiale da utilizzare in aula recuperando un insieme di riferimenti, visionandoli e scegliendo quel che risulta più efficace rispetto al raggiungimento degli obiettivi di formazione. A proposito di ciò si possono distinguere due tipi di formatori: ̶ Formatori-cinéphile = hanno una spiccata cultura cinematografica personale e si sono costruiti nel tempo un archivio di titoli e riferimenti utili alla loro attività professionale ̶ Formatori che non dispongono di conoscenze cinematografiche = traggono informazioni e suggerimenti a partire dalle rassegne che elencano i materiali filmici classificati in funzione dei contenuti di apprendimento che vengono richiamati nei film stessi. ❖ LA PROGETTAZIONE DELL’UTILIZZO Il formatore si trova di fronte a tre scelte cruciali relative a: ̶ “Che cosa” = ampiezza del materiale (intero film, solo una parte, un montaggio di sequenze, …) ̶ “Quando” = momento all’interno del percorso formativo ̶ “Come” = modalità di utilizzo (significato che viene attribuito al momento della visione del materiale) = è il momento più delicato, il formatore deve riconoscere le opportunità che ogni materiale gli offre in modo da ipotizzare modalità di lavoro coerenti con il programma formativo. Ci sono cinque modalità di utilizzo del materiale cinematografico: 1. Riscaldamento = Il materiale può rappresentare un momento di riscaldamento in tre distinte accezioni: (I) energia = permette di stimolare l’attenzione dei partecipanti; (II) entrare in tema; (III) fare gruppo = condividendo le riflessioni sul materiale. 2. Esempio = Il materiale fornisce una dimostrazione chiara e puntuale di una teoria, un concetto o un comportamento che il formatore vuole illustrare ai partecipanti. 3. Caso = Un film/sequenza può essere utilizzato come un caso da discutere in aula, suscitando commenti e riflessioni di problem solving e decision making più ricchi di quelli che si possono ottenere mediante una storia scritta, in quanto permette di aumentare il livello di coinvolgimento. 4. Esercizio = Una scena rappresenta lo stimolo per un compito che i partecipanti devono svolgere. In questo caso i partecipanti devono realmente mettere in pratica la soluzione proposta, con la possibilità di verificare i risultati raggiunti e confrontarli con quelli ottenuti da altri partecipanti e/o dai protagonisti della sequenza filmica utilizzata. 5. Simbolismo/metafora/ironia = Le scene possono rappresentare una forma di mediazione simbolica rispetto a contenuti astratti e quindi difficili da comunicare; un rinvio metaforico in grado di semplificare pensieri complessi; rappresentazioni ironiche capaci di evidenziare i paradossi e le contraddizioni che potrebbero essere difficili da esprimere. ❖ LA MESSA A PUNTO DEI MATERIALI È importante notare che questo materiale non può essere semplicemente “fatto vedere” ai partecipanti, ma il suo valore di apprendimento è legato a quanto i partecipanti riescono a comprenderlo, approfondirlo e interiorizzarlo. Per fare ciò, occorre mettere a punto strumenti di descrizione e analisi dei film = il formatore deve mettere a punto una vera e propria scheda di descrizione del materiale che comprende dati del film, trama, descrizione della sequenza (durata, nomi personaggi e attori, legami con la trama complessiva), temi centrali, rimandi teorici, trascrizione della sequenza, modalità di utilizzo. A fianco di questa scheda, inoltre, deve predisporre una check list per la riflessione che comprende sollecitazioni e domande che si possono fare ai partecipanti per condurli in un percorso di ripensamento e di ricerca di contatto con la propria esperienza personale e professionale. ❖ L’AZIONE IN AULA È importante evidenziare un percorso di utilizzo del materiale cinematografico che leghi il momento dell’esperienza a quello dell’osservazione, della concettualizzazione e della sperimentazione che conduce ad una nuova esperienza. 15 ̶ Trovare nuovi modi per continuare a suscitare interesse anche nei nativi digitali, che sono sempre più abituati ad utilizzare l’immagine in movimento come fonte primaria di comprensione della realtà. CAPITOLO 8 - COACHING L’idea che un esperto possa agire da coach, da allenatore, nei diversi domini della vita si sta affermando in maniera sempre più diffusa in concomitanza al crescente bisogno di flessibilità delle competenze individuali necessarie per far fronte all’instabilità dei contesti, alla permeabilità dei confini e alla fluidità dei ruoli. A tutto questo il coaching sembra fornire una risposta formativa mirata, focalizzata, nel breve-medio termine. Gli elementi che rendono sempre più popolare la pratica del coaching sono: la sua immersione nei problemi normali delle esperienze quotidiane, la sua vicinanza al lato emotivo della vita lavorativa, il rimando all’opportunità di apprendere lungo l’intero arco di vita, il recupero della dimensione narrativa ed il riconoscimento della riflessività come chiave della relazione tra apprendimento e cambiamento. Tale pratica assume particolare rilevanza nei contesti caratterizzati da instabilità e complessità, le quali sfidano costantemente le capacità dei singoli e dei gruppi: è qui che il coaching si configura come una soluzione volta al rafforzamento dell’expertise, al miglioramento delle prestazioni e al cambiamento delle abitudini. Attraverso una specifica relazione formativa il coaching punta a conseguire obiettivi di apprendimento e sviluppo mirati e legati all’attività lavorativa. L’obiettivo trasversale del coaching, sia in ottica formativa che consulenziale, è quello di ottenere un cambiamento ed un miglioramento che si raggiunge tramite l’apprendimento = il coaching è un cammino di formazione individualizzata. DEFINIRE IL COACHING Deriva dal francese coche, in italiano cocchio, un veicolo nobile che veniva utilizzato per il trasporto dei passeggeri. In inglese coach significa invece sia carrozza sia guida, allenamento, insegnamento. Il termine assume un duplice significato di mezzo per spostarsi ma anche di movimento verso uno stato desiderato. In ambito sportivo il coach è l’allenatore, colui che riconosce i punti di forza, qualità e talenti e in base a questi assegna ruoli, posizioni obiettivi: il coach è colui che accompagna il giocatore alla piena espressione delle sue potenzialità. Sebbene il termine venga spesso utilizzato in modo intercambiabile con counselling e mentoring, ci sono alcune differenze. I tre metodi condividono un medesimo orientamento allo sviluppo del soggetto, ma: ̶ Il counselling è maggiormente incentrato sulla dimensione emotiva e sulle problematiche personali del lavoratore che possono ostacolarne la prestazione ̶ Il mentoring è un percorso a medio-lungo termine che si focalizza su aspetti legati allo sviluppo professionale e di carriera ̶ Il coaching si colloca in una posizione intermedia = processo che consente alle organizzazioni di rispondere a determinate esigenze di apprendimento di un soggetto/gruppo attraverso la relazione interpersonale tra un coach e uno (o più) coachee. Tale relazione prevede un supporto nella rilettura delle situazioni quotidiane problematiche, un confronto su casi/ situazioni reali, al fine di individuare e sperimentare strategie e paini d’azione per apprendere nuovi modi per farvi fronte: coaching è liberare il potenziale delle persone per massimizzare le loro prestazioni. In sintesi, possiamo definirlo come un processo interattivo a breve termine, mirato, orientato a migliorare le prestazioni lavorando su due piani strettamente connessi: ̶ Accrescere autoconsapevolezza, motivazione e senso di efficacia del coachee ̶ Favorire l’apprendimento di nuovi modi di agire nelle situazioni Rispetto alla realizzazione del coaching, è possibile distinguere: ̶ One to one coaching = prevede una serie di incontri individuali di circa 1/2 ore ̶ Team coaching = prevede incontri di gruppo di 2/4 ore. Le dinamiche di gruppo sono sia oggetto di osservazione, analisi e sviluppo, sia strumento per raggiungere i risultati attesi. Le principali declinazioni del coaching one to one rivolto a clienti adulti sono: ̶ Personal coaching = gli obiettivi sono definiti dal coachee, in diversi ambiti 16 ̶ Corporate coaching = applicazione del coaching in contesto aziendale e su tematiche lavorative ̶ Executive coaching = i coachee sono persone che occupano ruoli di massima responsabilità. Le ultime due tipologie vedono tre vertici al lavoro: il coach, il coachee ed il contesto organizzativo (+ eventualmente l’organizzazione è che committente dell’intervento di coaching). In organizzazione sono diverse le sfere di applicazione del coaching ed i temi principalmente trattati sono: ̶ Leadership, lavori di gruppo e gestione di progetti = apprendimento di nuovi/diversi modi di lavorare in gruppo, gestirne le dinamiche e di portare a termine specifici progetti. È un argomento che può essere affrontato sia in una relazione individuale che in una di gruppo. ̶ Cambiamento organizzativo = prima o dopo un cambiamento per supportare le transizioni di ruolo. ̶ Comunicazione = consente di lavorare all’individuazione del problema specifico e alla definizione di un progetto di sviluppo mirato in relazione alle richieste di ruolo del coachee. ̶ Problem solving e decision making ̶ Sviluppo “alti potenziali” = interventi mirati a sostenere lo sviluppo di risorse personali già identificate ed individuare altre capacità, eventualmente contenendo aspetti potenzialmente problematici = velocizzazione della maturazione dei coachee in vista della possibile assunzione di ruoli di responsabilità. ̶ Sviluppo di carriera = (1) il coachee si rivolge al coach per lavorare sul suo percorso di sviluppo, chiedendo un sostegno nell’individuazione/realizzazione delle azioni utili per raggiungere i propri obiettivi; (2) l’organizzazione richiede un percorso di coaching per i soggetti che riconosce come potenzialmente adatti a ricoprire ruoli che richiedono specifiche risorse. ̶ Equilibrio lavoro-famiglia (e time management) = per sviluppare modalità diverse di fronteggiare le richieste di ruolo legate alla doppia appartenenza. ̶ Gestione dello stress = percorsi mirati ad individuare gli stressor più rilevanti, a fare il punto sulle risorse e a promuovere l’apprendimento di modi alternativi di interpretare le situazioni e fronteggiare i problemi. Altri autori invece operano una distinzione tra diversi piani/livelli possibili: ̶ Primo livello = un coach esperto esterno all’azienda affianca un manager e lo sostiene in un percorso di apprendimento teso al miglioramento della sua prestazione ̶ Secondo livello = il manager, dopo il percorso di coaching, diviene coach di se stesso ̶ Terzo livello = il manager diventa coach dei suoi collaboratori Seguendo questa declinazione, a partire da un intervento one to one il coaching diventa una risorsa di sviluppo per un numero crescente di persone, entrando in risonanza positiva con l’apprendimento dell’organizzazione. APPROCCI TEORICI E PRATICHE DI COACHING Molte pratiche di coaching si caratterizzano per avere talvolta fondamenti teorici eclettici o integrati. Sono diffuse pratiche basata sul modello GROW (che evocano l’approccio del goal setting), ma anche tecniche derivate dalla programmazione neurolinguistica. Inoltre, anche le intuizioni nate nell’ambito dello sport e tradotte nella consulenza aziendale fanno parte del quadro teorico di riferimento sotteso alle pratiche di coaching. Guardando alle teorie psicologiche è possibile riconoscere diversi approcci sottesi alle scelte di metodo: dalla cornice torica di riferimento deriva infatti il significato degli interventi che il coach mette in atto nella relazione e la sequenza delle azioni messe in atto in vista del raggiungimento degli obiettivi formativi. ❖ Approccio psicodinamico Pone al centro l’analisi delle dinamiche relazionali e lo sviluppo di abilità interpersonali; cerca di approfondire le ragioni delle azioni. La relazione tra coach e coachee è lo strumento privilegiato. Tra i suoi punti di forza abbiamo la sua capacità di identificare possibili resistenze al cambiamento; tra i suoi punti deboli il rischio di stagnazione legata alla tendenza ad indugiare nella introspezione, che dilata i tempi e può portare lontano dai contenuti del lavoro formativo. 17 ❖ Approccio comportamentista Poco utilizzato sebbene presenti vantaggi legati alla sua semplicità (che è anche un suo limite) che lo rende compatibile con disegni di valutazione quasi sperimentali, il sostegno che può dare al coachee nel riconoscere risposte apprese dal contesto, il supporto che offre nel processo di gestione dei collaboratori. ❖ Approccio cognitivo Permette di intervenire a sostegno dell’apprendimento di nuovi modi più efficaci di gestire lo stress, affrontare problemi, prendere decisioni. Ha una impostazione pragmatica, mira a comprendere e modificare i processi cognitivi disfunzionali agendo a livello degli schemi, della valutazione e categorizzazione degli stimoli, del giudizio e delle attribuzioni. Attraverso queste operazioni vengono resi possibili nuovi apprendimenti. ❖ Approccio umanista Con riferimento a Carl Rogers, è particolarmente utile nelle pratiche individualizzate. Il coach si pone in una posizione di ascolto attivo dell’altro avendo come scopo la crescita e la piena espressione di sé. La relazione si basa sull’accettazione e l’accoglienza. ❖ Approccio sistemico Colloca le interazioni all’interno di un quadro concettuale articolato e guarda all’individuo all’intero del/dei sistema/i di appartenenza. Questo consente di avere a disposizione griglie di lettura per l’osservazione di un gruppo di lavoro e suggerisce l’utilità di affiancare percorsi di coaching individuali con coaching di gruppo così da accompagnare il cambiamento a diversi livelli. ❖ Approccio psicologico-sociale Approccio integrato che nasce dalla constatazione che nessuna teoria presa singolarmente può rendere conto delle dinamiche del coaching. Si valorizza il ruolo del contesto sociale come elemento decisivo per i percorsi di sostegno alla persona. Ci sono diverse matrici di riferimento: ̶ La scuola storico-culturale (aspetti storici, sociali e culturali + zona di sviluppo prossimale) ̶ Teoria di campo di Lewin ̶ Concetti di agentività e autoefficacia di Bandura ̶ Interazionismo simbolico + focus su pratiche dialogiche e conversazionali. Ci sono inoltre influenze sul coaching da parte della psicologia positiva, in virtù del suo orientamento alla promozione del benessere che pone al centro dell’attenzione i processi e le dinamiche che favoriscono la piena espressione del potenziale individuale. Infine, ci sono altri due contributi che ricorrono in modo trasversale: ̶ Ciclo di apprendimento di Kolb = è un riferimento utile sia per comprendere il processo di apprendimento che si può sviluppare nel coaching, sia per sostenere una riflessione specifica sullo stile di apprendimento del coachee. ̶ La riflessività di Schon = La riflessività è il nodo che contente lo sviluppo della professionalità e si configura come un’attività di ricerca ed un atteggiamento che permette di divenire ricercatori nel contesto della pratica. Imparare riflettendo su ciò che si fa e imparare a riflettere su ciò che si fa sono gli elementi cruciali del coaching. Il coaching aspira ad allenare la pratica di riflessione necessaria all’apprendimento trasformativo = riflettere equivale a interrogarsi sui modi dell’accadere, arrivando a rileggere l’esperienza in modo critico e progettuale, imparando ad apprendere da sé e per sé. COACH, COACHEE E CONTESTO Il coach Il coach può essere sia un esperto esterno dall’organizzazione (consulente) sia un membro della stessa con una formazione specifica. La descrizione del profilo del coach deve fondarsi sulla dimensione etica e il percorso deve essere caratterizzato da autenticità, correttezza e lealtà. Per garantire ciò, il coach deve avere in mente alcuni principi deontologici tra cui: ̶ Rispetto dei diritti, della libertà e dei valori dell’altro 20 sviluppo che guiderà gli incontri successivi. Esso rappresenta un’articolazione dettagliata degli obiettivi individuati nel contratto di coaching, fissando la meta ed i passaggi per raggiungerla. ❖ Allenamento A partire dai nodi individuati precedentemente, il coachee è sollecitato a sperimentare nuovi modi di agire nelle situazioni lavorative, oltre che nuovi modi di riflettere su queste, leggere e interpretare gli eventi. La stimolazione a sperimentare e il sostegno a riflettere sono le funzioni centrali espresse dal coach, che modulerà le sue azioni in funzione degli obiettivi e delle reazioni del coachee. Il coach può utilizzare diversi strumenti (diari, checklist, esercitazioni, cinema) per favorire nel coachee una rilettura delle esperienze di vita, un cambio di sguardo e un’analisi più approfondita dei temi rilevanti per la problematica affrontata dal coachee. È importante, nei primi momenti di questa fase, monitorare l’andamento della relazione e la coerenza del percorso effettivo con i tempi inizialmente concordati e verificare se il piano di sviluppo individuato in precedenza debba o meno essere riformulato. ❖ Arrivo Una volta consolidati alcuni apprendimenti in relazione alla fase di allenamento, il coach deve accompagnare il coachee verso il presidio, in autonomia, della sperimentazione e della riflessione sull’esperienza = l’efficacia del coaching si protrae nel tempo sono se il coachee è in grado di sviluppare la capacità di essere allenatore di se stesso. È quindi fondamentale che si riconoscano di volta in volta i risultati ottenuti, ponendo attenzione alle resistenze che potrebbero attivarsi rispetto alla conclusione del percorso: esse potrebbero assumere la forma di procrastinazioni, richieste di ulteriori incontri e generica insoddisfazione per i risultati raggiunti. In questi casi, il coach deve focalizzare il dialogo su aspetti concreti della relazione di apprendimento e sugli obiettivi specifici raggiunti, ricondotti al contratto iniziale. ❖ Follow up A distanza di alcuni mesi dalla fine del percorso si può fissare un ulteriore incontro per monitorare gli effetti dell’esperienza. Il follow up può esaurirsi in un colloquio coach-coachee o articolarsi in un ciclo di colloqui, coinvolgendo anche il management o la funzione di gestione delle RU. Il follow up ha una duplice funzione: (1) rinforzare le acquisizioni del percorso; (2) acquisire qualche dato di valutazione rispetto ai suoi effetti. La valutazione di un percorso di coaching non si esaurisce nella realizzazione del follow up, ma evoca la necessità di disegni di ricerca complessi, preferibilmente a carattere longitudinale, capaci di considerare gli effetti della pratica su indicatori oggettivi e soggettivi. È importante indagare se il coaching abbia raggiunto gli obiettivi che si era posto e come questi siano stati raggiunti e gli aspetti di organizzazione e gestione del percorso (durata, setting, frequenza incontri). Durata e setting La durata del percorso deve essere coerente con gli obiettivi dello specifico intervento. È una relazione a breve-medio termine che si può sviluppare in un periodo tra i 6 e i 12 mesi (interventi molto focalizzati possono richiedere anche un tempo inferiore). Ciascun incontro dura circa due ore, solitamente a scadenza settimanale o bisettimanale. Il luogo deve essere accogliente, per consentire la vicinanza necessaria al lavoro di relazione, e protetto da possibili interferenze. In riferimento al coaching aziendale esso può svolgersi: ̶ In organizzazione = nell’ufficio del coachee o in una sala messa a disposizione dall’organizzazione (avviene principalmente quando il coaching è promosso dal vertice aziendale). Il coach può osservare il coachee nel suo ambiente di lavoro quotidiano, avvicinandosi maggiormente al contesto del lavoratore. ̶ Setting esterno all’azienda = nello studio del coach (avviene quando è il coachee a chiedere un intervento di supporto). Questo setting può facilitare l’emergere di temi e pensieri in forma più libera, entrando con più profondità in situazioni problematiche lavorative, ma anche andando oltre la vita professionale. 21 COACHING E LEADERSHIP La leadership è il tema che più si intreccia con il coaching. Ci sono due principali direttive di approfondimento: A. Il coaching realizzato da un esperto è un metodo formativo adeguato allo sviluppo della leadership. Molti legano la complessità della relazione capo-collaboratore alla necessità di percorsi di formazione e sviluppo one to one per potenziare i punti di forza e riconoscere/circoscrivere i nodi problematici, in modo da sostenere una leadership equilibrata = è necessario adottare approcci partecipativi e riflessivi in modo da valorizzare gli elementi positivi senza trascurare i possibili lati negativi. Il coaching può cogliere con precisione il problema di leadership specifico che la persona porta, mantenendo un focus preciso sugli elementi professionali, consentendo di lavorare anche sugli aspetti più critici della leadership. È importante, però, che il professionista sia adeguatamente formato sia sulle dinamiche di leadership sia sul metodo di lavoro. B. La leadership stessa è una sorta di “esercizio” di coaching È fondamentale il ruolo della relazione capo-collaboratore nelle dinamiche lavorative. Il coaching si configura come l’attività che un responsabile compie per un collaboratore nel quadro dei suoi doveri manageriali orientati allo sviluppo delle competenze professionali delle risorse che gli sono affidate. È importante che il ruolo del coach sia giocato al meglio = le organizzazioni devono investire in una formazione da destinare a chi ha ruoli di responsabilità. Il profilo di leadership coaching è quello che si declina in comportamenti di insegnamento, sviluppo e allenamento. Esso è considerato come una risorsa lavorativa capace di accrescere il coinvolgimento e ridurre i rischi di malessere dei collaboratori. CONCLUSIONI Sebbene sia necessario un ampliamento delle ricerche in merito all’efficacia del coaching, diversi autori ne riconoscono i vantaggi. Il suo vantaggio si lega alla sua natura di pratica formativa individualizzata, capace di allenare alla riflessione sull’azione, conseguendo importanti risultati in termini di apprendimento e miglioramento delle prestazioni. Inoltre, nell’ottica dell’arricchimento tra domini di vita, il coaching potrebbe contribuire positivamente all’equilibrio personale complessivo. CAPITOLO 9 - COLTIVAZIONE DI SÉ Il pensiero e l’idea di una Terza Formazione (TF) si è articolato attorno ad alcuni interrogativi circa i modi e i nodi del fare formazione. Tutti gli interrogativi sono riconducibili al tema della “centralità del soggetto”, i principali sono: ̶ Come può una qualsiasi esperienza formativa tenere conto anche della stessa esperienza di apprendere? ̶ Come si può costruire la formazione in termini di un’opera aperta, di un momento inserito nel corso della vita di ciascun partecipante? ̶ Come può la formazione entrare in risonanza con le singolarità di ciascuno sostenendo un apprendere individualizzato? In seguito, si prenderanno in considerazione le linee generali di metodo che possono essere ricondotte alla TF come percorso di apprendimento che intende rispecchiare in profondità il soggetto a cui si rivolge. LA TERZA FORMAZIONE DAL “TERZO PAESAGGIO” La prima ispirazione al pensiero della TF deriva da ciò che Gilles Clément ha racchiuso nella formula del Terzo Paesaggio. Partendo dai punti cardine del Manifesto del Terzo Paesaggio si può dire che la Terza Formazione si propone di essere una formazione che non ha scala = formazione consapevole che il suo potenziale di apprendimento è depositato ovunque (non solo nelle teorie e nei modelli). Anzi, il più elevato potenziale di apprendimento è rappresentato da ciò che appare meno investito di necessità, da ciò che potrebbe sembrare trascurabile = in questo modo la formazione può tenere conto di ogni possibile ambito della scala personale di un individuo, offrendosi come promotrice delle persone prima che di se stessa. La normale formazione, pur fissando specifici obiettivi e traguardi, non riesce mai a circoscrivere la realtà da apprendere, la realtà degli accadimenti di apprendimento nel corso dell’esperienza formativa che coinvolgono con 22 differente incisività ogni partecipante per il rimando al più ampio contesto di vita che ciascuno porta con sé. A partire da ciò, si può affermare che (1) la formazione non può decidere a priori ciò che sarà l’apprendere a cui darà luogo o che intenderà promuovere, (2) la formazione quando istituisce un punto di attenzione allo stesso tempo distrae da altre opportunità di apprendimento che potrebbero essere legate a interessi più profondi dei partecipanti = la TF intende occuparsi di tutto ciò che costituisce il possibile spazio abbandonato o dismesso o ignorato, cercando di ricercare un apprendimento anche nelle zone di “incolto formativo” di cui ogni partecipante è portatore = ciò consente la ricerca personale, la scoperta e l’invenzione del sé. I 7 che, a partire dal terzo paesaggio, possono essere ricondotti alla terza formazione sono: ̶ Considerare la non organizzazione come condizione essenziale e vitale per l’apprendimento = la TF vuole essere un percorso formativo non ancorato rigidamente al conseguimento di obiettivi o alla trattazione di contenuti affidati ad una struttura chiusa, l’unico vincolo è rappresentato dal tema che si propone di esplorare ̶ Il lavoro di apprendimento che la TF vuole istituire vale più per le domande dei partecipanti che per le risposte fornite dal formatore. ̶ All’interno di questo orizzonte di domande si ha a che fare con pensieri prima che con saperi = in questo modo è possibile avvicinarsi alla diversità di ognuno senza imporre o pretendere una conformità di sapere in cui tutti devono riconoscersi. ̶ Lo spirito di apprendimento che la TF vuole suscitare assume il passo del vagabondaggio e non quello del viaggio organizzato, in modo da non assumere un’intonazione operativa, procedurale, normativa e prescrittiva. TERZA FORMAZIONE E SCUOLA DELLA VITA La formazione può essere articolata in tre differenti ambiti, in base ad un criterio di maggiore o minore vicinanza al contesto organizzativo: 1. Prima formazione → Formazione per le competenze o formazione per l’organizzazione = formazione con un orizzonte di mestieri di riferimento, per profili di capacità, contenuti, programmi, per finalità di breve periodo, … = iniziative formative che sono espressione dei principi di trasmissione e trasferimento del sapere (programma definito da giornate d’aula, moduli) in una logica di obiettivi/risultati di apprendimento declinati in modo canonico. 2. Seconda formazione → Formazione per il cambiamento o formazione in organizzazione = formazione con un orizzonte di strategia e cultura per lo sviluppo organizzativo, non solo per contenuti, ma anche per processi, finalità di medio periodo, consolidamento dell’appartenenza, … = progetti formativi disegnati in una logica di processo, articolati tra momenti di aula e momenti di lavoro sul campo e orientati da una filosofia di elaborazione/rielaborazione di un nuovo sapere che assume il carattere di una nuova pratica. Ha a che fare con una dimensione di apprendimento collettivo, ancorata ad una logica di formazione-azione o formazione- intervento. 3. Terza formazione → Formazione per lo sviluppo personale o formazione oltre l’organizzazione = formazione verso un orizzonte di esistenza piena ed autentica, per mutazione di istanze educative, percorsi e traiettorie di lungo periodo, verso la riappropriazione dell’individualità del progetto di sé (coltivazione, conoscenza e cura di sé) = esperienze formative che intendono rivolgersi alla persona o che privilegiano la dimensione dello sviluppo personale, che guardano alla formazione da un punto di vista educativo e che promuovono un percorso di apprendimento entro una prospettiva di riflessione dall’esperienza, promuovendosi come occasioni di ripensamento di sé, riorientamento di sé e padronanza di sé. La TF, che può essere indicata con le etichette “scuola della vita” e “coltivazione di sé” va considerata come una specifica proposta caratterizzata da: ̶ Scuola della vita in quanto luogo in cui si rinuncia a insegnare la vita per disporsi a riconoscere i modi e i toni tramite i quali la vita prende forma. ̶ Ricerca prima il pensare, sostituendo a tutto ciò che si deve apprendere ciò che si può e si vuole apprendere. Ogni intervento che abbia il carattere di formatività deve essere rivolto a favorire gli apprendimenti in grado di far avvicinare e far assecondare l’essere in formazione delle persone, senza forzarlo entro una qualche conoscenza predefinita. ̶ Non ci sono obiettivi o traguardi da raggiungere 25 ̶ Avvistare immagini, scorgere il loro venire incontro inatteso e improvviso ̶ Afferrare immagini, tentare di trattenerle senza impedirne la mobilità o lasciarsi trattenere senza sottrarsi ̶ Ammirare immagini, contemplare l’immagine come evento portatore di una qualche folgorazione ̶ Abbandonare immagini, allentare la presa, rinunciando a insistere o a incalzare Si tratterà di disporsi ad osservare, ascoltare e interrogare l’immagine, qualsiasi essa sia. Per l’apprendere a cui aspira la coltivazione di sé, immaginare sarà più in riferimento alle impressioni che alle creazioni immaginali. NARRAZIONE La narrazione porta a compimento l’intero itinerario dell’apprendere → tutto finisce con la narrazione: ciò che è stato raccolto in pensieri, significati e immagini diventa racconto, in quanto: (1) la narrazione è la forma originaria della nostra esperienza, (2) è l’archetipo del nostro divenire, (3) il nostro pensiero è narrativo, (4) nella narrazione è custodito il sentimento della nostra vita, (5) la nostra memoria è narrativa, (6) narrare è lo strumento più potente di fondamento, (7) narrare è il più promettente esercizio di ricerca, interrogazione, coscienza e cura di sé, (8) la vita prende forma nella forma di una narrazione, (9) la narrazione è il sentiero lungo cui si costruisce, espande e trasforma la formazione di sé. Narrare è quindi applicarsi a: ̶ Combinare racconti, ricomponendo pensieri, significati e immagini; rimescolando; associando e amplificando. ̶ Tramare racconti, macchinare e architettare narrazioni secondo una traccia e considerando diversi punti di vista. ̶ Confondere racconti, disturbando e disorientando le storie, combinandole. ̶ Concludere racconti, esercitarsi a finire, portare a esaurimento pensieri, significati e immagini. L’esercizio e la pratica della narrazione nel cammino della coltivazione di sé è un cimentarsi con la “forma narrante” prima che con la forma narrata. Non vi è mai alcun vincolo di bella scrittura, si tratta solo di cimentarsi = il cimento della forma del narrare per la coltivazione di sé consiste nel lasciar correre e insistere, avanzare e retrocedere, ramificare s sfrondare. CONCLUSIONI La scuola della vita non si propone di ricostruire il passato, ma di ricostruire il futuro = è sempre un accompagnare ed un orientare. È un modo di apprendere al di là del convenzionale, è una forma dell’apprendere nello spazio irregolare e indefinito che è appropriato a quella formazione di sé che inclina al mondo interiore. La coltivazione di sé è un “quasi-metodo” per allenare e instradare sul cammino di una formazione e trasformazione di sé. In realtà, non vi è alcuna scuola della vita perché la TF nel suo metodo della coltivazione di sé non è nessuna scuola, ma una strada per arrivare a tale scuola = è un cammino naturalistico dell’apprendere che più appartiene ad ogni persona; è un apprendimento sotto ispirazione di tutti i pensieri, significati, immagini e racconti. CAPITOLO 14 - COUNSELLING Il counselling è una attività di aiuto relazionale svolta da esperti che mettono a disposizione di individui e organizzazioni delle competenze professionali. Svolgere un’attività di counselling significa gestire, da parte di un counsellor, un processo di domanda/risposta in funzione di un’aspettativa individuale e/o organizzativa di miglioramento. Tale pratica è riconosciuta in molti Paesi e appare una disciplina tanto riconosciuta quanto eterogenea. Le definizioni che possiamo trovare in letteratura sono molteplici: ̶ Feltham e Dryden = attività di aiuto in senso lato, basato su diversi contributi clinici e teorici. ̶ Walton = opportunità di crescita, che parte dalla ricerca e revisione della situazione presente per giungere alla creazione di un potenziale cambiamento. Vi sono inoltre due livelli di relazione: supporto agli individui (downstream) e la ricerca delle cause profonde del malessere a livello di sistema organizzativo (upstream) ̶ Locke, Myers e Herr = il counselling offre una combinazione di risposte dinamica ed evolutiva a bisogni degli individui e della società ̶ Feltham e Horton = metodo di ascolto e di dialogo finalizzato a favorire un cambiamento della persona verso un potenziale sviluppo naturalmente iscritto nei bisogni evolutivi umani 26 ̶ Brown e Lent = Una forma di consulenza psicologica e/o relazionale di supporto alla persona, con precise radici storiche e modalità applicative eterogenee; una relazione di aiuto rivolta alla persona affinché possa riconoscere, valorizzare e applicare le proprie risorse in termini di adattamento ambientale ̶ McLeod = Un impegno psicologico one to one tra un consulente e un cliente, con attenzioni per il benessere psicofisico, ai problemi sociali e professionali, di sviluppo e organizzativi. Le persone sono aiutate a migliorare il loro benessere, alleviare il disagio e disadattamento e vivere una vita più funzionale. Tutta queste definizioni, pur nella loro eterogeneità, sottolineano come il counselling sia essenzialmente una attività di aiuto che si crea nell’interazione tra counsellor e cliente, che ha come obiettivo lo sviluppo della persona nella sua interazione sociale. Per questo motivo il counselling è ritenuto in grado di favorire il miglioramento del benessere sia individuale che organizzativo. La relazione professionale che si instaura ha come obiettivo lo sviluppo della persona nella sua interazione sociale e favorire allo stesso tempo il benessere individuale e organizzativo. Questa attività appare, soprattutto nelle definizioni, talora poco codificabile. Le sue radici sono nella pedagogia e nella facilitazione di un apprendimento individuale compreso tra adattamento e identità. Va sottolineato che nelle organizzazioni l’enfasi è rivolta allo sviluppo e non alla cura, alla promozione del benessere e non tanto alla guarigione da un malessere. IL COUNSELLING: ORIGINI E SVILUPPO STORICO La nascita nell’orientamento scolastico e lavorativo La storia di questa professione si intreccia necessariamente con quella delle tematiche sociali americane del secolo scorso, dove ha acquisito uno status di professione vera e propria svolta da consulenti con una specifica preparazione universitaria in vari indirizzi applicativi. ̶ Davis istituisce nel 1914 il primo centro di orientamento scolastico e professionale nella storia americana ̶ Parsons (1909) = nasce il vocational counselling ovvero un orientamento professionale centrato sullo sviluppo della persona e le sue problematiche d’inserimento lavorativo. ̶ Dopo la 2GM sia il modello di counselling scolastico che di orientamento professionale vengono incrementati ̶ Super (1957) = fa rientrare nell’uso comune i termini career counselling e career development. ̶ Il counselling nato nelle scuole negli anni ’40 viene intrecciato dalla psicologia istituzionalmente organizzata (APA) permettendo la sua sistematizzazione disciplinare e la sua specializzazione in vari settori pubblici. Il counselling psicologico La psicologia clinica si innesta solo successivamente nelle radici pedagogiche e umanitarie del counselling; ciò è avvenuto dapprima grazie al contributo di Rogers e poi istituzionalmente, dopo la 2GM, dell’APA. Carl Rogers: ̶ Elabora, negli anni ’40, il counselling centrato sul cliente, una tecnica di facilitazione basata sulla non direttività e sulla pariteticità nella relazione di aiuto: il paziente si trasforma in “cliente” e si rivolge l’attenzione alle sue risorse sane piuttosto che sulla patologia. ̶ Per quanto riguarda le modalità di apprendimento attivate dal counselling, egli ha sostenuto la rottura con l’idea della conoscenza come sedimentazione del sapere, per affermare un’attiva concezione biologica di crescita e di sviluppo. ̶ Applica il proprio principio di facilitazione e di non direttività alla dimensione del gruppo organizzativo, avviando la sperimentazione degli ecounter groups = gruppi di incontro e discussione sulle tematiche delle relazioni interpersonali nel contesto istituzionale = i principi di facilitazione e non direttività entrano in contatto con la formazione organizzativa. Per il counselling psicologico è stato fondamentale anche il contributo di Lewin = il consulente diventa in un gruppo il facilitatore capace di percepire e utilizzare le dinamiche delle interazioni per favorire lo sviluppo delle persone. La specializzazione organizzativa del counselling Il primo ingresso del counselling nelle organizzazioni è collegato al fenomeno associativo chiamato Employee Assistance Programme (EAP). Gli EAP sono stati istituiti in America a partire dagli anni ’40. I primi programmi erano focalizzati sugli individui il cui abuso di alcool inficiava le prestazioni lavorative. Negli anni ’70 i programmi iniziarono ad occuparsi della 27 produttività nelle organizzazioni. La loro diffusione è diventata notevole in tutti i Paesi di cultura anglosassone. Negli anni ’80, i manager hanno iniziato a riconoscere ufficialmente il counselling come risorsa utile sia per gli individui che per le organizzazioni in termini di sviluppo delle capacità lavorative. Da un punto di vista metodologico, nel counselling organizzativo: ̶ Si dà importanza alla comprensione dello sviluppo di carriera attraverso categorie psicologiche statisticamente predefinite (approccio dei tratti psicologici) ̶ Dopo il contributo di Lewin, le teorie sottolineano l’importanza dell’interazione persona-ambiente, definendo una relazione di reciprocità tra identità sociale e personale. ̶ Negli anni ’70, lo sviluppo individuale è sostenuto dalle teorie della motivazione e dell’autorealizzazione (Maslow) = focus sulla persona e sull’esperienza. ̶ Nella riformulazione intersoggettiva dei paradigmi comportamentali si crea un terreno comune tra psicologia, formazione e alcuni settori dello sviluppo organizzativo (OD). Nelle aziende emerge sempre più l’esigenza di accompagnare le persone nella gestione delle complessità delle difficoltà ambientali = non si tratta di curare patologie ma di fornire supporto per valorizzare le capacità delle persone. Se le prime applicazioni del metodo vennero realizzate in un contesto pedagogico scolastico, oggi il counselling organizzativo si confronta con: (1) la formazione, (2) lo sviluppo individuale, (3) il comportamento organizzativo (OB) → tutti e tre i processi, ma principalmente i primi due, privilegiano piani di sviluppo individuali basati, oltre al lavoro in aula, su una modalità one to one. ❖ Carrol = sistematizzazione dei servizi offerti da un centro di counselling che lavora a pieno della sua potenzialità all’interno di un’azienda → Servizio di counselling per: consulenza HR ai manager, training, benessere degli individui, valutazione dei team, sviluppo organizzativo, cambiamento culturale, politiche e stato procedurale, sviluppo team. ❖ Tehrani = dopo gli anni ’70 c’è una professionalizzazione dei servizi aziendali di counselling, i quali supportano l’organizzazione su tre livelli (1) Livello del duty = rispetto delle garanzie previste dalla legge; (2) Livello del need = strategie e valori organizzative; (3) Livello dei benefit = efficacia individuale. ❖ Sidney e Phillips definiscono una interessante correlazione tra i motivi per cui le aziende richiedono il counselling e i motivi per cui gli impiegati possono averne bisogno: SITUAZIONI CHE RICHIEDONO IL COUNSELLING POSSIBILI CAUSE DI BISOGNO Cambiamento negli standard di prestazione Non rispetto dei tempi Difficoltà a comunicare chiaramente Difficoltà a prender parte al team Comportamenti inusuali Cambiamenti personali Cambiamenti lavorativi Problemi materiali Alcol o droghe Problemi di salute Difficoltà emotive Difficoltà relazionali Carenza di capacità Crisi di carriera Problemi personali Gli autori affermano, inoltre, che il ruolo del counsellor deve interagire con la funzione del training, dello sviluppo organizzativo e con l’assetto culturale complessivo dell’organizzazione = il counselling deve integrare il confronto tra le esigenze organizzative e le mappe cognitive/emotive delle persone. In conclusione, possiamo rilevare che il counselling nella sua specializzazione organizzativa si costituisce come un’area di intervento al confine tra: l’orientamento, la psicologia dello sviluppo, il supporto all’identità e la cultura organizzativa. ̶ Gyspers, Heppner, Johnson = il counselling deve aiutare i clienti a capire i cambiamenti sul posto di lavoro supportandoli nell’adattamento cognitivo verso la riprogettazione delle proprie abilità aiutandoli ad armonizzare la vita famigliare con lo stress connesso al mutevole scenario organizzativo. COUNSELLING E CONTESTO FORMATIVO Come abbiamo detto il counselling psicologico è entrato in contatto operativo con le organizzazioni attraverso i servizi interni (EAP) che hanno gestito diverse forme di servizio. Ma l’ampliamento verso il suo utilizzo per la formazione avviene negli anni ’70 quando il counselling inizia ad occuparsi di formazione manageriale e di supporto alla persona. Questo ampliamento è stato reso possibile dall’incontro del counselling con la formazione promosso da Rogers e dai concetti di interazione dinamica individuo/gruppo/ambiente introdotta dagli studi di Lewin. 30 ̶ Ambientazione: interna o esterna l’organizzazione ̶ Strumenti: questionari, test, comunicazione scritta, piano d’azione ̶ Stile di relazione: livelli di non-direttività in funzione della domanda ̶ Sperimentazione: task sperimentativi, osservazione sul campo, condivisione schemi ̶ Enfasi realizzativa: performance/adattamento/benessere/realizzazione ̶ Ampliamento del counselling: verso la cultura lo sviluppo organizzativo ̶ Comunicazione organizzativa: report In ogni caso, l’organizzazione e l’assetto del counsellor dipendono da un’analisi sistemica del contesto e non da una sequenza standardizzata di fasi operative o dalla scelta di un modello teorico di riferimento = non si ricerca una singola tecnica giusta, ma di saper selezionare in modo situazionale il setting di lavoro. Fasi del counselling Egan definendo il sul “Helping Model” ha individuato quattro fasi strutturate attraverso tre task operativi: 1. Aiutare il cliente a raccontare; favorire la rappresentazione 2. Aiutare il cliente a identificare, scegliere e dare forma ai problemi 3. Aiutare il cliente a sviluppare nuove prospettive e piani per portare a compimento gli obiettivi 4. Aiutare il cliente a superare gli ostacoli, eseguire piani e ottenere risultati Più operativamente si può invece declinare una sequenza di 4 fasi funzionali e sequenziali (assimilabili comunque a quelle proposte da Egan). ❖ FASE ESPOLORATIVA Finalizzata alla formulazione del contratto, all’organizzazione e all’autovalutazione delle risorse in campo. Nell’esplorazione viene svolta l’analisi della domanda, ovvero il tentativo di comprensione dei bisogni che il cliente possiede (talora non consapevolmente). In questa fase si prevede un intervento interpretativo del professionista, mediante cui ricostruire gli elementi mancanti in base ad un’intuizione induttiva di tipo clinico. La capacità di instaurare una relazione empatica basata su autenticità e fiducia è di vitale importanza (come sottolineato da Rogers). ❖ FASE DIAGNOSTICA Questa fase è dedicata all’analisi del rapporto fra la persona e la sua esperienza lavorativa: il counsellor dovrà decodificare la versione latente del rapporto che il cliente ha nei confronti del lavoro e dell’organizzazione, distinguendola dalla versione manifesta esposta dal cliente. Il counselling vuole favorire una maggior affettività verso il lavoro e contemporaneamente una consapevolezza non passiva dei vincoli organizzativi. ❖ FASE DI CAMBIAMENTO Questa fase è finalizzata alla sperimentazione di nuove tipologie comportamentali, frutto di un processo di autoconsapevolezza: il counsellor deve porre domande stimolo per favorire maieuticamente delle riflessioni su come la persona affronta il lavoro. Il counselling non pone dei target di adeguamento prestazionale, ma lavora sulla consapevolezza di sé, esplorando la possibilità di un adattamento proficuo e gratificante sia per il cliente che per l’organizzazione. Tra adattamento ed identità possono essere costruiti dei legami sinergici destrutturando la convinzione che i sistemi sociali propongano un’alternativa drastica tra un adattamento passivo ed una manipolazione strumentale. Un buon intervento di counselling deve potenziare la flessibilità esplorativa del cliente e il suo sguardo realistico nei confronti dei propri limiti interni ed esterni. ❖ CONCLUSIONE E ACCOMPAGNAMENTO FINALE Si tratta di gestire la conclusione del contratto di counselling. L’accompagnamento finale deve siglare una acquisizione interiore dei criteri di autovalutazione nel proseguimento del proprio sviluppo: il cliente deve “far proprie” le riflessioni maturate insieme al counsellor = l’assimilazione dei criteri di autovalutazione è una condizione di crescita psicologica e corrisponde all’acquisizione della capacità di autonomia vitale. Sul piano operativo, si tratta di concordare un’agenda di attività e impegni lavorativi per il futuro, con una specifica attenzione per le questioni poste dal counselling e dall’organizzazione. Non è però un “compito a casa” di tipo direttivo. 31 Punti chiave organizzativi La durata dei colloqui e i rimanenti punti chiave dell’organizzazione del counselling non possono essere rigidamente standardizzati, in quanto il counselling è una relazione orientata dinamicamente verso la dimensione realizzativa, la quale ne modella il setting in modo strutturale. Quando si danno delle indicazioni operative, il counsellor deve avere un atteggiamento fluttuante in grado di costruire griglie organizzative più che schemi procedurali. Tenendo conto dei punti chiave prevediamo una oscillazione del counsellor lungo una linea che va da un focus prevalentemente organizzativo verso un focus legato all’identità professionale e alla qualità performativa della persona. Carrol distingue il counselling legato all’attenzione alla prestazione e quello legato all’attenzione allo sviluppo: la prima si focalizza su temi specifici, mentre la seconda punta all’ampliamento dell’orizzonte autoriflessivo della persona, ma entrambe le opzioni si collocano nell’ambito della formazione attiva, con il compito di favorire un ciclo di riflessione/azione tagliato su misura del singolo. PUNTI CHIAVE ORIENTAMENTO ALLA PRESTAZIONE ORIENTAMENTO ALLO SVILUPPO Fasi counselling Prevalenza delle fasi di cambiamento Enfasi sulle fasi di esplorazione e cambiamento Durata colloqui 90 - 120 minuti 120 minuti con flessibilità situazionale (fino a mezza giornata) Processo 6-8 sessioni bisettimanali 8-16 sessioni inizialmente settimanali e successivamente bisettimanali Ambientazione Interna all’organizzazione, dotata di riservatezza Interna all’organizzazione, dotata di riservatezza interna o esterna (luogo neutro o sede del counsellor) Strumenti Questionari, test psicometrici, appunti, supporti didattici, mailing durante il counselling, letture Questionari, test psicometrici e proiettivi, appunti, mailing durante il counselling, follow up, letture Stile di relazione Non direttivo, empatico, con stimoli e interventi continui e strutturati Non direttivo, empatico, maieutico, co-costruttivo, con stimoli associativi e problem solving creativo Sperimentazione Esterna su rappresentazioni del lavoro o task reali di lavoro Esterna e interna vs. consapevolezza autoriflessiva emotivo/cognitivo/applicativa Enfasi realizzativa Qualità della performance e adattamento propositivo Ampliamento dell’orizzonte performativo e dell’identità lavorativa Ampliamento dell’intervento Verso il gruppo di lavoro Verso la cultura organizzativa Comunicazione organizzativa Report aziendale sulle problematiche di cultura organizzativa riscontrate: piano di azione riservato Report aziendale sulle problematiche di cultura organizzativa riscontrate: guide-line riservata Counselling e azione formativa Le abilità relazionali sono necessarie per lo svolgimento del counselling = per fare counselling in un contesto formativo sono necessarie alcune competenze relazionali. Innanzitutto, come sottolineato da Rogers, è importante (1) adottare un atteggiamento non direttivo, (2) saper rispondere ai sentimenti più che ai contenuti relazionali, (3) sapendo accettare qualsiasi tipo di espressione del cliente. Oltre a ciò, Rogers ha descritto gli aspetti base del setting relazionale del counselling, che includono: ̶ Calore e responsabilità ̶ Libertà nella espressione dei sentimenti ̶ Libertà dalla pressione di vincoli esterni A fronte delle modalità di lavoro del counselling, si possono descrivere una serie di capacità di base del counselling, le quali possiedono collegamenti con il tema della supervisione in ambito clinico. Nell’azione formativa, il counsellor deve agire esercitando adeguatamente alcune capacità di governo di un setting relazionale, ovvero: ̶ Comportamenti non verbali = scelta dell’arredamento, gestualità ̶ Capacità di osservazione = capacità clinica di vedere i segni indiziari, espressione della persona e dei suoi orientamenti comportamentali ̶ Capacità di ascolto = ascolto attivo ̶ Capacità di rispondere = comportamenti in grado di facilitare la comunicazione (incoraggiamenti minimali, riflessioni su pensieri e sentimenti, domande di chiarimenti) 32 ̶ Capacità di restituzione = far esplicitare, attraverso affermazioni e domande insature, la comprensione potenziale che il cliente stesso sta maturando nel processo di counselling. Ivey ha affermato che le capacità di base del counsellor devono essere incanalate in processi relazionali che vengono attivati all’interno di ogni sessione di counselling. I tre principali sotto-processi che costituiscono il cuore del counselling sono: confrontazione (prime fasi del counselling), focalizzazione (fasi centrali), influenza (fasi finali). Pearce riporta uno schema base di queste capacità di counselling articolate in una logica di fasi, capacità, obiettivi di aiuto per il cliente. FASI DEL PROCESSO CAPACITÀ AIUTO PER IL CLIENTE Costruzione della relazione Rispetto Empatia Autenticità Essere compreso Comprendere di più Capire come si sente Esplorazione e chiarificazione Negoziazione Concretezza Immediatezza Riformulazione Analisi Ascolto Confronto Esplorare capendo Esplorare i sentimenti Considerare opzioni Esaminare alternative Scegliere alternative Azione Definizione di obiettivi Pianificazione Azioni Problem solving Fare un piano d’azione Fare con un supporto ciò che va fatto Nella fase 1 è fondamentale acquisire la fiducia per costruire un contratto di collaborazione, che garantisca la sincerità del cliente e la sua fiducia nella correttezza deontologica del counsellor. Nella fase 2 e nella fase 3, il metodo del counselling tende a porre sotto osservazione le strategie generali di interfacciamento della persona con l’ambiente. Il counsellor deve aiutare il cliente a riconoscere le connessioni tra cultura organizzativa, comportamenti e performance, al fine di favorirne lo sviluppo lungo un continuum che vada da un migliore adattamento organizzativo allo sviluppo dell’identità personale. Il counselling, all’interno dell’organizzazione, nasce dall’interazione tra formazione, psicologia e cultura organizzativa. Per ciò, i counsellor dovranno: ̶ Conoscere le dinamiche di comportamento organizzativo ̶ Avere flessibili tipologie di intervento a seconda della domanda ̶ Conoscere la legislazione ̶ Padroneggiare modalità di comunicazione assertiva per interagire con i manager ̶ Avere un assetto comunicativo empatico e al tempo stesso oggettivante ̶ Avere una agenda operativa flessibile ̶ Stabilire un principio di trasparenza nella comunicazione Il counsellor si confronta con il cliente dovendo dimostrare di essere in grado di avviare una relazione positiva. Nel setting organizzativo il primo livello di contatto avviene con l’istituzione con cui occorre definire i confini del counselling entro cui avviene la progettazione e il disegno dell’intervento e da cui deriva l’organizzazione della formazione. CONCLUSIONI La formazione e il counselling si incontrano nel nascente interesse della formazione per i comportamenti manageriali, per i gruppi di lavoro e per la leadership: il counselling possiede a tal proposito una competenza di facilitazione della relazione, centrale per gli obiettivi formativi. Così, quando la formazione si evolve da una centratura sul docente a una centratura sul partecipante, iniziano ad apparire modalità individualizzanti di formazione anche al di fuori del contesto del gruppo d’aula. In questo il counselling può aiutare la formazione grazie alla sua vocazione nella gestione della relazione duale. 35 La tipologia classica delle esercitazioni le classificava per la loro struttura, pertanto venivano classificate in: ̶ Casi di discussione = Lettura della cronaca di un evento, di una storia organizzativa, che i partecipanti devono commentare e discutere insieme al docente (attivazione razionale-cognitiva) ̶ Incident = È l’evoluzione dei casi di discussione = presentazione di solo una parte della storia organizzativa, la quale deve essere completata dai partecipanti attraverso una discussione in sottogruppi (maggiore attivazione dinamica e di interazione) ̶ Simulazioni = I partecipanti simulano un evento o un processo organizzativo (es. prendere una decisione) condotti e valutati dal formatore. La prima simulazione di questo tipo venne chiamata business game. ̶ In-basket = Simulazione che si basa sul ricevere, scrivere e smistare le informazioni relative a una specifica situazione organizzativa fornita dal formatore. Sono simulazioni molto lunghe. ̶ Role-play = Ai partecipanti viene chiesto di rivestire un ruolo particolare/veri propri personaggi con particolari caratteristiche e conoscenze e di drammatizzarne l’interazione. Il focus non è sul contenuto, ma sulle dinamiche relazionali e comunicative tra gli attori. Tuttavia, questa classificazione, anche se corretta, non descrive efficacemente le caratteristiche che possono essere interessanti per un formatore che vuole avvicinarsi all’esercitazione come strumento. IN CHE MODO UTILIZZARE LE ESERCITAZIONI Le esercitazioni possono essere suddivise in varie tipologie, in base alle caratteristiche dell’attività. La stessa esercitazione può essere utilizzata per sottolineare aspetti e caratteristiche dei diversi temi organizzativi = tale strumento si differenzia in base ad elementi quali la durata e la funzione che l’esercitazione può svolgere nel percorso didattico. Ci sono tre criteri principali di classificazione delle esercitazioni: 1. Durata = è uno dei criteri più importanti nella progettazione di un intervento formativo. In base alla sua durata, l’esercitazione può essere definita: ̶ Breve → durata compresa tra 10 e 30 minuti ̶ Media → durata compresa tra 30 e 90 minuti ̶ Lunga → durata compresa tra 90 e 180 minuti La durata determina in modo significativo la funzione che può svolgere all’interno dell’evento formativo. 2. Funzione = oltre gli obiettivi didattici, le esercitazioni possono svolgere diverse funzioni: ̶ Riscaldamento = l’esercitazione serve a far entrare i partecipanti nell’evento, stimolandoli all’argomento o spingendoli a socializzare (durata breve) ̶ Ripresa = particolare tipo di riscaldamento che serve a riprendere dopo una pausa (durata breve) ̶ Diagnosi = l’esercitazione propone ai partecipanti una situazione che mette in scena un esempio pratico del tema della formazione e che permetterà al formatore di individuare i punti di forza e le criticità dei partecipanti rispetto alla questione (durata media) ̶ Stimolo = l’esercitazione serve a portare all’attenzione dei partecipanti un tema specifico con l’obiettivo di provocarli e di attivare una discussione critica approfondita (durata breve o media) ̶ Simulazione = riproduzione di un vero e proprio evento organizzativo che permetta ai partecipanti di mettere in pratica determinate capacità e competenze organizzative (durata media o lunga) 3. Fase dell’evento = non tutte le esercitazioni possono essere usate in tutte le fasi del percorso, quindi bisogna sapere che tipo di esercitazione può essere adeguata allo specifico momento nel quale ci si trova (apertura, metà, fine), al fine di massimizzare gli effetti positivi e controbilanciare le eventuali criticità. DURATA FUNZIONE FASE DELL’EVENTO ESEMPIO Breve (10-30’) Riscaldamento Apertura Interviste reciproche Ripresa Ripresa dopo una pausa Formate la frase Stimolo Media (30-90’) Diagnosi Metà/fine del percorso La torre di palloncini Stimolo Tsunami Simulazione Lunga (90-180’) Simulazione Metà del percorso La bottega della piadina 36 LA STRUTTURA E LO SVILUPPO DI UN’ESERCITAZIONE Idealmente, la prima fase di un’esercitazione è la preparazione, da parte del formatore, in back office = prima di utilizzare lo strumento è importante che il formatore si impadronisca della meccanica di ogni singola esercitazione, studiandone il materiale e facendo una prova con dei volontari scelti a tale scopo. La meccanica: fasi dell’esercitazione Castagna presenta una struttura standard per le esercitazioni, divisa in tre fasi all’interno delle quali è possibile individuare altre sottofasi. FASE SOTTOFASE/ATTIVITÀ PREVISTA TEMPO SOTTOFASE TEMPO TOTALE 1. LANCIO Introduzione 3’ - 5’ 6’ - 20’ Scelta giocatori/osservatori 3’ - 5’ Lettura mandato/regole 3’ - 10’ 2. SVOLGIMENTO Azione dei giocatori 10’ - 90’ Attività di osservazione e registrazione degli osservatori Attività di osservazione (videoregistrazione) del formatore 3. COMMENTO (Debriefing) Commento degli osservatori 20’ - 60’ Commento dei giocatori Commento del formatore e riflessione guidata sui temi dell’esercitazione 1. LANCIO/AVVIO = è il momento iniziale dell’esercitazione. Il formatore propone l’attività e l’allestisce. Può durare dai 5 ai 10 minuti e ha l’obiettivo di interessare i partecipanti e introdurli alla meccanica del gioco. ̶ Introduzione = il formatore dichiara che vuole passare ad un’attività che coinvolge attivamente i partecipanti, spiega a linee generali il contesto e le regole senza definire nel dettaglio l’obiettivo formativo, in modo da non limitare l’efficacia in termini di impatto emotivo. Una buona introduzione (1) fornisce un’idea sul perché si è scelta quell’attività e come si collega ai temi trattati, (2) spiega come la dimensione ludica permette di condensare condizioni simili alla realtà in un ambiente protetto (inficia negativamente sulla verosimiglianza, ma non sul valore di stimolo alla riflessione). ̶ Scelta dei giocatori e degli osservatori = raramente si può coinvolgere tutta l’aula (solo in riscaldamento e ripresa) = bisogna identificare due sottogruppi: (1) partecipanti attivi, (2) osservatori. Sarebbe meglio che questa divisione fosse su base volontaria, senza spingere i partecipanti. ̶ Lettura del mandato e delle regole del gioco = lettura delle istruzioni e consegna del materiale per lo svolgimento (+ istruzioni in forma scritta). Le istruzioni forniscono il contesto, l’obiettivo, il tempo a disposizione, le regole di interazione e i mezzi da utilizzare. 2. SVOLGIMENTO/PROCESSO = Comincia l’esercitazione e viene fatto partire il tempo a disposizione (min 10’ - max 50/90’). Il formatore assume un ruolo prettamente organizzativo: assicurarsi che tutto avvenga secondo le regole, che non vi siano problemi con i materiali, chiarire dubbi e perplessità. Inoltre, il formatore avvia la propria osservazione, annotando i comportamenti e gli eventi che saranno discussi nella fase di analisi. Può anche essere adottata una videocamera (se accordato nella fase di lancio), la quale comporta vantaggi e svantaggi: ̶ È molto utile se il tema è l’interazione tra le persone, perché permette un’analisi più approfondita e permette ai giocatori di rivedersi in azione ̶ È una potenziale fonte di resistenze se il formatore non è riuscito a creare un adeguato clima di fiducia = aumento di difese e diminuzione della partecipazione. 3. DEBRIEFING o COMMENTO/ANALISI = al termine dell’esercitazione vengono sciolti i gruppi e si avvia il momento didatticamente più importante dello strumento (per Kolb, si passa dall’osservazione riflessiva alla concettualizzazione astratta). Si riflette sull’esperienza vissuta e si cerca di rileggerla, capirla e utilizzarla in 37 chiave razionale, eliminando la parte ludica in modo da far emergere gli aspetti utili ai fini dell’apprendimento e trasferibili all’attività lavorativa. Le caratteristiche del commento sono: ̶ Tempo = non deve essere svolta in modo affrettato = dovrebbe occupare circa un terzo o metà del tempo previsto per l’intera esercitazione, ma è importante che non duri più di 40/60 minuti per evitare di dare ai partecipanti la sensazione di sovrainterpretare o eccedere in uno sforzo di analisi. ̶ Procedura = può variare a seconda dell’esercitazione, ma in generale il formatore dovrebbe dare inizio alla discussione partendo dalle riflessioni dei giocatori per poi passare a quelle degli osservatori. Dopo che i partecipanti si sono espressi, il formatore può fornire la propria analisi (non è però una lezione in cui fornisce la soluzione). Se la discussione fatica a partire, il formatore può avvalersi di domande-guida (aperte e non giudicanti che forniscono punti di attenzione). ̶ Ricostruzione dell’evento = creazione di un’immagine collettiva e condivisa di quel che è successo, partendo dalle riflessioni dei partecipanti e poi degli osservatori e in ultimo del formatore. ̶ Riflessione guidata sul contenuto relazionale-comportamentale = la formazione sui comportamenti organizzativi non deve prescindere dall’analisi delle emozioni e del tipo di interazione mostrate nell’azione = il formatore stimola la consapevolezza dei partecipanti su quel che l’esperienza ha mosso in loro. ̶ Passaggio dal gioco alla realtà: come trasferire gli apprendimenti nel proprio lavoro = passaggio più critico e delicato, ma più interessante a livello formativo. Il formatore deve accompagnare i partecipanti nella messa a fuoco di quanto i comportamenti agiti nell’esercitazione siano gli stessi che vengono agiti nella quotidianità lavorativa e nel riconoscere che le buone pratiche evidenziate possono rappresentare altrettante variazioni del corrispettivo comportamento professionale. È importante che il formatore tenga a mente che la discussione non va gestita come una lezione, ma come una scoperta = i partecipanti devono arrivare spontaneamente ad una consapevolezza sui propri comportamenti ed ai collegamenti tra i possibili miglioramenti e le pratiche quotidiane lavorative. CONCLUSIONI Come si potrebbe innovare il metodo formativo dell’esercitazione? ̶ Avvalendosi dello sviluppo tecnologico = permette di creare simulazioni e business game complessi ed articolati, ma facilmente utilizzabili dal proprio computer. Questo non muta però le strutture e le caratteristiche fondanti dell’esercitazione. ̶ Espandendo lo strumento, portandolo da singolo elemento interno ad un evento formativo a vera e propria struttura portante dell’intro percorso = applicando il carattere della serialità all’esercitazione, combinando i diversi tipi (brevi, medi e lunghi) al fine di creare un ambiente di apprendimento fortemente connotato e caratterizzato da un’immersione totale. Un ambiente che, aumentando la percezione di coinvolgimento e sicurezza, stimoli fortemente la creatività e il distacco dalle abitudini consolidate. CAPITOLO 23 - LEZIONE Con il termine lezione ci si riferisce alla metodologia più utilizzata, diffusa e antica. Nonostante le critiche continua a essere impiegata nelle aule di formazione. La lezione trova il suo miglior contesto applicativo quando l’obiettivo è: ̶ Migliorare le conoscenze e le nozioni dei partecipanti ̶ Migliorare la loro comprensione di concetti astratti e di principi generali Invece, presenta parecchi limiti quando l’obiettivo è: ̶ Migliorare le capacità pratiche dei partecipanti ̶ Modificare i loro comportamenti interpersonali e le capacità relazionali Occorre però sottolineare che anche nei secondi casi può tornare utile: un minimo di spiegazione teorica da parte del docente aiuta i partecipanti ad apprendere meglio, anche se il fattore di successo della didattica in questi casi sta molto di più nelle situazioni esperienziali e applicative. Anche per i due primi obiettivi, la lezione di per sé non è garanzia di apprendimento se presa da sola, anche se gioca un ruolo preponderante e cruciale. 40 ̶ Tipo di linguaggio usato = è importante che non si utilizzi un linguaggio troppo tecnico e che non si dia per scontato che il linguaggio professionale sia comprensibile a tutti ̶ Gestualità = (1) è un mezzo per comunicare, (2) se utilizzata in modo appropriato, aumenta l’efficacia della comunicazione e la comprensibilità di quanto esposto verbalmente, (3) può diventare controproducente se trasmette messaggi negativi all’ascoltatore (imposizione, aggressione o squalifica), (4) filmarsi è uno strumento utile per il docente per capire se la sua gestualità è producente o meno ̶ Movimento e prossemica = l’immobilismo del docente tende a generare senso di monotonia, ma l’estremo opposto rischia di distrarre i partecipanti = bisogna alternare ed evitare gli estremi ̶ Stile comunicativo adottato = (1) esempi, similitudini, metafore, migliorano la comprensione, l’attenzione e la memorizzazione dei concetti; (2) aneddoti, storie, resoconti facilitano l’ancoraggio delle conoscenze a elementi esperienziali e immaginativi. Una docenza in cui si alternano principi e concetti astratti a tali modalità comunicative risulta più coinvolgente e rende migliore la comprensione delle teorie e più stabile il loro ricordo. L’ATTEGGIAMENTO DEL DOCENTE Più l’atteggiamento è positivo, più sarà possibile che il docente metta in atto comportamenti che avvicinano le persone alla materia e le aiutano nella comprensione. Viceversa, più l’atteggiamento è negativo, più le persone si chiuderanno o ribelleranno ai contenuti esposti, tenderanno a rifiutare la situazione d’aula e/o a spegnere la propria attenzione. Classificazione degli atteggiamenti positivi contrapposti a quelli negativi/rischiosi ❖ Vicinanza o distanza? Ci si riferisce allo stile che il docente adotta per relazionarsi con i partecipanti. All’estremo della vicinanza vi sono i comportamenti che fanno percepire ai partecipanti un’effettiva disponibilità del docente a entrare in relazione e a mettersi in gioco in prima persona (es. mostrare entusiasmo e interesse, rispondere alle domande esaurientemente, discutere rispettando l’opinione altrui, avere un linguaggio quotidiano, guardare in viso le persone, sorridere, …) All’estremo della distanza vi sono i comportamenti che allontanano il docente dai partecipanti e fanno intendere ad essi che vi è scarsa disponibilità ad entrare in relazione (es. parlare con tono annoiato, mostrare insofferenza per le domande, fare ironia e sarcasmo sul gruppo/idee dei partecipanti, atteggiamento rigido e formare anche quando non è richiesto, adottare un modo autoritario, parlare senza guardare le persone, …). La distanza porta il gruppo a chiudersi, a non fare domande e a non esplicitare i dubbi, mentre atteggiamenti di affettività negativa generano nei partecipanti una reazione contro-dipendente (obiezioni, contestazioni) che sposta l’energia dalla materia alla contestazione e al conflitto. ❖ Competenza o potere? Nel polo positivo ci sono i comportamenti che dimostrano il desiderio di mettere a disposizione il proprio sapere per condividerlo, mentre sull’altro estremo vi sono comportamenti che fanno percepire al gruppo che il docente utilizza il proprio sapere come strumento per affermare se stesso e la propria indiscutibile superiorità. Adottare ripetutamente comportamenti di potere (es. far pesare la propria posizione di docente per prevaricare i partecipanti, parlare in modo tale da far comprendere che si possiede molta cultura, citare autori continuamente, richiamare il proprio prestigio professionale, …) genera un clima negativo che allontana le persone dai contenuti e le spinge a chiudersi o a entrare in polemica e in contro-dipendenza, a scapito dell’apprendimento. I comportamenti di competenza (es. sollecitare l’esplicitazione di punti di vista differenti, rispondere alle obiezioni rispettando il parare altrui, esprimere il proprio punto di vista in forma relativa) non nascondono il sapere del docente, ma fan sì che questo venga utilizzato con le persone e non sulle persone. ❖ Apprendimento o valutazione? Un ruolo importante nel processo di apprendimento lo giocano i feedback che le persone ricevono. I modi di comunicarli sono un fattore significativo del successo complessivo del processo didattico. I comportamenti che esprimono con forza la valutazione che il docente dà (es. feedback sulle persone anziché sui compiti, dare solo feedback negativi, esprimere valutazioni sulle domande dei partecipanti o sulle motivazioni sottostanti alle obiezioni, fare confronti tra le persone o sottogruppi, …) instaurano nell’aula un clima competitivo, con 41 frequenti comportamenti esibitivi da parte dei partecipanti, al fine di ottenere gratificazioni dal docente, oppure creano passività e atteggiamenti difensivi, tesi a evitare di incorrere in rimproveri o svalutazioni. Un atteggiamento teso a favorire l’apprendimento è molto focalizzato sui contenuti, più che sulle persone (es. feedback sui contenuti, dare feedback anche positivi, evitare di esprimere giudizi sulle domande o interpretare i perché delle obiezioni, evitare i confronti, evitare di ironizzare sugli errori, lasciar intervenire le persone in modo libero, …). L’USO DEL TEMPO Progettare contenuti eccessivi rispetto al tempo disponibile è uno degli errori più commessi, ma può anche capitare che per una serie di ragioni i tempi disponibili non si dimostrino congrui con ciò che si è preparato. In ogni caso, occorre privilegiare l’apprendimento e l’efficacia della didattica a discapito dell’efficienza, cercando di consentire ai partecipanti di acquisire i contenuti esposti con i loro ritmi, dubbi, domande e trasposizioni alle realtà personali, anche a scapito di voler dire tutto ciò che si era messo in scaletta = meglio poche cose realmente apprese piuttosto che tante cose solo ascoltate e presto dimenticate. A livello operativo significa: (1) rispondere a tutte le domande, (2) non saltare le pause, (3) non accelerare per completare gli argomenti, (4) se si è in ritardo, saltare gli argomenti meno importanti e trattare quelli fondamentali, spiegando ai partecipanti il perché della scelta. ATTIVARE LA PARTECIPAZIONE Per innescare e favorire la partecipazione, il docente possiede dei mezzi classificabili in tre categorie: 1. L’atteggiamento complessivo Adottare comportamenti che manifestano vicinanza, competenza e orientamento all’apprendimento. 2. Le modalità che adotta per innescare confronti e animare discussioni Il modo migliore è chiedere al gruppo (non ai singoli) se vi sono delle domande e se è tutto chiaro dopo ogni segmento di argomento o dopo ogni unità temporale elementare. 3. Le tecniche che adotta per rispondere a domande e per gestire le obiezioni In riferimento alle domande, è bene rispondere senza aggiungere commenti o valutazioni sulla domanda o sulla persona che la pone. Più il docente risponde alle domande, più è probabile che ne vengano poste altre (è importante che vi sia interazione da parte del gruppo, perché facilita l’apprendimento). Le obiezioni, invece, hanno una valenza psicologica diversa: non sono fatte per sapere, ma per contrastare. Una possibile conseguenza è che sovente il docente reagisca un po’ infastidito. Per gestire questi momenti difficili: ̶ Rispettare il partecipante, aspettando con un atteggiamento positivo che concluda la sua esposizione ̶ Accreditare la sua obiezione iniziando la risposta con qualche segnale di comprensione e accettazione ̶ Evidenziare gli aspetti che si condividono in ciò che il partecipante ha detto ̶ Esporre il proprio punto di vista con parole differenti da quelle utilizzate nella formulazione che ha dato luogo all’obiezione, senza modificarne il senso L’obiezione può essere terreno di scontro o di incontro e se il docente rispetta l’opinione del partecipante e cerca di comprenderla è più probabile che il partecipante rispetterà e comprenderà l’opinione del docente, anche se non si arriva ad un accordo = l’accettazione e la comprensione reciproca arricchiscono i punti di vista e quindi l’apprendimento. Quando le obiezioni sono portate avanti da più persone, generalmente è la spia di una relazione d’aula difficile e problematica. Il suggerimento per il docente è di prestare attenzione alle obiezioni anche per il loro significato diagnostico di un possibile disagio presente in aula. CONCLUSIONI Regole sintetiche conclusive per preparare una lezione efficace: 1. Preparare la lezione tenendo conto dell’obiettivo, dei destinatari e del tempo a disposizione 2. Investire tempo e creatività nei supporti visivi 3. Decidere da dove partire, valutare se è opportuno utilizzare una sequenza tradizionale (deduttiva) o una esperienziale (induttiva) 4. Prestare attenzione al proprio modo di comunicare (gesti, sguardo, ritmo, movimento) 5. Inserire esempi, aneddoti, racconti, narrazioni = far vivere la materia come se fosse una vera e propria storia 42 6. Adottare comportamenti che manifestano vicinanza, competenza e orientamento all’apprendimento invece che comportamenti che ingenerano distanza, che fanno percepire un desiderio di agire il potere, che innescano processi valutativi o svalutativi. 7. Dare feedback in chiave costruttiva, sia correggendo gli eventuali errori, sia rinforzando positivamente le azioni corrette 8. Coinvolgere i partecipanti sin dall’inizio e in modo continuativo, redendo la lezione un dialogo e non un monologo 9. Utilizzare le domande e le obiezioni come occasioni per aprire il dibattito, per coinvolgere, per approfondire e per attivare la partecipazione di tutti 10. Tener conto del tempo e della sua limitatezza, favorendo l’efficacia e scapito dell’efficienza. CAPITOLO 25 - MENTORING Dalla fine degli anni ’70 ad oggi, si sono succedute in letterature molteplici definizioni di mentoring. “Mentoring è la relazione tra un giovane adulto e uno più anziano e di maggiore esperienza che aiuta l’individuo più giovane ad imparare a navigare nel mondo adulto e nel mondo del lavoro”. Ogni persona, anche nell’ambito professionale e in posizioni direttive, può svolgere funzioni di supporto personale e di carriera, senza necessariamente essere definito un mentore. ̶ Mentor = colui che pensa, è la figura del consigliere saggio e prudente riconosciuto o nominato a guidare e sostenere il percorso di crescita e sviluppo di un altro, solitamente più giovane e con meno esperienza ̶ Mentee o protégé = colui/colei che è in relazione con il mentore nell’ambito di un percorso più o meno formalizzato di apprendimento e sviluppo. ̶ Mentorship = relazione tra mentor e mentee che si connota come improntata alla fiducia e alla confidenzialità del dialogo. Solitamente una mentorship inizia informalmente e assume nel tempo una forma più regolare e stabile. Il mentoring riflette una relazione che ha elementi di unicità legati alle caratteristiche delle persone = non c’è una relazione di mentoring uguale all’altra. Anche se asimmetrica, la relazione presuppone reciprocità di interesse e coinvolgimento. Il mentoring si struttura come una vera e propria partnership di apprendimento, nella quale gli obiettivi della relazione che si instaurano implicano sempre lo sviluppo di conoscenza. Il mentoring si configura come un processo con specifiche funzioni sia di supporto psicosociale, sia collegate ad un possibile percorso di carriera. Il mentoring è una relazione che accompagna gli individui in un processo di scoperta di sé. ORIGINI ED EVOLUZIONI DEL MENTORING I primi programmi di mentoring si sono sviluppati nelle organizzazioni educative e scolastiche nelle nazioni di origine anglosassone (es. programmi di mentoring nei college e nelle università). Sul fronte del mondo adulto e delle organizzazioni, è stato Levinson a tematizzare in chiave moderna le relazioni di mentoring, collocandole all’interno degli studi sul ciclo di vita. Il mentoring ha riscosso attenzione sia nel settore dell’education, sia in quello del management. Secondo la cornice teorico-concettuale della psicologia positiva, lo studio del benessere soggettivo enfatizza il ruolo fondamentale delle risorse e delle potenzialità dell’individuo che un percorso di mentoring può contribuire ad alimentare. È possibile rintracciare 5 forme di mentoring: 1. One to one mentoring = forma tradizione e più diffusa. Gli incontri sono vis a vis e il calendario ed il setting vengono decisi sulla base del contratto iniziale tra mentor e mentee. 2. Group mentoring = il mentoring è interpretato come fenomeno di gruppo quando l’influenza che emerge dalle norme sociali e dalle regole caratteristiche di uno specifico gruppo produce risultati sulla carriera di un singolo componente del gruppo. Ci sono quattro comportamenti di group mentoring: il modelling di ruolo, l’inclusione/appartenenza, il networking, il supporto psicosociale. 3. Programmi misti = comprendono momenti individuali e di gruppo 45 IL MENTORE: RUOLO, FUNZIONI E COMPETENZE Se nell’immaginario il coach è associato ad una figura deputata a svolgere compiti precisi, il mentore si colloca in uno spazio professionale non meglio definito. Può essere: ̶ Un peer di lavoro ̶ Un supervisore/capo diretto ̶ Qualcuno all’interno dell’organizzazione ma al di fuori della linea gerarchica del mentee ̶ Un individuo di un’altra organizzazione In ogni caso è una persona che ha una lunga esperienza di vita e lavoro, con un alto posizionamento nel proprio ambiente di riferimento e che non si limita ad insegnare contenuti tecnici, ma ad accompagnare il mentee alla scoperta della cultura organizzativa. Il fatto che un mentore assolva una funzione di carriera o di supporto psicosociale dipende dai bisogni del mentee. Il mentore non è una persona che fa il formatore di professione, ma qualcuno che si cala nel ruolo di formatore per guidare e favorire un percorso di crescita → per diventare mentore è richiesta una specifica motivazione. Ci sono tre principali tipi di mentori, ognuno dei quali si qualifica attraverso alcune prescrizioni di ruolo, di stile, di tecniche e abilità: 1. Mentore corporate = agisce come una guida, un consigliere ed un consulente in varie fasi di carriera di una persona. Questo mentore assume funzioni che lo fanno diventare contemporaneamente un modello di ruolo, un coach ed un broker. 2. Mentore qualification = viene nominato per accompagnare gli studenti nei percorsi di studi o di qualificazione. Sono esplicitamente richiesti da associazioni professionali o agenzie educative. 3. Mentore community = agisce come compagno, consigliere esperto o consulente in molte situazioni nelle quali le persone possono essere svantaggiate o in una posizione di disagio o difficoltà. In ogni caso, la relazione di mentoring non è mai “o tutto o niente” → i mentori possono svolgere una o parte di queste funzioni a seconda del tipo di rapporto e di obiettivo prefissato. ❖ Azioni che un buon mentore deve svolgere ̶ Fornire al mentee uno spazio di dialogo sicuro, confidenziale e non giudicante ̶ Incoraggiare la riflessione per condurre verso la consapevolezza del proprio modo di apprendere e agire ̶ Aiutare ad identificare i problemi e a ricercare insieme le soluzioni attraverso lo scambio di feedback ̶ Sviluppare l’auto-responsabilità della crescita personale continua, motivando i mentee a costruire un progetto di sé che non guardi solo ad obiettivi di breve periodo ̶ Far sperimentare quanto si va dichiarando, passando dal piano del “si narra” a quello del “si fa” ❖ Caratteristiche principali del mentore ̶ Disponibilità di una rete di relazioni, sia all’interno che all’esterno dell’organizzazione ̶ Grande attenzione relazionale (empatia, ascolto, apertura) ̶ Capacità di stabilire una giusta distanza nel rapporto (non troppo vicino - non troppo lontano), impegnandosi a esercitare influenza con misura (etica, equilibrio) ̶ Capacità di accompagnare nei successi e nei fallimenti (apprendimento, padronanza personale, riconoscimento degli errori) ̶ Capacità di alimentare l’innovazione (leadership come insegnamento, creatività, flessibilità) Ci sono persone che hanno la volontà (willingness) e la disponibilità di diventare dei mentori. Al di fuori dei programmi formali, i mentori scelgono i loro mentee su basi discrezionali, spesso però accade che ci siano più persone che desiderano avere un mentore di quante siano disposte a farlo. ❖ Vantaggi per i mentori nel fare il mentore ̶ Allenamento nelle competenze di relazione (soprattutto leadership) ̶ Gratificazione personale legata all’immagine di sé ̶ Aumento del prestigio in organizzazione ̶ Ampliamento della rete di relazioni all’interno e all’esterno dell’organizzazione ̶ Rinnovamento professionale 46 ❖ In sintesi ̶ Esperienze precedenti nel ruolo di mentore depongono a favore di un’apertura a rendersi nuovamente disponibili a ricoprire il ruolo di mentore ̶ Individui percepiti con un alto potenziale e una forte volontà di imparare hanno più probabilità di esser selezionati come mentee ̶ La base motivazionale per esprimere un comportamento di mentoring è guidata dall’interesse e dalla preoccupazione per il benessere degli altri IL MENTEE: RUOLO, FUNZIONI, COMPETENZE Partecipare ad un programma di mentoring produce dei mentee una maggior soddisfazione sul lavoro, retribuzioni più elevate e maggiori promozioni = gli esiti di un percorso di mentoring includono fattori sia oggettivi (retribuzioni e promozioni) sia soggettivi (soddisfazione, impegno organizzativo). I benefici di ordine professionali che un mentee può trarre hanno a che fare un l’apprendimento di competenze utili per crescere e avanzare nella carriera e con l’interiorizzazione di norme e valori del contesto organizzativo. I vantaggi personali invece sono legati a: (1) il rapporto di amicizia con il mentore, (2) il sostegno emotivo in situazioni sia difficili che di routine, (3) la riflessione sull’esperienza e sulle motivazioni al lavoro. Nella relazione con il mentore, assume anch’egli un ruolo attivo. Il candidato per essere un eccellente mentee spesso ha vissuto esperienze di successo e manifesta apertamente il desiderio di raggiungere risultati importanti all’interno dell’organizzazione, mostrandosi leale verso le scelte aziendali e valorizzando i feedback (anche negativi) assumendosene la responsabilità. ATTIVARE UN PROGRAMMA DI MENTORING Nell’ambito delle mentorship formali, viene giocato un ruolo importante da diversi attori, sia interni che esterni all’organizzazione, capaci di intercettare il potenziale di crescita di alcune persone (mentee) e di tradurlo in un programma di sviluppo. Tali attori possono essere i capi diretti dei mentee che si affidano a figure specializzate a fare i mentori, altri colleghi o consulenti o responsabili del personale che promuovono progetti di mentoring per alcune popolazioni aziendali. Schema operativo di un programma di mentoring 1. Progettazione e formalizzazione del percorso di mentoring In questa fase è necessario realizzare alcuni passaggi utili e propedeutici all’avvio ̶ Individuazione dei mentori = avviene in modi diversi a seconda del contesto di applicazione. Solitamente sono individuati dal personale delle RU mediante dei colloqui faccia a faccia. ̶ Formazione, preparazione e accreditamento dei mentori = dipende dal contesto di riferimento. I modi possono includere: presentazioni, discussioni, role play, esercizi/lavori di gruppo, riflessioni, case study. Un programma di formazione è finalizzato a far identificare e comprendere il ruolo, gli obiettivi e le abilità richieste, inoltre è bene sia supportato da follow up. ̶ Individuazione dei mentee e abbinamento con i mentori = fase cruciale del processo. Per fare gli abbinamenti è importante: A. Creare una struttura di matching basata sugli interessi di entrambi, sulle influenze e le caratteristiche culturali, etniche e di background delle due parti B. Raccogliere eventuali informazioni aggiuntive sul mentee e coinvolgere tutti gli interlocutori del processo, in modo da informarli sull’impatto che la mentorship avrà sul mentee e sulle sue relazioni. La costituzione della coppia si basa solitamente su vicinanza spaziale e complementarietà tra bisogni di apprendimento del mentee e competenze del mentore. ̶ Formalizzazione e comunicazione del programma di mentoring In sintesi, gli elementi utili alla progettazione sono: (1) l’importanza del legame tra la pratica di intervento ed il contesto organizzativo; (2) il riferimento ad una qualche teoria sull’apprendimento, che è sempre esperienziale. 47 2. Avvio del percorso di mentoring In avvio anche i mentee possono prender parte ad una formazione propedeutica al percorso di mentoring, organizzata in gruppo. Spesso questa formazione è sostituita da un incontro con il proprio mentoring, che costituisce l’occasione di stilare il contratto di mentoring, mediante cui vengono stabiliti gli obiettivi, le modalità e la durata degli incontri. Un esercizio riflessivo utile p quello di iniziare a formulare delle domandi importanti per sé e che fanno riferimento ad aspetti della propria vita personale e professionale di cui ci si vuole occupare, anche durante la mentorship. In seguito, possono essere affidati al mentee esercizi di riflessione più precisi per formulare il progetto di cambiamento che si può sviluppare nel tempo = il mentore riconsidera e corregge il piano di sviluppo del mentee. Più gli obiettivi sono chiaramente definiti, più è probabile che il percorso giunga a risultati positivi. In questa fase si iniziano a sperimentare le diverse competenze richieste alle parti: ascolto, apertura, pazienza e tatto psicologico = si sintonizzano reciprocamente le tonalità emotive. 3. Realizzazione e monitoraggio del percorso di mentoring È difficile quantificare frequenza e durata di ogni incontro, ognuno ha una certa variabilità e flessibilità. Un percorso di mentoring privilegia la narrazione ed il racconto di episodi/situazioni che possono far sviluppare una prospettiva di grandi vedute. Il mentee deve imparare a collocare le proprie scelte ed azioni in un contesto più ampio del luogo di lavoro e della comunità alla quale appartiene. Il setting deve creare un clima di riservatezza e confidenzialità, senza costruire situazioni artificiali. Agli incontri possono seguire intermezzi in cui ci si sente a distanza. È importante che entrambe le parti confermino la loro disponibilità, manifestando la propria presenza anche se non visiva. Vengono favoriti momenti di verifica delle attività svolte, anche per sviluppare capacità di autovalutazione e apprendimento autonomo = viene enfatizzato primariamente il momento di riflessione nell’azione e non solo sull’azione = gli adulti non apprendono dall’esperienza, ma nell’esperienza. Due delle tecniche più efficaci per rafforzare l’apprendimento e lo sviluppo del mentee sono (1) la descrizione degli obiettivi di apprendimento formali e (2) la riflessione sul progetto di sviluppo personale (esercizi di riflessione guidata o self-development). Uno schema per definire un piano di sviluppo personale è: ̶ Sviluppo gli obiettivi mettendo in pratica quanto valutato e condiviso con mentore ̶ Definisco il mio punto di partenza e un obiettivo professionale a cui tendere ̶ Riconosco gli spazi di miglioramento che intravedo e che voglio/posso impegnarmi a realizzare ̶ Pianifico i miei compiti in termini di priorità, alla luce di risorse e vincoli Il dialogo tra mentee e mentore deve sempre essere caratterizzato da circolarità e ricorsività. Il mentoring può prevedere anche strumenti ed esercizi affini a quelli utilizzabili in un’aula di formazione. Ci si deve avvalere di tutti gli strumenti che possono favorire l’autoriflessione sull’apprendimento personale e sulle difficoltà incontrate (non sono esclusi interventi di supervisione esterna della coppia). La conclusione del percorso segna lo scioglimento ufficiale della coppia, ma non necessariamente questo sancisce il termine della relazione, che proseguirà nell’informalità e potrà alimentarsi con altri obiettivi. Può capitare che alcuni percorsi non rispettino il termine prefissato (per imprevisti, mancanza di risorse, mancanza di motivazione da parte di una delle parti). 4. Valutazione e follow-up del percorso di mentoring La valutazione dei percorsi di mentoring formativi richiede di considerare più livelli, secondo le finalità che gli utilizzatori dei risultati intendono fare degli stessi e delle decisioni che devono assumere = bisogna pensare ad una logica di processo che non si limiti alla rilevazione del gradimento = la valutazione richiede di realizzare un bilancio relativo a: risultati raggiunti, soddisfazione percepita, problematiche incontrate, vissuti emotivi e relazione con gli altri attori organizzativi. Tali informazioni verranno poi messe in circolo nell’organizzazione sottoforma di conoscenze. Gli strumenti per tale valutazione possono essere: questionari, diari di bordo, rapporti intermedi e finali compilati sia dal mentee che dal mentore. È importante anche il follow up, che dovrebbe esser realizzato circa 6-8 mesi dopo la conclusione del mentoring, in modo da prendere in considerazione eventuali altre forme di supporto, a sostegno dei risultati ottenuti. 50 ̶ Ognuno è libero di applicare o meno i comportamenti appresi ̶ L’OT sfrutta appieno le potenzialità del gruppo come facilitatore del processo di apprendimento ̶ L’apprendimento diventa risultato del processo di comunicazione e dell’osservazione reciproca tra i soggetti Il principale teorico dell’apprendimento esperienziale su cui si basa l’OT è Kolb = ha proposto un modello di apprendimento dove svolgono un ruolo centrale l’esperienza concreta e l’osservazione riflessiva dell’esperienza = ciclo di apprendimento esperienziale, differenziato in quattro stadi, ognuno dei quali rappresenta differenti attitudini: 1. Esperienza concreta 2. Osservazione e riflessione 3. Concettualizzazione astratta 4. Sperimentazione attiva L’OT esprime il ciclo di apprendimento di Kolb prevedendo tre macro-fasi che ricoprono i 4 stadi. ̶ Azione = momento dell’esperienza concreta in cui si eseguono le attività di outdoor ̶ Rielaborazione (debriefing) = momento dedicato all’osservazione e riflessione di ciò che è accaduto + concettualizzazione astratta che consente di ricavare teorie e principi generali che conducono a nuovi modelli d’azione da sperimentare e/o a ipotesi di lavoro. ̶ Sperimentazione attiva = trasferire e sperimentare in situazioni nuove gli apprendimenti acquisiti. Le origini dell’outdoor L’OT è la più antica forma di apprendimento esperienziale. Nasce nel 1941 a opera di Hahn che fonda la prima vera scuola di OT = “scuola di formazione accelerata del carattere”. L’obiettivo di tale scuola era formare un carattere forte ed eticamente corretto nei giovani aristocratici inglesi. La scuola raccolse un successo crescente per l’addestramento dei marinai durante il periodo di guerra. La scuola di Hahn offre un percorso formativo strutturato in una serie di attività sfidanti, ma nelle quali i partecipanti hanno comunque la possibilità di terminare la propria con successo. Attraverso queste conquiste successive, essi scoprono che possono fare un po’ più di quanto credevano di poter fare. Subito dopo la fine della guerra, i partecipanti ai suoi corsi diventarono anche manager, quadri aziendali e poi venditori. Questa metodologia, prima di diffondersi in tutta Europa, si espanse in America = veniva utilizzata negli anni ’50 dalle forze armate per un programma di sviluppo della leadership e poi nella formazione del top management delle multinazionali. COS’È L’OUTDOOR L’OT è un metodo esperienziale per la formazione degli adulti che prevede percorsi formativi nella natura, in cui i partecipanti, incontrandosi fuori dai ruoli e dai contesti organizzativi consolidati e rigidi, vivono esperienze di apprendimento coinvolgenti emotivamente, affrontando compiti e situazioni nuove, spesso impreviste, riflettendo su quanto accaduto e sviluppando così le competenze target e la capacità di apprendere dall’esperienza. La specificità dell’OT è di essere una metodologia ad alta valenza formativa che propone percorsi esperienziali progettati e messi in sequenza a seconda degli obiettivi formativi e di apprendimento concordati, caratterizzata da una interazione prolungata e coinvolgimento delle persone costantemente stimolate da un consulente esperto ad analizzare e commentare l’esperienza, allo scopo di raggiungere quegli specifici obiettivi. La valenza formativa di un progetto in OT è rappresentata dal portare i partecipanti fuori dalla realtà quotidiana, lasciando loro la libertà di esplorare e sperimentare modalità relazionali, comportamentali e decisionali. L’OT è una metafora di libertà = le esercitazioni sono pensate come una serie di attività metaforiche, ludiche che insistono su un set di competenze alla base degli obiettivi di apprendimento del progetto di OT = l’OT permette ai partecipanti di vedere con più accettabilità alcune dinamiche relazionali interne agli individui e tra di loro in gruppo, attraverso le metafore rappresentate delle attività proposte. I partecipanti sono consapevoli della finzione dell’OT e tale finzione è l’elemento centrale del processo di apprendimento, in quanto rassicura e pone le condizioni ideali per uscire dai propri ruoli quotidiani, permettendo ai partecipanti di percepire l’esperienza come una sospensione dalla vita quotidiana. Le attività sono dispositivi utili per sperimentare il gruppo e se stessi in gruppo, costruendo gli apprendimenti grazie ad un forte coinvolgimento cognitivo ed emotivo. 51 L’OT crea uno spazio di riflessione e dialogo tra i partecipanti per poter ripensare a se stessi e ai propri comportamenti grazie ai feedback che si ricevono dagli altri durante le attività o nel debriefing. Inoltre, il superamento o meno dell’attività rappresenta un feedback immediato e potente, che dà la possibilità ai partecipanti di pensare e agire con modalità relazionali e comportamentali alternative già nell’esercizio successivo. L’OT è un’esperienza di coinvolgimento sia fisico che mentale racchiusa all’interno di una cornice emotiva, dove le azioni agite dalle persone riflettono gli umori individuali e del clima di gruppo. L’OT ricorda l’indispensabilità dell’altro e del gruppo = la presenza altrui permette di riflettere su se stessi, differenziarsi e capire in che misura le proprie azioni sono funzionali o meno al risultato. SU COSA SI BASA L’EFFICACIA DELL’OUTDOOR ̶ Componente esistenziale = l’attenzione è rivolta al presente e le attività richiedono di utilizzare risorse concrete per ottenere obiettivi precisi. I successi/i fallimenti portano a sviluppare un sapere “prassico” che pone solidità agli apprendimenti e produce effettivi cambiamenti nelle strategie comportamentali individuali e di gruppo. Gli individui sono in prima persona responsabili delle proprie azioni e delle conseguenze = l’autonomia del partecipante è il cardine della formazione esperienziale, che è fortemente legata alla realtà. ̶ Utilizzo della metafora = le attività proposte sono formative in quanto legate metaforicamente all’uso di alcune competenze utili nel proprio contesto organizzativo e oggetto degli obiettivi di apprendimento de gruppo. Attraverso le metafore vengono riprodotte le situazioni che le persone vivono quotidianamente sul lavoro. ̶ Gioco, sfida e creatività = i partecipanti si confrontano su un terreno sconosciuto e sono costretti a gestire situazioni di ambiguità = si crea un clima di avventura che è un supporto pedagogico per attivare un atteggiamento euristico e permettere un apprendimento basato sulla scoperta. Grazie al contesto ludico si attiva il sistema agonistico dei partecipanti che li porta a porsi in modo sfidante e dinamico verso gli altri e il compito, traendo apprendimento. Inoltre, l’aspetto ludico abbassa le difese individuali e lascia le persone libere di svelare aspetti di sé che difficilmente emergerebbero. ̶ Coinvolgimento = l’apprendimento avviene mediante un circolo virtuoso che vede alternarsi il proprio coinvolgimento individuale (discussioni, riflessioni) a quello fisico. Inizialmente i partecipanti hanno un alto livello di razionalità ed una scarsa emozionalità, per questo solitamente si inizia con delle attività volte a sovvertire questa relazione. ̶ Importanza dell’osservazione e della riflessione = l’obiettivo è creare spazi di riflessione per pensare a se stessi e alle dinamiche che hanno avuto luogo in un gruppo impegnato nel raggiungere un obiettivo = il partecipante è stimolato ad osservarsi in azione e ad osservare il comportamento altrui, attivando un processo di apprendimento continuo = è il riflettere sugli errori a produrre apprendimento. ̶ Divertimento e sorpresa = i meccanismi che utilizzano il gioco e l’emotività riescono in tempo breve a far apprendere molte cose complesse e difficili. La sorpresa aumenta il coinvolgimento e favorisce un maggior impatto emotivo. ̶ Il gruppo = l’OT ricorda come l’altro ed il gruppo siano sempre indispensabili = la soluzione pratica può essere raggiunta solo tramite il coinvolgimento di tutti e ad un’efficace gestione delle dinamiche relazionali. QUANDO SI USA UNA FORMAZIONE IN OUTDOOR Le persone coinvolte in OT hanno l’occasione di: ̶ Sperimentare il gruppo come occasione di sostegno e gestione degli imprevisti ̶ Avere maggiore consapevolezza di sé stessi rispetto al modo di porsi con gli altri e verso se stessi ̶ Individuare azioni e comportamenti singoli e collettivi utili al miglioramento dei risultati del gruppo ̶ Consolidare un clima di fiducia e collaborazione ̶ Sviluppare le compente di leadership ̶ Migliorare il confronto reciproco e la circolazione delle idee ̶ Migliorare la gestione degli imprevisti e del cambiamento ̶ Migliorare la conoscenza reciproca e sviluppare una presa in carico da parte del gruppo delle difficoltà dei singoli ̶ Sviluppare iniziativa, proattività, autonomia e il proprio senso di autoefficacia ̶ Energizzare il clima di squadra e l’autoefficacia di gruppo ̶ Imparare ad apprendere dalla propria esperienza attraverso la riflessione su quanto accaduto 52 Ci sono numerosi temi, competenze e contenuti che possono essere sollecitati e resi oggetto di apprendimento. Le macro-aree di sviluppo vanno dalla capacità di lavorare bene assieme agli altri alla capacità di lavorare bene con se stessi (sviluppo del Sé). I temi più frequenti sono: lavorare in gruppo; energia, motivazione e autoefficacia di gruppo; integrazione e solidarietà; conflitto e cooperazione; processi decisionali e di comunicazione; visione di insieme; problem solving; creatività e innovazione; flessibilità e cambiamento; relazioni interpersonali; fiducia; gestire le diversità; dinamiche individuali nel gruppo; leadership e membership; autonomia, proattività, autoefficacia individuale; intelligenza emotiva. IL PROGRAMMA IN UN PERCORSO DI OUTDOOR TRAINING La durata media di un programma è di due/tre giorni = i partecipanti assimilano i concetti e li traducono in apprendimenti. Per aumentare la possibilità che gli apprendimenti si manifestino nell’attività quotidiana è necessario un momento di rinforzo in aula, un follow up a distanza di massimo tre mesi. Le giornate di outdoor sono residenziali e la partecipazione è full time. Un programma minimo di tre giornate è composto almeno da 5/6 attività, precedute da una plenaria di apertura e seguite da una di chiusura a fine programma. Durante le giornate si eseguono le attività con una logica didattica che alterna presentazione e svolgimento dell’attività e debriefing. Durante i debriefing il consulente sfrutta l’emotività ed il coinvolgimento delle persone per stimolare i partecipanti a capitalizzare l’esperienza, proponendo similitudini o metafore con la quotidianità lavorativa. Il debriefing si compone di due macro-movimenti logici: 1. Rielaborazione dell’esperienza 2. Razionalizzazione dell’esperienza = deduzione a principi guida e modelli concettuali alla base delle competenze oggetto di sviluppo e predisposizione a sperimentare nuovi modelli di azione I debriefing hanno durata variabile, ma la media è di 2h. Il numero dei partecipanti coinvolti è variabile, ma è importante che ci sia un rapporto di 5/10 persone per ogni consulente. Inoltre, le persone coinvolte possono rappresentare un gruppo reale o persone che non rappresentano un gruppo reale ma che sono coinvolte sulla base di obiettivi di sviluppo personali. IL FOLLOW-UP IN UN PERCORSO DI OUTDOOR TRAINING L’obiettivo del follow up (1gg di durata) è di far riflettere i partecipanti a mente fredda sugli apprendimenti acquisiti durante i programmi OT. Durante l’incontro viene riesaminato tutto ciò che è stato sperimentato durante l’esperienza, confrontandolo con le videoriprese effettuate, in modo da: ̶ Capitalizzare gli apprendimenti avvenuti sul campo ̶ Confrontare gli impegni presi a livello individuale e di gruppo con quanto effettivamente accaduto al ritorno in azienda ̶ Contemplare una riflessione sull’efficacia dei propri stili di comportamento in gruppo ̶ Identificare piani di sviluppo personali e/o di gruppo per superare gli ostacoli o le impasse Inoltre, il follow up permette di approfondire le competenze obiettivo dell’OT, festeggiare i successi ottenuti e, nel caso, rifocalizzare energia e concentrazione sui progressi da compiere. Dopo che i partecipanti esprimono i propri ricordi, sensazioni e riflessioni succedono tre momenti fondamentali: 1. Reintroduzione e approfondimento delle competenze e dei comportamenti oggetto di sviluppo nell’OT 2. Riflessione sul gruppo = visione delle videoregistrazioni per recuperare i comportamenti e fare collegamenti con situazioni aziendali reali + lavoro sugli eventuali nodi a livello di gruppo 3. Chiusura fase gruppale, inizio fase individuale = viene chiesto ai partecipanti di rianalizzare i feedback che si sono scambianti durante l’OT e utilizzare le videoregistrazioni per confrontare i feedback con i propri comportamenti osservati → apertura riflessione individuale e con il gruppo sui cambiamenti individuali avvenuti e percepiti dagli altri e su quelli attesi/desiderati dai singoli e dai colleghi. Il follow up si chiude con una sintesi delle riflessioni emerse e la possibilità di lavorare alla realizzazione di un progetto di sviluppo individuale. 55 ogni attività un momento di discussione e analisi (debrifing); le modalità di partecipazione a tutto il progetto. Quest’ultimo passaggio responsabilizza i partecipanti ad essere i protagonisti attivi del loro apprendimento. Viene consegnato ad ognuno un diario di bordo che verrà utilizzato come strumento di riflessione e dialogo. Infine, il tecnico di outdoor preciserà: che tutte le attività proposte sono fattibili (obiettivi raggiungibili); che le attività sono organizzate in assoluta sicurezza nel rispetto delle regole; che le attività non sono obbligatorie, ma sono proposte che i partecipanti sono liberi o meno di accettare. L’apertura si conclude con un momento di confronto con i partecipanti (domande, sensazioni, pensieri). ̶ Warm-up = attività da fare in apertura del progetto che servono come rompi-ghiaccio., consentendo ai partecipanti di conoscersi, superare l’imbarazzo iniziale e prepararsi psicologicamente e fisicamente alle attività successive. Sono esercizi semplici, ma consento al consulente di farsi un’idea sulla tipologia delle persone coinvolte, sotto il profilo delle possibili dinamiche individuali e di gruppo. ̶ Playing = svolgimento delle attività all’aperto, fortemente esperienziali, che vengono svolte seguendo la logica di progettazione dell’OT. Sono attività insolite, dove al gruppo è chiesto di svolgere compiti spiazzanti con limiti e difficoltà da superare e/o soluzioni creative da individuare. Le attività devono essere metafore credibili. Ogni attività crea una struttura di azione che consente di essere esaminata per osservare le relazioni tra le persone, i ruoli, gli atteggiamenti e capire quali comportamenti son stati vantaggiosi e quali no. Le persone possono partecipare alcune volte come responsabili di un gruppo ed altre volte con differenti ruoli (es. osservatori). La complessità e la durata, così come il debriefing, possono essere variabili. ̶ Debriefing = dopo ogni attività il consulente invita le persone a segnare sul proprio diario le riflessioni sugli aspetti più interessanti emersi durante le attività. Il diario permette di coinvolgere le persone nel proprio processo di apprendimento e di creare le basi per una discussione consapevole di gruppo. Nella prima pagina del diario vi sono delle domande stimolo che aiutano ad esplorare l’esperienza (com’è andata, quale dinamiche interpersonali si sono sviluppate, quali emozioni sono state provate, analogie/differenze con le situazioni lavorative, che apprendimenti si possono trarre). Dopo questa fase individuale ce n’è una di confronto e discussione di gruppo, in cui ognuno espone le proprie riflessioni e vengono analizzati i comportamenti agiti e le conseguenze sui singoli e sul lavoro di gruppo. Il consulente stimola l’autovalutazione e partecipa dando feedback al gruppo e ai singoli e aiuta ad elaborare interpretazioni ed ipotesi su ciò che è accaduto e sulle somiglianze con la vita lavorativa, cercando di stimolare considerazioni generali che possano essere una chiave di lettura applicabile a in contesti diversi. È in questa fase che l’OT diventa una disciplina formativa e rappresenta un’opportunità di sviluppo efficace e funzionale (il consulente deve possedere buone competenze per facilitare con efficacia la discussione). L’attività principale del consulente è osservare e osservarsi, riflettere e porre domande. Una volta che il gruppo avrà esplorato sufficientemente in profondità l’esperienza, il consulente chiede a ognuno di scrivere sul proprio diario i principali feedback ricevuti e la sintesi dei ragionamenti emersi dalla discussione. Chiusura Viene dato spazio alla valutazione ed ai commenti sull’andamento dell’esperienza da parte dei partecipanti. Oltre ad essere un momento di valutazione, rappresenta anche un momento di razionalizzazione e metabolizzazione di quanto appreso. L’oggetto della discussione è la valutazione degli apprendimenti realizzati e sulla loro trasferibilità. Se è previsto un follow up, si chiede ai partecipanti di prendersi del tempo per pensare e darsi dei feedback reciproci che tengano conto di come ci si è percepiti complessivamente durante l’OT, come son cambiati gli atteggiamenti ed i comportamenti, quali sono le aspettative reciproche sul ritorno al lavoro. A livello individuale, ognuno può esser guidato nel progettare un proprio piano d’azione per aumentare la trasferibilità degli apprendimenti. Un piano individuale prevede di rispondere a domande tipo: quali azioni posso fare sul lavoro coerentemente con cosa ho appreso? In quali occasioni è utile provare a sperimentare le azioni che ho deciso? Come faccio ad accorgermi che sto ottenendo risultati? Con chi posso condividere sul lavoro il mio progetto? A livello di gruppo, se il gruppo coinvolto è un gruppo reale, può esser concordata una data in cui convocare una riunione e decidere i necessari cambiamenti sui temi di miglioramento individuati. La chiusura deve prevedere anche un momento di celebrazione dell’esperienza per rinforzare quel che è stato realizzato e consolidare le sensazioni e le idee sperimentate insieme. È utile lasciare qualche ricordo dell’esperienza ai partecipanti (es. fotografie, oggetti costruiti da loro durante le attività). 56 In alcuni casi può esser previsto un incontro di follow up a distanza di tre mesi. RISCHI ED OPPORTUNITÀ DI UNA FORMAZIONE OUTDOOR I principali e specifici rischi di questa metodologia sono: ̶ Quando il fare dell’attività prende il sopravvento sulla riflessione e rielaborazione dell’esperienza ̶ Quando i partecipanti fanno fatica a partecipare alle attività ̶ Quando le attività sono percepite troppo facili o come metafore non credibili delle situazioni reali vissute dai partecipanti sul lavoro Tra i principali vantaggi annoveriamo invece: ̶ L’OT rimette in moto la capacità e la voglia dei partecipanti di apprendere dall’esperienza il pensare e il riflettere insieme, l’osservare e l’osservarsi, il confronto e il ragionamento deduttivo ̶ L’OT allena le persone al gioco delle percezioni reciproche attraverso l’opportunità continua di chiedere e ricevere efficaci e puntuali feedback ̶ L’OT riesce a motivare e coinvolgere le persone poiché le attività sono impegnative, divertenti, stimolanti e si svolgono spesso in un contesto accattivante ̶ L’OT dispone favorevolmente le persone a svelare lati inediti del loro carattere ̶ L’OT fa sì che le emozioni che si provano giocando e appassionandosi a un’attività siano un viatico del processo di apprendimento ALCUNI ESEMPI DI ATTIVITÀ CHE SI UTILIZZANO DURANTE UN PROGETTO DI OUTDOOR TRAINING Attività dedicate alla fase di warm-up L’obiettivo di queste attività è fornire ai partecipanti delle occasioni per avviare un processo di socializzazione piacevole e confortevole, attraverso varie esercitazioni di riscaldamento sia fisico che mentale. ̶ Silent line-up = viene chiesto al gruppo di trovare delle efficaci e efficienti strategie di comunicazioni per disporsi uno a fianco all’altro in ordine crescente di mese e giorno di nascita, senza poter parlare. ̶ La canna magica = viene consegnata al gruppo una canna di legno con l’obiettivo di depositarla dolcemente sul terreno partendo dall’altezza dei fianchi. Dopo aver suddiviso i partecipanti in due gruppi e averli posti uno di fronte all’altro, la canna viene poggiata sugli indici dei partecipanti che dovranno poggiarla a terra senza perdere mai il contatto. Attività di team building (clima, relazione, comunicazione) L’obiettivo è creare un contesto che favorisca il coinvolgimento delle persone e alimenti lo spirito di squadra. Stimolano un’elevata interazione verbale e un contatto fisico + la rottura progressiva di schemi comportamentali rigidi e formali. ̶ La tela del ragno = viene formata una ragnatela con delle corde. Il gruppo deve far passare tutti i membri dalla parte opposta della ragnatela e ritornare utilizzando i buchi a disposizione. Sulla ragnatela c’è un ragno che se svegliato va a chiudere i buchi (i partecipanti non devono mai toccare i fili). ̶ Ponte sul vuoto = i partecipanti son davanti ad una grande scacchiera. Ogni quadrante può contenere una persona. La scacchiera simula lo spazio tra due dirubi collegati da un percorso. Il percorso procede solo in verticale e in orizzontale secondo tre direzioni (Sud-Nord, Est-Ovest, Ovest-Est). L’obiettivo è far passare il maggior numero di persone da un lato all’altro dei dirupi nel minor tempo possibile. Attività sulla fiducia reciproca L’obiettivo è sperimentare situazioni che contengano un discreto contenuto di preoccupazione e di ansia, il cui superamento con successo favorisca un incremento del sentimento di fiducia verso di se e verso il gruppo. Inoltre, l’obiettivo è far riflettere gli individui ed il gruppo sulla qualità del rapporto che si ha con i limiti, i rischi, le sfide e le dinamiche associate. ̶ Il tuffo negli altri = a turno i partecipanti salgono su una piattaforma di almeno un metro e mezzo di altezza e si lasciano cadere nelle braccia dei compagni (il gruppo viene preparato per garantire un’accoglienza sicura). ̶ Di corsa = a turno i partecipanti effettuano bendati il più velocemente possibile un percorso accidentato. I componenti del gruppo devono trovare modalità per supportare la persona coinvolta nel percorso. 57 Attività di team working (problem solving, creatività, decision making) L’obiettivo è creare situazioni di gruppo in cui sperimentare le caratteristiche fondamentali del lavorare insieme per ottenere un obiettivo. Le persone devono imparare a gestire, rafforzando le capacità connesse, le diverse dimensioni che animano un lavoro di gruppo (conflitto e cooperazione, frustrazione per le difficoltà, coordinamento, leadership, responsabilità, comunicazione e decisione di gruppo, dimensione emotiva, …). ̶ La zattera (in piscina) = l’obiettivo è trasferire tutti i componenti del gruppo sul lato opposto della piscina mediante un oggetto galleggiante da costruire in un tempo prestabilito e secondo alcune regole da rispettare. Ai partecipanti viene consegnato del materiale diverso che se assemblato correttamente può diventare una zattera. ̶ Slake Line = l’obiettivo è che tutti percorrano il tratto facendosi aiutare dai colleghi. CAPITOLO 30 - ROLE PLAYING Il termine role play, o gioco di ruolo, descrive un insieme di attività caratterizzate dal coinvolgimento dei partecipanti in situazioni in cui viene esercitata la possibilità di comportarsi “come se”. È una tecnica di drammatizzazione di comportamenti di ruolo espressa attraverso situazioni simili alla realtà. Prevede la presenza di un conduttore, di uno o più attori e di osservatori. Essendo un metodo basato sulla simulazione di una situazione necessita del coinvolgimento attivo dei partecipanti = è un metodo che valorizza l’esperienza dei partecipanti. L’agire drammaticamente una situazione consente di far emergere comportamenti e atteggiamenti che resterebbero in gran parte sommersi. La tecnica può assumere configurazione molteplici: possono essere simulazioni brevi o complesse, può essere una messa in scena reale oppure solo ipotetica. UNA DEFINIZIONE Il role play rientra tra i metodi pedagogici attivi, che presuppongono il coinvolgimento diretto dei soggetti nel processo di apprendimento, attraverso la mobilitazione della loro esperienza unita alla conoscenza diretta delle azioni simulate. Inoltre, evidenzia la relazione dinamica che caratterizza gli scambi tra formatore-discenti e discenti-discenti che la simulazione rende interattiva e interdipendente. Lo scopo è accrescere competenze relazionali. Per la natura artificiale del metodo (simulazione) e la centratura focalizzata sul miglioramento dei comportamenti, il role play è qualificato come una “simulazione comportamentale”. Uno dei vantaggi del role play consiste nella possibilità di affrontare una situazione realistica, potenzialmente complessa, mantenendo la consapevolezza della finzione e la flessibilità e l’apertura determinata da un contesto protetto. Il role play è utile a produrre esperienze che promuovono un apprendimento che parte dal soggetto e ritorna ad esso, sviluppando conoscenze e consapevolezza sui comportamenti propri ed altrui. ROLE PLAY E PSICODRAMMA: ANALOGIE E DIFFERENZE ❖ Elementi comuni 1. Rappresentazione = si tratta di “mettere in scena”. La drammatizzazione, in quanto tecnica terapeutica, favorisce l’emersione di informazioni, stati d’animo, comportamenti e atteggiamenti attraverso la “messa in scena” della spontaneità da parte del soggetto; il role play è una messa in scena dei problemi e delle questioni indagate. 2. Modalità di espressione (teatralità e soggettività dell’interpretazione dell’attore) = si ricorre alla drammatizzazione di una situazione critica in un contesto protetto per far emergere, comprendere e rimuovere le cause di eventi problematici, sul principio che i soggetti coinvolti reagiscano in modo più spontaneo a situazioni veritiere, manifestando aspetti di sé non pienamente consapevoli e abilità latenti 3. Presenza di un conduttore che svolge il ruolo di contenimento delle dinamiche emotive, consentendone l’emersione e curandone l’elaborazione. ❖ Differenze tra le due tecniche Per quanto riguarda il role play: 60 CONDUZIONI DI UTILIZZO Sul piano formativo, l’uso efficace di questa tecnica dipende da numerosi fattori tra cui la creazione di una condizione ambientale favorevole e la capacità di fornire al gruppo le giuste informazioni. Per quanto riguarda il primo aspetto, è necessario allestire un ambiente sociale e psicologico adeguato, raccogliendo informazioni sul contesto, sulle relazioni presenti, sui problemi. Infine, una componente indispensabile da indagare e consolidare prima del role play è la motivazione dei partecipanti a sperimentarsi direttamente nelle tecniche di simulazione. Il secondo aspetto riguarda invece il fornire informazioni utili per dare significato e direzione all’esperienza. In particolare, è necessario spiegare loro le finalità e le modalità di svolgimento del role play, rassicurandoli sugli imprevisti che potrebbero derivare da situazioni di sovraesposizione relazionale (es. panico emotivo per gli attori coinvolti). In sintesi, spetta al conduttore spiegare le ragioni e trasmettere l’entusiasmo. Il role play è un gioco di specchi dove, mettendosi in gioco, le persone imparano sempre qualcosa di sé attraverso l’altro e viceversa. Il formatore deve assicurare il controllo dell’equilibrio tra le dimensioni personali e professionali. Sarebbe meglio evitare di collocare il role play all’inizio di un seminario, ma inserirlo quando il gruppo ha già fatto esperienza di sé come gruppo in formazione e si è creato un buon clima. CONDUZIONE Ci sono 10 fasi che si susseguono nella modalità standard di conduzione del role-play: 1. Presentazione della metodologia = bisogna enfatizzare l’aspetto strumentale e non valutativo, illustrando la valenza didattica e rassicurando i partecipanti sulla riservatezza 2. Tema-problema = il formatore presenta il tema 3. Individuazione degli attori = dovrebbe sempre avvenire su base volontaria, evitando forzature 4. Copione = viene consegnato agli attori, i quali studiano la propria parte in modo autonomo. I restanti membri del gruppo stabiliscono con il conduttore quali aspetti del role play osservare, grazie anche a griglie di osservazione e schede di valutazione 5. Warming up = inizio del gioco tramite tecniche volte a creare un clima caldo e stimolante, che faciliti l’assunzione di ruolo da parte degli attori. Il conduttore deve aiutare i soggetti a immedesimarsi nel ruolo risolvendo eventuali dubbi. Esempi di queste tecniche sono il cluster warming up, brevi sketch, interviste ai futuri attori, scenetta dimostrativa, sedia vuota, bottega magica, buon ricordo. 6. Messa in scena = avviene solitamente secondo il metodo acquario (gli attori recitano, gli altri osservano). Il formatore può intervenire con alcune tecniche che arricchiscono l’esperienza: ̶ Tecnica dell’a parte = il protagonista esprime ciò che prova ̶ Tecnica del doppio = un ego-ausiliare esprime, per conto dell’attore, ciò che questi sta provando ̶ Inversione dei ruoli tra protagonista e antagonista ̶ Proiezione nel futuro = il protagonista agisce immaginando di essere avanti nel tempo in situazioni nuove 7. Commento = al termine della recita, attori e osservatori annotano le osservazioni personali, per aprire la discussione di gruppo. L’attore deve riferire quale fosse l’obiettivo che ha guidato la strategia comunicativa e le sensazioni provate, mentre gli osservatori riferiranno quello che hanno visto. In seguito al commento è anche possibile ripetere le simulazioni. 8. Conclusioni = i commenti vengono portati ad un livello di astrazione generale, sia contestualizzandoli rispetto agli obiettivi didattici, sia sottolineando i comportamenti positivi e negativi e gli effetti che da questi sono derivati. 9. Cooling off = ha la funzione di raffreddare l’esperienza per far uscire gli attori dal gioco, distanziandoli dall’esperienza e ricollocandoli nella realtà. In questo modo ogni eventuale problema non risolto viene affrontato all’interno del setting formativo. 10. Debriefing = spazio di riflessione sul gioco che può essere attuato secondo diverse modalità: ̶ Riflessione e analisi sistematica = i partecipanti vengono sollecitati a un processo sistematico di autoriflessione sull’esperienza ̶ Intensificazione e personalizzazione = i partecipanti vengono sollecitati a rifocalizzare l’attenzione sulle loro esperienze individuali e sui significati sottostanti 61 ̶ Generalizzazione e applicazione = i partecipanti vengono sollecitati a riflettere sulla praticabilità di mutuare l’esperienza individuale in altre esperienze Specie per i professionisti meno esperti, è utile avere una check list che permetta di automonitorare la propria conduzione, tenendo sotto controllo il processo mediante alcune domande. PROGETTAZIONE Il lavoro di progettazione comprende la preparazione delle schede che guidano il formatore nella redazione dei copioni, nella messa in scena del role play e nella gestione delle osservazioni. La scheda progettuale deve contenere, oltre al titolo del role play e gli obiettivi didattici, le caratteristiche fondamentali della simulazione. In particolare: ̶ Obiettivi = elementi di atteggiamento e comportamento che si prevede emergeranno dalla simulazione ̶ Descrizione della vicenda simulata = trama, contesto, istruzioni per gli attori ̶ Caratteristiche e compiti degli attori = denominazioni dei ruoli agiti dagli attori distinguendo tra ruoli principali e secondari + precisazione per ogni ruolo delle caratteristiche personali (età, genere) ai fini dell’efficace simulazione + definizione compiti assegnati ai ruoli a partire dalla quale vengono create le griglie osservative Il foglio di istruzioni è composto da due parti: (1) scenario = informazioni sul contesto comuni a tutti gli attori; (2) informazioni consegnate agli attori che rappresentano il copione (che può avere diverso grado di strutturazione). Ogni copione è un copione a soggetto, diverso per ogni attore. Le schede operative sono consegnate dal conduttore agli osservatori e agli attori con la richiesta di compilare i campi indicati. Nella scheda degli osservatori è richiesto di annotare “ruolo, cosa fa, come lo fa, annotazioni”. Nella scheda di auto-osservazione degli attori invece si annota “ruolo, cosa ho fatto, come l’ho fatto, cosa hanno fatto gli altri autori, come lo hanno fatto”. Il formatore deciderà se comunicare le istruzioni a tutto il gruppo o solo agli attori. ELEMENTI DEL SETTING È necessario un ambiente fisico che consenta una modalità ad acquario = gli attori devono potersi muovere con facilità e gli osservatori devono poter stare seduti ad una distanza consona agli attori in modo che possano sentire chiaramente. Lo spazio deve anche garantire riservatezza e assenza di disturbi e interruzioni. È utile infine che sia un ambiente adattabile e trasformabile per permettere diverse sistemazioni degli oggetti e lo spostamento dei mobili. Gli oggetti a disposizione devono essere senza particolari caratteristiche in modo da poterli utilizzare per rappresentarne altri. L’USO DELLA TELECAMERA L’utilità di registrare il role play sta nella possibilità di rivedere e riascoltare più volte l’intera interpretazione o analizzare dei dettagli a prima vista privi di importanza. Utilizzare i filmati è utile quando è necessario rivedere momenti salienti dell’interazione significativi per gli obiettivi didattici. Uno dei principali svantaggi sull’uso della telecamera è il disagio psicologico che può indurre negli attori, il quale potrebbe portare ad inibire la loro espressività. CAPITOLO 34 - STORYTELLING Le storie ci plasmano, noi stessi siamo storie. Ciascuno racconta se stesso costantemente. Le nostre storie vivono dentro di noi, si manifestano nel flusso disordinato dei nostri pensieri pensati inconsapevolmente. Possono rimanere silenti per lungo tempo e poi emergere tutto a un tratto quando ci troviamo a parlare di noi. Noi siamo le nostre storie, ma le nostre storie sono più di noi perché sono linguaggio inconscio = plasmano i significati e orientano le nostre vite, le storie hanno potere. La formazione come spazio consapevole della crescita, in quanto spazio della crescita, è un terreno ideale per lavorare con le storie. 62 CHE COS’È LO STORYTELLING Storytelling = arte di creare le immagini di una storia, di fronte ad un pubblico specifico, attraverso le parole, la gestualità, l’utilizzo del corpo e la modulazione della voce. Lo storytelling è un’arte, non già un metodo. Le sue origini risalgono alle società orali → la tradizione veniva tramandata attraverso lo storytelling poetico. Con la transizione dalla cultura orale a quella alfabetizzata si ha la prima conferma storico-antropologica di come la poesia e lo storytelling siano dispositivi educativi. Con il passaggio successivo dalla poesia alla prosa si ha la differenziazione tra la Storia (History) e la storia (story): la prima ha il compito di trasmettere ciò che è veramente accaduto agli uomini in passato tramite testimonianze, fonti e documenti; la seconda ha una funzione comunicativa e ricreativa che varia dall’intrattenere, al convincere e all’educare e che si gioca nell’interazione tra autore e fruitore → la precondizione di una storia è un patto di collaborazione narrativa tra autore e possibile lettore, che permette alla narrazione di sottrarsi alle condizioni di verità in cambio di una “trance narrativa” (= coinvolgimento emotivo, suspence, sorprese). Lo storytelling è un’attività collaborativa con una funzione educativa e comunicativa. In riferimento alle basi psicologiche, alla base dello storytelling c’è la capacità costitutiva degli esseri umani del pensiero narrativo = gli individui sono dotati sin dalla nascita di un’attitudine/predisposizione ad organizzare l’esperienza in forma narrativa. Questa attitudine permette di dare senso e forma alla realtà e al proprio agire, relazionando passato, presente e futuro e comunicando agli altri i significati colti nell’esperienza. Il pensiero narrativo è diverso da quello paradigmatico (logico-matematico, suscettibile a verifica, utile per categorizzazioni e concettualizzazioni oggettive), in quanto si occupa della dimensione soggettiva dell’esperienza umana (azioni, emozioni, sensazioni, intenzioni). Ognuno è dotato di pensiero narrativo, in quanto è necessario allo sviluppo individuale e culturale = è la modalità principale con cui dall’infanzia fino all’età adulta si sviluppano la mente e l’identità personale. Fuori dalla narrazione non si possono rendere coscienti i bisogni, i desideri e le paure. Ciò che non viene strutturato in forma narrativa nella memoria viene dimenticato. Nelle storie è presente un paesaggio duplice: lo scenario dell’azione (eventi) e lo scenario della coscienza (vissuti emotivi ed eventi mentali). I due piani sono fortemente intrecciati. Oltre a ciò, nella storia sono presenti eventi inattesi o problemi/conflitti che devono essere ricomposti o riequilibrati. In questo modo il materiale narrativa innesca numerose emozioni. Oltre alla dimensione psicologica c’è quella della coesione culturale = la capacità di narrare si amplifica e potenzia attraverso i processi educativi e didattici e viene stimolata e sviluppata dall’incontro con le grandi narrazioni proprie di ogni tessuto culturale. La narrazione è una pratica sociale che è in grado di garantire socializzazione, acculturazione e la dimensione educativa. CHE COS’È UNA STORIA Storia = collezione di fatti, organizzati e ordinati nel tempo, che suggeriscono una relazione di cause effetto tra alcuni avvenimenti (sequenzialità temporale). Ogni storia è formata da personaggi che interpretano dei ruoli e seguono uno schema formato da una situazione di equilibrio iniziato, seguita da una rottura dell’equilibro che poi verrà ricomposto. Burke rintraccia in una storia cinque elementi costitutivi: attore, azione, scopo, scena, strumento = all’interno di una determinata scena, un attore compie delle azioni per raggiungere uno scopo servendosi di mezzi appropriati = in una buona storia c’è quindi una processualità normale nella quale le cose si svolgono secondo le attese e poi a un certo punto si produce una rottura in questo flusso di normalità (situazione di squilibrio) che fa deviare il corso delle azioni = la storia affronta contemporaneamente la canonicità e l’eccezionalità; inoltre parla di questioni riguardanti le persone = la storia è una modalità specifica per rappresentare l’intenzionalità e l’emotività degli esseri umani. Ogni narrazione si svolge secondo un livello di realtà incerto e aperto ed il linguaggio è metaforico e congiuntivo. L’indeterminatezza e l’incertezza presenti nella storia permettono a chi ascolta la storia di identificarsi con gli attori ed entrare all’interno della trama narrativa e trarre da essa, in modo libero e arbitrario, senso e significato. Ogni storia è poi classificata in un genere. Parlando di genere si intendono due dimensioni: (1) una riguarda la fabula, costituita dal tema della storia, (2) l’altra riguarda lo sjuzhet, il modo di raccontare = una stessa fabula può essere narrata in modi diversi. 65 2. La raccolta di un’ampia varietà di storie = si fa una lista di tutti i possibili stakeholder coinvolgibili e si iniziano le interviste informali e si continua basandosi sul principio della massima varietà. Per aumentare le voci da ascoltare, man mano che si procede con le interviste, si chiede all’intervistato chi altri (oltre a quelli inseriti nella lista) potrebbero essere toccati dal tema (principio dello snowball simpling). Al termine di questa fase si identificano le storie canoniche, che rappresentano la cultura dominante e coerenti con la tradizione, e quelle di opposizione, le storie di controcultura. Tutte vengono raccolte in un report che serve per il workshop. 3. La realizzazione del workshop = ogni workshop dura almeno mezza giornata ed è finalizzato a produrre uno scambio di conoscenze, riflessioni e una molteplicità di significati e punti di vista. Ogni sessione prevede un massimo di 8-10 partecipanti, seduti in cerchio alla presenza di un facilitatore che presidia il processo relazionale, i tempi e gli obiettivi di ogni fase del workshop. Le sessioni previste sono: ̶ Accoglienza, apertura e finalità dell’intervento = il consulente chiarisce le ragioni e le finalità, chiede il permesso di registrare, spiega l’uso delle trascrizioni, consegna a ognuno il report dell’incontro ̶ Presentazioni = ognuno presenta se stesso ̶ Lettura delle storie e preparazione delle risposte = ognuno riceve un testo con due storie con due prospettive contrastanti selezionate tra quelle raccolte. Le storie sono contrapposte perché il presupposto è che l’apprendimento sia innescato dal confronto di differenti prosettive ̶ Racconto delle storie = uno alla volta i partecipanti raccontano di nuove le storie, integrando in esse il proprio punto di vista ed i propri significati (non c’è dialogo, solo ascolto, ognuno annota le proprie impressioni o risposte) ̶ Scambio di esperienze = conversazione dove i partecipanti si scambiano attivamente esperienze ̶ Chiusura dell’incontro = ogni partecipante dice ciò che ha appreso e come pensa di poterlo utilizzare nel proprio lavoro. il facilitatore fa una sintesi dei temi discussi. Al termine di tutti i workshop, la consulenza prepara un report di sintesi (storie, frammenti di conversazioni, flusso di significati emerso). Il report rende le persone che lo leggono consapevoli della ricchezza degli apprendimenti e potrà ispirare e facilitare la progettazione di nuove azioni gestionali o organizzative. UN FORMAT ORIGINALE DI LAVORO FORMATIVO BASATO SULLO STORYTELLING Quaglino e colleghi individuano un nuovo format formativo basato sullo storytelling, partendo dalla considerazione che le persone sono normalmente del tutto identificate con le loro storie. Il primo passaggio cruciale di un lavoro formativo è quindi quello di creare uno spazio di consapevolezza tra le persone e le loro storie, creando una possibilità di disidentificazione in cui sia possibile riprendere distanza dalla trama. Ciò viene fatto attraverso un lavoro di scrittura creativa, inventando una storia. Dopo tale scrittura la storia viene letta al resto dei partecipanti. Il compito del formatore, in questa fase, è aiutare le persone a leggere gli impliciti delle storie, a estrapolare dai racconti i macro-temi significativi. Il secondo passaggio del processo di lavoro formativo consiste nel rielaborare il materiale delle storie, introducendo elementi trasformativi ed evolutivi mediante la scrittura di una nuova storia inventata, che può essere come no il sequel di quella scritta precedentemente, che verrà poi letta al gruppo. Il formatore ha il compito di sottolineare il tema trasformativo della storia e di restituirlo come risorsa presente alle persone. Quindi, la prima storia permette di disidentificarsi dalle storie inconsapevoli, la seconda storia di creare un orientamento evolutivo in termini metaforici. L’intervento formativo ipotizzato da Quaglino, quindi, è incardinato su un processo che può essere replicato nello stesso modo indipendentemente dallo specifico contenuto formativo e prevede quattro fasi: 1. Scrittura = Si richiede ai partecipanti di scrivere una storia attinente al tema dell’incontro formativo. Tale scrittura verrà effettuata prima dell’inizio del workshop. Per facilitare ciò, prima dell’inizio del workshop i consulenti daranno a partecipanti un kit di supporto con lo scopo di stimolare la scrittura che verrà fatta durante gli incontri formativi. Tale kit prevede indicazioni su ciò che si intende per storia, suggerimenti per esprimere la propria creatività e informazioni pratiche su chi e quando far pervenire le storie. A questo punto le persone scrivono le proprie storie. 2. Lettura/ascolto = Nella prima parte del workshop, che solitamente dura due giorni, i partecipanti leggono la propria storia davanti a tutti. La lettura ha il carattere di un rito, che dà la possibilità di vivere un’esperienza di comunicazione profonda in cui chi legge ha messo a tacere i propri meccanismi di controllo e autocensura e 66 chi ascolta ha sospeso il livello di giudizio. Leggendo, la storia amplifica il suo senso e rivela a chi ascolta diversi significati. La potenzialità di apprendimento di questa fase si articola su più livelli: comunicazione profonda, esperienza di autenticità nel leggere la propria storia, assunzione di autorevolezza durante la lettura, scoperta che il linguaggio metaforico è vicino alle proprie corde espressive. 3. Ermeneutica = fase in cui si guidano i partecipanti nella comprensione profonda di quello che è stato presentato nelle loro storie. Il lavoro costituisce il cuore del processo e si può articolare in tre momenti: ̶ I partecipanti, in piccoli gruppi, analizzano le loro storie per individuare i temi rilevanti e ricorrenti, i valori, le convinzioni, le emozioni e i modi di intendere il tema formativo trattato. ̶ I trainer, che hanno letto tutte le storie prima del workshop, danno un feedback ermeneutico che può prevedere: una mappa di tutti i temi significativi emersi, quelli più presenti e quelli trascurati; una mappa dei sentimenti e delle emozioni; spunti di riflessione sui generi narrativi utilizzati e sugli schemi relazionali e affettivi sottostanti; un feedback specifico storia per storia. ̶ Spazio di discussione approfondita su quanto emerso Questa fase genera potenti insight: le persone possono improvvisamente diventare consapevoli del fatto che, nella loro relazione profonda con il tema, sono presenti elementi di cui non avevano piena coscienza e che essi sono strettamente legati al loro modo di interpretare il ruolo. 4. Nuova scrittura e lettura/ascolto = si richiede alle persone di scrivere una seconda storia che tenga conto del lavoro svolto fin qui. La storia quindi deve: ̶ Valorizzare e rinforzare gli elementi di sé percepiti come profondamente propri e utili e funzionali all’interpretazione del proprio ruolo professionale ̶ Aprire uno spazio per includere ed integrare possibili momenti non inclusi, per qualche ragione, nella prima storia, ma ritenuti importanti nella propria crescita personale e per l’efficacia professionale ̶ Essere bella, plausibile, energizzante Al termine del lavoro di scrittura si procede alla lettura delle seconde storie. Anche qui viene valorizzata l’esperienza di lettura e ascolto in chiave rituale, contrastando eventuali tendenze svalutative dei partecipanti. La nuova storia, amplificata dalla lettura pubblica, si inscrive come traccia profonda nella mente delle persone, producendo (anche a livello inconscio) nuove sinapsi, nuovi pensieri e nuovi possibili comportamenti. CAPITOLO 37 - TEATRO Il teatro ha da sempre avuto uno spazio all’interno della formazione in virtù della centralità dell’individuo nel processo formativo. Proprio in virtù di questa centralità e del maggior coinvolgimento è stato utilizzato spesso in contrapposizione ai metodi più “tradizionali”. Il teatro, in quanto metodologia esperienziale è in grado di attivare una partecipazione e un maggiore interesse. L’elemento analogico/metaforico potenzia l’apprendimento, in quanto nel contesto teatrale è possibile agire e sperimentare corsi d’azione irrealizzabili in altri contesti. Detto ciò, è altrettanto vero che in certe circostanze prevalgono l’elemento ludico e il divertimento sulla formazione. Mantenere il giusto equilibrio tra queste componenti è discriminante per il successo formativo del corso e per la credibilità della metodologia. La metodologia teatrale permette all’individuo di riconsiderare il proprio vissuto, le proprie esperienze e la propria storia, ricollocando il tutto in una dimensione nuova che lo porta alla ricerca di uno spazio di vita professionale e personale diverso. Accanto allo sviluppo e al miglioramento delle competenze trasversali, offre la possibilità di un lavoro di ricerca su se stessi e una possibilità di sviluppo della persona che va oltre alle esigenze organizzative, perché permette di sviluppare competenze comportamentali e relazionali o di ripensare i diversi ruoli che si interpretano nella vita. Per queste ragioni teatro e formazione sono legati in modo solido. Quando in questo legame entra in gioco l’organizzazione la questione si fa più complicata: lo spostamento del baricentro dall’individuo all’organizzazione implica sostanziali differenze nel modo in cui i percorsi formativi sono progettati = più ci si avvicina a esigenze organizzative, più ci si allontana dalle persone. Le traiettorie formative sono condizionate dall’equilibrio o dallo sbilanciamento tra il polo dell’organizzazione ed il polo dell’individuo. I metodi teatrali possono essere organizzati e distinti per la modalità di partecipazione, ovvero in metodi nei quali i soggetti sono implicati direttamente (teatro agito) e metodi in cui i partecipanti sono solo, o principalmente, spettatori (teatro osservato). 67 Le stesse tecniche possono inoltre essere distinte in base alle loro origini o alla scuola di provenienza: abbiamo quelle di derivazione psicodrammatica, quelle che hanno origine nel pensiero di Augusto Boal e quelle riconducibili al Teatro d’Impresa. Quest’ultimo è un insieme di metodi basati sull’uso del teatro che ha contaminato la formazione negli ultimi 15 anni e che comprendere una serie di metodi eterogenei per una serie di variabili quali: (1) presenza di attori professionisti, (2) grandezza della popolazione organizzativa, (3) durata dell’esperienza, (4) modalità di partecipazione degli individui. Il teatro di imprese è un’espressione in forma teatrale, rivolta ad una specifica appartenenza o comunità aziendale, e rappresentata allo scopo di formare, animare e promuovere prodotti e migliorare l’organizzazione del lavoro oppure per comunicare e promuovere prodotti e servizi aziendali. Le diverse forme di intervento teatrale affrontano diversi temi, quali: conflitto, comunicazione, leadership, relazioni, stress, qualità della vita lavorativa, problem solving, decision making, genere, sicurezza e prevenzione, mobbing, stalking. Come già detto in precedenza possiamo distinguere le tecniche in: ̶ Teatro osservato = tecniche quasi sempre riconducibili al teatro d’impresa nelle quali i partecipanti assistono ad uno spettacolo messo in scena da attori professionisti ̶ Teatro agito = forme teatrali in cui le persone sono gli attori e sono quindi coinvolte in modo integrato a livello emotivo, cognitivo-razionale e fisico. Il teatro porta benefici che si collocano sia sul versante delle competenze da implementare, sia su quello più introspettivo individuale. Il fare e l’agire creano condizioni di apprendimento uniche e i risvolti formativi sono molteplici, andando ad incidere su: concezione di ruolo, creatività, comunicazione, relazioni nei gruppi di lavoro, creazione di un team, integrazione delle diversità, miglioramento del clima, capacità di ascolto, flessibilità, condivisione degli obiettivi, sperimentazione di diversi corsi di azione e di pensiero, ricerca di soluzioni. Fare teatro rappresenta quindi un’occasione per un percorso di crescita e sviluppo individuale. I TESTI TEATRALI COME CASI STUDIO I casi studio sono una metodologia che rimandano al mondo teatrale, ma ci si distanziano per la mancanza della fase scenica. Nel caso dell’analisi di un brano di un testo teatrale, possono essere affrontate diverse questioni organizzative che sono al centro del testo. Da un punto di vista metodologico, il brano di un testo teatrale viene trattato come un caso o un qualsiasi brano letterario. IL TEATRO FORUM Il teatro forum (TF) è una tecnica messa appunto da Augusto Boal negli anni ’60. Fa parte di una metodologia più apia, il Teatro dell’Oppresso, che comprende ulteriori metodi: teatro immagine, teatro invisibile, teatro giornale. In ambito formativo, il TF è stato il metodo che ha acquisito maggiori spazi. Spesso viene associato al Teatro d’impresa (TdI) e incluso nei suoi strumenti. Il Teatro dell’Oppresso nasce per liberare gli individui dalle oppressioni che caratterizzano la loro vita, dando espressione al disagio e rendendo le persone protagoniste attive del conflitto. Il metodo si pone in una dimensione clinica-sociale, in quanto l’individuo viene posto al centro della scena partendo da un problema concreto che non trova spazio nella quotidianità. I soggetti coinvolti verificano quali strategie possono essere utili per affrontare il problema. Il TF è una tecnica indicata per migliorare e sviluppare competenze relazionali e affrontare questioni come il conflitto e la comunicazione con diversi interlocutori. Il TF prevede la partecipazione di attori, di un pubblico e di un conduttore (unico professionista presente, chiamato Joker o Jolly). Non sono previsti attori professionisti. Gli attori sono i partecipanti al percorso di formazione. In questa forma teatrale, il confine tra spettatore e attore è molto sottile, in quanto la separazione è transitoria perché chi è spettatore può trovarsi dopo poco ad essere attore e viceversa. Chi osserva ha il compito di suggerire ipotesi alternative portandole in scena direttamente in modo concreto. Il conduttore deve gestire i diversi momenti della sessione e stimolare il pubblico a diventare attori. Per far sì che il metodo funzioni, è necessario creare delle condizioni di base = è bene utilizzare degli esercizi/giochi di riscaldamento attraverso cui sciogliere le rigidità fisiche, creare un clima di ascolto e apertura alle idee altrui. Questa fase può durare poche ore o pochi giorni, in base alla durata del progetto. Durante le prime fasi del percorso viene individuato il problema o la questione da rappresentare e successivamente vengono costruiti il copione e le scene dai partecipanti. Una volta che scene e dialoghi sono pronti si inizia la 70 Il modo in cui si affrontano le questioni, lo stile di pensiero e le azioni messe in atto non sono dissimili a quanto si fa solitamente sul posto di lavoro = il valore formativo sta in questa trasposizione: la lettura e l’analisi dei comportamenti lavorativi viene fatta attraverso le azioni dei partecipanti nel setting teatrale. Il metodo utilizza l’elemento metaforico, sfrutta l’analogia tra quanto accade nell’esperienza formativa e ciò che accade nel contesto lavorativo. L’idea di fondo è che la finzione teatrale faciliti l’espressione di comportamenti che in azienda non sono pensabili e che l’analogia permette di recuperare per una futura trasferibilità. I temi che si rendono centrali dipendono dall’obiettivo formativo: la storia viene costruita su questi obiettivi, i passaggi decisivi e i noti vengono utilizzati come momenti in cui riflettere sui temi. Le singole fasi, i momenti particolari e l’esperienza complessiva vengono analizzati dai partecipanti e dai formatori per individuare le analogie con la realtà lavorativa, con la finalità di trasferire gli apprendimenti derivati dalla partecipazione. In questa formula la location e i materiali di scena funzionali per l’azione diventano elementi principali, in quanto devono garantire un livello minimo di credibilità. IL LABORATORIO TEATRALE (LT) Quando si parla di teatro agito è difficile individuare tecniche ben definite, oltre a quelle già presentate. Il Teatro Attivo è una tecnica del TdI che prevede in un primo momento uno spettacolo con attori professionisti e una seconda fase più di laboratorio nella quale gli spettatori entrano in contatto con l’azione teatrale in prima persona = I partecipanti vengono divisi in gruppo, ai quali (dopo esercizi di riscaldamento) vengono fornite indicazioni per la scrittura di un canovaccio avente lo stesso tema dello spettacolo a cui hanno assistito. Ogni gruppo deve creare la propria scena, suddividere i ruoli e presentare agli altri colleghi quanto ideato. ̶ Le finalità del LT possono essere diverse. ̶ L’attività del training può essere finalizzata allo sviluppo di più competenze (comunicazione, parlare in pubblico, gestione dell’imprevisto, leadership e lavoro di gruppo, creatività e proattività). ̶ Le situazioni possono essere eterogenee per tempi e modalità. ̶ Per quanto riguarda la durata, le esperienze formative possono avere la forma di workshop di pochi giorni o di percorsi di lungo periodo con incontri settimanali (i primi condensano l’esperienza, i secondi permettono alle persone di far rielaborare quel che viene fatto tra una seduta e l’altra producendo un apprendimento incrementale). ̶ Il numero ottimale di partecipanti va da 8 a 14 (meglio se pari). Numeri maggiori o minori pongono problemi operativi. Tali numeri: permettono a tutti di sperimentare, evitano lunghi periodi di attesa, facilitano il debriefing (se il numero fosse maggiore bisognerebbe creare dei sottogruppi). ̶ Per quanto riguarda lo spazio, è necessario avere a disposizione una stanza o un locale commisurato al numero di partecipanti e che permetta di muoversi senza dispersioni, preferibilmente senza arredi, ma con la possibilità di usare materiali di scena/accessori forniti dal conduttore. Gli LT presentano esercizi con funzioni diverse: di riscaldamento (permettono di sciogliere le tensioni, creare un contesto empatico e abbassare le difese dei partecipanti), esercizi di conoscenza e apertura di sé, esercizi sulla tematica da sviluppare, esercizi di chiusura del lavoro. È fondamentale lavorare preliminarmente sulla dimensione del gruppo e creare un clima favorevole per la libera espressione. Un buon esercizio per conoscersi e presentarsi agli altri è l’intervista doppia, in cui il gruppo viene diviso in coppie e ogni membro della coppia intervista in privato l’altro. Al termine dell’intervista ognuno presenta al pubblico la persona intervistata. L’improvvisazione è un argomento che appartiene al mondo del teatro e a quello della quotidianità, pertanto è un elemento inscindibile dall’LT. L’improvvisazione è una competenza trasversale, un’abilità non secondaria che può fare la differenza in diverse circostanze e per molte figure professionali, che è: ̶ Reazione, in quanto permette di far fronte alla costante mutevolezza e alla discontinuità delle cose e degli eventi del mondo. ̶ Proazione e sperimentazione = è un modo per esperire nuovi scenari e anticipare gli effetti che la discontinuità produce. ̶ Libertà di azione e di pensiero= è un canale privilegiato per l’espressione individuale, veicolo di motivi interiori. L’improvvisazione teatrale è un laboratorio che favorisce il pensiero creativo, spesso limitato da quello razionale. 71 Gli esercizi di improvvisazione sono molti, multiformi e molto versatili. Possono avere come oggetto la sfera immaginativa, corporea e narrativa ed essere diretti a diverse finalità. Moshavi, nel valutare il potenziale formativo dell’improvvisazione, identifica sei componenti strutturali dell’improvvisazione - le prime 4 sono definite interne perché comuni a qualunque setting di improvvisazione, le ultime 2 sono definite esterne perché specifiche del setting/esercizio: ̶ Yes and = regola del rimando/del rilancio, per cui qualsiasi idea, proposta o informazione, non viene mai rifiutata e diventa la base di lancio di nuovi input. È il fulcro attorno al quale ruota l’improvvisazione. ̶ Ascolto attivo ̶ Pensare senza criteri ̶ Astenersi dal giudicare ̶ Utilizzare la conoscenza contestuale condivisa ̶ Riconoscimento delle linee guida imposte dal pubblico SELF THEATRE (ST) È anche noto come teatro realizzato. Nel ST sono i membri dell’organizzazione a diventare commediografi, scenografi, tecnici e attori dello spettacolo = la realizzazione e la gestione del progetto è a carico dei partecipanti, i quali agiscono sotto la supervisione di un conduttore con la finalità di mettere in scena una rappresentazione per un pubblico organizzativo allargato. È un metodo idoneo ad affrontare questioni come la gestione di progetti, la costruzione del team e il lavoro in gruppo, tutte questioni che bisogna affrontare anche nella quotidianità organizzativa. Il metodo quindi diventa una metafora forte e concreta di una serie di processi operativi nei quali gli attori organizzativi sono solitamente implicati. Il risultato non va quindi valutato dal punto di vista della qualità della produzione artistica, ma da quanto è stato fatto durante le fasi precedenti alla rappresentazione. Il vantaggio è che allestire una rappresentazione ha un effetto motivante in virtù della sfida rappresentata dalla distanza del compito. Il contesto, inoltre, riduce la percezione del rischio di insuccesso, poiché contiene i sentimenti che sono spesso presenti nelle situazioni lavorative nelle quali ci si confronta con delle novità. Il limite del metodo, che lo rende difficilmente applicabile, risiede nella sua durata e nel livello di impegno richiesto. Per poter inscenare una rappresentazione, gli attori non professionisti membri dell’azienda devono partecipare ad un LT nel quale prima sono sottoposti a un training teatrale e, poi, a sessioni per provare le scene del testo. La presenza di un trainer teatrale fa sì che alla costruzione dello spettacolo siano associate altre finalità formative (si arricchiscono le potenzialità del progetto, ma si rende più difficoltosa la gestione e la valutazione). Nel ST, Rago distingue tra: ̶ Teatro d’Azienda a Soggetto Teatrale = la sceneggiatura è quella di una vera opera teatrale ̶ Teatro d’Azienda a Soggetto Libero = i membri dell’organizzazione scrivono il testo. È una variante più complessa, ma collega la partitura teatrale che i partecipanti producono ad un tema organizzativo critico o rilevante. Il prodotto teatrale diventa anche occasione di sintesi nel senso di analisi e riflessione su aspetti della vita organizzativa. In entrambi i casi, la pièce può essere utilizzata per finalità animative, comunicative o celebrative. IL VALORE FORMATIVO DELLE TECNICHE ❖ St. George, Schwager e Canavan Hanno posto il focus sulla capacità di produrre apprendimento da parte dei metodi di matrice teatrale. Questi metodi vengono quindi divisi in tre livelli. Per gli autori il diverso grado formativo dei metodi teatrali dipende dal coinvolgimento (diretto o meno) dei destinatari dell’intervento: più è alto il coinvolgimento, più probabili saranno le ricadute in termini di apprendimento: ̶ Basso impatto formativo = tecniche nelle quali l’individuo ha solo il ruolo di spettatore e per cui risultano meno proficue dal punto di vista formativo. ̶ Moderato impatto formativo = formule teatrali in cui i discenti sono posizionati dalla parte del pubblico, ma hanno la possibilità di interagire con gli attori e di entrare in scena con modalità e gradi eterogenei (es. ponendo domande, interpretando ruoli) ̶ Alto impatto formativo = metodi con le più ampie prospettive formative perché prevedono la presenza sulla scena teatrale, che implica quindi un alto coinvolgimento. 72 Per poter lasciare il segno, il teatro deve coinvolgere in modo profondo le persone = la sperimentazione diretta consente un’immersione più profonda rispetto alle criticità su cui si focalizza il processo di formazione, producendo così un livello di coscienza e consapevolezza più elevato su atteggiamenti e comportamenti. TC GO TM PT FT ST LT TF - + Teatro-osservato Forme ibride Teatro-azione - + Grado di coinvolgimento ❖ Nissley, Taylor e Houden. Sulla base di due dimensioni, il controllo del testo e il controllo del ruolo da parte dei formandi, hanno creato una griglia attraverso cui analizzare le diverse tecniche. ̶ Controllo del ruolo = posizione che si ha nel contesto teatrale. Il destinatario dell’intervento formativo può avere tre possibili ruoli: 1. Spettatore = il controllo è nelle mani dell’organizzazione 2. Attore diretto = l’individuo è diretto da un regista che fornisce indicazioni sul ruolo, ma aumenta comunque la possibilità di controllo del proprio ruolo per l’azione in prima persona 3. Attore autodiretto/attivo = i soggetti hanno il massimo livello di controllo del ruolo, hanno piena facoltà di determinare l’azione ̶ Controllo del testo = ci sono tre possibilità: 1. Il testo può essere scritto da professionisti = il controllo è dell’organizzazione 2. Il testo può essere scritto in collaborazione tra consulenza teatrale e attori organizzativi 3. Il testo può essere scritto dai partecipanti, anche sotto forma di improvvisazione = i formandi hanno il maggior controllo dell’azione teatrale. Incrociando le due dimensioni si giunge ad una griglia: Controllo del ruolo Controllo del testo Spettatore Attore diretto Attore attivo/autodiretto Scritto da altri Maggior controllo organizzativo TM GO TC FT ST* FT Scritto in collaborazione Autoimprovvisato PT LT ST* LT TF Maggior controllo del formando Per gli autori, gli interventi basati sul teatro potenzialmente più formativi sono quelli nei quali gli individui trovano se stessi, il loro ruolo, la propria voce e la propria storia mettendosi in gioco in modo diretto. In generale, osservando le due classificazioni si può dire che: ̶ I metodi TM, TC e GO risultano avere un minor impatto formativo a causa del minor coinvolgimento dei partecipanti (il TC, in particolare, mostra la maggiore criticità sul piano del coinvolgimento perché il testo non è scritto/adattato alla specifica realtà organizzativa) e del minor controllo, in quanto lo sbilanciamento è tutto a favore dell’organizzazione ed il piano individuale è subordinato alle logiche e necessità organizzative. Queste tecniche permettono di aprire una discussione sul proprio contesto lavorativo, ma rischiano di affermarsi, in chi assiste, stereotipi negativi imposti e subiti, inoltre l’evento 75 Macroarea dinamica/processuale ̶ Il tutor come consulente di processo = le attività sono mirate a favorire nel partecipante l’acquisizione e lo sviluppo di conoscenze, abilità, consapevolezze, supportando le capacità di problem solving. Il tutor non è quindi un esperto dei contenuti, ma dei processi che caratterizzano il percorso formativo. Il tutor non dovrà collocarsi né troppo vicino alle dinamiche psicologiche del partecipante (perché non è un counsellor o uno psicoterapeuta), né troppo vicino ai contenuti del corso (per non sovrapporsi al docente). Il tutor può dare un contributo nel far acquisire un’efficace metodologia di apprendimento e aiutare il partecipante a imparare ad imparare. ̶ Il tutor come rappresentante dell’istituzione apprendimento = il tutor rappresenta il percorso di apprendimento da un punto di vista sia operativo che simbolico. Su un piano simbolico-affettivo, i partecipanti trasferiscono al tutor il proprio vissuto emotivo collegato al percorso di apprendimento (transfert). È importante che il tutor sia consapevole dell’attivazione di queste dinamiche, soprattutto quando si è in presenza di un percorso di apprendimento di lunga durata. Il tutor deve quindi garantire da una parte il supporto ed il contenimento ai partecipanti e, dall’altra, il rispetto delle finalità, degli obiettivi, delle regole di comportamento e dei valori del percorso formativo. ̶ Il tutor come presidio dei confini = i processi di apprendimento possono generare cambiamenti nel progetto di vita professionale dei partecipanti. Il tutor, come consulente di processo, può svolgere un ruolo nel riconoscimento, nell’elaborazione e nello spostamento dei confini psicologici e dei confini sociali/istituzionali. Il tutor deve sostenere il partecipante nella gestione dei confini del proprio sé professionale, stando sempre nell’ambito di prospettive realistiche. Infine, il tutor deve aiutare i partecipanti nella gestione delle relazioni tra tutti i ruoli coinvolti nel processo di formazione, cioè supportare i partecipanti a gestire sia la propria posizione rispetto agli altri, sia i diversi piani relazionali che si possono instaurare. IL SECONDO VERTICE DI ANALISI: IL PROCESSO DI TUTORING Il tutor si trova al centro di un crocevia di relazione tra diversi stakeholders (portatori di interesse rispetto al corso di formazione). Il tutor, essendo il centro delle relazioni e dovendo stare a giusta distanza dagli stakeholders, ricopre il ruolo di interfaccia tra l’aula e l’ente erogatore della formazione e svolge una serie di attività con e per i docenti e i partecipanti al corso. Il tutor è chiamato in causa in tutte le fasi del processo di formazione e il suo ruolo si esplica nel: ̶ Contributo alla progettazione del corso (in interdipendenza con i progettisti) ̶ Sostegno all’apprendimento (in interdipendenza con i partecipanti) ̶ Supporto alla didattica (in interdipendenza con i docenti) 76 Anche gli altri attori del progetto di formazione sono coinvolti nella rete di relazioni regolate da contratti, infatti il committente è legato: ̶ Da un contratto di progetto con il coordinatore ̶ Da un contratto di incarico con i docenti, che a loro volta sono legati ai partecipanti con un contratto di formazione In un corso di formazione, il tutor dovrà occuparsi di alcune attività concrete, indipendenti dal contenuto del corso: ❖ Fase 1 - Prima dell’avvio del corso Il tutor partecipa ai momenti, formali e informali, di progettazione dell’intervento: dalla promozione alla selezione dei partecipanti, alla scelta dei docenti, all’individuazione dei materiali didattici. In questa fase si possono distinguere le attività di back office e le attività logistiche. Attività di back office ̶ Predisporre l’elenco dei partecipanti e un documento per loro contenente le informazioni sul luogo ed il programma del corso ̶ Predisporre il registro d’aula ̶ Predisporre i materiali didattici ̶ Recuperare una cartina della città da distribuire ai partecipanti Attività logistiche (cura del setting) ̶ Controllare le aule e gli spazi ̶ Disporre a U le sedie ̶ Verificare i dispositivi ed i sussidiari didattici ❖ Fase 2 - Avvio del corso Il tutor deve fare gli onori di casa. All’incipit del corso deve: ̶ Dare il benvenuto, presentarsi ed esplicitare la propria funzione (compiti e attività che svolge) ̶ Passare la parola ai partecipanti in modo che si presentino ̶ Illustrare i contenuti, le finalità, gli obiettivi, i metodi, i tempi ed i luoghi del percorso formativo ❖ Fase 3 - Durante il corso Il tutor rappresenta la continuità. I suoi compiti si snodano tra attività organizzative e di supervisione degli aspetti logistici e attività legate alla didattica, all’apprendimento e alla cura delle relazioni. Attività organizzative e di supervisione degli aspetti logistici ̶ Verificare il rispetto dei tempi e degli orari ̶ Verificare il funzionamento dei dispositivi e dei sussidi didattici ̶ Raccogliere e distribuire i materiali didattici ̶ Comunicare eventuali cambiamenti d’orario e di luogo Attività legate alla didattica, all’apprendimento e alla cura delle relazioni ̶ Facilitare il confronto e la discussione d’aula ̶ Predisporre, in accordo col docente, esercitazioni, griglie di riflessione, preparazione di casi, role play ̶ Sintetizzare gli apprendimenti usando la lavagna mobile ̶ Predisporre le sintesi ragionate dei contenuti emersi nell’incontro ̶ Monitorare il clima d’aula e la motivazione dei partecipanti ̶ Contenere eventuali ansie dei partecipanti ed essere di supporto ai docenti ❖ Fase 4 - Chiusura del corso In questa fase il tutor: ̶ Deve verificare la corretta e completa compilazione dei registri e dei fogli firma che attestano la frequenza ̶ Può predisporre un documento che contenga la bibliografia utilizzata, per eventuali approfondimenti ̶ Deve occuparsi dello smantellamento fisico e simbolico dello spazio di formazione La chiusura del corso prevede poi la compilazione, da parte dei partecipanti, del Questionario di valutazione di fine corso. Questo momento è solitamente gestito dal tutor (elabora anche i dati da restituire alla committenza e ai partecipanti). Il questionario deve contenere una parte di valutazione con punteggi da attribuire ai singoli corsi, ai docenti e all’organizzazione del percorso. Il tutor può anche proporre la compilazione di una checklist per un’autovalutazione degli apprendimenti e per raccogliere suggerimenti per una più efficace riprogettazione del corso. 77 Le aree di indagine della checklist possono riguardare l’apprendimento, il percorso di formazione, i contenuti, i metodi, i materiali didattici, la progettazione futura. Il ruolo del tutor prosegue poi con la stesura della relazione finale indirizzata al committente e al gruppo di progettazione, la quale conterrà: ̶ I risultati commentati del questionario di valutazione ̶ La sintesi delle check-list per l’autovalutazione degli apprendimenti ̶ Riflessioni personali sul percorso di formazione in cui sono contenute le possibili modifiche da apportare in vista di una riedizione del corso di formazione IL TERZO VERTICE DI ANALISI: LE COMPETENZE DEL TUTOR Tutte le attività che il tutor deve svolgere rimandano a una serie di conoscenze e competenze trasversali e specifiche. Il tutor non deve necessariamente dominare una specifica area formativa e disciplinare. Deve possedere un sapere che fa riferimento al possesso di conoscenze teoriche su diversi temi. Gli ambiti di conoscenza del tutor dovrebbero essere: 1. Teoria dell’organizzazione 2. Teoria del ciclo di vita 3. Teoria della dinamica di gruppo 4. Teoria dell’apprendimento 5. Metodi didattici 6. Processo e modelli formativi Il profilo di competenze del tutor, invece, può essere distinto in 3 macro-aree: ̶ Competenze dell’area didattica ̶ Costruire i materiali didattici ̶ Costruire i quadri sintetici delle lezioni ̶ Preparare le griglie di riflessione e valutazione ̶ Restituire i feedback in forma scritta e orale ̶ Competenze dell’area di apprendimento ̶ Cogliere i diversi stili di apprendimento ̶ Far emergere le difficoltà ed elaborarne il senso ̶ Trovare soluzioni di problemi relativi all’apprendimento ̶ Promuovere l’autonomia dei partecipanti ̶ Cogliere la trasferibilità delle conoscenze nelle organizzazioni ̶ Mantenere alta la motivazione e l’attenzione ̶ Competenze dell’area dinamica di gruppo e relazioni interpersonali = sono competenze complesse che richiedono una sensibilità anche psicologica ed una gestione delle dinamiche che caratterizzano le situazioni di apprendimento ̶ Comunicare ̶ Lavorare in gruppo ̶ Condurre colloqui ̶ Gestire le dinamiche tra docente e partecipante ̶ Avere cura e prendersi cura ̶ Sostenere psicologicamente i partecipanti La formazione del tutor, però, non è né definita né tematizzata in corsi specifici = avviene principalmente sul campo. I suggerimenti per l’articolazione di un percorso formativo destinato a futuri tutor devono presidiare le aree: ̶ Area psicologica = per sviluppare competenze per la gestione delle relazioni individuali e di gruppo ̶ Area pedagogica = per facilitare conoscenze relative al mondo della formazione ̶ Area professionalizzante specifica = per sviluppare competenze tecniche e operative ̶ Area tecnica = per sviluppare conoscenze/competenze informatiche per la gestione dei dati e documenti ̶ Area della progettazione e della valutazione del corso ̶ Area dell’orientamento = per sviluppare competenze di gestione di colloqui e bilancio delle competenze ̶ Area amministrativa = per facilitare la conoscenza degli aspetti burocratici, amministrativi, finanziari.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved