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FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO, Appunti di Diritto Costituzionale

Appunti di Diritto Costituzionale 2

Tipologia: Appunti

2012/2013

Caricato il 13/05/2013

aledegia90
aledegia90 🇮🇹

4.5

(2)

11 documenti

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Scarica FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO e più Appunti in PDF di Diritto Costituzionale solo su Docsity! FORME DI STATO E FORME DI GOVERNO Introduzione alle forme di stato Lo stato è un ente pubblico di carattere generale che determina in autonomia i propri fini (ma nello stato costituzionale, questi in qualche modo etero determinati dalla Costituzione). I suoi elementi costitutivi sono il territorio, la popolazione e la sovranità. La forma di stato indica il rapporto fra governanti e governati, ma anche i fini di carattere generale che lo stato persegue e l’insieme dei principi e dei valori dominanti. Il feudalesimo Nel sistema feudale è ancora assente la nozione di stato, come ente autonomo distinto dai suoi elementi costitutivi: domina invece una nozione patrimoniale-privatistica, in cui il re è semplicemente il proprietario di fondi più estesi di quelli degli altri signori. L’organizzazione e l’amministrazione del territorio non avvengono tramite istituzioni o strutture, ma tramite fiduciari del re, che questo lega a se, oltre che con i rapporti personali, in via sinallagmatica, mediante il legame vassallatico: il re concede al vassallo una porzione di terra , protezione ed immunità , in cambio del giuramento di fedeltà e la prestazione di alcuni servizi (esazione delle tasse, fornitura di soldati, amministrazione della giustizia ecc..). A loro volta i vassalli potevano instaurare vincoli analoghi, rispetto al proprio feudo, con altri soggetti. Come si vede dunque il sistema feudale non è gestito da istituzioni legate da vincoli interorganici, ma da individui legati da vincoli personali in base ad un regime di privilegi e concessioni, con una notevole sovrapposizione del piano privatistico e di quello pubblicistico. Questo reticolo di vincoli personali conduceva invero ad una forte dispersione del potere. Il re è principalmente un capo militare, un amministratore e un giudice supremo (la iurisdictio, cioè il potere di rendere giustizia, è infatti un tratto essenziale). L’attività di produzione normativa è invece quasi assente, né il re aspira a monopolizzare le fonti del diritto: all’epoca infatti vige il principio di personalità del diritto (ogni individuo porta con sé ed applica le norme della sua gente) e la principale fonte del diritto è la consuetudine, a volta solo orale. Il sistema feudale si caratterizza poi per una pluralità di ordinamenti , dotati di grande autonomia anche normativa (cd. iura propria) che si sovrappongono ed intersecano senza un vincolo gerarchico; le uniche autorità supreme sono il Papa e l’Impero, dai quali tutti in qualche modo traggono una legittimazione diretta o indiretta. Col tempo però si registrano dei mutamenti, tutti accomunati dal fatto di muoversi nel senso dell’accentramento del potere. Innanzi tutto il feudo, da rapporto personale diviene un istituto oggettivo, ereditario ed alienabile, con ciò segnandosi un aumento del potere dei signori rispetto al re. Si istituzionalizzano poi, in molti casi, le varie figure di consiglio del re, ai quali ora vengono a volte ammessi anche esponenti delle città, dei comuni e delle corporazioni, oltre che ai vassalli. In secondo luogo viene riscoperto il Corpus Iuris civilis di Giustiniano, dalla cui elaborazione nacque lo ius commune: essa non verrà imposto per autorità né acquisterà primazia gerarchica, ma vista la sua autorevolezza e vocazione universalistica, si porrà come fonte residuale che integrerà tutte le altre. Tuttavia questo contribuì notevolmente a rivalutare il diritto come instrumentum regni, facendo registrare un notevole aumento della produzione normativa da parte dei sovrani. Infine, vengono messe in discussione le autorità universali del Papato e dell’Impero, e i re cominciano a prendere le distanze e a rivendicare la loro autonomia rispetto a queste (rex in regno suo est imperator regni sui di Bartolo). Lo stato assoluto Alla fine del Medioevo, lo stato si afferma come il modello vincente di convivenza organizzato, superando sia quelli di entità minore (Principati, Città libere ecc..) che quelli maggiori (Impero). Lo stato assoluto si caratterizza per l’accentramento del potere in capo al sovrano, che è il risultato di un processo cominciato già nel Basso Medioevo:egli è amministratore, fonte della giustizia (tutti i giudici rendono giustizia in suo nome, ed egli può comunque intervenire come istanza suprema) e soprattutto fonte delle leggi ; in particolare la conquista del monopolio sulle fonti del diritto (in considerazione dell’assoluto rilievo di esso come instrumentum regni), e sulla legislazione processuale, sarà invero un processo faticoso e combattuto, che si scontrerà con le tradizionali autonomie dei numerosi ordinamenti interni. In quanto sovrano, è anche legibus solutus, cioè non vincolato dalle leggi da esso stesso poste; ma non è per questo un tiranno: egli è vincolato dalle leggi di natura, dalle leggi divine, dalle leggi fondamentali del regno e dai “patti giusti e ragionevoli” che questo abbia stipulato soprattutto con i propri sudditi . Con la nuova affermazione del sovrano come legislatore, e la definizione compiuta dello spazio politico nell’ambito circoscritto e ben delimitato dello stato, tramonta il principio di personalità del diritto e si afferma quello di territorialità del diritto; peraltro il suddito si porrà come destinatario diretto delle leggi, anche se la persistenza di numerosi corpi intermedi farà permanere un regime di privilegio e disuguaglianza. Mentre il feudalesimo si basava sul nesso sinallagmatico e paritario, lo stato assoluto si basa sul principio di autorità: dall’investitura nascente dal contratto (resa possibile dal fatto che in un ordinamento plurale non esisteva un soggetto tanto potente da imporsi incondizionatamente a tutti gli altri con la forza) si passa dall’investitura nascente dall’autorità (di un soggetto che per ragioni storiche, economiche, militari è immensamente più potente di tutti gli altri). Ed inoltre, mentre il feudalesimo era un reticolo di rapporti interpersonali, coerenti con una visione patrimoniale privatistica, alla fine del Medioevo si arriva a concepire lo stato come entità astratta, autonoma dalla persona del re; coerentemente con ciò, Zollverein del 1834) guidati dalla Prussia e che escludevano l’Austria, che avrebbero trovato l’approdo con l’unificazione e la Costituzione del secondo impero del 1871. L’assetto confederale svizzero risale al 1291, quando tre cantoni stipularono un trattato di difesa comune e di risoluzione arbitrale dei conflitti; progressivamente aderirono gli altri cantoni, e si passò alla federazione nel 1848, dopo un anno di conflitti religiosi. -Lo stato liberale nasce anche come risultato di una discussione sul potere, sulla sua legittimazione e sulla sua organizzazione. Di particolare rilievo è la teorica di Montesquieu. La sua dottrina della separazione dei poteri è volta a garantire la libertà politica, e costituisce un superamento sia della teoria del governo misto, tipica dell’Ancien Regime, che della mera distribuzione di funzioni fra apparati per ragioni di divisione del lavoro. La teoria del governo misto prevede dei congegni per distribuire il potere fra le varie parti o classi antagoniste che compongono la società, ma ha per obiettivo la garanzia della stabilità; al contrario il governo moderato di Montesqueiu postula la dissociazione del potere sovrano e la sua tripartizione per garantire la libertà dell’individuo, rispetto ai rischi di abusi di un potere compatto ed unitario. In Gran Bretagna, in Francia ed in America le rivoluzioni hanno obiettivi diversi, e risolvono in modo diverso l’alternativa fra continuità e mutamento dell’ordine politico- sociale. Bersaglio della rivoluzione inglese non è l’istituto della monarchia, fortemente radicato nella tradizione, ma il tentativo degli Stuart di introdurre l’assolutismo in un Paese dove da sempre il potere regio è limitato da vincoli storici e giuridici. La prima fase della rivoluzione inglese si conclude con la decapitazione di Carlo I nel 1648, ma la monarchia viene prontamente restaurata dopo la parentesi cromwelliana (mentre in Francia la decapitazione di Luigi XVIII era il segno della volontà di fare tabula rasa del passato, e venne vista come l’atto di nascita della Repubblica); nella seconda fase, quando Giacomo II, nell’intento di ripristinare il cattolicesimo si reca in Francia per organizzare le sue forze, il Parlamento non lo dichiara deposto, ma solo abdicatario per aver abbandonato il Paese, e con questa finzione si consente di offrire il trono vacante a Guglielmo d’Orange e continuare la monarchia. Il Parlamento, uscito vittorioso dalla rivoluzione (che Blackstone ridusse ad una mera parentesi, ininfluente sulla continuità dell’evoluzione plurisecolare dello stato inglese)conservò la monarchia, ma affermò la propria centralità; inoltre ripristinò il Bill of Rights, rafforzando gli antichi diritti e libertà del popolo con tutta una serie di divieti imposti al re. In un contesto istituzionale già di monarchia limitata fin dalla Magna Charta, venivano così poste le basi della moderna monarchia costituzionale. La monarchia costituzionale è un assetto istituzionale in cui il potere di direzione politica è ripartito fra due soggetti, i quali ricavano la propria legittimazione da fonti diverse: la monarchia dalla tradizione nazionale, il parlamento dall’elezione popolare. Si tratta dunque di una forma di governo dualista. Esaminiamo più in particolare la monarchia costituzionale così come uscita dalle rivoluzioni inglesi. L’Act of Settlement del 1701 regolava per la prima volta la successione al trono, segnando così in modo definitivo la preponderanza del Parlamento sulla Corona; confermava il potere di empeachment dei ministri per alto tradimento, attribuendo alla Camera dei Comuni l’accusa e alla Camera dei Lords il giudizio; sanciva l’inamovibilità del giudici during good behaviour, e dunque l’indipendenza del potere giudiziario. Il Parlamento avocò poi a sé, sottraendolo al re, il potere di stabilire la periodicità delle proprie sessioni. I più importanti tratti caratterizzanti nacquero però in via di consuetudine costituzionale. Il principio di irresponsabilità regia (the King can do no wrong) non significò più che il re non poteva violare la legge qualunque atto compisse, ma solo che la violazione di legge non poteva essere considerato atto del re: da ciò nacque l’istituto della controfirma ministeriale sugli atti del re, che se da un lato rendeva responsabili i ministri per gli atti del re, dall’altro limitava ulteriormente il potere di quest’ultimo. Al 1707 risale l’ultimo caso di esercizio del potere di veto da parte del re su una legge approvata dal Parlamento; da lì in poi tale potere non fu più esercitato e, anche se ancora formalmente intestato al re, è nella prassi precluso. Nello stesso periodo nasce anche il principio di insindacabilità degli atti compiuti dal Parlamento al suo interno. Con tutte queste riforme, il Parlamento divenne pieno titolare della funzione legislativa, vero e onnipotente centro dello stato inglese. Come scriveva Dicey, questo ha in teoria il potere di cambiare ogni parte della Costituzione, che è flessibile, ma soggiace in pratica ai limiti della tradizione. La rivoluzione americana nasce come esercizio del diritto di resistenza contro le violazioni del covenant perpetrate dalla madrepatria, ed in particolare del principio no taxation without rapresentation: in ciò è evidente un primo filone, quello contrattualistico, della cultura costituzionale americana. Il secondo filone è quello giusnaturalista: la Dichiarazione di indipendenza sancisce che la vita, la libertà e il perseguimento della felicità sono diritti inalienabili dell’uomo, e che i governi, che traggono i loro poteri dal consenso dei governati, hanno la loro ragione d’esistenza proprio nell’assicurare tali diritti. Le Colonie si trovarono ad organizzare dal nulla una nuova forma di convivenza, senza alcun retaggio del passato con cui fare i conti. Ed è qui che la teoria di Montesquieu fu recepita in modo più fedele, e sulla base del medesimo spirito che aveva animato l’autore francese: evitare le concentrazioni di potere e l’oppressione. Vennero perciò combinate una ripartizione verticale e una ripartizione orizzontale del potere, proprio per scongiurare ogni rischio di concentrazione e d’abuso. Vista l’originaria assenza di un catalogo dei diritti, i Costituenti cercarono proprio tramite la minuziosa definizione di tali assetti la garanzia delle libertà individuali. Sul piano verticale, viene delineato un assetto federale, in cui alla Federazione sono attribuiti solo poteri tassativi (principio dell’enumerazione), e quelli implicitamente necessari all’esercizio di essi; viene poi garantita la partecipazione diretta degli stati membri al procedimento di revisione costituzionale. Sul piano orizzontale, si creano tre istituzioni principali, ad ognuna delle quali viene attribuito in esclusiva un potere, pur con dei pesi e contrappesi che per atti di particolare rilievo richiedono l’intervento congiunto di più poteri. Fra questi pesi e contrappesi i più importanti sono: il potere di veto del Presidente sulle leggi, superabile solo con una riapprovazione di esse da parte di ciascuna camera del Congresso a maggioranza dei 2/3; l’ampia prescrizione della procedura dell’advice and consent del Senato su diversi atti presidenziali; il potere di impeachment del Congresso verso il Presidente (alla Camera dei rappresentanti spetta l’accusa, al Senato il giudizio). Ogni istituzione viene pensata con una propria distinta legittimazione, una propria modalità di designazione e una sua durata del mandato. In particolare, la legittimazione popolare diretta sia del Presidente che del Congresso, fece apparire la forma di governo dualista americana una riedizione della monarchia costituzionale (in cui in particolare la designazione del capo dello stato è fatta dai grandi elettori, anziché dipendere dalla tradizione nazionale e da fattori ereditari). In Francia, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino affermava che ogni società in cui la garanzia dei diritti dell’uomo e la separazione dei poteri non sono assicurati, non ha una costituzione; tuttavia la teoria di Montesquieu per tutta una serie di ragioni non si affermò in modo compiuto. Le rigide divisioni sociali e la sclerotizzazione soffocante e senza sbocchi avevano portato ad una rivoluzione che, al contrario di quella inglese, voleva fare tabula rasa del passato, e con la decapitazione del re intendeva cancellare per sempre la monarchia. Ma la rigidità delle divisioni sociali anche dopo costituì un fattore di endemica instabilità: ogni gruppo che di volta in volta assurgeva a maggioranza in seno all’assemblea sentiva il bisogno di approvare una nuova costituzione, in ragione di una fiducia illimitata in questa come strumento di ingegneria sociale e di consacrazione di una certa visione del mondo. Un altro fattore poi contribuì al mancato consolidamento di un ordine costituzionale: la rivoluzione francese aveva spazzato via la monarchia, ma non aveva minimamente toccato l’assolutismo e la concezione monolitica della sovranità, che semplicemente erano stati trasferiti dal Re al Parlamento, quale organo rappresentativo della Nazione. Attribuita la sovranità assoluta alla Nazione, e, dunque al Parlamento come suo tramite, le costituzioni altro non erano che il prodotto dell’Assemblea, ad essa sempre disponibile: è questo l’assolutismo democratico di Rousseau, che troverà un evidente spia nell’art.28 della Costituzione del 1793 (un popolo ha sempre diritto di modificare la propria Costituzione, e nessuna generazione può assoggettare alle sue leggi le generazioni future), e che porterà alla supremazia della legge (al contrario della supremazia della Costituzione in America). Dopo il Congresso di Vienna viene instaurata una monarchia costituzionale, in cui il sovrano è solo il più alto funzionario dello stato e si trova a dividere il potere di Fu solo con l’introduzione del suffragio universale (maschile) fra la seconda metà dell’800 e il primo ventennio del ‘900 , nonché col riconoscimento della libertà d’associazione, soprattutto nelle forme dei partiti e dei sindacati, che si consumò il passaggio dallo stato liberale a quello democratico, e che la democrazia da ideologia divenne sistema istituzionale. Tali epocali cambiamenti furono il frutto dell’irrompere sulla scena, in seguito alla rivoluzione industriale e all’urbanizzazione, di ingenti masse proletarie, che ormai rappresentavano la maggioranza della popolazione, peraltro dotata di enorme forza, e che richiedevano la partecipazione alla decisioni politiche, lamentando il contrasto fra astratti principi di uguaglianza di tutti i cittadini e suffragio ristretto. La borghesia non poteva più ignorare tali istanze, e preferì allargare il suffragio, per poi magari disinnescare nelle sedi istituzionali le rivendicazioni di coloro che da sempre erano esclusi, piuttosto che rischiare una rivoluzione guidata dal sempre più forte socialismo. L’estensione del suffragio fu da molti guardata con scetticismo ed ostilità, perché rischiava di esaltare gli istinti delle folle mettendo a rischio la convivenza civile. Effettivamente il suffragio universale rappresenterà una prova del fuoco per le istituzioni dello stato liberale: di fronte al fatto che il popolo è il nuovo centro della sfera pubblica, o esse si adegueranno ed evolveranno in senso democratico, oppure crolleranno lasciando il campo al totalitarismo. Oltre all’estensione del suffragio, anche il riconoscimento delle libertà positive , in primis quelle associative (al contrario dello stato liberale che era stato fautore delle libertà negative-abwherrecht) e il superamento del timore per i corpi intermedi contribuisce ad una espansione della sfera pubblica, col riavvicinamento dei cittadini ai pubblici poteri, e all’instaurazione del pluralismo. E’ cosi che i partiti diventano i veri attori della vita politica, in grado di canalizzare il dibattito e dar voce alle ormai plurali istanze sociali ed identitarie. Essi nascono nel Regno Unito come proiezione esterna dei gruppi parlamentari, mentre esattamente l’inverso accade nel resto d’Europa. In una duplice dimensione, sia economico-sociale che politica, vengono poi ad operare i sindacati, la più evidente espressione che, nel pluralismo democratico, ormai i processi decisionali non avvengono più solo a livello delle istituzioni. A tale allargamento delle sedi decisionali contribuisce pure la crisi del mito della legge, la cui generalità ed astrattezza sono considerate foriere di diseguaglianza (esattamente al contrario di quanto assumeva lo stato liberale) e la sfiducia verso la capacità del legislatore di affrontare da solo e risolvere ogni problema. Lo stato democratico porta con sé anche una nuova istanza egualitaria: dopo l’uguaglianza formale ed astratta dello stato liberale, la questione sociale impone di prestare attenzione anche all’uguaglianza sostanziale e concreta, intesa come parità di chances, che lo stato deve garantire col suo (anche ampio) intervento diretto nei rapporti economici e sociali e attraverso la redistribuzione della ricchezza. Si espandono così le situazioni giuridiche riconosciute dallo stato ai singoli, e nascono i diritti sociali: ad esempio la III Repubblica francese intervenne per garantire l’istruzione elementare obbligatoria, laica e gratuita, e l’assistenza agli anziani, agli infermi e ai poveri; o ancora si pensi alla Costituzione di Weimar del 1919. In tale prospettiva, lo stato democratico si connota come welfare state, cioè come stato che interviene rispetto all’economia e ai rapporti sociali (al contrario dello stato minimo liberale), per tutelare i più deboli; peraltro il welfare state conosce una degenerazione nel cosiddetto stato assistenziale (caratterizzato da eccessiva burocrazia, eccessive ed inefficienti spese, atteggiamento passivo e conformistico dei consociati, curati dalla culla alla tomba). Un altro fenomeno rilevante è che, col fatto che ormai la maggior parte degli stati avevano raggiunto l’unificazione, il nazionalismo perde il suo carattere rivendicativo e si trasforma in statualismo, alimentando il dogma della sovranità dello stato. Si rafforza così il monopolio statale sulle fonti del diritto e sui fini della convivenza, l’impenetrabilità giuridica delle frontiere con la netta separazione fra diritto interno e diritto internazionale, la volontà di espansione coloniale e la politica di potenza (usando peraltro la politica estera come strumento per aumentare il consenso interno). La democratizzazione dei processi politici comporta in molti stati, dal punto di vista della forma di governo, un passaggio dalla monarchia costituzionale al parlamentarismo. La Gran Bretagna è il caso più evidente, di come la democratizzazione sia avvenuta senza traumi, allargando la legittimazione e la base di consenso delle istituzioni preesistenti. La trasformazione principale riguarda il Governo, che da mero collegio dei collaboratori del Re, diventa un organo autonomo, presieduto da un Primo Ministro, nominato dal Re ma responsabile davanti alla Camera dei Comuni e legato ad essa da un vincolo fiduciario. L’asse del potere decisionale (quello che Bagehot chiama “the efficient part of Constitution”) viene ad incentrarsi sul binomio Governo-Parlamento, segnando così sia una netta affermazione del legislativo sull’esecutivo, che la definitiva uscita del Re dal circuito effettivo del potere (che da detentore del potere esecutivo diviene sempre più una figura simbolica). Non solo: il passaggio dalla monarchia costituzionale al modello parlamentare comporta il passaggio da una forma di governo dualista (con due organi principali, che hanno fonti di legittimazione diversa: la tradizione nazionale per la Corona, l’elettorato per il Parlamento) ad una forma di governo monista (con due organi principali, il Parlamento e il Governo, che traggono entrambi la propria legittimazione dal corpo elettorale, il primo in modo diretto ed il secondo in modo indiretto). La separazione del Governo dal Re avvenne in via di convenzione costituzionale. Nell’ambito del Consiglio della Corona, composto dai Ministri e dai consiglieri più eminenti, viene creato un collegio più ristretto, detto Cabinet, col compito di adottare le decisioni più importati che poi il Consiglio dovrà ratificare. Poiché nel 1717 il re Giorgio I di Hannover, non conoscendo l’inglese, si assenta dalle sedute del Cabinet, la presidenza viene riconosciuta al membro più eminente di fiducia del re: nasce così la figura del Primo Ministro; l’assenza dalle sedute del Cabinet del re e la sua sostituzione col Primo Ministro viene poi confermata dai successivi sovrani ed assurge a convenzione costituzionale. Ciò non venir meno la necessità che l’atto sia approvato dal Re; ma i Ministri (che ormai fanno squadra col Primo Ministro e lavorano in sinergia con lui), in caso di mancata approvazione, potranno minacciare le dimissioni e il Parlamento potrà a sua volta appoggiare la posizione del Primo Ministro. Il Primo Ministro diventa così la figura di collegamento privilegiato fra Re e Parlamento. Dopo Walpole, uomo di fiducia del re, la nomina verrà sempre a cadere sull’esponente di maggior spicco dei Tories (conservatori) o dei Whigs (liberali), i due gruppi politici presenti alla Camera dei Comuni fin dalla rivoluzione. Tuttavia il passaggio alla forma di governo parlamentare non era ancora consumata, in quanto mancava il tratto caratterizzante di essa: un compiuto rapporto di fiducia fra Governo e Parlamento, col potere del secondo di costringere il primo alla dimissioni. Invece, non solo il Governo non era ancora pienamente autonomo e distinto dal Re, tanto che quest’ultimo poteva revocare anche un Primo Ministro che godesse della fiducia del Parlamento, ma non c’era la responsabilità politica solidale di questo, ma solo quella individuale dei singoli ministri. Il passaggio fu completato da tutta una serie di riforme. Innanzi tutto nel 1832 e nel 1867 viene allargato il suffragio, prima alla media borghesia e poi agli operai delle città. Per il suffragio universale maschile bisognerà attendere però il 1918. Sempre nel 1832 vengono ridisegnati i collegi elettorali (cd. eliminazione dei borghi putridi), che erano in sostanza rimasti immutati fin dal medioevo e che avevano perso ogni proporzionalità fra numero di rappresentanti alla Camera dei Comuni che ognuno poteva designare, e popolazione in esso residente: si era arrivati all’assurdo che tredici villagi della Cornovaglia mandavano in Parlamento più deputati di tutte le città della Gran Bretagna messe insieme. Aumenta poi l’organizzazione dei partiti, che cominciano sempre più a strutturarsi sul piano nazionale, a darsi una ferrea disciplina di gruppo alla Camera dei Comuni e a contendersi i seggi sulla base di programmi politici. Verso la fine dell’800, si arriva dunque alla separazione del Governo dal Re, all’instaurazione del vincolo fiduciario e alla responsabilità collettiva dell’esecutivo verso il Parlamento (la forma di governo parlamentare si instaura dunque prima del riconoscimento del suffragio universale maschile, per il quale bisognerà attendere il 1918). Ma il ruolo del Governo si trasforma ancora: da commissione esecutiva del corpo legislativo, esso viene ad assumere un ruolo sempre più preponderante visto che, grazie al bipartitismo e al sistema elettorale maggioritario, il Primo Ministro è anche il leader del partito di maggioranza, sicché il Parlamento non di rado viene ridotto a sede di ratifica delle decisioni governative (cd. fusione Governo-Parlamento). I congegni costituzionali si modificano di conseguenza: il Re nomina come Primo Ministro il leader del partito che ha la maggioranza ai Comuni; la controfirma degli atti del re da parte dei ministri comporta la responsabilità collegiale del Governo, e priva la Corona di agire senza il consenso di questo; il Re ha il potere di sciogliere le camere, sentito il Primo Ministro. La monarchia continua però a svolgere l’importante funzione di simbolo della continuità della tradizione: il Re e la Camera dei Lords (che ha solo potere di emendamento e di veto sulle leggi, eccetto che sulle leggi di spesa) rappresentano per Relativamente al diverso peso specifico del Congresso e del Presidente, questo dipende dalla personalità del Presidente amplificata dal carattere monocratico dell’organo, dalle varie contingenze storiche, dall’atteggiarsi dei rapporti fra stati membri e Federazione. Dopo la guerra di Secessione e fino ai primi del ‘900, si registra una prevalenza del Congresso: in questa che Wilson chiama la fase del “congressional government” il sistema americano si atteggia quasi a forma di governo parlamentare, con un Presidente che si limita a dare o meno il suo assenso alle leggi federali e ad eseguirle senza margini discrezionali, vista la loro estrema puntualità. Col ‘900 si avvia invece la fase della cosiddetta “presidenza imperiale”, dovuta in primo luogo alla grande importanza che il potere esecutivo veniva a ricoprire, nella politica di potenza inaugurata dagli USA su scala mondiale. E tale tendenza si rafforza con New Deal e l’aumento dell’intervento pubblico nei rapporti economico-sociali. Lo stato totalitario L’irrompere sulla scena delle masse ha costituito una prova del fuoco per lo stato liberale. Dove questo era sufficientemente stabile ed inclusivo (Regno Unito, Francia III Repubblica), tale irruzione è stata ammortizzata, non col mutamento della struttura degli organi e degli istituti, ma semplicemente con un mutamento delle loro funzioni; al contrario, dove questo era troppo rigido, immaturo ed incapace di un’evoluzione, fu travolto dal totalitarismo. Lo stato totalitario si contraddistingue per il fatto che: le libertà politiche e civili, sia individuali che collettive, sono soppresse; la separazione dei poteri è abolita o compromessa, a prescindere dalle ripartizioni formali fra gli organi; il principio di legalità è abolito o compromesso; gli enti locali sono privati di ogni autonomia politica; la formazione dell’indirizzo politico spetta solo ad un partito, dominato da un dittatore o da un’oligarchia di capi; le culture, gli stili di vita e gli apprendimenti collettivi sono uniformati; la coscienza degli individui viene manipolata per consentirne la sottomissione al potere. Lo stato totalitario fu ben più complesso di una dittatura personale, e assai più moderno dello stato assoluto. Secondo Neumann, l’avvento della democrazia conteneva in nuce il rischio del totalitarismo. Le tendenze conformistiche insite nella democrazia, pur senza condurre necessariamente al dominio della massa, diventano infatti assai pericolose quando compaiono sulla scena politica in forma organizzata e guidate da un demagogo. Per Heller, la dittatura dell’epoca delle masse ha bisogno di una legittimazione democratica addirittura più di una democrazia. Per affermarsi essa, usa un mezzo formalmente democratico, il partito, a scopo antidemocratico, screditando le libertà individuali (di opinione, di riunione, d’associazione, di stampa) ed il pluralismo politico; il partito tende poi a proporsi come unico interprete della reale volontà delle masse. Ad esempio, alla vigilia dell’avvento del nazismo, Schmitt sosteneva che nella Repubblica di Weimar il parlamentarismo rappresentativo aveva ceduto il passo alla negoziazione e al compromesso fra partiti, al servizio dei gruppi di interesse economici e sociali; sosteneva anche che la democrazia postulava l’omogeneità nazionale del popolo, per realizzare un’identità fra governati e governanti. Quanto alla concezione dello spazio politico, gli stati totalitari si assomigliano per la tendenza all’espansione illimitata verso l’esterno, seppur con manifestazioni diverse. Il comunismo sovietico coltiva l’obiettivo della rivoluzione mondiale, da realizzarsi attraverso l’azione svolta da ciascuno dei partiti del Komintern all’interno degli stati d’appartenenza, ma senza discutere la sovranità territoriale di questi. Il nazismo intende invece il diritto internazionale come diritto dei popoli, non degli stati, e vuole affermare il dominio della razza ariana sul mondo (ed il Lebensraum), a scapito della sovranità degli stati. In tutti gli stati totalitari viene poi meno la separazione dei poteri, e si realizza la concentrazione dell’indirizzo politico nel partito unico. Una certa dialettica inter- istituzionale si conserva nel fascismo, dove la monarchia mantiene una sua legittimazione autonoma e l’esercizio di talune prerogative, pur non intervenendo nella formazione dell’indirizzo politico attivo (che competeva al Duce e al Gran Consiglio del Fascismo, organo prima del partito e poi dello stato). In molti casi vennero però mantenute istituzioni di facciata. In Italia, rimasero sia la Corona, che il Parlamento (ma la Camera dei deputati fu poi trasformata in Camera dei fasci e delle corporazioni); l’autonomia del giudiziario fu vulnerata (i PM erano subordinati al ministro della giustizia, e i poteri di nomina, promozione e trasferimento dei giudici spettavano al Governo) ma non eliminata. In Russia, il partito rimase un’istituzione a sé stante, distinta dagli organi dello stato, pur avendo su essi una preponderanza decisiva. L’URSS peraltro si era data una struttura federale, e alle diverse Repubbliche spettavano, anche se solo sulla carta, diverse competenze ed anche il diritto di secessione. Al contrario, in Germania il Parlamento venne soppresso e tutte le altre istituzioni, magistratura compresa (si arrivò addirittura a nullificare il principio di legalità penale), vennero sottomesse al partito: in tal modo si scongiurava la tendenza della burocrazia ad agire secondo regole prestabilite estranee alla disciplina del regime. Il dualismo fra stato e partito era indeterminato, in quanto Hitler era a capo di entrambi. La massima differenza fra gli stati autoritari dell’800 e gli stati totalitari del ‘900 si coglie però sul piano delle situazioni soggettive: i primi si limitano a reprimere il dissenso e a restringere le libertà, i secondi invece pretendono il consenso attivo di tutto il popolo e per far ciò manipolano le coscienze individuali avvalendosi dei mezzi di comunicazione di massa e con tecniche di organizzazione. Lo stato totalitario, in altre parole, si spinge più in là di qualunque altro stato autoritario, in quanto si spinge a coercire il foro interno e la libertà di coscienza e pensiero dei cittadini. Lo stato totalitario poi aumenta la dipendenza dei cittadini dal potere, mediante la paura e la creazione di nemici veri o presunti. Lo stato costituzionale Lo stato costituzionale è un’evoluzione dello stato democratico, basato su dei principi fondamentali (dignità, libertà, uguaglianza, separazione dei poteri, principio di legalità) posti ad un livello più alto della legge. Tali principi sono in genere consacrati in una Costituzione scritta, rigida e garantita in via giurisdizionale; nel caso del Regno Unito, la Costituzione non è scritta, ma risulta da una serie di consuetudini e tradizioni, e la tutela dei diritti è garantita dalla rule of law e dai giudici. La cifra caratterizzante dello stato costituzionale è dunque il riconoscimento di un diritto più alto della legge, il che in passato non era neanche concepibile, visti il dogma dell’onnipotenza del legislatore e il mito della legge. Esso non solo limita la sovranità del Parlamento, ma informa in senso democratico sia la vita politica, che l’intera struttura della comunità statale e della società civile: la democrazia non è più intesa in senso solo procedurale, ma anche come un insieme di valori. Lo stato costituzionale spezza la stessa equivalenza ottocentesca fra sovranità e onnipotenza (che aveva fra gli altri portato sia all’assolutismo democratico di Rousseau che al totalitarismo): la sovranità spetta al popolo, ma questo può esercitarlo nei modi stabiliti dalla Costituzione; ed i vincoli posti da questa, sono legittimi, proprio in quanto essa esprime un insieme di valori condivisi da tutti, fra cui vi è anche quello del pluralismo. Fondamentale è il ruolo delle costituzioni. Esse rappresentano il patto fondativo della comunità statale, quella tavola minima dei valori comuni che integra i singoli in una collettività, e costituisce l’alveo all’interno del quale può svolgersi la dialettica politica e sociale, di una comunità irriducibilmente plurale (mentre il totalitarismo si era basato su un bene comune assoluto di cui era interprete unico il capo, la democrazia infatti si basa sul relativismo, e sulla sintesi delle diverse posizioni nelle sedi istituzionali); pongono altresì le basi e i fini della convivenza, ponendosi come guide di lungo corso di un cammino assiologicamente orientato; nello stesso tempo legittimano e limitano il potere. Lo stato costituzionale è caratterizzato da un ribaltamento del rapporto fra stato e costituzione, rispetto a quello che aveva caratterizzato le esperienze precedenti: nello stato liberale e in quello democratico, la costituzione è il prodotto della volontaristica autolimitazione dello stato, che attraverso essa determina i fini della convivenza; nello stato costituzionale invece la costituzione non solo sta sopra allo stato, ma lo precede, stabilendo essa stessa i fini della convivenza e trasformando lo stato in uno strumento per attuarli, peraltro nel rispetto dei principi da essa indicati. Tale ribaltamento è stato tanto più forte, in quelli stati che avevano vissuto l’esperienza totalitaria, e conosciuto il pericolo di un potere senza limiti. I valori che costituiscono quel diritto più alto della legge, che caratterizza lo stato costituzionale, trovano riconoscimento fin dalla Carta dell’ONU del 1945: essa, in una profonda reazione all’esperienza della guerra e del totalitarismo, riconosce come principi supremi la pace, la giustizia, l’uguaglianza, la dignità, la libertà e i diritti solo come strumenti di sviluppo della personalità, ma anche come strumenti partecipativi che rendono possibile un avvicinamento fra cittadini e poteri. Altre annotazioni sulle forme di stato -La prima classificazione delle forme di governo risale ad Aristotele. Il filosofo, nel descrivere quella ideale, crea la dottrina della costituzione mista, che prende il meglio da ognuna e bilancia i conflitti sociali e le diseguaglianze neutralizzandoli politicamente attraverso il ruolo stabilizzante degli strati intermedi. Tale dottrina avrà un grande successo per tutto il Medioevo, e anche in San Tommaso ed in Machiavelli viene esaltata. -Già nel 1200 la Gran Bretagna imbocca un percorso latu sensu costituzionalistico, con l’apposizione di tutta una serie di limiti alla monarchia (monarchia limitata, antesignana di quella costituzionale). In Bracton si ritrova la formula del re sub deo e sub lege (le leggi consuetudinarie) e della sovranità del King in Parliament, cioè di una sovranità spartita (e ad esercizio necessariamente congiunto)fra il re e la curia dei baroni (e poi il Parlamento). Tali idee vengono rafforzate dalla rivoluzione inglese, in cui si accusano gli Stuart di aver violato l’antica costituzione del regno, la quale, anche se non scritta, aveva una forza normativa che trascendeva l’autorità del sovrano. -Già nel 1200 in Svizzera e nel 1500 in Olanda si erano avute esperienze federalistiche. E’ però Althisius, nel 1600, a teorizzare compiutamente il federalismo consociativo, inteso anche come tecnica organizzativa per evitare l’assolutismo centralistico. -Nell’Ancien Regime, alla parziale limitazione del potere si era arrivati attraverso la moltiplicazioni delle fonti del diritto e dei corpi intermedi -Nell’idea di Locke la separazione dei poteri è totale, e ciò costituirà la base per il dualismo americano; in Montesqueu i poteri sono separati, ma ance collegati tra loro con un sistema di pesi e contrappesi. -La rivoluzione francese non smentisce il dogma della sovranità assoluta, e sembra collocare questa più nella folla, che non nelle istituzioni rappresentative delle nazione. -Nello stato liberale, la teoria dei limiti del potere politico è funzionalizzata in primo luogo alla massima espansione delle libertà borghesi e alla protezione di una sfera privata posta al riparo dai pubblici poteri. Le costituzioni liberali rispecchiano una visione della società civile come luogo esclusivo di rapporti di scambio fra proprietari, la funzionalizzazione dell’organizzazione costituzionale alla salvaguardia del mercato, l’uguaglianza formale e la certezza del diritto per garantire la certezza dei traffici con un disinteresse per le diseguaglianze di fatto, il non intervento dello stato nei rapporti economici e sociali, totalmente rimessi alla società civile (per Von Humboldt esso deve astenersi da ogni cura per il benessere positivo dei cittadini, e non compiere alcun passo, eccetto quelli necessari alla sicurezza interna ed esterna), un orizzonte di diritti e libertà delimitato di volta in volta in funzione delle esigenze della borghesia, la prevalenza della forma giuridica paritaria (il contratto) nei rapporti fra soggetti, l’affermazione della dimensione statuale come forma elettiva di aggregazione territoriale. L’egemonia della borghesia sul piano socio-economico si tradusse a livello istituzionale nella primazia dell’assemblea rappresentativa. Visto il suffragio ristretto, essa è espressione esclusiva della borghesia; ciò non crea soverchie tensioni, perché essa è la classe prevalente e politicamente attiva, e le altre non si sono ancora formate compiutamente. In questo contesto di società monoclasse, non servono i partiti (che nasceranno infatti con l’affermarsi delle masse). Nell’assemblea, la comune matrice ideologica e la forte omogeneità politica, consentono l’affermazione del principio della discussione: essa è effettivamente l’organo deliberante dello stato, e le decisioni scaturiscono dal confronto dei vari rappresentati, liberi sia dall’onere di rappresentare chi li ha eletti (in virtù del divieto di mandato imperativo) che dai vincoli di partito, ed in grado in tal modo di rappresentare la nazione tutta. Solo nel Regno Unito persisteva il mandato imperativo. Nello stato liberale il costituzionalismo si risolve e confonde nel parlamentarismo: la garanzia dei diritti e delle libertà ed i limiti del potere sono affidati alla legge, che è prodotta dai rappresentati dei suoi stessi destinatari elettivi (cioè i borghesi). In altre parole, è questa omogeneità fra governanti e (maggior parte dei) governati e l’assenza di compiute forze centrifughe in seno alla società a permettere tale equivalenza. Invero un concetto di legalità formale non riuscì però a veicolare nell’ordinamento i principi ed i valori accolti dalle costituzioni, ed esso prestò il fianco alla torsione giustatualistica Ottocentesca. Di più, portò alla concezioni di costituzione come frutto dell’autolimitazione dello stato, piuttosto che come qualcosa di preesistente ad esso, come sarà invece nello stato costituzionale. -Il costituzionalismo si sviluppa nel solco delle grandi correnti di pensiero dell’individualismo, del contrattualismo e del giusnaturalismo, ed è segnato dalla duplice istanza alla limitazione (per Corwin bisogna opporre alle passioni del governo degli uomini il freno della razionalità delle leggi) ed alla legittimazione del potere. In particolare il contrattualismo porterà l’idea del contratto sociale come fonte di legittimazione del potere, mentre il giusnaturalismo quella che i diritti innati dell’individuo sono il metro di legittimità dell’azione dei pubblici poteri. -Le costituzioni degli stati pluralisti non si limitano a prevedere gli assetti di organizzazione del potere e i congegni di garanzia, ma accolgono un impianto valutativo che supera la distinzione positivistica fra diritto ed etica; l’effettività della loro forza normativa si basa proprio su una concordanza pratica fra valori ed identità molteplici. Il costituzionalismo liberale si era fondato su una base sociale omogenea, e la compattezza delle carte costituzionali, che rifletteva l’orizzonte dello stato monoclasse borghese, aveva trovato corrispondenza in un processo politico incluso entro le maglie della borghesia politicamente attiva. L’impatto delle masse apre uno scenario di tensioni: innanzi tutto il processo politico fuoriesce dai canali predisposti dall’organizzazione costituzionale, nell’alveo dei quali le costituzioni liberali l’avevano circoscritto e preservato, e tende a scardinare e prevaricare i vari congegni regolativi; in secondo luogo, la democratizzazione e l’affermazione di una pluralità di classi ed identità sovraccarica le costituzioni di un compito di unificazione politica (che nello stato liberale non si poneva, perché monoclasse). In particolare, l’imporsi del pluralismo, esige dalle costituzioni che queste non solo lo garantiscano, ma lo organizzino; a ciò, non è più sufficiente una costituzione neutra (come quelle liberali), che si limiti a prevedere assetti e meccanismi del potere, ma è altresì necessario che essa accolga un impianto di valori, che rappresentano la base minima di consenso che tiene insieme le diverse anime della società, orientando assiologicamente il dibattito e stemperando i conflitti più accesi e i rischi di disgregazione. Le costituzioni del pluralismo hanno dunque una fondamentale funzione di contenimento dello scontro e di integrazione, ricercando l’equilibrio fra conflitto e consenso. E’ proprio in questa funzione di pietra angolare della comunità, di condivisione dei valori da essa espressi, che si basa la supremazia della Costituzione, ben più che sulla concezione gerarchica propria dello Stufenbau kelseniano. -Il passaggio dallo stato liberale allo stato costituzionale è il passaggio dallo Staatsrecht al Verfassungsrecht: la costituzione non è più l’espressione ultima della sovranità dello stato che si autolimita, ma lo strumento che riconosce e coordina una pluralità di sfere, private e pubbliche (delle quali lo stato è solo una, senza pretese di esclusività). Ciò ha fatto si anche che siano ormai i giudici, e non il legislatore, a porsi come garanti e custodi di tali valori, proprio perché essi non sono disponibili allo stato e vincolano anch’esso. -La rottura dell’equilibrio interno/esterno pone agli stati costituzionali aperti una sfida: mantenere spazi di decisione e di orientamento riconducibili ad un nucleo indefettibile di sovranità territoriale (a pena della perdita di legittimaizone), dall’altro dare copertura ai trasferimenti di sovranità necessari per affrontare le sfide del mondo globalizzato, garantendo però al contempo una forma di partecipazione democratica a tali processi decisionali. -Introduzione alle forme di governo Mentre la forma di stato attiene i rapporti fra governanti e governati, ma anche l’atteggiarsi dei singoli elementi costitutivi dello stato (territorio, popolo, sovranità)nel corso del tempo, la forma di governo riguarda la struttura di comando posta al vertice dello stato; in altre parole, attiene l’allocazione dei potere e le reciproche relazioni fra gli organi costituzionali (in genere Governo, Parlamento, Capo dello stato) preposti alla formazione dell’indirizzo politico. Ovviamente la discussione della forma di governo ha senso solo dove al vertice dell’ordinamento stiano una pluralità di organi in base ad un principio di separazione dei poteri; non anche ove (come nello stato assoluto o in quello totalitario) la concentrazione del potere in capo ad un solo soggetto escluda ogni dinamica interorganica (ed al massimo possono darsi forme di organizzazione del lavoro e delle funzioni). Nello stato liberal-democratico, la forma di organizzazione tipica del potere era quella parlamentare: era infatti quasi universale l’equazione democrazia-modello Il presidenzialismo (diffuso soprattutto in Russia e Sud America) si caratterizza per l’elezione diretta del Capo dello stato, al quale sono attribuite rilevanti potestà normative e una larga discrezionalità provvedimentale (non solo negli stati d’emergenza) che mettono seriamente in discussione la separazione dei poteri e si prestano ad abusi e derive autocratiche. -La forma di governo parlamentare Quella parlamentare è la più antica forma di governo e nasce nel Regno Unito, attraverso una lenta evoluzione storica, che ha trasformato il Governo da comitato esecutivo a comitato direttivo della maggioranza parlamentare. Nel 1782 il Primo Ministro North, pur godendo della fiducia del Re, si dimette a seguito di una mozione di critica alla politica del Governo da lui guidato, presentata dalla Camera dei Comuni. Da quel giorno, secondo gli storiografici inglesi la Gran Bretagna è governata da un Primo Ministro e da un Consiglio dei ministri responsabili verso il Re, ma soprattutto davanti alla Camera dei Comuni. Anche negli altri paesi europei si verifica un procedimento analogo: le monarchie costituzionali (forme di governo dualiste) sorte dalle rivoluzioni borghesi, si trasformano in regimi parlamentari, a seguito della progressiva esautorazione del re da ruoli di politica attiva e dalla formazione dell’indirizzo politico (e la sua riduzione a pouvoir neutre), a vantaggio del parlamento. Il Governo, che originariamente doveva avere la fiducia sia del Re che del Parlamento, si trova a dipendere esclusivamente dalla maggioranza parlamentare. Le monarchie costituzionali rappresentano un punto di passaggio fra l’assolutismo ed il parlamentarismo; esse sono strutturalmente provvisorie, proprio perché caratterizzate dall’endemico conflitto fra due organi, dei quali uno, quello legittimato democraticamente, è destinato a prevalere. Come sottolineato da Duverger, esse sono il ponte fra il momento in cui il Re governo effettivamente con ministri ai suoi ordini, a quello in cui non governa più, perché il potere passa ad un Governo, autonomo rispetto alla Corona e responsabile solo di fronte al Parlamento; sintomatico di tale passaggio è la nascita dell’istituto della controfirma ministeriale sugli atti del sovrano. Esaminiamo ora i tratti caratteristici della forma di governo parlamentare. Per Elia, si può parlare di governo parlamentare solo quando la titolarità del potere esecutivo è concepita come un’emanazione permanente , tramite il rapporto fiduciario, del parlamento. Il vincolo fiduciario si realizza tramite due istituti: la fiducia e la sfiducia. La fiducia iniziale , che in alcuni casi, come in Germania, assume la forma di una vera e propria elezione del vertice dell’esecutivo, da parte del legislativo, può essere esplicita (come in Germania, Italia, Spagna) o presunta (Inghilterra); può riguardare l’intero collegio (Italia) oppure solo il suo vertice (Germania); per la fiducia può essere prescritta una maggioranza solo relativa (Italia) , una maggioranza assoluta (come in Germania e Spagna, ma in seconda votazione basta la relativa) ovvero una “non maggioranza contraria”(in Svezia il candidato Primo Ministro assume la carica, anche di un governo di minoranza, purché la maggioranza assoluta del parlamento non voti contro). Non sono invero rari i governi di minoranza: a parte il caso della Svezia che lo prevede espressamente (con la “non maggioranza contraria”), la dottrina ha distinto governi di minoranza puri (che devono negoziare continuamente con uno o più partiti esterni alla compagine di governo l’entrata e la permanenza in carica nonché l’approvazione dei disegni di legge) e governi di maggioranza travestiti (la compagine di governo non è maggioritaria, ma è sostenuta da partiti esterni che si sono previamente ed esplicitamente impegnati a sostenerla). Agli antipodi dei governi di minoranza stanno i partiti di grande coalizione, nei quali i due maggiori partiti, normalmente rivali, si associano nella guida del governo, ottenendo dunque larghissime maggioranza (è successo in Germania, ma anche nei gabinetti di guerra inglesi ed israeliani). In ragione dei possibili effetti distorsivi del sistema elettorale, si distingue fra maggioranze costruite (cioè artificialmente rese tali dagli effetti distorsivi del sistema) e maggioranze guadagnate (che effettivamente hanno riscosso il voto della maggioranza della popolazione). In alcuni paesi al governo è data la possibilità di porre la questione di fiducia sul proprio indirizzo politico (formalizzato o meno in uno specifico disegno di legge) davanti al Parlamento: la fiducia si intende confermata se vota a favore la maggioranza relativa (Italia, Spagna) ovvero quella assoluta (Germania) dei parlamentari; se non sono raggiunti tali quorum, il governo deve dimettersi. La sfiducia è il meccanismo costituzionale, di segno opposto a quello della fiducia, con cui il parlamento può far valere in ogni momento durante la legislatura la responsabilità del governo. Quando la sfiducia investe l’intero collegio, esso non “muore” automaticamente, ma viene solo destituito della pienezza dei suoi poteri, e resta in carica, curando l’ordinaria amministrazione, fino all’insediamento del nuovo governo. Negli ordinamenti che l’ammettono, la sfiducia che investe invece un singolo ministro, comporta solo in capo a questo l’obbligo di dimettersi. L’istituto della sfiducia è un elemento indefettibile della forma di governo parlamentare. Tuttavia nel tempo il suo effettivo peso si è assai ridimensionato: sono ormai rarissimi in casi in cui il governo cade a seguito di un voto di sfiducia (crisi parlamentare); nella prassi la caduta dei governi è invece quasi sempre decretata da crisi interne alla coalizione di governo, o comunque da attriti fra compagine di governo e partiti che la appoggiano (crisi extraparlamentari), e che si formalizza con le dimissioni del capo del governo nelle mani del capo dello stato. L’istituto della sfiducia è poi uno di quelli sui quali si è maggiormente appuntata l’attenzione e lo sforzo dei sistemi che hanno inteso razionalizzare la forma di governo parlamentare: infatti la previsione di congegni costituzionali che giuridicizzano i rapporti fra parlamento e governo consente una maggiore stabilità di quest’ultimo, permettendo un miglior rendimento della forma di governo parlamentare. Infatti esistono diversi casi di parlamentarismo razionalizzato (Germania, Spagna) che incardinano la loro stabilità sistemica sull’istituto della sfiducia costruttiva: mentre la normale sfiducia apre le porte a crisi al buio e a vuoti di potere, in quanto si limita a far cadere il governo, la sfiducia costruttiva condiziona la destituzione del governo all’indicazione di una maggioranza alternativa, in tal modo garantendo la continuità istituzionale. Un altro elemento indefettibile della forma di governo parlamentare, oltre al vincolo fiduciario parlamento-governo, è l’istituto dello scioglimento anticipato della o delle camere elettive (o anche di una sola), a seguito del quale si tengono elezioni anticipate. Invero in alcuni paesi come Austria ed Israele le camere hanno anche il potere di auto scioglimento. In genere il potere di scioglimento delle camere , sia a fine legislatura, che anticipatamente, è attribuito formalmente al Capo dello stato. Evidentemente è solo il potere di scioglimento anticipato (sia quando esercitato, che quando minacciato) a costituire un rilevante potere politico-costituzionale; in ordine ad esso si pone una duplice questione: quella della sua funzione istituzionale, e quella della sua effettiva titolarità. Quante alle possibili funzioni , queste sono due. La prima, tradizionale, è quella dello scioglimento-sanzione, per superare i pantani di una maggioranza divisa al suo interno e in frizione con lo stesso governo; anche solo la minaccia dello scioglimento anticipato, basta per richiamare all’ordine i parlamentari, che possono temere di non esser rieletti alle nuove elezioni. La seconda è quello dello scioglimento pro- maggioritario, ove lo scioglimento consegue al comune accordo fra governo e maggioranza, nel momento da essi ritenuto più opportuno (in termini di consenso)per andare al voto e tentare la rielezione. Quanto all’effettiva titolarità del potere, il potere di scioglimento è in Germania un potere sia formalmente che sostanzialmente attribuito al Presidente federale; in Italia è di tipo duumvirale, in quanto formalmente del Presidente della Repubblica, che decide però a seguito di un confronto e sostanzialmente con l’accordo del capo del governo; nel Regno Unito e negli altri paesi a premierato forte, lo scioglimento pro- maggioritario spetta al Premier. Resta da esaminare la figura del Capo dello stato. Negli ordinamenti parlamentari, questo può essere sia un organo monarchico che un organo repubblicano; in quest’ultimo caso, è in genere eletto dal parlamento o da un organo rappresentativo ad hoc, anche se in taluni ordinamenti è eletto direttamente dal popolo (Austria, Irlanda). Pur essendo varie le modalità d’insediamento, tutte le forme parlamentari assegnano al Capo dello stato un ruolo omogeneo: esso è estraneo alla determinazione dell’indirizzo politico (che spetta al continuum maggioritario) e della cd. “politica politicante”, ed è piuttosto un organo di “politica costituzionale”, un potere neutro, che rappresenta l’unità nazionale e garantisce la corretta funzionalità del sistema. Come sottolineato da Mortati, nell’attuale parlamentarismo, il Capo dello stato, pur essendo un organo essenziale, non dispone più di poteri tali da influire sull’indirizzo politico determinato dal gabinetto, che peraltro non è neanche più politicamente monocratico, il Presidente, cui è affidato il potere esecutivo; la legittimazione democratica diretta e distinta sia del Presidente che delle due camere del Congresso, entrambe elette direttamente dal corpo elettorale; la durata predeterminata e fissa del mandato dei due organi e l’assenza degli istituti per farli cessare anzitempo (fiducia, sfiducia, scioglimento anticipato delle camere); un rigoroso sistema dei checks and balances, che contempera la netta separazione dei poteri attraverso la previsione di numerosi casi in cui il Presidente ed il Congresso possono validamente esercitare le proprie prerogative solo l’uno col consenso dell’altro. Operando un confronto di primo acchito fra forma di governo parlamentare e forma di governo presidenziale, si vede che questa manca di tutti gli istituti che caratterizzano la prima (fiducia, sfiducia, scioglimento anticipato delle camere); inoltre è radicalmente diverso il ruolo del Capo dello stato: nella forma di governo parlamentare questo è un potere neutro totalmente estraneo dal circuito di formazione dell’indirizzo politico, nella forma di governo presidenziale questo è invece addirittura il capo dell’esecutivo e il principale artefice dell’indirizzo politico; peraltro l’esecutivo nella forma di governo parlamentare è eletto dal parlamento (elezione di secondo grado) nella forma di governo presidenziale è invece eletto direttamente dal corpo elettorale. La forma di governo presidenziale, nella declinazione americana, ha una forte impronta dualista, che coniuga una netta separazione degli organi e dei poteri, con tutta una rete di interdipendenze, i checks and balances; ciò da sempre rappresenta una scommessa, visto l’alto rischio di conflitti, se non addirittura di paralisi istituzionale, come avvenuto nel 1991, quando il Congresso si rifiutò di approvare il bilancio. Ogni organo è geloso custode delle proprie prerogative, ma anche dotato di attribuzioni tali da condizionare o addirittura vanificare l’esercizio delle funzioni da parte dell’altro. Il Presidente può far valere nei confronti del Congresso (dal quale peraltro riceva anche ampie deleghe legislative) sia potere d’impulso (proposta di bilancio, invio di messaggi come quello annuale sullo stato dell’Unione, presentazione di disegni di legge di attuazione del suo programma da parte di parlamentari di sua fiducia, ma non anche da parte sua) che di freno (su tutti il potere di veto sulle leggi). Il Congresso dal canto suo può non approvare le leggi di attuazione del programma politico presidenziale, non approvare il progetto di bilancio proposto dal Presidente o ridurre i fondi a sua disposizione, ha diversi poteri d’inchiesta rispetto all’Esecutivo (potendo pure sentire i suoi membri sotto giuramento) e all’amministrazione, ha il potere di empeachment, ed il Senato partecipa alla procedura dell’advice and consent rispetto alle nomine federali e alla stipula dei tratti internazionali. Invero questo armamentario di reciproci controlli e limitazioni sulla carta avrebbe potuto paralizzare tutto il sistema istituzionale americano; in concreto non è però stato così, e la principale ragione va ricercata nella struttura dei partiti americani. Quello che a prima vista può sembrare un rigido bipartitismo, è in realtà uno “pseudo- bipartitisme” o “bipartitisme souple”: i partiti infatti non sono radicati in modo omogeneo a livello nazionale, ma piuttosto in modo disomogeneo e su base statale; in altre parole, a livello nazionale sono scarsamente strutturati, e ben lontani dal centralismo e dall’ideologizzazione di quelli europei. Il morbido bipartitismo americano, e la stessa flessibilità e scarsa strutturazione dei partiti, rendono certo faticoso il processo decisionale, ma rendono remota la possibilità di un blocco istituzionale giacché da un lato il Presidente non può contare sull’incondizionata fedeltà del suo partito, ma dall’altro neanche troverà un’opposizione pregiudiziale e di principio nei parlamentari del partito avversario (come avverrebbe invece se i partito fossero rigidamente accentrati, come in Europa). Il Presidente si trova quindi molte volte a costruire la sua coalizione successivamente alle elezioni, e spesso deve addirittura farlo di volta in volta, rispetto a ciascuna iniziativa che intende assumere; la formazione di maggioranze trasversali è peraltro garantita dal fatto che, mancando il rapporto di fiducia, i parlamentari possono votare liberamente senza doversi preoccupare della stabilità dell’Esecutivo. Per Sartori , il sistema americano funziona nonostante la sua costituzione, non grazie ad essa. Si scopre così che il Presidente americano è ben lungi dall’essere il monarca repubblicano che qualcuno pensa ( di sicuro è più debole del premier britannico e del presidente francese), e che l’essenza della sua leadership dipende innanzi tutto dalla negoziazione e dalla capacità di costruire maggioranze contingenti (soprattutto nei frequenti casi dove maggioranza del Congresso e Presidente hanno segno politico opposto). Il paradosso americano è dunque questo: un sistema che nel momento elettorale si presenta come una democrazia d’investitura a forte caratura competitivo maggioritaria diventa, nel momento operativo, un sistema ad alto tasso di negoziazione (non solo fra partiti, ma anche fra centro e periferia). Quello americano è dunque un governo di istituzioni separate che competono per un potere condiviso. Al di fuori degli USA, il regime presidenziale ha funzionato male, e soprattutto nell’America Latina è degenerato nel presidenzialismo: in tale forma di governo il dualismo istituzionale non è equilibrato, ma squilibrato a favore del Presidente, con corrispettivo indebolimento delle prerogative del Parlamento, sicché alla separazione dei poteri subentra una gerarchia di poteri. Nel presidenzialismo, il Presidente è sovente investito di poteri impensabili in America, come quello di sciogliere il Parlamento, di indire referendum, di produrre norme in grado di sostituire la legislazione parlamentare, di dichiarare gli stati d’eccezionali allargando ancor di più le sue prerogative. Peraltro un’ulteriore problema dell’America Latina è la presenza di una pluralità di partiti, scarsamente polarizzati, frammentati e scarsamente strutturati; al contrario del bipartitismo, tale situazione comporta l’impossibilità per i Presidenti di trovare in Parlamento un solido sostegno alle loro politiche, spingendoli così a superare l’ostacolo, pena la paralisi, cercando direttamente nel popolo la legittimazione ed il sostegno. In tal modo il presidenzialismo sudamericano conosce una figura del Presidente che oscilla fra impotenza ed eccesso di potere. Altri problemi del Sudamerica, che hanno contribuito al fallimento del trapianto del modello presidenziale, è che la rigidità polarizzante di questo mal si attaglia alla fase storica di consolidamento democratico. Ciò ha portato all’affermarsi della cosiddetta democrazia delegativa: i Presidenti si presentano come soggetti al di sopra dei partiti e ad essi il popolo affida in toto l’indirizzo politico , mentre il potere giudiziario ed il parlamento sono piuttosto degli ostacoli. -La forma di governo semipresidenziale L’ars combinatoria che è alla base di questa forma di governo ne rende estremamente variabile il concreto atteggiarsi all’interno dei vari ordinamenti che l’adottano. Il modello più eminente di forma di governo semipresidenziale (dopo il precedente della Repubblica di Weimar) è la V Repubblica francese del 1958, soprattutto dopo la modifica del 1962 che ha introdotto l’elezione popolare del Presidente della Repubblica. Essa nasce come un’alternativa al parlamentarismo, preoccupata principalmente di assicurare la stabilità del Governo; i modelli teorici (teorizzati negli anni ’20 e ’30 del ‘900) sono quelli del parlamentarismo dualistico con capo dello stato forte che esprime l’istanza d’unificazione nazionale, e bilancia il frazionismo particolaristico dei partiti. La forma di governo semipresidenziale si caratterizza soprattutto per il potere esecutivo bicefalo/diarchico, in quanto fa capo sia al Capo dello stato che al Primo Ministro. La configurazione della figura del Capo dello stato rappresenta la componente presidenziale : questo è eletto direttamente dal corpo elettorale e dotato di ampi poteri, sia di garanzia che di governo e formazione dell’indirizzo politico. La componente parlamentare è invece rappresentata dal Primo Ministro, nominato dal Capo dello stato, responsabile col suo Governo davanti al Parlamento, e a questo legato dal vincolo fiduciario. Si pone però un paradosso. Il Capo dello stato nella forma di governo semipresidenziale è dotato di rilevantissimi poteri, ma come nelle forme di governo parlamentari è irresponsabile per i propri atti , sia dal punto di vista politico che giuridico, e per molti di essi non è neanche prevista la controfirma ministeriale. Al contrario, ad essere responsabile davanti al Parlamento è il Primo Ministro, che fra i due organi dell’esecutivo è quello che detiene meno poteri. Il paradosso sta in ciò che l’organo che ha maggiori poteri è irresponsabile e insindacabile, quello che ne ha di meno è responsabile anche per questi, fungendo dunque come una sorta di fusibile del sistema (sul quale si scarica la responsabilità): viene perciò violato il principio che la responsabilità sta laddove sta il potere, creandosi un deficit democratico. La forma di governo semipresidenziale presenta due organi elettivi indipendenti (Capo dello stato e Parlamento), dunque non necessariamente dello stesso colore politico, e tre organi preposti alla formazione dell’indirizzo politico (Capo dello stato, Parlamento, Governo). In un quadro così complesso, l’effettiva allocazione del potere decisionale dipenderà di volta in volta dalle contingenze, soprattutto rispetto alla questione della prevalenza del Capo dello stato ovvero del Primo Ministro nella determinazione dell’indirizzo politico. -Come notato da De Vergottini, la tradizionale divisione dei poteri fra Governo e Parlamento sta lasciando il posto ad un nuovo dualismo funzionale: quello tra continuum maggioritario (nel quale rientra il Governo e la maggioranza parlamentare, col primo che assume il ruolo di comitato direttivo della seconda) che è titolare della funzione di indirizzo politico, e opposizione parlamentare, cui è affidata quella funzione di controllo e contrappeso che prima spettava all’intero Parlamento. -Nell’ambito delle forme di governo sono possibili diverse classificazioni. Innanzi tutto quella in assetti a rigida ovvero debole separazione dei poteri. Sono a rigida separazione dei poteri la forma di governo direttoriale e soprattutto quella presidenziale, in quanto non contemplano congegni attraverso cui il Parlamento o l’Esecutivo possano influenzare reciprocamente la propria durata in carica; nella forma di governo parlamentare all’opposto si può addirittura parlare di fusione (o comunque di forte compenetrazione ed interdipendenza)fra legislativo ed esecutivo. In secondo luogo quella fra democrazie immediate e democrazie mediate, basata sul ruolo che assume il corpo elettorale nella scelta dell’Esecutivo. Si è in presenza di una democrazia immediata quando il nome del Capo del Governo emerge direttamente dal risultato elettorale (cd. decisività elettorale); si ha una democrazia mediata quando la titolarità del vertice dell’Esecutivo dipende invece prevalentemente da combinazioni e contrattazioni partitico-parlamentari post elettorali. In terzo luogo, quella fra democrazie maggioritarie e democrazie consensuali. Il modello maggioritario concentra il potere politico nelle mani di una semplice maggioranza (spesso neanche assoluta) mentre quello consensuale tende a dividere il potere; il primo è esclusivo, competitivo ed avversariale, il secondo è inclusivo e segnato da negoziazione e compromesso. Il modello maggioritario comporta il rischio della adversary democracy: essa si realizza quando si verifica una serrata alternanza al potere fra gruppi troppo distanti politicamente, col risultato che le decisioni prese da uno vengono subito smantellate dall’altro una volta al governo; la adversary democray perciò funziona bene sul breve periodo, ma è inefficace ed inefficiente sul lungo periodo. Nel contesto attuale, segnato dal ruolo dei media, dalla leaderizzazione personalistica della vita politica, dalla de ideologizzazione dei partiti, prevalgono modelli di democrazia maggioritaria immediata. -Il principio maggioritario è quel criterio in base al quale si inseriscono nell’ordinamento disposizioni ed istituti elettorali volti a garantire comunque la formazione di una maggioranza, ovvero congegni istituzionali volti a rafforzare la capacità delle maggioranze di determinare ed attuare il proprio indirizzo Tale principio ha per presupposto che tutti gli uomini sono uguali fra loro, e trova migliore attuazione nelle società al loro interno omogenee, dove è più facile che i meno accettino l’affermarsi delle ragioni dei più. Il principio maggioritario consente agli elettori tendenzialmente di scegliere direttamente, di fatto, sia la maggioranza parlamentare che il governo, in tal modo inverando il principio di responsabilità politica (meno diretto laddove il governo nasca da accordi inter partitici post elettorali). -I sistemi politici Per sistema politico si intende l’insieme dei soggetti che rappresentano interessi sociali e si propongono di conquistare o influenzare il potere politico. I criteri maggiormente impiegati per distinguere i sistemi politici sono il numero dei partiti rappresentati in Parlamento e la loro dislocazione. Il numero dei partiti ha la sua importanza. In generale, quando i partiti rappresentati in Parlamento sono solo due, vi è la certezza di dar vita ad una sola maggioranza e ad una sola opposizione. Al contrario, al crescere del numero dei partiti rappresentati, cresce l’incertezza di dar vita ad una maggioranza e il rischio di instabilità governativa; in proposito, diversi autori (Sartori) hanno elaborato la distinzione fra multipartitismo moderato (caratterizzato da non più di 5 partiti significativi, con l’alternanza al governo di due coalizioni opposte) e multipartitismo estremo (caratterizzato da più di 5 partiti rilevanti, un centro stabilmente al governo, una doppia opposizione sia a destra che a sinistra ideologicamente molto marcata, a volte anche rappresentata da partiti antisistema, che possono mettere in dubbio lo stesso assetto democratico). Tale criterio va però necessariamente corretto con quello della loro dislocazione in Parlamento. Ciò conduce alla distinzione fra sistemi bipartitici e bipolari (nei quali pur essendovi una pluralità di partiti, questi si polarizzano in due coalizioni contrapposte, con esiti simili a quelli del bipartitismo, se non per il fatto che la presenza di più partiti in una coalizione rappresenta ipso facto un elemento di potenziale instabilità, assente invece nei sistemi bipartitici)da un lato, e sistemi multipolari dall’altro (nei quali sono presenti diversi partiti, che si polarizzano in una pluralità di coalizioni). Nei sistemi stabilmente bipolari, manca un partito di centro in grado di raccogliere consistenti consensi; nei sistemi multipolari invece (tanto più se vi sono partiti antisistema, che rifiutano di aderire ad altre coalizioni o che comunque sono tacitamente esclusi dal blocco di governo) è assai probabile che vi sia una prevalenza dei partiti della coalizione di centro (e peraltro i sistemi dove il centro è forte sono almeno tripolari), ed un sistema politico bloccato (come la Prima repubblica italiana). Operando una classificazione, ai sistemi bipartitici corrisponde sempre un assetto monista parlamentare (Regno Unito, Canada, Australia); i sistemi bipolari si trovano sia in assetti di tipo monista parlamentare (Italia dal 1994 in poi) che dualista- parlamentare, cioè semipresidenziale (Francia, Austria, Portogallo); anche i sistemi multipolari si trovano sia in assetti monisti-parlamentari (Prima repubblica italiana, Israele, Belgio) che semipresidenziale (Polonia, Romania). I sistemi elettorali Il sistema elettorale (che può essere disciplinato con legge ordinaria ovvero dalla stessa Costituzione, con i rispettivi pro e contro) è il sistema col quale i voti degli elettori vengono convertiti in seggi parlamentari. Esso è per eccellenza lo strumento di espressione della sovranità popolare e di realizzazione della democrazia rappresentativa, ma ha anche un enorme peso nella strutturazione del sistema politico. I due principali tipi di sistema elettorale sono quello maggioritario (a turno unico o a doppia turno) e quello proporzionale. Col maggioritario, che si applica di solito a collegi uninominali, vince il seggio il candidato che ottiene il maggior numero dei voti. Se è richiesta una maggioranza relativa dei voti (metodo plurality), è sufficiente un unico turno per decretare il vincitore; ciò consente l’immediata formazione di una maggioranza e di stabilire un rapporto immediato fra elettore ed eletto (elemento positivo in termini di responsabilità politica) ma penalizza i partiti minori ed il pluralismo. Se invece è richiesta la maggioranza assoluta (metodo majority), si avrà subito un vincitore solo se le liste contrapposte non sono più di due; se sono di più, è molto probabile che nessun candidato al primo turno ottenga la maggioranza assoluta, e dunque è in genere configurato un doppio turno, al quale accedono i due candidati più votati (ballottaggio) ovvero quelli che abbiano superato una certa soglia di consensi (sbarramento); una terza soluzione (Australia) è quella del voto alternativo: ogni elettore deve indicare il proprio ordine di preferenza per i candidati in lizza, in modo che se nessun candidato ottiene la maggioranza assoluta a livello di prime preferenze, si assegna il seggio a chi ha il maggior numero di preferenze computando anche quelle alternative. Tale metodo garantisce più possibilità ai partiti minori, e consente all’elettore “un primo voto col cuore ed un secondo con la testa”. Il maggioritario consente di avere subito, all’indomani delle elezioni, un partito o una coalizione che dispongano di una maggioranza di seggi; esso privilegia esigenze di stabilità, a scapito di quelle della rappresentatività, con una certa distorsione delle preferenze degli elettori, e comporta una tendenza, nei sistemi politici multipartitici, al bipolarismo. Il sistema maggioritario a turno unico (plurality) è adottato ad esempio in USA e in Gran Bretagna, ove vige la regola the first past the post; in tali paesi non è però stato determinante nella strutturazione del sistema politico, in quanto in essi è da sempre affermato il bipartitismo. Più in generale, è adottato nei paesi ad assetto monista parlamentare (tranne gli USA), dove la stabilità è garantita da radicate convenzioni costituzionali e da un bipartitismo “innato”. Col proporzionale, che si applica di solito a collegi plurinominali, i seggi sono assegnati a ciascuna lista in proporzione ai voti che ognuna ha ricevuto. Esso si basa sull’esigenza di tradurre fedelmente le preferenze degli elettori, privilegiando la rappresentatività a scapito dell’esigenza di avere una maggioranza stabile da subito ben delineata, nonché tutelando le minoranze. Al contrario del maggioritario, incentiva tendenzialmente i singoli partiti a correre da soli alle elezioni (posticipando al dopo elezioni eventuali accordi e coalizioni). notevole coesione interna. La stabilità di governo che ne è derivata ha creato un rapporto stretto e diretto fra corpo elettorale e rappresentanti, con un ottimo funzionamento del circuito di responsabilità democratica di questi verso quello. Proprio per ciò si è affermata la dottrina del mandato elettorale: gli elettori scelgono i propri rappresentanti non solo in base alle loro qualità personali , ma anche e soprattutto in base alle politiche che questi si sono impegnati ad attuare, e che, stante la forte stabilità di governo, questi avranno in genere l’astratta possibilità di attuare, per poi tornare al giudizio degli elettori senza alibi. Un tangibile esempio della dottrina del mandato elettorale è rappresentata dalla richiesta del Primo Ministro Baldwin, nel 1923, di sciogliere le camere, motivata con la necessità di ottenere uno specifico mandato popolare per introdurre tariffe doganali di particolare momento, non annunciate in campagna elettorale. La dottrina non fu invece rispettata quando fu in ballo l’ingresso nella CE. Tale dottrina non è comunque assurta a convenzione costituzionale, né va considerata giuridicamente vincolante: gli impegni politici dei partiti con gli elettori acquistano di fatto rilevanza giuridica solo se e quando si traducano in atti legislativi. La sua applicazione rappresenta però una dimensione ideale ed ottimale della forma di governo parlamentare, perché costituisce la “mission” sulla quale saranno chiamati a rispondere gli eletti davanti agli elettori alla fine del mandato. Un altro elemento caratterizzante del sistema britannico più recente è il rafforzamento del Governo a scapito del Parlamento: lo dimostra sia il fatto che è ormai da questo che promano le effettive iniziative e scelte legislative, sia dal fallimento del tentativo di rivitalizzare il controllo del Parlamento su di esso. Ciò si spiega in primo luogo con lo stesso sistema maggioritario: un Governo che gode di una sicura e coesa maggioranza parlamentare avrà la certezza di veder approvato dal Parlamento ogni progetto di legge presentato ai Comuni, senza peraltro aver molto da temere neanche dal controllo di questo sui cordoni della borsa e sull’attività amministrativa. In secondo luogo, il rafforzamento del ruolo del Governo è espressione di una più generale tendenza di tutti i sistemi parlamentari: l’incremento dei poteri normativi di questo e del frequente ricorso alle leggi delegate si spiega con la maggior complessità e tecnicità di talune materie, con l’importanza della dimensione sovranazionale e internazionale, con la necessità degli interventi economico-sociali , rispetto ai quali la capacità deliberativa del Parlamento non è efficace ed efficiente, e si limita ormai ad un ruolo di registrazione delle decisioni prese altrove. Esaminando più dappresso il Governo, esso oscilla fra una dimensione più collegiale/di gabinetto e una di premierato a seconda di vari fattori, quali la compattezza del partito di maggioranza, la personalità del Primo Ministro ecc.. In ogni caso la posizione istituzionale del Premier è di indubbio rilievo: questo si trova al centro di una rete di relazioni con gli altri organi costituzionali (i Comuni e la Corona soprattutto) ed è in ogni caso il leader del partito di maggioranza (quando è vacante la carica di leader del partito che abbia ottenuto la maggioranza, colui che viene nominato Premier è anche poi scelto dal partito come suo leader: in tali casi c’è un margine di discrezionalità della Corona, che può scegliere sia il Primo ministro che il leader della maggioranza). L’unione personale di Primo ministro e capo dell’opposizione è la maggior forza del premier: se il suo partito è coeso (come spesso accade) egli potrà agevolmente dettare l’agendo politica, far approvare dal Parlamento i disegni di leggi e scegliere discrezionalmente i titolari delle cariche apicali. C’è però un rovescio della medaglia: l’unione personale impone al Primo Ministro di mantenere il controllo del partito di cui è leader, perché in caso contrario questo potrà costringerlo alle dimissioni. Il potere di sciogliere le camere, formalmente della Corona, appartiene sostanzialmente al Premier, che potrebbe usarlo in teoria per dissuadere il Parlamento diventato ostile dal rovesciare il governo. Esso però non viene usato nella prassi a tale scopo, perché presenterebbe all’opinione pubblica l’immagine di un partito diviso, e si preferiscono rimpasti di governo, la questione di fiducia o la sottoposizione, da parte del Premier, alla rielezione a leader del partito. Il potere di scioglimento delle camere viene invece usato come efficace arma dalla maggioranza, per scegliere la data elettoralmente ad essa più propizia. La Germania Mentre in Gran Bretagna la stabilità del governo è un frutto della tradizione, negli altri paesi essa è stato un obiettivo da raggiungere faticosamente, fin dal secondo dopoguerra, con tutta una serie di congegni. Fra tutti i sistemi parlamentari, quello tedesco è quello più consapevolmente congegnato e razionalizzato in modo da raggiungere tale risultato. I Costituenti del 1949, preoccupati di evitare gli esiti rovinosi dell’instabilità di Weimar, limitarono il più possibile il ruolo ed i poteri del Presidente della Repubblica e precostituirono rigidi binari per incanalare i rapporti Parlamento-Governo. I congegni di razionalizzazione sono molteplici: il rafforzamento della figura del Cancelliere rispetto al precedente weimariano; l’istituto della sfiducia costruttiva; la previsione tassativa dei casi al ricorrere dei quali il PDR può sciogliere il Bundestag (il Bundesrat è invece la camera rappresentativa dei Lander ed è estranea al circuito di indirizzo politico). Il Cancelliere è eletto dal Bundestag a maggioranza assoluta e poi nominato dal PDR; il PDR, su sua proposta, nomina e revoca i ministri. L’elezione da parte del Parlamento non solo instaura la fiducia, ma mette il Cancelliere in posizione di primazia rispetto ai ministri (che non sono designati dal Parlamento): questi gli sono gerarchicamente subordinati, ed è il Cancelliere a determinare le direttive politiche generali seguendo le quali ogni ministro dirige autonomamente gli affari di sua competenza; inoltre è il Cancelliere che detiene sostanzialmente il potere di revoca dei ministri (anche se formalmente esso appartiene al PDR). Grande portata stabilizzatrice ha l’istituto della sfiducia costruttiva. Il Bundestag può esprimere la sfiducia al Cancelliere solo se contestualmente elegge a maggioranza assoluta un successore, chiedendo poi al PDR di revocare il Cancelliere; il PDR dovrà aderire alla richiesta e nominare il nuovo eletto. Il meccanismo della sfiducia costruttiva obbliga i soggetti ostili al Cancelliere a costituirsi in una maggioranza idonea a formare un nuovo governo e a designare un successore, con ciò escludendo in radice il rischio che si aprano in corso di legislatura crisi di governo dall’esito indeterminato e che si verifichino discontinuità istituzionali. Quanto al potere presidenziale di scioglimento del Bundestag, questo può essere esercitato solo in due casi tassativi. Il primo ricorre se il Bundestag, a seguito di due votazioni infruttuose in cui sia richiesta la maggioranza assoluta, elegga il Cancelliere solo a maggioranza relativa (cioè dei presenti e non dei componenti): in tal caso il PDR può nominare Cancelliere l’eletto ovvero sciogliere il Bundestag. Il secondo ricorre se il Cancelliere, posta una questione di fiducia respinta dal Bundestag, ne proponga lo scioglimento: il PDR può disporlo entro 21 giorni, a meno che il Bundestag non elegga nel frattempo un nuovo Cancelliere. In entrambi i casi il PDR ha dei margini di discrezionalità, che comunque possono sfociare o nello scioglimento o in governo di minoranza. A contribuire al raggiungimento della stabilità di Governo hanno poi contribuito anche ulteriori elementi. Anzi, a guardar bene, essi hanno giocato un ruolo più importante di quello dei congegni costituzionali di razionalizzazione: basti pensare che la mozione di sfiducia costruttiva è stata approvata una sola volta, la questione di fiducia è stata posta 5 volte e lo scioglimento anticipato del Bundestag si è verificato solo 4 volte (tali congegni hanno piuttosto svolto dunque un ruolo di silenzioso deterrente, utile per formare maggioranze chiare e responsabili). Innanzi tutto il sistema elettorale. Questo è di tipo proporzionale, ma presenta diversi correttivi, quali la clausola di sbarramento. In secondo luogo, la configurazione della Repubblica Federale come democrazia protetta (Streitbare demokratie): ex art.21 sono vietati i partiti antisistema, che per finalità o comportamenti intendano danneggiare o eliminare l’ordinamento fondamentale democratico e liberale o minaccino l’esistenza della Repubblica. Il potere di scioglierli è assegnato al Tribunale Costituzionale, che l’ha esercitato nei primi anni (quando ancora gli argini al dibattito politico erano fragili) contro il partito comunista e quello neonazista; quando questi si sono poi riformati non sono stati risciolti, in virtù della fiducia in un sistema democratico ormai saldo, in grado di assorbire autonomamente le spinte antisistema. In terzo luogo, un fattore di razionalizzazione è venuto dall’avvento di un sistema bipolare, a partire dagli anni ’70, in cui i due partiti maggiori (cristiano democratici e social democratici) si alternano al governo di volta in volta affiancati dai due partiti minori (liberali e verdi). Di recente nessuno dei due è però riuscito a prevalere nettamente, è si è pertanto formato un governo di Grosse Koalition. La Francia Al contrario, se l’elezione più recente è stata quella della camera, e da essa è uscita una maggioranza di segno opposto al Presidente, questo difficilmente potrà sciogliere un’Assemblea nazionale di fresca rappresentatività, senza destare sospetti di uso partigiano del potere; e peraltro pur dove lo usasse, non è detto che gli esiti cambierebbero. L’esperienza di Mitterand è molto esplicativa. Egli fu eletto nel 1981 e provvide subito a sciogliere la camera, dove prevaleva l’opposizione, in modo da ottenere una nuova maggioranza a lui affine. Cinque anni dopo però le nuove elezioni della camera premiarono l’opposizione, e per la prima volta si realizzò la cosiddetta “cohabitation” (fra Presidente e Primo Ministro/maggioranza di segno politico opposto). Mitterand gestì l’inedita situazione astenendosi dall’esercitare i poteri che in via di fatto ed “extra Costitutionem” il Presidente aveva acquistato, e si limitò ad esercitare i soli poteri che la Costituzione formale gli attribuisce: nominò come Primo Ministro il leader dell’opposizione e confinò i suoi interventi di politica attiva ai settori che la stessa Costituzione gli riserva, cioè politica estera e difesa (domaine reservè); corrispondentemente i poteri del Governo si riespansero alla latitudine prevista dalla Costituzione formale: questo tornò a determinare e dirigere la politica nazionale, e ad essere responsabile (tramite il rapporto fiduciario) non davanti al Presidente, ma davanti al Parlamento. Il fenomeno della cohabitation (finora verificatosi 3 volte) ha dunque trovato una soluzione in via convenzionale, con un accordo fra le istituzioni. Ma pone in luce un paradosso evidente: le istituzioni funzionano secondo le regole costituzionali solo quando i loro titolari, non potendo farle funzionare altrimenti, aggiustano i comportamenti reciproci alla realtà dei rapporti politici; insomma, la Costituzione è seguita solo in una situazione atipica e particolare, è l’eccezione non la regola. Tracciando una sintesi finale, la Costituzione francese cercava la stabilità del Governo potenziando questo a scapito dell’Assemblea, anziché con congegni di razionalizzazione. Ma il principale, inatteso strumento di razionalizzazione è stata l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che ha strutturato il sistema partitico in senso bipolare. La forma di governo è pienamente semi-presidenziale quando c’è consonanza fra Capo dello stato e maggioranza parlamentare, ed in tal caso il Presidente assomma in sé una quantità di poteri sconosciuta negli altri ordinamenti democratici; inclina invece verso la forma parlamentare in caso di cohabitation, che comporta una redistribuzione dei poteri. Altri sistemi semipresidenziali In certi Paesi l’elezione diretta del Capo dello stato derivò più che altro dall’esigenza di rinvenire un’istanza di riconoscimento simbolico della comunità nazionale (Irlanda, Islanda); in tali casi questo dispone di poteri più che altro rappresentativi/formali. Al contrario, in Paesi come l’Austria e il Portogallo l’elezione diretta del Capo dello stato è concepita come strumento di stabilizzazione della forma di governo parlamentare, ma con risultati meno brillanti rispetto ad altri congegni analoghi. Tipi di stato: introduzione La classificazione dei tipi di stato si basa sulle modalità con cui sono ripartite le funzioni pubbliche fra gli enti territoriali: si distingue fra stato accentrato, stato regionale e stato federale. Nello stato accentrato, gli enti autonomi territoriali (di piccole dimensioni: Province, Comuni e simili) sono titolari solo di funzioni amministrative, individuate e conferite dalla legge e perciò sempre modificabili e revocabili; il principio autonomistico, quando riconosciuto dalla Costituzione, si risolve in una mera garanzia di esistenza degli enti locali (ed in Francia la legge può anche crearne di nuovi), non in una garanzia di funzioni. Negli stati regionali e federali è invece la Costituzione a garantire non solo l’esistenza, ma anche a determinare le competenze dei vari enti territoriali, che sono dunque indisponibili alla legge. Ci sono però anche delle distinzioni: nello stato regionale le regioni sono dotate di potestà amministrative e legislative, ma non anche giurisdizionali, e non partecipano al procedimento di revisione della Costituzione; al contrario nello stato federale (la più compiuta forma di devoluzione locale del potere), gli stati membri godono anche della potestà giurisdizionale e partecipano al procedimento di revisione. Invero nello stato costituzionale la ripartizione delle funzioni pubbliche fra enti territoriali è qualcosa di più di una tecnica di organizzazione del potere: esso è innanzi tutto una forma di separazione verticale dei poteri, che evita derive autoritarie; è uno strumento di democrazia, in quanto avvicina, sul piano locale, governanti e governati, permettendo un maggior coinvolgimento dei singoli nelle vicende della vita pubblica che più dappresso li riguardano; è uno strumento di realizzazione del pluralismo, in quanto consente alle varie collettività locali, che si riconoscono in particolari vincoli identitari, storici, culturali, una più o meno ampia forma di autonomia e tutela del particolarismo; nella logica del welfare state consente più mirati interventi pubblici, attribuendone la competenza ad istituzioni più vicine al territorio. A livello teorico, Bodin e Althusius patrocinano tesi radicalmente opposte. Per Bodin, la sovranità dello stato, assoluta e indivisibile, comporta che questo è l’unico e solo titolare del potere legislativo; il potere sovrano dello stato è incompatibile con la sussistenza, nel suo territorio, di altri centri di produzione normativa. Al contrario per Althusius lo stato è il risultato della progressiva aggregazione, per via contrattuale-pattizia, fra entità associative e comunità via via più ampie (famiglie, corporazioni, città, province, stati, impero); questa volontaria consociazione nello stato non fa venir meno la titolarità di poteri normativi in capo ad alcune comunità di rilievo pubblico (Città e province), le quali possono peraltro sempre recedere. La concezione monista di Bodin fu recepita dalla Rivoluzione francese. L’indivisibilità e l’accentramento del potere fu il caposaldo sulla base del quale poterono affermarsi gli universali diritti di libertà, riconosciuti dallo stato ad ogni cittadino in condizioni di uguaglianza; l’accentramento del potere era in altre parole conditio sine qua non per garantire a tutti i cittadini uguali diritti, a prescindere dalla loro dislocazione territoriale. Ma l’accentramento del potere era dettato anche da altri elementi: la dimensione nazionale della rappresentanza politica, in uno stato finalmente unitario che aveva superato i particolarismi feudali, cetuali e corporativi; l’idea della legge come espressione della volontà generale; la necessità di un’amministrazione compatta e organizzata in senso gerarchico, fortemente accentrata in modo da arrivare capillarmente in ogni parte dello stato. La concezione pluralista di Althusius fu invece accolta in America, e si tradurrà nell’attribuzione agli stati membri dell’Unione di poteri normativi garantiti dalla stessa Costituzione peraltro in modo molto forte, con la tecnica dell’enumerazione tassativa dei poteri federali. Anzi, la concezione di Althusius fu portata ad un più alto livello, nel passaggio dalla Confederazione all’Unione: nella sua teoria lo stato è una confederazione di città e province, mentre la Costituzione americana fonda una Federazione che si compone non solo di stati ma anche di cittadini (mentre la Confederazione era in sostanza un ente di diritto internazionale che aveva per soggetti solo gli stati). Si poneva peraltro il problema di stabilire se la sovranità risiedesse negli stati membri o nella Federazione. Secondo la prevalente ricostruzione, la Costituzione americana ha aggirato il dilemma attribuendo la sovranità ad un terzo soggetto, il popolo degli Stati Uniti: sia gli stati membri che la Federazione possono esercitare i soli poteri loro delegati dal popolo, salvo che nel campo delle relazioni internazionali. La forma pluralistica di articolazione territoriale del potere presentava un vantaggio: la separazione verticale del potere, sommandosi a quella orizzontale, garantiva ancor di più i cittadini dal rischio di abusi dei pubblici poteri. Ma presentava anche uno svantaggio: i cittadini della Federazione godevano in condizione di uguaglianza solo dei diritti riconosciuti dalla Costituzione federale, mentre c’era una situazione di differenziazione, rispetto ai diritti riconosciuti da ciascuno stato membro ai suoi cittadini. Il sistema federale americano fu preso a modello dal Canada e dall’Australia, mentre quello accentrato fu in un primo momento adottato nell’Europa continentale, tranne che in Svizzera e Germania (già a struttura confederale, poi unificatisi in forma di stati federali). Tuttavia, dopo la SGM, le costituzioni europee(eccetto quelle francesi) hanno fatto registrare una netta inversione di tendenza, optando per impianti pluralistici, di tipo federale o regionale: se storicamente i primi stati federali nascono all’esito dell’unificazione di una pluralità di stati sovrani, adesso si tratta di fare il percorso inverso, cioè di decentrare uno stato sovrano. Le ragioni di questa scelta sono molteplici: avvicinare cittadini e pubblici poteri separando la distanza fra stato e società civile tipica dello stato liberale, evitare i possibili abusi dello stato centrale (infatti il modello federale è radicalmente incompatibile con i regimi autocratici, mentre quello accentrato si può rivelare per questi un formidabile strumento), rimediare all’incapacità di un’unica rappresentanza politica di esprimere e sintetizzare dal centro ogni istanza locale (al contrario Il suo tratto caratteristico consiste nella separazione assoluta delle competenze e delle sfere d’azione dello stato centrale e degli enti decentrati: esse sono tutte esclusive, e fanno capo solo al soggetto pubblico al quale sono attribuite. Evidentemente la risoluzione dei conflitti, in assenza di meccanismi di raccordo, viene affidato agli organi giurisdizionali. La forma duale è anche detta garantista, perché in essa le esigenze di separazione, autonomia e garanzia prevalgono nettamente sulle esigenze di raccordo- coordinamento. La forma di pluralismo intermedia nasce quando, col welfare state, sia lo stato che gli enti decentrati sono chiamati ad un massiccio intervento nei rapporti economico- sociali, il cui successo postula necessariamente una forma di coordinazione. Al criterio del riparto per materie viene dunque combinato il criterio gerarchico, che consente una certa prevalenza dello stato, in ragione della sua funzione di coordinamento in vista dell’interesse generale. La combinazione fra criterio della materia e criterio gerarchico si è concretata in due forme. La prima è quella del federalismo d’esecuzione (vollzugsfoederalismus tedesco ed austriaco): lo stato esercita la potestà legislativa, ma delega l’attività esecutiva/ amministrativa agli enti locali. La seconda è quella della concorrenza, che può a sua volta atteggiarsi in tre modi: con una promiscuità di competenze, e la possibilità per lo stato di intervenire eventualmente abrogando la preesistente legislazione data dagli enti locali; la possibilità per lo stato di intervenire, scavalcando gli enti locali in competenze normalmente loro proprie, al ricorrere di determinate circostanze; la potestà statale di fissare la disciplina di principio, e per gli enti locali di porre quella di dettaglio. Tuttavia nella forma intermedia persistono ancora aspetti tipici di quella duale- garantista: la prevalenza delle materie di competenza esclusiva del centro o della periferia, e l’attribuzione alla giurisdizione costituzionale del precipuo compito di risolvere i conflitti fra stato ed enti locali (entrambi abilitati in via principale ad un ricorso astratto). La forma cooperativa si afferma in Europa nel secondo dopoguerra; essa aveva già fatto la sua comparsa in America col New Deal, ma negli USA non si è mai affermata definitivamente, ma solo in modo ciclico ed alternato (a seconda delle contingenze economiche, sociali e politiche) rispetto a quella duale. In generale la forma cooperativa si afferma in ciascun ordinamento, nel momento in cui la dimensione dei problemi da affrontare e degli interventi da attuare (al culmine del welfare state) ha sancito la preminenza dell’esigenza di raccordare e coordinare i vari livelli di governo, rispetto a quella di garantire l’esercizio autonomo delle competenze di ciascuno. Essa si pone come una tendenza o un punto d’arrivo di tutte le esperienze statali a pluralismo territoriale. Mentre la forma duale riteneva possibile determinare ex ante una volta per tutte la divisione delle sfere di attività dello stato e degli enti locali, la forma cooperativa è il frutto della presa di coscienza che la mutevolezza e l’entità delle questioni che i poteri pubblici si trovano ad affrontare, richiedono collaborazione, o addirittura integrazione dell’azione dei vari livelli di governo. Le stesse prestazioni pubbliche devono essere garantite su tutto il territorio nazionale in modo uguale, e questo non può avvenire prescindendo dal coinvolgimento degli enti locali, e dal loro coordinamento da parte dello stato. Caratteristica del pluralismo cooperativo, rispetto al riparto di competenze, è la perdita di importanza del criterio dell’enumerazione (che era stato il tratto peculiare del modello duale) a favore di altri criteri e principi più flessibili, quali quello di leale cooperazione, lealtà federale, aiuto reciproco ecc.. Le enumerazioni ed i cataloghi delle competenze, pur ancora presenti, hanno poi perso la loro pervasività e puntualità, a favore di ambiti materiali più ampi e flessibili. Altro carattere essenziale della forma cooperativa è l’assoluta centralità degli strumenti di raccordo fra i vari livelli di governo. Per quanto riguarda l’esercizio della potestà legislativa, la concertazione e la collaborazione avviene attraverso la camera alta, che molto spesso è rappresentativa delle autonomie locali. Per quanto invece riguarda la cooperazione amministrativa, essa avviene attraverso conferenze (istituzionalizzate oppure solo informali) cui partecipano gli esponenti del governo statale e degli esecutivi locali. Va precisato che queste sedi di raccordo amministrativo sono ormai definitivamente affermate anche negli USA, che rimangono invece maggiormente fedeli alla forma duale rispetto all’esercizio della potestà legislativa. Va notato che la forma cooperativa, e soprattutto l’ampia diffusione di congegni di raccordo amministrativo, hanno avuto degli importanti riflessi sulla forma di governo. Ha innanzi tutto ridotto l’autonomia dei singoli soggetti pubblici di determinare il proprio indirizzo politico, sostituendole con forme più o meno sviluppate di compartecipazione e codecisione degli indirizzi politici generali; l’indirizzo politico non è più dunque il frutto di una scelta autonoma, come secondo gli intenti del pluralismo territoriale delle origini, ma di una codecisione cui partecipano i vari soggetti pubblici, in uno stretto nesso di interdipendenze (insomma i vari soggetti hanno perso il potere di decidere ciascuno il proprio indirizzo, ma hanno guadagnato il diritto di partecipare pariteticamente alle decisioni di carattere generale). Ha poi notevolmente accentuato il ruolo degli Esecutivi, che sono i protagonisti dei processi di codecisione in seno ai vari organi ed istituzioni di raccordo (non potendo ovviamente far ciò il Parlamento, per la sua mole). In particolare è il ruolo dell’Esecutivo centrale ad averne guadagnato di più, in ragione del fatto che questo è chiamato a coordinare tutte le politiche e gli interventi dei vari livelli di governo; questo è in tal modo in grado di influenzare anche l’indirizzo politico degli Esecutivi locali. Questo ruolo centrale dell’Esecutivo statale è però controbilanciato da un altro cambiamento prodotto dall’affermarsi dalla forma di pluralismo cooperativa: i rapporti fra i diversi livelli di governo non sono più improntati al principio d’autorità e di gerarchia tipici dello stato accentrato, ma a moduli paritetici, convenzionali e contrattualistici. I soggetti istituzionali, nella forma cooperativa, sono equiordinati, perché tutti collaborano ad una decisione collettiva e consensuale. Si crea dunque un equilibrio fra esigenza di coordinare i vari livelli di governo , che porta al ruolo guida dell’Esecutivo statale, e il concreto farsi delle decisioni, che avviene in via compartecipata e condivisa. Nell’attuale pluralismo cooperativo, si può concludere che le garanzie per gli enti locali non giungono più tanto dai rigidi cataloghi e riparti di materie operati dalla Costituzione, ma dai meccanismi procedurali e dai congegni di raccordo, che assicurano la loro partecipazione alle decisioni che contano. -Pluralismo territoriale e pluralismo delle fonti L’evoluzione in senso cooperativo dei sistemi di pluralismo territoriale non ha fatto venir meno un tradizionale postulato liberale: quello che il primo elemento che invera l’autonomia degli enti locali è il riconoscimento della potestà legislativa. Diversi sono i criteri utilizzati per determinare le sfere di competenza legislativa dello stato e degli enti locali. Il primo è quello dell’enumerazione materiale delle sole competenze statali, e correlativa attribuzione delle competenze residuali agli enti locali. In linea di principio questa tecnica privilegia l’autonomia e le prerogative di questi ultimi. Il secondo è quello dell’enumerazione delle sole competenze degli enti locali, con attribuzione allo stato delle competenze residuali. In linea di principio questa tecnica (usata dal vecchio art.117) privilegia le prerogative dello stato. Il terzo è quello della doppia enumerazione delle materie, sia dello stato che degli enti locali. In alcuni casi, come ad esempio in Spagna, la Costituzione integra questo terzo criterio, attribuendo ad alcune fonti degli enti locali (statuti o costituzioni) il potere di precisare in concreto quali competenze essi intendano avocare a sé, fra quelle consentite dall’elenco costituzionale. Infine, un criterio assai elastico e flessibile di attribuzione delle competenze è la previsione di una clausola costituzionale dei poteri impliciti: la più famosa è la necessary and proper clause americana, di cui all’art.1. Fra fonti statali e fonti degli enti locali possono poi instaurarsi rapporti diversi. Tipica della forma duale è la totale separazione delle competenze legislative, ognuna attribuita in via esclusiva al soggetto pubblico che ne è titolare. La separazione è vieppiù garantita attraverso il frequente utilizzo (sempre da parte della forma duale) del parallelismo delle competenze: l’ente titolare della potestà legislativa in una determinata materia, è titolare anche della rispettiva potestà amministrativa esecutiva. La forma di separazione più netta si ha poi quando (come in America) anche l’esercizio del potere giurisdizionale segue la distribuzione del potere legislativo, in modo da creare giudici che giudicano sul diritto prodotto dagli enti locali, e giudici che giudicano sul diritto prodotto dallo stato centrale. essa (oltre che per lo stesso legislatore nazionale o costituente), per evitare rischi di “secessione perseguita per vie legali”. La questione del contemperamento fra istanze unitarie ed istanze autonomistiche si gioca sul piano della ripartizione fra centro e periferia delle competenze legislative ed amministrative, nonché sui procedimenti di partecipazione degli enti locali alle decisioni politiche nazionali. L’Assemblea Costituente italiana si trovò ad operare in un clima di contrasti fra stato e regioni (soprattutto la Sicilia)relativamente pacificato e, rinviando a future leggi costituzionali gli statuti speciali, poté dedicarsi agli statuti ordinari. Ne scaturì un testo che sviluppava solo in parte le potenzialità autonomistiche dell’art.5. Il vecchio art.117 fissava un elenco tassativo di competenze legislative regionali, da esercitarsi nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge dello stato, mentre residualmente ogni altra competenza spettava allo stato; era fissato il parallelismo delle competenze legislative/amministrative; la Corte costituzionale era deputata al controllo sulla legittimità delle leggi regionali, mentre il Parlamento aveva un sindacato di merito rispetto alla violazione dell’interesse nazionale; c’era un controllo abbastanza forte da parte del centro sulle amministrazioni locali. Nella prassi poi ulteriori aspetti portarono ad un’ulteriore compressione dei margini d’autonomia delle Regioni: la Corte considerò la lesione dell’interesse nazionale come un vizio di merito che anch’essa poteva sindacare, il Parlamento pose ulteriori limiti ecc.. Con la Riforma del Titolo V si è cercato di dare più concreta attuazione allo spirito dell’art.5. Si è innanzi tutto invertito il sistema di imputazione delle competenze, ed ora col criterio dell’enumerazione sono fissate quelle statali, mentre quelle residuali sono delle Regioni; tutte le funzioni amministrative sono allocate nel livello di governo più basso (i Comuni), salvo attribuzione a quelli superiori per ragioni di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza; è stato abolito il controllo di costituzionalità preventivo sulle leggi regionali, che era richiedibile da Commissario del Governo; si sono ridotti i controlli centrali sulle amministrazioni locali. Ben diversa era la situazione in Spagna, dove il Costituente si trovò a fronteggiare accese rivendicazioni autonomistiche, che hanno inciso per diversi aspetti. Innanzi tutto la Costituzione spagnola non realizza un assetto regionale compiuto, ma si limita a porre le regole per un processo di decentramento basato sul diritto all’autonomia delle diverse nazionalità e regioni, da attivarsi su loro richiesta. Ciò è evidente nel fatto che l’art.149 reca l’elenco tassativo delle materia di competenza esclusiva statale; la competenza legislativa in tali materie può però essere delegata dal Parlamento nazionale a tutte o ad alcune Comunità, previa fissazione dei principi e criteri guida con legge dello stato (una sorta di competenza concorrente su delega). L’art.147 affida invece agli statuti delle singole Comunità la scelta delle competenze (entro l’elenco delimitato dall’art.148, che indica le materie nelle quali esse potranno essere competenti) che esse intendono assumere. In tal modo la Costituzione spagnola configura l’autonomia come libera opzione per le Comunità autonome, le quali potranno anche decidere il quantum di tale autonomia, scegliendo le materie nelle quali intendono assumersi potestà legislativa. E per promuovere l’autonomia, lo stato, nelle materie di sua competenza esclusiva, potrà delegare (fissando criteri e principi) l’esercizio della potestà legislativa a tutte o ad alcune Comunità. Per tali motivi il regionalismo spagnolo è detto asimmetrico: consente in teoria di realizzare tanti livelli di autonomia quante sono le Comunità. La chiave realizzativa di questa autonomia asimmetrica è la contrattazione politica bilaterale fra Stato e singola Comunità. In concreto però il processo di costruzione dell’impianto regionale ha fatto emergere due gruppi di Comunità: un ristretto novero (comprese le tre nazionalità storiche: Catalogna, Galizia, Paesi Baschi) dotate di tutte le competenze non espressamente attribuite allo stato, le altre dotate di un’autonomia ampia ma più ristretta, inerente blocchi omogenei di materie. In chiave di comparazione, il regionalismo spagnolo e quello italiano appaiono molto diversi. Nell’esperienza italiana, gli spazi di autonomia costituzionalmente riconosciuti alle Regioni sono inferiori a quelli delle Comunità spagnole; inoltre mentre in Italia il riparto delle competenze è stato deciso dal centro ed è stato pesantemente condizionato dal trasferimento di uffici, personale e risorse dallo stato alle regioni, in Spagna la ripartizione è stata il frutto della contrattazione fra centro e periferia, in un più acceso clima di rivendicazione. Veniamo ora al tema della partecipazione delle autonomie locali alle decisioni di politica nazionale. Al discorso è preliminare la distinzione fra sistemi duali e sistemi cooperativi. Nei sistemi duali, la ripartizione costituzionale delle competenze fra enti territoriali è ritenuta condizione necessaria e sufficiente; le sfere di competenza locale e nazionale sono rigidamente separate: sia le regioni/stati membri che lo stato/federazione hanno delle proprie competenze legislative esclusive, cui corrisponde l’inerente potestà amministrativa di esecuzione. Nei sistemi cooperativi la ripartizione delle competenze fra enti territoriali è integrata, per soddisfare gli obiettivi della comune convivenza che richiedono forme di raccordo fra centro e periferia, da congegni e sedi istituzionali per consentire la partecipazione delle autonomie locali ai processi decisionali nazionali; in tal modo si ha una reciproca cooperazione, fra gli enti, nell’esercizio delle proprie competenze, che avviene in definitiva in modo concertato , laddove invece nei sistemi duali ogni ente esercita nella completa autonomia le competenze sue proprie. Va peraltro notato che il sistema cooperativo, proprio perché consente l’intervento congiunto e concertato dei diversi livelli di governo, permette di affrontare in modo ottimale le questioni concernenti l’intera collettività nazionale, e dunque storicamente è stata la modalità elettiva di realizzazione del welfare state da parte degli stati decentrati. Sia gli stati federali che quelli regionali possono essere organizzati in senso duale o cooperativo. Tuttavia, in chiave comparatistica, negli ordinamenti regionalisti manca uno strumento essenziale per realizzare l’assetto cooperativo, cioè una Camera alta composta dai rappresentanti delle autonomie locali, che consenta la partecipazione di queste al procedimento legislativo nazionale: in tal modo le grandi decisioni statali vengono adottate senza la partecipazione effettiva delle Regioni, e visto che molto spesso lo stato non dispone di strumenti per imporre gerarchicamente ad esse decisioni non condivise (come avviene in Spagna ed in misura minore in Italia), l’unico rimedio rimane adire il Tribunale costituzionale. Negli ordinamenti regionalisti sono però diffusi raccordi istituzionali a livello di organi di governo o di amministrazioni, sicché il deficit cooperativo riguarda il solo piano legislativo, non anche quello amministrativo. -Lo stato federale Lo stato federale può originare tanto dall’aggregazione di una pluralità di stati un tempo sovrani, che dall’articolazione in stati membri di uno stato originariamente accentrato. In generale rispetto allo stato regionale, le autonomie locali sono dotate di funzioni più ampie (non solo legislative ed amministrative come le Regioni, ma anche giurisdizionali) e partecipano direttamente o indirettamente al procedimento di revisione costituzionale. Ciò è vero solo tendenzialmente in quanto vi sono delle eccezioni: ad esempio in Belgio solo la Federazione ha competenza giurisdizionale, e le autonome locali non partecipano in nessun modo al procedimento di revisione. Tradizionalmente l’organizzazione federale dello stato era associato anche a certe opzioni di valore, tipicamente liberali, in particolare quella dello stato minimo e delle ampie libertà per i cittadini (garantiti dalla suddivisione sia verticale che orizzontale del potere). Di recente si è superata questa necessaria associazione fra federalismo e forma di stato liberale, ed il federalismo è invece assurto a strumento di ottimale di realizzazione della democrazia (nel trittico pluralismo territoriale, pluralismo istituzionale e pluralismo politico). Peraltro nella prassi la forma dello stato federale si è dimostrata la più adeguata per garantire il rispetto delle varie identità (o addirittura per garantire la sopravvivenza dello stesso stato), in contesti statali fortemente multietnici, multilinguistici e plurali. Basti pensare che spesso, nei contesti di guerra civile dove la comunità internazionale è intervenuta, poi è stato istituito uno stato federale per garantire gli assetti faticosamente raggiunti, o per creare porzioni di territorio in cui la minoranza risulti maggioranza (in modo da tutelarla). Anche i sistemi federali, come quelli regionali, possono essere di tipo duale ovvero di tipo cooperativo: prototipo di stato federale duale sono gli USA, mentre un esempio di stato federale cooperativo è la Germania. La Costituzione americana assegna alla Federazione la competenza legislativa nelle sole materie da essa tassativamente indicate, nonché in quelle ad esse implicitamente connesse tramite la implied power clause; le competenze residuali spettano invece agli stati membri. Quanto alle competenze di esecuzione della legge ed amministrative, vige il principio del parallelismo rispetto a quelle legislative: in tal modo si garantisce la fedele applicazione ed esecuzione delle leggi. della struttura federale dello stato, imposto dagli stati più piccoli che temevano di essere sopraffatti da quelli più grandi e popolosi (il problema è evidente, perché stati piccoli scarsamente popolati possono mettendosi insieme bloccare progetti voluti dalla maggior parte della popolazione). A parte che per la peculiare composizione, il Senato è grosso modo equiparato alla Camera dei rappresentanti quanto alle funzioni, e non gli è affatto attribuita la funzione di organo di raccordo e cooperazione fra Federazione e stati membri : ciò è peraltro dimostrato dal fatto che i senatori sono eletti dal corpo elettorale, non designati dagli stati, e dunque non sono rappresentanti degli stati, ma del popolo. Al contrario, il Bundesrat tedesco (come le camere alte di Austria, Svizzera, Sudafrica ecc..) rappresenta non il popolo, ma gli stati membri della Federazione. Il numero dei rappresentati per ciascun Land è stabilito in proporzione alla sua popolazione, con alcuni correttivi per garantire comunque la posizione degli stati più piccoli; i componenti del Bundesrat , proprio per garantire la partecipazione dei Lander alle decisioni politiche nazionali, sono designati dai governi dei singoli Lander e da essi revocabili: sono dunque veri e propri rappresentanti del Land che li ha designati, del quale seguono le indicazioni ed attuano le volontà, in deroga al divieto di mandato imperativo (questo è un unicum tedesco: negli altri stati la camera alta è formata da soggetti eletti dalle assemblee legislative degli stati membri e vige il divieto di mandato imperativo). La stessa funzione del Bundesrat è diversa da quella del Senato americano: la Costituzione sancisce espressamente che esso è l’organo attraverso cui i Lander collaborano alla legislazione, all’amministrazione e alla questioni relative all’UE. Tale collaborazione è assai intensa: per effetto delle previsioni costituzionali, più della metà della legislazione federale richiede l’assenso del Bundesrat (oltre ovviamente alle leggi costituzionali); tuttavia è prevista anche la possibilità per il Bundestag di superare il dissenso del Bundesrat, mediante una seconda approvazione della testo, a maggioranza semplice o qualificata, a seconda della maggioranza con cui il Bundesrat abbia espresso il suo dissenso. Il Bundesrat partecipa anche ai procedimenti di controllo sull’esecuzione delle leggi federali, in tal modo garantendo le prerogative dei Lander dall’intrusività dei controlli amministrativi del Bund, il cui rischio è sempre presente visto il principio dell’amministrazione indiretta. Tutto l’impianto federale tedesco come si vede esalta l’intreccio delle competenze e dei poteri, e la soluzione è sempre trovata nella compartecipazione; al contrario di quello americano, che vede nella rigida separazione la vera garanzia dell’autonomia. Da tale impostazione deriva anche una conseguenza di non secondario momento: in un sistema rigidamente separato come quello americano, che manca di congegni di raccordo, i conflitti fra Federazione e stati membri possono trovare sfogo solo all’esterno, cioè in via giurisdizionale, ad opera della Corte Suprema, vista come autorevole ed imparziale arbitro; al contrario, in un sistema che abbonda di strumenti di raccordo come quello tedesco, e che per di più prevede specificamente una camera alta rappresentativa direttamente delle autonomie locali, il conflitto fra centro e periferia viene quasi sempre risolto in via politica (in Germania spesso nel Bundesrat), all’interno delle istituzioni ovvero ancora nelle conferenze amministrative, e non in via giurisdizionale (sicché le questioni di rado giungono davanti al Tribunale costituzionale). Un ultimo altro tratto peculiare degli stati federali (che li differenzia da quelli regionali) è la partecipazione degli stati membri al procedimento di revisione costituzionale. Anche qui viene in rilievo la distinzione fra modello duale e modello cooperativo, ed in particolare la composizione della camera alta. Negli assetti federali dove i membri della camera alta sono eletti dal popolo in numero pari per ogni stato membro, è prevista la partecipazione diretta degli stati membri in quanto tali (come negli USA) e a volte anche della loro popolazione via referendum (Australia). La partecipazione diretta si rende necessaria per sopperire al fatto che la camera alta non è un’istituzione precipuamente volta a rappresentare gli stati membri in quanto tali. Più nello specifico, l’art.5 della Costituzione americana stabilisce che il processo di revisione può essere attivato dal Congresso con la proposizione di emendamenti a maggioranza dei 2/3 in ciascuna camera ovvero su richiesta dei 2/3 delle Legislature degli stati membri, a seguito della quale il Congresso dovrà convocare una Convenzione per la proposizione degli emendamenti. In entrambi i casi, gli emendamenti saranno validi a ogni effetto, come parte della Costituzione, allorché saranno stati ratificati dalle Legislature di ¾ degli Stati, ovvero dai 3/4 delle Convenzioni riunite a tale scopo in ciascuno degli Stati, a seconda che l'uno o l'altro modo di ratifica sia stato prescritto dal Congresso. Al contrario, negli assetti federali dove la camera alta è strutturata specificamente come istituzione di rappresentanza degli stati membri in quanto tali, la partecipazione di questi al procedimento di revisione costituzionale avviene indirettamente proprio per tramite della camera alta. E’ questo il caso della Germania, dell’Austria e del Sudafrica; fa eccezione la Svizzera, dove è richiesta anche la maggioranza dei Cantoni e dei cittadini in sede referendaria. Evidentemente la partecipazione indiretta degli stati per tramite della camera alta rende in linea di principio più facile e snella la revisione della Costituzione: in America gli emendamenti sono stati pochi, e ancora di meno sono stati quelli riguardanti la struttura federale, ed in assenza di uno sbocco politico è stata la Corte Suprema in via interpretativa a guidare l’evoluzione della Costituzione; in Germania invece dal 1949 in poi sono state adottate ben 55 leggi di revisione costituzionale, la maggior parte delle quali riguardanti proprio l’assetto federale, a dimostrazione del fatto che la previsione di meccanismi di concertazione fra centro e periferia rendono quella politico- parlamentare una strada relativamente agevole da percorrere per modificare la Costituzione. Un'altra variabile da considerare è la misura in cui i singoli stati membri sono garantiti nel procedimento di revisione costituzionale. Negli assetti federali dove la partecipazione degli stati membri avviene in via indiretta tramite la camera alta, il grado di garanzia è in linea di principio inferiore, soprattutto laddove i rappresentanti di ciascuno stato membro sono proporzionati alla sua popolazione: evidentemente gli stati più popolosi avranno più possibilità di imporre le proprie decisioni agli stati meno grandi e popolati. Ad esempio in Germania ed in Sudafrica serve il consenso dei 2/3 di ciascuna camera, in Austria è richiesta la maggioranza delle due camere (tranne i casi in cui la revisione riguardi la composizione del Bundesrat, sistema elettorale e criteri di rappresentanza dei Lander, per cui serve anche l’approvazione di 4 Lander). Negli stati federali dove la partecipazione degli stati membri alla revisione è diretta, la misura della garanzia è variabile, ma in linea di principio superiore a quelli a partecipazione indiretta. La Costituzione americana è una delle più garantiste in assoluto, rispetto agli stati membri. Come visto sopra, la procedura di emendamento si articola nelle fasi della proposta e della ratifica, ciascuna delle quali può articolarsi con due modalità procedurali: la proposta spetta a due terzi delle camere del Congresso (e nella prassi si è sempre usata tale via) o a una Convenzione convocata dal Congresso su richiesta dei due terzi delle legislature degli stati membri, mentre la ratifica spetta alle legislature dei tre quarti degli stati o ai tre quarti delle convenzioni riunite in ciascuno degli stati, a seconda del procedimento prescritto dal Congresso. L’art.V stabilisce poi che nessuno stato può essere privato senza il suo consenso della parità di rappresentanza in Senato (regola dell’ equal suffrage). Come si vede, in ogni caso la ratifica degli emendamenti è subordinata al consenso di un gran numero di stati membri, anche se non è richiesta l’unanimità. La Costituzione di Filadelfia ha perciò superato il precedente impianto della Confederazione, segnato da una visione contrattualistica che esigeva per le modifiche il consenso di tutti gli stati: la decisione sulla revisione spetta ora alla maggioranza, pur abbastanza alta (tranne nel caso del diritto alla pari rappresentanza in Senato). La Costituzione più garantista verso gli stati membri è quella del Canada, paese segnato da accese rivendicazioni identitarie e spinte centrifughe al limite del secessionismo. Per la revisione è richiesta l’approvazione delle camere federali, ma anche delle assemblee legislative di almeno 2/3 delle province che rappresentino almeno il 50% della popolazione complessiva del Paese; inoltre, se il progetto riguarda le competenze o le prerogative di una Provincia, l’assemblea legislativa di tale provincia può porre il veto e bloccare l’approvazione del progetto. Su determinate materie poi (struttura degli organi federali, disposizioni sull’uso della lingua francese o inglese) serve in consenso unanime di tutte le Province. In Australia ed in Svizzera il progetto deliberato dalle due camere federali deve essere approvato dalla maggioranza degli stati e cantoni e dalla maggioranza degli elettori del Paese. -Le vicende del federalismo duale americano e del federalismo cooperativo tedesco nel secondo dopoguerra Al di la dei riparti di competenza e della struttura e funzionamento della Camera alta previsti dalla Costituzione, i congegni e le sedi istituzionali di concertazione fra centro e periferia possono sorgere anche in via di prassi, contribuendo a spostare l’assetto in senso cooperativo e scavalcando l’eventuale rigida separazione pur prevista dalla Costituzione. Un ruolo importante per l’evoluzione in senso cooperativo dei sistemi Nelle comunità statali multi linguistiche e multi etniche, caratterizzate da forti rivendicazioni identitarie e spinte centrifughe, il principale problema di politica costituzionale è contenere tali spinte ed evitare fenomeni di secessione o la stessa disgregazione dello stato. Una spia sicura per individuare tali situazioni è la presenza di forme di decentramento asimmetrico. Ad esempio, la Costituzione spagnola dischiude numerose virtualità per la realizzazione di forme asimmetriche di regionalismo (quasi un “regionalismo a la carte”); la Costituzione del Canada, stato prevalentemente anglofono, prevede garanzie differenziate e specifiche per la Provincia del Quebec, francofona per 4/5; in Belgio, l’intero sistema federale è asimmetrico, in quanto basato addirittura su Comunità linguistiche e Regioni territoriali provviste di competenze diverse. Tutte quanto queste esperienze sono caratterizzate dall’assenza di una camera alta veramente rappresentativa delle comunità locali. Ciò pone due gravi problemi: l’assenza di una sede istituzionale di raccordo politico e composizione del conflitto fra centro e periferia; il mancato coinvolgimento delle comunità locali nei processi di decisione nazionale, così aumentando l’insofferenza verso scelte non condivise. Contribuiscono al problema della forbice fra rappresentanza e decisione in Canada il criterio di pari rappresentatività di ciascuna Provincia (24 Senatori per ciascuna), in Belgio una composizione della camera alta che garantisce la proporzionale rappresentanza dei gruppi linguistici ma non degli enti territoriali (questa è in parte composta da membri eletti a suffragio universale, in parte da membri designati dai Consigli delle comunità linguistiche francese, olandese e tedesca: c’è così una proporzionata rappresentatività etnica a scapito della rappresentanza degli enti locali in quanto tali). Esaminiamo più nello specifico le singole esperienze. In Canada, l’identità linguistica e culturale della popolazione francofona (minoranza a livello nazionale, ma grande maggioranza in Quebec) è stata garantita con la previsione dell’uso sia dell’inglese che del francese nel Parlamento nazionale e in quello del Quebec, con l’attribuzione alle Province delle competenze sull’istruzione e soprattutto, con la clause nonobstant contenuta nel Constitution Act del 1982: essa consente alle assemblee delle Province e al Parlamento federale di sospendere per 5 anni, con semplice legge ordinaria, l’efficacia dei diritti fondamentali individuali (non anche di quelli collettivi); tale clausola (voluta dal Quebec preoccupato che le interpretazioni giurisdizionali uniformi avrebbero potuto mortificare le diversità culturali) è il massimo tributo che uno stato costituzionale possa riservare alle identità locali, arrivando addirittura la Carta costituzionale a consentire di esser derogata dal legislatore ordinario. Nel 1995 per poco non fu approvato un referendum col quale il Quebec, pur senza parlare di secessione, voleva affermarsi sovrano. La controversia costituzionale si è attenuata dal 1998, quando la Corte Suprema, su quesito specifico del Governo federale, ha negato che una qualsiasi Provincia disponga del diritto di secessione, ma che l’espressione di una volontà secessionista da parte della maggioranza della sua popolazione resa su un quesito referendario chiaro renderebbe necessario per la Federazione e le altre Province l’apertura di negoziati in sostanza retti dal diritto internazionale con la Provincia secessionista. Un aiuto (rispetto ad un quadro costituzionale così rigido e bloccato)è giunto anche dal potenziamento delle conferenze intergovernative informali, sorte in via di prassi già da decenni. Tutto’ora all’ordine del giorno è il problema della minoranza anglofona in Quebec. Per quanto riguarda il Belgio, la Costituzione dispone che esso è uno stato federale formato da 3 Comunità linguistiche (francese, fiamminga e germanofona) e 3 Regioni territoriali (vallone, fiamminga e di Bruxelles). Vi sono dunque enti autonomi individuati in base a fattori territoriali, ed altri in base a fattori etnico-linguistici; fra le due categorie vi sono differenze anche dal punto di vista delle competenze attribuite. La situazione è in concreto resa ancora più complessa dal fatto che una clausola costituzionale consente alla Comunità francese, alla Regione vallone e al Gruppo linguistico francese della Regione di Bruxelles di delegare l’esercizio delle proprie competenze alla Regione; e dal fatto che la Comunità fiamminga esercita de facto le competenze della Regione corrispondente. Tutto ciò è il frutto di una situazione di multiculturalismo diffusa omogeneamente su tutto il territorio nazionale, al contrario di Spagna e Canada ove le minoranze sono concentrate in specifiche porzioni di territorio. La Costituzione del 1993 è il risultato di un precario compromesso raggiunto fra i due maggiori gruppi del Paese, quello fiammingo del Nord (che aveva rivendicato la divisione su base identitaria)e quello vallone del Sud (che aveva rivendicato la divisione su base territoriale). Nell’assetto federale belga ci sono dunque una pluralità di enti che in parti si sovrappongono, proprio perché identificati non solo in base a criteri oggettivi (il territorio) ma anche soggettivi (la lingua ed etnia); sicché ogni cittadino, in base al diverso combinarsi dei criteri oggettivi e soggettivi, viene sempre a dipendere da tre autorità differenti (Federazione, Comunità, Regione) poste in un rapporto di continuo confronto piuttosto che di collaborazione. La monarchia è la sola istituzione che esprime un’istanza unitaria. Esso si discosta sia dal modello duale che da quello cooperativo. Le competenze della Federazione sono solo quelle tassativamente indicate dalla Costituzione, mentre le competenze residuali spettano alle Regioni e alle Comunità. Le competenze di ciascun ente sono tutte esclusive (mai concorrenti), ma a differenza di quanto accade nella Costituzione americana non è prevista una supremacy clause che assicuri la prevalenza della legislazione federale in caso di conflitto. La stessa ratio garantistica sottesa a tale assetto delle competenze è ben più profonda, di quella dei modelli duali: separare nettamente e garantire le competenze degli enti locali non solo rispetto alla Federazione, ma anche rispetto alle stesse diverse tipologie di enti locali. Tale esigenza si rispecchia in tutta una serie di disposizioni costituzionali. Le leggi attributive delle competenze delle Comunità e delle Regioni vanno approvate a maggioranza dei voti in ogni gruppo linguistico di ciascuna camera, alla condizione che sia presente la maggioranza dei membri di ogni gruppo e che, inoltre, il totale dei voti favorevoli espressi nei due gruppi linguistici raggiunga i due terzi dei voti espressi. Nell’ambito del procedimento di formazione delle leggi ordinarie, ciascun gruppo linguistico, attraverso almeno ¾ dei suoi rappresentanti, può presentare prima del voto finale una mozione motivata di sospensione del procedimento (sonnette d’alarme), assumendo il grave danno alle relazioni tra le Comunità che l’approvazione della legge potrebbe comportare. La mozione è deferita al Consiglio dei Ministri, che entro 30 giorni rende un parere motivato e invita la camera a pronunciarsi su di esso,. Anche la composizione delle istituzioni federali è improntata all’esigenza di garantire le varie comunità etniche e linguistiche, con la sola eccezione del Sovrano-Capo dello Stato e della Camera dei rappresentanti (eletta col proporzionale), la quale rappresenta la popolazione nazionale nel suo complesso. La composizione del Senato è direttamente regolata dalla Costituzione, che prescrive quanti senatori ha diritto di nominare ogni Comunità e Regione. Il Governo è formato da non più di 15 ministri,per metà di espressione francese e per l’altra metà olandese, con l’unica eccezione del Primo Ministro. La Cour d’arbitrage (Corte costituzionale) è composta da 12 membri, 6 di lingua francese e 6 di lingua olandese, e presieduta a turno da un giudice dell’uno e dell’altro gruppo. Nel complesso, la Costituzione belga rispecchia e perpetua una specie di patto di non belligeranza fra Federazione, Comunità e Regioni, e soprattutto fra i due principali gruppi linguistici, col risultato di riuscire ad arginare le spinte centrifughe più destabilizzanti, ma ad un costo molto elevato, giacché tale compromesso si fonda su tutta una serie di congegni di blocco. La situazione è ulteriormente complicata dal sistema politico, multipartitico e frammentato. Il funzionamento di questo complesso sistema è reso in qualche misura possibile da diversi fattori. In primo luogo la Cour d’arbitrage assume un ruolo importante, anche se limitato dal ristretto bloc de constitutionnalitè: essa è chiamata a risolvere i conflitti fra i vari enti territoriali, a giudicare la legittimità delle leggi e dei decreti rispetto all’assetto delle competenze delineate dalla Costituzione, a garantire il rispetto del principio di uguaglianza, il divieto di discriminazioni ideologiche e la fondamentale libertà d’insegnamento. Una istanza unitaria è la Corona, che riesce a fungere da fattore identificativo dell’intera collettività nazionale. Un’altra valvola di sfoga è rappresentata dal fatto che, in un assetto costituzionale così rigido sulla carta, il necessario coordinamento fra i vari livelli di governo avviene in via informale, attraverso la cooperazione e concertazione intergovernativa ormai invalsa nella prassi. Di particolare rilievo è il Comitato di Concertazione, composto dal Primo Ministro, da 5 ministri e da 6 membri dei governi delle autonome (di tutto il Comitato, metà dei membri deve rappresentare il gruppo francese e l’altra metà il gruppo ratifica delle proprie decisioni) ma anche degli svantaggi (gli effetti dirompenti di fronde interne al partito, o al contrario il rischio che dissidi in Parlamento si riverberino sulla stabilità del partito). Vi sono poi altri elementi che depotenziano i rischi di accentramento del potere. Innanzi tutto la recente devolution, in favore di Scozia, Galles e Irlanda del Nord, che ha segnato un superamento del modello territoriale accentrato. In secondo luogo l’appartenenza della Gran Bretagna all’UE, con la connessa accettazione della primautè del diritto comunitario, nonché lo Human Rights Act del 1998, che ha incorporato nell’ordinamento britannico la CEDU, consentono ai giudici di disapplicare le leggi nazionali incompatibili, ed in tal modo pongono un argine alla tradizionale dottrina dell’assoluta supremazia del Parlamento. In terzo luogo, il Constitutional Reform Act del 2005 ha ridimensionato le attribuzioni del Lord Cancelliere (una figura assai peculiare che ha sempre contrastato col principio di separazione dei poteri, in quanto deteneva competenze legislative, giurisdizionali ed esecutive) e ha istituito la Supreme Court of UK (una vera e propria Corte costituzionale che risolverà anche i conflitti centro periferia) che dunque rimpiazza la House of Lords come organo giurisdizionale supremo . Anche con ciò si è ridotta la supremazia del Parlamento, che in sostanza fungeva anche da organo giurisdizionale supremo. L’House of Lords Act del 1999 ha modificato la composizione della Camera dei Lord, che ha rimosso molti dei membri che detenevano il seggio per diritto ereditario. Tutte queste riforme hanno intaccato il principio di assolutezza della sovranità del Parlamento, inscrivendosi in quella generale, duplice tendenza degli stati europei, ad una riallocazione dei poteri verso il basso in favore degli enti locali, e ad una cessione di quote di sovranità all’UE: è questo il multilevel constitutionalism. I rischi di paralisi istituzionale I rischi di paralisi istituzionale si annidano nelle forme di governo dualiste nelle quali il Presidente, eletto direttamente dal popolo, dispone di poteri di governo, nonché negli assetti federali. Esaminiamo le forme di governo dualiste. In Francia, il rischio di paralisi istituzionale può presentarsi in teoria solo nei periodi di cohabitation, ma ciò è scongiurato dalla prassi dell’autolimitazione da parte del Presidente dei propri poteri di governo. Negli USA, il conflitto è la dimensione quotidiana della forma di governo: alcuni autori affermano che per essere qualcosa il Congresso deve schierarsi contro il Presidente, ma non può annientarlo, perché non può incidere sulla sua permanenza in carica. Un vero e proprio rischio di paralisi si verifica laddove vi sia una netta divaricazione fra maggioranza del Congresso e Presidente, il quale, al contrario che in Francia, è l’unico e solo titolare del potere esecutivo, responsabile dell’indirizzo politico, e titolare del potere di raccomandare (ma non di proporre formalmente) al Congresso le misure che ritenga necessarie o convenienti. Una netta divaricazione non potrebbe rimettere in discussione la spettanza o il quantum dei poteri (in Francia potrebbe esserci invece una vera e propria crisi fra Presidente e Primo Ministro, su chi debba veramente governare), ma di certo impedirebbe al Presidente di dare un indirizzo al Congresso, tagliandoli per così dire le mani. Una via d’uscita, di tipo politico, viene dalla stessa struttura dei partiti americani, che sono meno organizzati ed accentrati di quelli europei e monopolizzano meno la formazione dell’indirizzo politico. Perciò il Presidente, pur dove si trovi di fronte (come di frequente accade) una maggioranza parlamentare di colore opposto al suo, potrà tentare di costruire di volta in volta maggioranze contingenti per far passare i suoi disegni di legge, senza trovarsi invece, come succede in Europa, davanti al pregiudiziale rifiuto degli avversari. In tal modo viene scongiurato il rischio di paralisi, ma non senza costi: il raggiungimento di maggioranze contingenti avviene spesso dietro concessioni agli avversari politici, mossi spesso da interessi localistici o delle lobby. Ne risulta non solo un sacrificio della politica nazionale d’insieme sull’altare degli interessi particolari, ma anche una menomazione del programma sul quale il Presidente si era impegnato con gli elettori. Un altro problema è posto dal fatto che le varie elezioni americane avvengono tutte a breve scadenza, sicché tutti gli organi saranno più propensi a fare riforme popolari e di breve periodo, piuttosto che interventi di lungo periodo. Un altro rischio di paralisi istituzionale alligna negli assetti federali, soprattutto in quelli duali che non prevedono congegni di raccordo e sono improntati alla rigida separazione delle sfere di attribuzione: in tal caso i conflitti centro periferia imboccano spesso la via giurisdizionale, mancando sedi di risoluzione politica. Questo è il caso degli USA, dove peraltro a questa difficoltà di risoluzione concertata in via politica concorrono anche dinamiche istituzionali fortemente improntate alla separazione dei poteri , la debole strutturazione dei partiti, incapaci di mediare a livello nazionale con le loro propaggini locali, nonché l’alta considerazione del potere giudiziario come istanza autorevole, rispettata ed indipendente, che fa di quella giurisdizionale la soluzione più condivisa. Va notato che i conflitti risolti in via giurisdizionale sono solo quelli legislativi, giacché per l’ambito amministrativo anche in America esistono conferenze intergovernative. Anche in Australia il federalismo è di tipo duale, ma qui c’è una maggiore propensione alla risoluzione in via politica, sintomatico del fatto che il modello duale non comporta necessariamente l’insolubilità per tal via dei conflitti: i conflitti si risolvono con trattative fra stati membri e Federazione, se al vertice ci sono maggioranze uniformi, tramite istituzioni intergovernative quando ci sono maggioranze difformi. Tuttavia dei problemi si possono porre anche nei federalismi di tipi cooperativo, pur così ricchi di congegni di raccordo. Ad esempio in Germania, quando i Lander sono amministrati a maggioranza da governi di segno politico opposto a quella che sostiene il governo federale al Bundestag, il Governo può incontrare serie difficoltà a far passare al Bundesrat i propri disegni di legge sui quali è richiesto l’assenso di questo. E’ vero che la stessa Costituzione prevede un ulteriore meccanismo di concertazione per risolvere il problema, cioè una Commissione composta in misura paritetica dai membri delle due camere, che formula una proposta che successivamente va deliberata dal Bundestag; ma ciò sposta nel Governo federale e negli esecutivi dei Lander l’effettivo potere decisionale, creando un circuito alternativo a quello parlamentare. Va peraltro segnalato che la struttura cooperativa è vissuta da alcuni Lander come un freno allo sviluppo, soprattutto in virtù degli esborsi che quelli più virtuosi devono versare al fondo perequativo, di cui beneficiano principalmente i Lander più arretrati dell’Est. Non è un caso che di recente la Corte costituzionale sta privilegiando più l’autonomia finanziaria che la perequazione. Il problema della distinzione fra politica ed amministrazione; le autorità amministrative indipendenti L’esigenza di distinguere, mantenendole però collegate, la sfera amministrativa dalla sfera politica si pone in tutti gli stati caratterizzati dal principio di separazione dei poteri e da apparati amministrativi particolarmente imponenti e complessi. Se tali sfere fossero separate, il Parlamento ed il Governo si troverebbero sforniti del principale strumento di attuazione e concretizzazione degli indirizzi politici da essi sforniti; se al contrario esse fossero confuse, l’amministrazione si troverebbe a diventare un acritico strumento nelle mani della maggioranza, in violazione del principio di imparzialità dell’azione e dell’organizzazione amministrativa accolto da molti ordinamenti. Molteplici sono gli strumenti adottati per contemperare le esigenze di collegamento con quelle di imparzialità. Ovunque lo status dei funzionari apicali è distinto da quello degli altri dipendenti pubblici: mentre la generalità dei dipendenti accede e avanza in carriera tramite concorsi ed altre procedure volte a premiare il merito su base di uguaglianza, i funzionari sono nominati dagli organi politici in base a valutazioni discrezionali, sono responsabili di fronte a questi e hanno il precipuo compito di fungere da raccordo fra politica ed amministrazione. In USA, l’amministrazione federale si articola in una pluralità di agenzie, ognuna incaricata di compiti abbastanza puntuali (tranne gli imponenti Dipartimenti degli esteri e della difesa) e operanti in un contesto fortemente competitivo (e dispersivo). La stessa cura degli affari interni è stata per molto tempo ripartita fra 22 agenzie, prima di essere affidata ad un unico Dipartimento, equivalente al Ministero degli interni. Il forte dualismo Presidente-Congresso si riverbera pure sull’amministrazione: gli alti funzionari sono nominati dal Presidente al momento dell’elezione secondo lo spoils meno con il venir meno della funzione del Senato di sede rappresentativa degli stati in quanto tali. Ad ogni modo la previsione del meccanismo dell’advice and consent permette di affermare che, al contrario di quanto avviene nelle forme di governo parlamentari, il Congresso (tramite il Senato) è titolare di un vero e proprio potere di codecisione, a fianco all’Esecutivo. Tuttavia esso è comunque una procedura gravosa (vista soprattutto l’alta maggioranza richiesta), che i Presidenti hanno cercato di aggirare in vario modo. Innanzi tutto con il sempre più diffuso ricorso agli executive agreements da parte del Presidente (cioè gli accordi in forma semplificata, che non necessitano di legge di ratifica ed entrano in vigore sulla base della semplice firma dei plenipotenziari). Alcuni hanno criticato tale prassi, lesiva del principio del joint decision making (fra Presidente e Senato), ma il Presidente ha sottolineato la piena legittimità costituzionale di tale modalità, pur non espressamente prevista dalla Costituzione, in base a 4 argomenti: l’obbligo, in quanto vertice dell’esecutivo, di rappresentare la nazione negli affari esteri; il ruolo di comandante in capo delle forze armate; l’autorità di ricevere ministri e altri funzionari esteri; l’obbligo di curare che le leggi siano attuate. Nel 1845 il Presidente Tyler fece approvare il trattato di adesione del Texas alla Federazione mediante un atto di approvazione di entrambe le camere a maggioranza semplice (la joint resolution prevista per le leggi): questo ha costituito il precedente per tutta una serie di casi successivi, chiamati “legislative-executive agreements” cioè una sorta di ibrido fra i trattati conclusi in forma solenne (e ratificati con legge: treaty) e gli accordi in forma semplificata (executive agreements). Nella prassi raramente il Senato nega il suo consenso, ma piuttosto lo subordina alla rinegoziazione di alcune clausole non condivise. Anche il potere di dichiarare la guerra (fondamentale per la prima potenza mondiale), spettante al Congresso, è stato oggetto nel corso del tempo di una sorta di tentativo di usurpazione da parte del Presidente: Johnson e Nixon autorizzarono (con la risoluzione del Tonchino, peraltro revocata dal Congresso) e portarono avanti la guerra del Vietnam e i bombardamenti sulla Cambogia senza che il Congresso avesse deliberato la dichiarazione di guerra, ma semplicemente richiamandosi ai loro poteri di commander in chief. Nei sistemi parlamentari europei , al contrario che in quello presidenziale americano, il potere di stipulare i trattati spetta esclusivamente al Governo, e il Parlamento interviene solo successivamente, con un’autorizzazione, nella fase di ratifica; tale autorizzazione è peraltro prescritta solo in un esiguo novero di casi, potendo in tutti gli altri casi il Governo ricorrere agli accordi in forma semplificata, senza bisogno di legge di conversione. In Gran Bretagna fin dal 1929 vige la consuetudine costituzionale della Ponsoby rule: il Governo deposita il testo dei trattati presso entrambi i rami del Parlamento affinché ne prendano visione, e dopo 21 giorni, qualora non sia intervenuto un espresso rifiuto, provvede alla ratifica. La Costituzione olandese, sul modello inglese della Ponsoby rule, adotta il meccanismo del silenzio-assenso: se entro 30 giorni una delle Camere o 1/5 dei suoi membri non richieda espressamente la ratifica con legge, l’autorizzazione si intende concessa eccetto i casi ove essa è obbligatoria. Nella Francia semipresidenziale la politica estera e la difesa rientrano in via di prassi nel domaine reservé del Presidente, che rimane assoluto ed esclusivo pure nelle fasi di cohabitation. Tuttavia l’esigenza che la Francia parli ad una sola voce, pur con un esecutivo bicefalo, e per il fatto che è solo il Governo ad essere responsabile davanti al Parlamento, pone dei problemi, e forse dovrebbe far propendere per l’attribuzione dell’ultima parola in materia al Primo Ministro (in Francia dunque politica estera e difesa involgono il rapporto Presidente/Primo Ministro non quello Governo/Parlamento). Con uno sguardo di sintesi, va rilevato, in tutti gli stati moderni, un certo deficit delle assemblee parlamentari rispetto alla fase della negoziazione dei trattati , solo parzialmente colmato da periodiche informative da parte del Governo. Il deficit informativo-decisionale è ancora più grave nella generale conduzione della politica estera. Le procedure di approvazione del bilancio In moltissimi ordinamenti è previsto che il parlamento approvi annualmente con legge il bilancio dello stato, predisposto dal Governo e da cui risultano le entrate da riscuotere e le spese da erogare per l’anno successivo; l’approvazione della legge di bilancio è condizione per la riscossione dei tributi e l’erogazione delle spese, ma il parlamento non può introdurre nuovi tributi o nuove spese (questa caratteristica ha fatto ritenere a molti studiosi la legge di approvazione del bilancio una legge solo formale di mera ratifica, giacché il parlamento può in sostanza solo accettare i contenuti imposti da altri, cioè il governo, senza poterli modificare, ovvero rifiutare). Il potere di approvazione del bilancio appartiene alle assemblee rappresentative da quando fu affermato il principio no taxation without rapresentation; più tardi esse guadagnarono anche il cosiddetto power of the purse, cioè il potere di autorizzare e controllare le spese del sovrano. Tali poteri hanno un forte peso nei rapporti fra esecutivo e legislativo. Nelle monarchie costituzionali dell’epoca della restaurazione, ma anche nel conflitto costituzionale fra il Cancelliere Bismarck e il parlamento tedesco, i parlamenti, in assenza di altri strumenti di controllo sull’esecutivo, ricorsero alla minaccia di rifiutare l’approvazione del bilancio, come mezzo estremo di pressione contro la corona e il governo. Weber rilevava come il potere di approvare il bilancio fosse un potentissimo mezzo a disposizione del parlamento, ma il suo utilizzo come arma era sintomatico di una esclusione dell’assemblea rappresentativa dalla formazione dell’indirizzo politico. Nelle democrazie contemporanee con forma di governo parlamentare, l’approvazione del bilancio funge da occasione di discussione politica generale, a scadenza prefissata, degli indirizzi governativi in tutti i settori. Peraltro, nel passaggio dallo stato liberale allo stato democratico-sociale, si è avuto un netto aumento dell’intervento dello stato nei rapporti economici e sociali, con un corrispettivo aumento della spesa pubblica, ed uno scambio di ruoli fra governo e parlamento: nello stato liberale il parlamento cercava di contenere le spese promosse dal governo, onde ridurre il carico fiscale sui cittadini (stato minimo); al contrario nello stato democratico il parlamento cerca il consenso attraverso l’espansione dell’intervento pubblico (welfare state), mentre i governi, costretti a far quadrare il bilancio, cercano al contrario di tagliare le spese. In Gran Bretagna fin dal 1800 gli emendamenti del Parlamento possono solo apportare tagli alle spese, mentre è il Governo l’unico titolare dell’iniziativa sulle leggi di spesa. In Francia i deputati godono dell’iniziativa sulle leggi di spesa, ma in sede di discussione del bilancio non possono proporre aumenti delle spese previste o crearne di nuove, neppure con un’adeguata compensazione. In Germania e in Spagna i parlamentari possono proporre variazioni di spesa previo consenso del Governo. Di certo, un esteso potere di emendamento garantisce la compartecipazione del Parlamento alla formazione dell’indirizzo politico, ma ha anche un aspetto negativo: infatti introduce fattori imponderabili nella procedura, che rendono più aleatorio e dispersivo l’esame del bilancio, riducendo l’efficacia del controllo sulle scelte del governo. Al contrario, un potere di emendamento minore riduce di molto la funzione di indirizzo del Parlamento, la quale verrà in sostanza ad appartenere esclusivamente al Governo, ma consente una maggiore efficacia di quella di controllo. In America anche la procedura di approvazione del bilancio risente della forma di governo dualista. Prima del Budget and Accounting Act del 1921, erano i singoli dipartimenti ed agenzie dell’esecutivo che presentavano al Congresso i propri programmi, onde ottenere il finanziamento: tale procedura però comportava duplicazioni, approssimazioni e mancava di unitarietà. Con la riforma del 1921 è stata invece introdotta una procedura più unitaria e razionale: spetta al Presidente, ogni anno, presentare la proposta di bilancio al Congresso, ma si tratta di una mera proposta, in quanto quest’ultimo può aumentare e ridurre sia le entrate che le spese; sia presso l’esecutivo che presso il legislativo venivano poi istituite due apparati di supporto, volti a controllare l’impiego e la gestione dei fondi. Nel corso del tempo tale procedura ha prodotto numerosi conflitti istituzionali. L’esempio più evidente è la prassi dell’impoundment, con la quale i Presidenti sospendevano l’erogazione di spese già approvate dal Congresso ma da loro non condivise, anziché avvalersi dello strumento costituzionalmente previsto del veto. Per arginare l’impoundment nel 1974 fu approvata una legge che, oltre a rendere più rigida la procedura di bilancio e a razionalizzare le commissioni bilancio delle camere e gli altri enti di controllo, imponeva al Presidente di avvisare il Congresso della sua intenzione di avvalersi dell’impoundment. Nel 1996 una nuova legge attribuiva al Presidente il potere di porre il veto su singole previsioni di spesa o di entrata contenute in una legge, anziché necessariamente sull’intera legge come prevede la Costituzione; ma tale norma è stata dichiarata incostituzionale dalla Corte Suprema per violazione delle disposizioni sul potere di veto. Tracciando una sintesi, la procedura di bilancio, pur non prevista espressamente in Costituzione, è stata regolata in modo da realizzare una distribuzione dei poteri fra Presidente e Congresso, tale da garantire le rispettive prerogative; ciò anche a costo
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