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Forme di Stato e forme di Governo riassunto, Appunti di Diritto Costituzionale Comparato

Riassunto dei capitoli VI-VII-VIII-IX-X-XI-XII del libro "forme di Stato e forme di Governo" di Cesare Pinelli per l'esame di diritto costituzionale comparato

Tipologia: Appunti

2018/2019

Caricato il 24/05/2019

eva_sabbatini
eva_sabbatini 🇮🇹

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Scarica Forme di Stato e forme di Governo riassunto e più Appunti in PDF di Diritto Costituzionale Comparato solo su Docsity! CAPITOLO VI. LO STATO TOTALITARIO. 1.PREMESSA. Lo Stato totalitario si identifica per i seguenti caratteri: • le libertà politiche, sia individuali che collettive, sono soppresse; • La separazione dei poteri è abolita o gravemente compromessa; • Il principio di legalità è abolito o gravemente compromesso; • Gli enti locali sono privati di ogni autonomia politica; • L'indirizzo politico è concentrato in un partito, a sua volta dominato da un dittatore o da una ristretta oligarchia di capi; • Le culture, gli stili di vita, gli apprendimenti collettivi sono uniformati a modelli prestabiliti; • Le elaborazioni della memoria nazionale sono sostituite da una verità ufficiale sul passato; • La ricerca scientifica è posta al servizio dei progetti militari e civili dello stato, e degradata a tecnologia; • La coscienza individuale viene manipolata in vista della totale sottomissione alla volontà dei titorali del pubblico potere. Tali caratteri si prestano a 3 ordini di considerazioni. In primo luogo, lo Stato totalitario fu una forma di Stato ben piiù complessa di una dittatura personale, e ben più moderna dello Stato assoluto. Negli anni 30 alcuni studiosi democratici sostennero che l’avvento della democrazia contenesse una possibile torsione in senso totalitario. Secondo Neumann le tendenze conformistiche insite nella democrazia diventano pericolose quando compaiono sulla scena politica in forma organizzata, guidate da un demagogo, generosamente finanziate. Per separare il liberalismo dalla democrazia occorreva quindi, oltre ad eliminare le libertà individuali, screditare il pluralismo politico, e utilizzare il partito per raggiungere tutti gli strati sociali. Il popolo sarebbe stato considerato massa amorfa, manipolabile dall’alto. In secondo luogo, i caratteri che abbiamo delineato riconducono sia i regimi fascisti e nazisti sia i regimi comunisti alla matrice del totalitarismo. La questione però è controversa. Si potrebbe obiettare che il comunismo sovietico si affermò in un contesto istituzionale ed economico non paragonabile a quelli della Germania e dell’Italia. Tuttavia, nella Russia zarista la rivoluzione democratica del 1905 aveva portato all’istituzione di un Parlamento (Duma) e ad un’embrionale forma di liberalismo; e nel 1917 i bolscevichi guidati da Lenin ricorsero alla forza contro i menscevichi, i quali sostenevano le ragioni della democrazia. Si potrebbe obiettare che il fascismo e il nazismo mantennero i diritti di proprietà e di iniziativa economica privata, mentre i regimi comunisti nazionalizzarono i mezzi di produzione col fine di raggiungere l’eguaglianza sostanziale. Ma le diversità di ideologia e di sistema economico non sono isolabili dalla struttura del potere politico. Dunque, le diverse ideologie proclamate dagli Stati totalitari finirono col legittimare prassi di dominio politico sostanzialmente analoghe. In terzo luogo, i caratteri prima indicati fanno del modello totalitario un prodotto dell’Europa del XX secolo, solo in seguito adottato in altri continenti. 2. DELIMITAZIONE DELLO SPAZIO POLITICO. Quanto alla concezione dello spazio politico, gli Stati totalitari si assomigliavano per la tendenza all’espansione illimitata verso l’esterno. Ma gli approcci erano assai differenti. Secondo le direttive di Lenin e Stalin, il progetto di rivoluzione mondiale coltivato dal partito comunista sovietico doveva realizzarsi attraverso l’azione svolta dai partiti dell’Internazionale all’interno dei rispettivi Stati, senza però discuterne la sovranità territoriale. Il nazismo, al contrario, negava la legittimità delle frontiere statali. La teoria nazista del diritto internazionale come diritto dei popoli, anziché come diritto deli stati, mirava ad affermare il dominio della razza ariana sul mondo, con una concezione dello spazio e della guerra totale perfettamente aderente a questo disegno. 3. ORGANIZZAZIONE DEL PUBBLICO POTERE. L’eliminazione della separazione dei poteri in vista della concentrazione dell’indirizzo politico in un partito unico ricorre in tutte le esperienze di Stato totalitario. Ciò vale anche per il regime fascista, dal momento che la concorrente autonoma legittimazione della monarchia e l’effettivo esercizio delle prerogative regie, pur rivelando una certa dialettica, non toccavano l’indirizzo politico attivo. Questo era riconducibile al Duce direttamente o per il tramite del Gran Consiglio del Fascismo, organo prima di partito e poi trasformato in statale (1928). Per il resto, il governo e soprattutto il Parlamento erano istituzioni di facciata. Di facciata erano anche le istituzioni dell’intero apparato corporativo. Quanto alla magistratura occorre distinguere, in quanto il regime non arrivò a pretendere dal giudiziario l’esecuzione degli ordini dell’esecutivo, ed a comprometterne direttamente l’indipendenza funzionale. Anche nell’Unione Sovietica e negli altri regimi comunisti l’indirizzo politico era effettivamente detenuto dal partito, che una volta conquistato il potere nel 1917 rimase un’istituzione a sé stante, distinta dagli organi dello Stato, ma esercitante su questi un’influenza decisiva. Il bisogno di mantenere istituzioni di facciata viene meno del caso del Terzo Reich. A differenza del fascismo italiano e del comunismo sovietico, sotto il nazismo il Parlamento è soppresso e le altre istituzioni statali, magistratura compresa, vengono subordinate anche formalmente al partito. Nello stesso tempo, il dualismo fra partito e Stato restava indeterminato, dato che Hitler era a capo dell’uno e dell’altro, e l’individuazione caso per caso delle rispettive competenze consentiva di esaltare la superiorità del Fuhrer. 4. CONFORMAZIONE E GARANZIE GIURIDICHE DEI SOGGETTI. Il primo effetto sulla condizione dei cittadini riguarda la manipolazione delle masse. Le manipolazioni delle coscienze attuate dal totalitarismo dimostrarono che l’artificio umano era tecnicamente in grado di penetrare nella sfera interna di altri uomini con strumenti molto più incisivi e generalizzati che nel passato, plasmando i pensieri e quindi le azioni secondo finalità volute dal potere politico. Un secondo effetto del sistema totalitario sulla condizione dei cittadini è quello che riguarda la sicurezza, estremamente legato alla manipolazione delle coscienze. L'imprevedibilità delle decisioni pubbliche provoca paura, la quale alimenta a sua volta la ricerca di protezione e quindi la dipendenza dal potere. Parlando dei regimi orientali, Montesquieu aveva osservato che l’imprevedibilità delle decisioni politiche era fonte permanente di paura per i sudditi. Ma dai tempi dell’assolutismo i popoli europei erano abituati ad associare lo stato alla capacità di prestare sicurezza nei confronti della violenza privata. Sciogliendo l’azione pubblica dal vincolo della legalità, il totalitarismo rovesciava l’assunto e faceva del potere una fonte di permanente insicurezza. Un terzo effetto è la distruzione dell’eguaglianza e della stessa cittadinanza. Le persecuzioni razziali dei regimi totalitari e il genocidio degli ebrei nella Germania nazista presupponevano la naturale differenza fra esseri umani in base al fattore etnico, mentre gli stermini di massa decisi da Stalin presupponevano differenze di ordine sociale anziché fisico. Gli stermini, i lager, le purghe invece del Capo dello Stato un organo elettivo e a scadenza precostituita al pari dei membri del Reichstag. Ma la previsione era stata voluta dall’ala conservatrice dell’Assemblea Costituente al fine di bilanciare i poteri assegnati al Reichstag. La Costituzione affidava al Presidente i poteri di nomina e revoca discrezionale del Cancelliere, di scioglimento, e di ricorso ad ordinanze straordinarie in casi di emergenza. La fiducia non doveva essere formulata espressamente, ma era presunta fino a quando il Reichstag non l’avesse revocata, per cui, in assenza di una maggioranza parlamentare in grado di sostenere un Governo, il Presidente poteva optare per la nomina di un Governo di minoranza o per lo scioglimento del Reichstag. D’altra parte, il sistema politico era fortemente eterogeneo, essendo composto da 3 partiti maggiori, fedeli alla Repubblica ma molto divisi fra loro (i socialdemocratici, il Centro cattolico e i democratici), e da 3 partiti estremisti o antisistema (due di destra, i nazionalsocialisti e i populisti, e uno di sinistra, gli indipendenti). Infine, il sistema elettorale proporzionale adottato traduceva i voti in seggi rispecchiando fedelmente le opinioni politiche degli elettori, e il principio proporzionalistico era sancito dalla stessa Costituzione. Ben presto il Parlamento non riuscì ad esprimere maggioranze autosufficienti, mentre il Presidente godeva di una propria legittimazione popolare per contrapporsi al Parlamento. Quando, a partire dal 1930, il Presidente Hindenburg avviò la prassi di gabinetti presidenziali formati fuori o contro la volontà dei partiti rappresentati nel Reichstag, lo scontro politico si spostò nel cuore della forma di governo. L’instabilità istituzionale così si aggiunse agli altri fattori che portare all’instaurazione del nazismo. B) Nello Stato costituzionale, l’organizzazione dei pubblici poteri è molto più ampia della forma di governo in senso stretto. Le Costituzioni del secondo dopoguerra oltre a disciplinare gli organi di indirizzo ed i loro rapporti, ripartiscono il pubblico potere in una pluralità di enti, organi ed istituti ciascuno dei quali provvisto di una propria quota di legittimazione e reso titolare di distinte funzioni. Fra le innovazioni più ricorrenti possiamo annoverare: • Articolazione dello Stato secondo il modello regionale o federale; • Spazio assegnato ad istituti di democrazia diretta a partire dal referendum; • Istituzione di giurisdizioni investite del controllo di legittimità costituzionale delle leggi e di altre funzioni specifiche, distinte da quelle dei giudici comuni; • Potenziamento o prima affermazione dell’autonomia e dell’indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri. Le prime due innovazioni riflettono l’affermazione di una visione pluralistica della democrazia. Le restanti innovazioni di tipo organizzativo introdotte dalle Costituzioni dello Stato costituzionale riflettono piuttosto esigenze di garanzia in precedenza sconosciute. La sottoposizione delle leggi al controllo di legittimità costituzionale esprime non solo il primato della Costituzione su tutte le fonti del diritto nazionale ma anche uno spostamento delle garanzie dei diritti soggettivi dal legislativo, che ancora nello Stato liberaldemocratico ne costituiva il perno, al potere giurisdizionale e alla Corte Costituzionale. Queste innovazioni, e in modo particolare la giurisdizione costituzionale e il riconoscimento delle autonomie territoriali, sono non a caso molto più accentuate nei Paesi usciti dal totalitarismo (Italia, Germania, Spagna, Portogallo e più tardi i paesi dell’Europa orientale) che in quelli dove non aveva attecchito (Francia, Olanda, Paesi Scandinavi). In sede nazionale, nella misura in cui ai tre classici poteri se ne aggiungono altri, come le Corti costituzionali e i Presidenti delle repubbliche parlamentari, il principio di separazione dei poteri allarga il suo raggio d’azione. In riferimento al potere giurisdizionale, acquista poi una nuova valenza garantistica. 4.CONFORMAZIONE E GARANZIE GIURIDICHE DEI SOGGETTI. È opinione generalmente condivisa che la ragion d’essere più profonda dello Stato costituzionale consista nel rispetto della persona umana. Le costituzioni riflettono in questo l’apprendimento delle conseguenze cui può portare il disprezzo della persona di cui parla la Dich. Univ. Dei diritti dell’uomo, e nello stesso tempo avviano processi di apprendimento fondati sui principi di libertà, dignità ed eguaglianza. Affinché i valori insiti nell’etica sociale di un popolo acquistino rilievo giuridico e diventino base sostanziale delle istituzioni e delle norme da queste prodotte è necessario che gli stessi assumano la veste di principi. Ecco un’altra ragione per cui la costruzione di un diritto più alto della legge non si esaurisce nella sovrapposizione di un grado gerarchico al sistema delle fonti del diritto. La Costituzione dello Stato costituzionale, provvista di regole e di istituti, ma caratterizzata da principi, è sì un diritto più alto, ma non più astratto della legge. In questo senso si può dire che l’affermazione di un diritto per principi riveli l’intento di ricercare la giusta distanza fra pubblico potere e cittadino. Lo Stato liberale si era fondato su una serie di concetti artificiali, dalla rappresentanza politica all’eguaglianza giuridica, e anche grazie ad essi aveva generato processi di emancipazione sociale. Man mano che accedevano alla sfera pubblica con l’allargamento del suffragio universale, le classi e i gruppi un tempo esclusi apprendevano la distanza incolmabile con gli assetti istituzionali e le regole di convivenza. Le contraddizioni che non trovavano sbocco nella soluzione liberaldemocratica provocavano frustrazioni collettive e su di esse facevano leva i leader dei partiti totalitari, che promettendo una svolta verso il concreto ridurranno il popolo a massa e il cittadino ad automa. Nell'impostare il rapporto fra pubblico potere e cittadini, lo Stato Costituzionale ricerca una giusta distanza. Rovescia la prospettiva totalitaria e allo stesso tempo si distacca dalla prospettiva dello Stato liberale. La duplice tendenza risulta, in primo luogo, dal modo con cui sono riconosciuti i diritti fondamentali. Che specificano principi sottratti alla disponibilità del pubblico potere, (libertà, dignità, eguaglianza) e al tempo stesso presentano una dimensione sostanziale ed egualitaria sconosciuta all’assetto liberale-oligarchico. In secondo luogo, la ricerca della giusta distanza si avverte nelle formulazioni del principio della sovranità popolare. Il popolo è reso titolare di una sovranità che può esercitare alle condizioni costituzionalmente previste. In terzo luogo, la ricerca della giusta distanza si avverte in modo particolarmente evidente nell’articolazione territoriale dello Stato secondo il modello federale o regionale. In quarto luogo, il riconoscimento del pluralismo dei gruppi organizzati. In quinto luogo, lo spostamento delle garanzie dei diritti dal legislativo ai giudici non risponde solo all’esigenza di separare i poteri, ma conferisce anche effettività al godimento di tali diritti rispetto all’epoca in cui la generalità ed astrattezza dei precetti legislativi assorbiva ogni pretesa di giustizia. SECONDA PARTE. CAP VIII – FORME DI GOVERNO 1. COMPARAZIONE PER MODELLI E CRITERI DI VALUTAZIONE DEL LORO RENDIMENTO In passato la democrazia era identificata nel modello parlamentare. La forma di stato liberaldemocratica corrispondeva, in termini di organizzazione del potere, solo alla forma di governo parlamentare. Lo stato costituzionale invece si è espresso con diverse forme di governo (non solo parlamentare), a dimostrazione che non è solo quella parlamentare che garantisce la democrazia. Quindi, più che guardare alla forma di governo in sé, ci si chiede se questa è in grado di funzionare. E per verificare ciò che si procede alla comparazione delle diverse forme di governo. NB - Lo stato costituzionale si differenzia rispetto agli altri perchè ha come fine il rispetto dei principi costituzionali, sottratti alla disponibilità dei pubblici poteri (costituzione è legge delle leggi). MODELLO PARLAMENTARE: la stabilità di governo è il più significativo indice di funzionamento di questo modello. Più a lungo resta in carica un governo, maggiore sarà il suo rendimento. La durata in carica del governo dipende dalla permanenza del rapporto di fiducia parlamentare (fiducia caratterizza questa forma di governo e quella semipresidenziale o dualista parlamentare). La stabilità di governo è indice di funzionalità solo quando dimostra la capacità di perseguire certi obbiettivi quali la stabilità dell'ordinamento costituzionale, l'efficienza dell'azione pubblica, la responsabilità della maggioranza parlamentare e del governo. Un sistema caratterizzato da instabilità non può garantire un'efficiente azione di governo, ma non è garantito il contrario, ben può capitare che un governo stabile non riesca a raggiungere i prorpi obiettivi. Un governo capace di rimanere in carica per tutta la legislatura potrà essere giudicato consapevolmente dal corpo elettorale, sia per i meriti che per i ritardi e/o omissioni, invece, se si susseguono più governi in una stessa legislatura è difficile imputare la responsabilità delle decisioni prese. Il circuito di responsabilità è credibile quindi solo quando vi è stabilità di governo. MODELLO PRESIDENZIALE: qui gli elettori votano direttamente per un presidente che non può essere rimosso dall'assemblea e i tutolari di ciascuna istituzione sono responsabili di fronte agli elettori per lo svolgimento delle funzioni loro assegnate dalla costituzione. La superiorità di questo modello consiste nel risolvere a monte il problema della stabilità di governo attraverso la non rimozione del presidente però, proprio perchè le funzioni sono nettamente separate tra di loro (mancando la fiducia), si possono creare conflitti cronici tra le stesse o possono crearsi situazioni di stallo a pregiudicare il buon funzionamento del circuito di responsabilità. I sistemi bipolari o multipolari, sono più soggetti all'instabilità governativa poiché screzi che possono facilmente sorgere tra le coalizioni possono causare crisi di governo. Il sistema è tripolare quando il centro del sistema politico è stabilmente occupato da uno o più partiti. In questi sistemi è possibile trovare la presenza di partiti “antisistema” quei partiti cioè che per ragioni ideologiche o altro sono indisponibili a fare parte di maggioranze e anzi, bloccano il formarsi di una forte maggioranza (che invece sarebbe ideale). 3. SISTEMI ELETTORALI E SISTEMI POLITICI Il sistema elettorale è il sistema con cui i voti degli elettori vengono trasformati in seggi elettorali. I principali sistemi elettorali sono: 1. maggioritario (a turno unico o doppio turno) 2. proporzionale Con il sistema maggioritario ottiene il seggio il candidato che raggiunge la maggioranza di voti nel collegio. È a turno unico quando è richiesta la maggioranza relativa e quindi vi sarà sicuramente un vincitore. Altrimenti, quando è richiesta la maggioranza assoluta, tale certezza c'è solo quando le liste sono due, altrimenti, cosa che accade sempre, si ha una sistema a doppio turno e nel secondo turno accedono i due candidati meglio piazzati (ballottaggio) o quelli che abbiano superato una certa soglia di voti (sbarramento). Con il sistema proporzionale invece i seggi sono assegnati in base al numero di voti ricevuti. Il sistema maggioritario è il più adatto a fornire una buona maggioranza ma questo a discapito della rappresentatività elettorale. Il sistema proporzionale invece riflette in pieno le scelte degli elettori ma crea molte difficoltà alla formazione di una forte maggioranza parlamentare. Si tende a pensare che proporzionale=democrazia, ma questo è smentito dal fatto che molti sistemi democratici utilizzano sistemi maggioritari. La scelta del sistema elettorare incide sulle modalità di voto e concorre a strutturare il sistema politico. Es Gran Bretagna e stati uniti, sistema maggioritario, sistema bipartitico (ma lo erano già), in italia dal 94 al 2005 vigeva il sistema maggioritario, prima proporzionale (ora misto) e questo ha ridotto nel lungo periodo al multipartitismo estremo. L'insediamento dei partiti sul territorio inoltre non influenza il sist proporzionale ma quello maggioritario nel quale verrano premiati i partiti con forte insediamento locale in virtù della regola della maggioranza nel collegio. (?) 3. VARIABILI CHE INCIDONO SUGLI EFFETTI DEL SISTEMA ELETTORALE Diverse le variabili che incidono sul sistema elettorale: VARIABILI CONNESSE ALLA FORMULA ELETTORALE PROPORZIONALE A) dimensione dei collegi: minore è il loro numero, minore la loro rappresentatività e anche un sistema proporzionale può rivelarsi maggioritario B) metodo per ripartire in voti i seggi: due metodi, quello del quozione corretto e quello del divisore. Il metodo del quoziente corretto consiste nel dividere il numero dei voti ottenuti da tutte le liste del collegio per il numero dei seggi da assegnare, numero però corretto al fine di ottenere la giusta proporzione tra voti e seggi. Il metodo del divisore invece consiste nel dividere il numero di voti ottenuto da ogni lista per un comune divisore. C) clausola di sbarramento: preclude di ottenere seggi a quelle liste che hanno ricevuto un numero di voti inferiori ad una soglia che oscilla tra il 2 e il 5% D) premi di maggioranza: attribuzione di un certo numero di seggi alla lista, o alla coalizione, che ha ottenuto più voti, col risultato di garantirle una maggioranza forte. Tutte queste variabili possono portare a risultati similmaggioritari. VARIABILI CONNESSE ALLA FORMULA ELETTORALE MAGGIORITARIA A) il turno unico: può portare ad un sistema politico bipolare, o addirittura bipartitico, purchè manchino partiti fortemente radicati in alcune aree territoriali che invece sarebbero premiate dal maggioritario. B) il doppio turno: può concorrere a trasformare un sistema multipolare in bipolare. Questo per gli effetti che produce sull'elettore che al primo turno sceglie chi votare di propria volontà, al secondo turno invece, quando le opzioni di voto si riducono solo a due solitamente, l'elettore tende a votare per chi considera il “meno peggio” o non votare affatto. Inoltre, spesso, dopo il primo turno, molti partiti minori si coalizzano con quelli che andranno in secondo turno, tutto sotto gli occhi degli elettori, avvantaggiando così la democrazia. 4. ESEMPI DI COMPARAZIONE TRA FORME DI GOVERNO PARLAMENTARI Modello a matrice monista prodotto da convenzioni costituzionali (Regno Unito) Il governo del Regno Unito è caratterizzato da un assetto bipartitico e da una alternanza tra maggioranze costituite da partiti coesi tra di loro. Questo ha portato ad una notevole stabilità interna e nel lungo periodo ha trasformato il rapporto tra elettori e organi di indirizzo politico come un “mandato elettorale”. Secondo la “dottrina del mandato elettorale” infatti gli elettori non scelgono solo i propri rappresentanti ma anche e soprattutto l'indirizzo politico che il governo si impegnerà ad attuare, salvo i casi di emergenza. Non si riferisce quindi alla persona del primo ministro ma al programma che il partito che ha vinto le elezioni si è impegnato ad attuare. Tale dottrina non rientra nelle convenzioni costituzionali e non è vincolante. Infatti, gli impegni politici dei partiti diventano vincolanti solo quando si traducono in atti legislativi. È piuttosto una formula persuasiva che ottimizza e caratterizza la forma di governo parlamentare inglese. Alcuni studiosi vedono nella forma di governo britannica un “governo di gabinetto”, altri un “governo del premier”. In entrambi i casi il governo assume una capacità decisionale superiore a quella del parlamento. Questa superiorità è dovuta dal fatto che in tale governo bipartitico si ha una sicura maggioranza parlamentare e questo comporta la sicurezza circa l'approvazione dei nuovi progetti di legge (bill) presentati al parlamento. (ricorso alle leggi di delegazione nel tempo hanno accresciuto il potere legislativo del governo). La presenza di un governo di gabinetto o governo del premier dipende da diversi fattori quali la compattezza del partito di maggioranza, la forza personale del cancelliere dello scacchiere, lo stile personale e la conduzione di governo del premier (es gov. Blair era governo del premier). Guardando alla storia britannica si vede una prevalenza del governo del premier sul governo di gabinetto. Questo si deve alla convenzione costituzionale della responsabilità collettiva per la condotta del governo e questo fa si che un membro del gabinetto che dissenta dalle scelte del governo può solo scegliere se accettare ugualmente tali scelte o dimettersi. Inoltre, la prevalenza del primo ministro deriva dal fatto che è sempre a capo del partito di maggioranza. C'è unione delle cariche personali di primo ministro e leader del partito di maggioranza, unione che si ripropone sempre, anche quando il posto di leader è vacante poiché colui che viene nominato primo ministro diventa sempre e automaticamente leader del partito di maggioranza. Il primo ministro può: dettare l'agenda politica, fare passare in parlamento i progetti di legge conformi all'indirizzo di governo, scegliere discrezionalmente i titolari delle cariche pubbliche più elevate, revocare ministri dissenzienti o che non si comportano secondo le aspettative (oltre che il potere sostanziale di sciogliemento che però spetta formalmente alla corona). Il rovescio della medaglia dell'unione delle due cariche è che il primo ministro deve tenere sempre sotto controllo il suo partito e questo può portare che o per motivi personali o per volontà del partito, il primo ministro decade e subentra il nuovo leader nominato dal partito. Modello a matrice monista prodotto da congegni di razionalizzazione (Germania) Fra i modelli monisti parlamentari è quello che più permette di raggiungere la stabilità di governo, tramite congegni di razionalizzazione e altre misure costituzionalmente previste. I congegni di razionalizzazione sono tre: Dal 1970 sono stati apportati alcuni cambiamenti alla costituzione francese del 1958 al fine di restaurare l'autorità statale, superare le continue crisi di governo e reagire alla fine dell'impero coloniale. L'art. 49 cost si limita a prevedere, senza sancire un'obbligo in tal senso, che il primo ministro impegna davanti all'assemblea nazionale la responsabilità del governo sul suo programma. La fiducia è dunque presunta in questo caso. Netto squilibrio a favore del governo, la mozione di sfiducia è assoggettata ad una serie di limiti ed è approvata solo se ottiene la maggioranza assoluta dei voti. La stabilità è dunque qui raggiunta non prevedendo ipotesi tassative per la mozione di sfiducia come nella costituzione tedesca ma limitando i poteri del parlamento a favore di quelli del governo. I costituenti francesi infatti più che alle relazioni tra parlamento e governo guardarono ai poteri dei singoli organi, sia → all'art 20 in cui sanciscono che “il governo determina e dirige la politica nazionale” → all'art 34 con l'istituzione del conseil constitutionnel che ha il compito di verificare a monte il rispetto del riparto di potestà normativa tra leggi (parlamento) e regolamenti (governo) → agli artt. 41-47 tramite la costituzionalizzazione di aspetti del procedimento legislativo di solito riservati ai regolamenti parlamentari. La figura del presidente della repubblica rientrava nel disegno costituzionale di spostare i poteri di indirizzo dal parlamento al governo. Il presidente veniva investito di numerosi poteri non soggetti a controfirma ministeriale, tra questi: nomina del primo ministro e potere di mettere fine alle sue funzioni in caso di dimissioni del medesimo (art 8); sottoposizione a referendum di progetti di legge (concernenti anche l'organizzazione dei pubblici poteri) (art. 11); scioglimento dell'assemblea nazionale (salvo che entro l'anno successivo al precedente scioglimento) (art. 12); adozione delle misure richieste in caso di minaccia grave alle istituzioni, all'indipendenza della nazione, all'integrità della nazione, etc. Questi poteri, uniti all'elezione diretta, conferiscono al presidente un'estrema importanza. Nel 1958, De Gaulle propose, ma non ottenne l'elezione diretta. Il presidente veniva designato per 7 anni da un collegio composto da membri del parlamento, dei consigli generali, delle assemblee dei territori d'oltremare e da rappresentanti eletti dai consigli comunali. È nel 1962, in seguito al referendum che ottiene l'elezione diretta. I nuovi artt. 6 e 7 cost prevedono l'elezione a suffragio con sistema maggioritario a doppio turno con ballottaggio. La durata in carica rimane fissa in 7 anni. In francia il presidente della repubblica è il capo dello stato, del governo e della maggioranza. [de gaulle mise in piedi un partito di centrodestra, l'union nationale de la republique, che nel 1981 ottenne la maggioranza assoluta dei seggi, e il sistema da multipolare si trasformò in bipolare perchè propose a mitterand, leader di centrosinistra, di creare una volta una forte coalizione di partiti di sinistra. Questa maggioranza parlamentare, creata di fatto dal presidente della repubblica, faceva si che il governo stesso fosse un organo di emanazione del presidente, andando oltre le previsioni costituzionali. Quindi, il presidente e non il governo, diventava il detentore del potere di determinare e dirigere la politica nazionale come previsto dalla cost all'art 20 in favore del governo. Dall'elezione diretta scaturì quindi il paradosso del non rispetto delle previsioni costituzionali poiché il potere si concentra tutto nelle mani del presidente]. Ai fini della stabilità di governo, si presuppone una coincidenza tra la maggioranza che elegge il presidente (es se presidente di destra, maggioranza è di destra, uno di sinistra non lo vota!) e quella parlamentare. Altrimenti si crea coabitazione e in questo caso il presidente ha due possibilità: può decidere di sciogliere l'assemblea nazionale (sempre se questa è in carica da più di un anno altrimenti la cost stessa glielo impedisce) oppure vi è l'autolimitazione del presidente (come accadde a mitterand nel 1981) che si occuperà solo di affari di politica estera e difesa lasciando al primo ministro, leader della maggioranza parlamentare, i poteri di indirizzo politico. Rispetto agli altri assetti dualisti parlamentari la stabilità della V repubblica appare più problematica, quando le maggioranze coincidono il presidente ha molti più poteri rispetto alle forme di governo democratiche, quando invece divergono vi è una redistribuzione del potere che va a minare il circuito di responsabilità di fronte agli elettori che non sapranno a chi dare meriti/colpe per la gestione del potere. CAPITOLO IX. TIPI DI STATO. 1. TIPI DI STATO E DEMOCRAZIA PLURALISTA. Nel classificare le esperienze costituzionali per “tipi di stato” bisogna analizzare la modalità di volta in volta prescelta per ripartire le funzioni pubbliche fra enti territoriali. Nei nostri studi i tipi consistono nello STATO ACCENTRATO, nello STATO REGIONALE e nello STATO FEDERALE. Anche se altrove il secondo tipo viene spesso degradato a sottotipo del primo, per le ragioni di seguito adottate riteniamo che la classificazione corrente in Italia abbia un fondamento più solido. Tuttavia, il modello di organizzazione delle autonomie territoriali maggiormente diffuso risulta quello federale (in una trentina di stati). Una seconda avvertenza riguarda l’oggetto della nostra classificazione. Una pur minima ripartizione di funzioni fra enti territoriali riguarda qualsiasi Stato. Per cui la nostra classificazione non dovrebbe limitarsi alle democrazie. La ricerca sarà invece circoscritta alle esperienze che con maggior certezza possiamo ricondurre alla forma dello Stato costituzionale, sacrificando quelle di Stati che pur autodefinitisi federali non presentano le caratteristiche ascrivibili allo Stato costituzionale (es. Russia). Per giustificare questa esclusione dobbiamo chiederci se la ripartizione delle funzioni pubbliche fra enti territoriali consista soltanto in una tecnica di distribuzione del potere o se rifletta altro. Nello stato costituzionale, gli enti territoriali sono enti esponenziali di collettività umane definibili in base alla loro dislocazione sul territorio, per cui le modalità di ripartizione delle funzioni fra di essi corrispondono ad altrettante prospettazioni della convivenza. Dobbiamo ricordare in proposito le tesi di Bodin e Althusius. Per Bodin, la sovranità dello stato, assoluta e indivisibile, si concretizza nella titolarità esclusiva del potere legislativo in capo al Re, per cui ogni altra fonte di produzione di norme legislative sarebbe incompatibile con la sussistenza di un potere sovrano e con lo stesso concetto di Stato. Althusius, al contrario, ricostruisce lo Stato come il risultato della progressiva aggregazione in via contrattuale fra associazioni, talune delle quali sono associazioni pubbliche che rimangono titolari di poteri normativi anche a seguito dell’aggregazione dello Stato, nonché del potere di secessione da esso. Queste due tesi non solo erano soluzioni tecniche del problema dell’ordine politico, ma riflettevano visioni alternative dell’organizzazione della convivenza, monistica nel cado di Bodin, pluralistica nel caso di Althusius. Le Rivoluzioni francese e americana innesteranno le visioni, rispettivamente, di Bodin e Althusius in nuovi assetti giuridico-costituzionali. Il connotato dell’indivisibilità del potere sovrano (monismo di Bodin) sarà riferito alla nazione e poi al popolo in vista dell’affermazione dei diritti di libertà di ciascun cittadino, che vanno quindi assicurati in condizioni di eguaglianza, indipendentemente dalla dislocazione territoriale. L'accentramento del pubblico potere quindi trova ora giustificazione in qualcosa di esterno alla sovranità dello Stato, ovvero nell’eguaglianza dei diritti dei cittadini. A sua volta, la costruzione pluralistica di Althusius, basata su un tessuto di autonomie normative nell’ambito di una più ampia unità federale, si convertirà nell’attribuzione agli Stati membri della Federazione statunitense di poteri normativi costituzionalmente garantiti. Mentre però l’unione federale di Althusius non è costituita da individui, ma da province e libere città, quella prevista dalla Costituzione statunitense si compone di cittadini oltre che di Stati. Poiché all’epoca dei Costituenti americani la nozione di sovranità dello Stato già consisteva nella titolarità di poteri esclusivi sul proprio territorio, il passaggio dalla Confederazione allo Stato Federale esigeva di risolvere per la prima volta il dilemma della doppia Sovranità. Secondo una certa ricostruzione, i Costituenti avrebbero consapevolmente aggirato il dilemma, attribuendo la sovranità a un terso soggetto, il popolo degli Stati Uniti: per Costituzione, gli Stati membri come lo Stato federale possono esercitare solo poteri delegati dal popolo, salvo che nel campo delle relazioni internazionali. Nello stesso tempo, la ripartizione costituzionale di attribuzioni fra Stati membri e Stato federale assicurava una separazione in senso verticale che mirava a garantire i cittadini dall’esercizio arbitrario del pubblico potere. D'altra parte, i cittadini della Federazione godevano dei loro diritti in condizione di eguaglianza solo nella misura in cui questi fossero riconosciuti o ritenuti impliciti nella costituzione federale: quanto agli ulteriori diritti previsti dalle costituzioni degli Stati membri, sarebbero stati trattati in modo differenziato. La comparsa, alla fine del ‘700, di due modelli rivali di organizzazione territoriale corrispondeva dunque a modi diversi di intendere la convivenza. Nel XIX secolo, l’uno e l’altro modello avrebbero avute significative ricadute in altri Stati. Il sistema federale statunitense fu preso a modello all’atto di indipendenza nei Dominions britannici (Canada, Australia), mentre il sistema accentrato francese fu adottato nel resto dell’Europa continentale con le eccezioni della Svizzera e della Germania, divenuti Stati federali a seguito dell’unificazione di >Stati sovrani già legati da un vincolo confederale. Con una netta inversione di tendenza, le costituzioni europee del secondo dopoguerra hanno prefigurato impianti pluralistici di tipo federale o regionale. Mentre i primi stati federali erano l’esito di unificazioni di Stati un tempo sovrani, in questo caso si trattava di articolare in senso autonomistico Stati accentrati. Il riconoscimento del pluralismo autonomistico si può considerare il sintomo di quella ricerca di giusta distanza fra cittadini e pubblico potere che caratterizza lo Stato Costituzionale; inoltre, il suo riconoscimento, consentiva di utilizzare diverse decisioni, onde fornire ai cittadini la migliore combinazione empiricamente possibile tra partecipazione alla decisione ed effettività della stessa. Questo motivo connota la scelta costituzionale di ripartire la funzione legislativa fra centro e periferia. 2. UNO SCHEMA ELEMENTARE DI CLASSIFICAZIONE. FUNZIONI RIPARTITE FONTE ABILITATA comune e indivisibile, riconosce e garantisce il diritto all’autonomia delle nazionalità e delle regioni che la compongono, nonché la solidarietà fra tutte queste”. Il predicato dell’indivisibilità va considerato una conferma della tradizione centralistica, malgrado l’attribuzione di poteri legislativi alle autorità territoriali, oppure acquista un diverso significato proprio alla luce di essa? In base all’art 5 della nostra costituzione, l’indivisibilità significa che gli organi legislativi, anche in veste costituente, non debbano e non possano stabilire la divisione dell’Italia segnandone la morte, e i principi di unità e indivisibilità sono stati previsti dalla Costituzione proprio perché essa ha attribuito alle regioni molti poteri e molte funzioni che si riteneva potessero rappresentare un pericolo per l’unità italiana. Il problema del contemperamento fra istanze unitarie e autonomistiche si pone sul piano della effettiva ripartizione delle competenze legislative e amministrative. Le scelte dei Costituenti italiani e spagnoli sulla ripartizione delle competenze muovevano da presupposti diversi. Al momento dell’inizio dei lavori dell’Assemblea Costituente italiana, i conflitti insorti fra alcune Regioni e lo Stato erano stati in parte dipanati. Arginate le spinte separatistiche in Sicilia, anche in forza di uno Statuto che attribuiva una larga autonomia legislativa alla Regione, i Costituenti rinviarono a successive leggi costituzionali l’approvazione degli Statuti speciali, e si concentrarono sulle Regioni a statuto ordinario. Ne scaturì un testo, collocato nel Titolo V della Seconda Parte, che manteneva solo parzialmente la promessa del pluralismo autonomistico racchiusa nell’ art 5. Ne riassumiamo gli elementi minimi per poi confrontarli con quelli che emergeranno dalla Costituzione spagnola: a. Nelle materie elencate dall’art 117, le Regioni erano titolari di poteri legislativi nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge statale (potestà legislativa concorrente); b. Le funzioni amministrative (dello Stato e delle Regioni) corrispondevano a quelle legislative (criterio del parallelismo); c. I controlli sulla legittimità costituzionale delle leggi regionali erano rimessi alla Corte Costituzionale, e quelli sulla violazione del limite di merito dell’interesse nazionale erano rimessi al Parlamento, al termine di un procedimento che consentiva valutazioni discrezionali da parte del Governo centrale; d. I controlli sulle amministrazioni regionali e locali aprivano consistenti spazi discrezionali all’apprezzamento degli organi centrali. In sede di attuazione costituzionale l’ordinamento regionale si discostò in misura ancora maggiore dall’enunciazione dell’art 5. Non a caso, la crisi del sistema politico nei primi anni 90 rese evidente quella dell’assetto autonomistico, ponendo l’esigenza di una revisione del Titolo V della Seconda parte poi approvata con l. cost. N. 3 del 2001. Le innovazioni possono riassumersi: a. Nell'inversione dell’ordine di imputazione delle materie rispetto a quanto stabilito dal testo previgente, con elencazione delle materie oggetto, rispettivamente, di legislazione statale esclusiva e di legislazione concorrente fra Stato e Regioni, e rimessione delle materie non elencate alla legislazione regionale; b. Nella allocazione delle funzioni amministrative fra tutti gli enti territoriali a partire dai Comuni; c. Nella riduzione del controllo sulla legge regionale al giudizio preventivo di legittimità della Corte Costituzionale su impugnativa dello Stato; d. In una drastica potatura dei controlli sulle amministrazioni di Regioni ed enti locali. I costituenti spagnoli dovevano misurarsi con rivendicazioni autonomistiche assai più accese che in Italia, soprattutto nei Paesi Baschi, Catalogna e Galizia. E le loro scelte ne risentirono per almeno 3 aspetti fondamentali. Anzitutto, la Costituzione non prefigura il disegno di uno Stato regionale, ma stabilisce le regole di un processo di decentramento basato sul “diritto all’autonomia” delle diverse nazionalità e regioni (art 2), da esercitarsi su loro richiesta. Allo stesso criterio, in secondo luogo, è improntata la ripartizione delle competenze: mentre l’art 149 prevede che “lo Stato gode di competenza esclusiva” nelle materie ivi elencate, secondo l’art 148 “la Comunità autonoma potrà essere competente nelle seguenti materie”, in linea con la previsione che affida agli statuti delle Comunità l’individuazione delle “competenze assunte nell’ambito stabilito dalla Costituzione e le basi per il trasferimento alla Comunità dei relativi servizi” (art 147). In terzo luogo, nelle materie riservate in esclusiva allo Stato, le Cortes, ossia il Parlamento nazionale, “potranno attribuire a tutte le Comunità o ad alcune di esse la facoltà di emanare per proprio conto norme legislative sulla base dei principi, delle basi o delle direttrici fissati da una legge statale” (art 150). Dunque, secondo la Costituzione spagnola, non solo l’autonomia è una libera opzione delle Comunità autonome, ma lo è anche la scelta delle materie su cui potranno legiferare; e a sua volta, nello scegliere le materie su cui decida di esercitare una potestà legislativa concorrente anziché esclusiva, il Parlamento potrà esercitare simile opzione a favore di alcune, e non necessariamente di tutte, le Comunità. Queste caratteristiche spiegano perché lo Stato regionale spagnolo venga definito “asimmetrico”. In teoria, secondo la Costituzione, si sarebbe potuti giungere ad avere 17 livelli di autonomia, tanti quante sono le Comunità autonome. Ma nella prassi il processo di costruzione dell’impianto autonomistico ha finito con il distinguere due soli gruppi di comunità: un gruppo di 7 dotate di un livello più alto di autonomia che consiste nella titolarità di tutte le competenze non espressamente riservate allo Stato dall’art 149 Cost., e il restante gruppo di dieci Comunità, in ordine alle quali gli “Accordi Autonomi” hanno consentito trasferimenti di competenze dello Stato alle Comunità su blocchi omogenei di materie. Vi è appunto differenza fra l’assetto regionale italiano e quello spagnolo per quanto riguarda le modalità di ripartizione delle competenze agli enti territoriali. Anche il processo di ripartizione è diverso: mentre in Italia la ripartizione è stata decisa al centro, inn Spagna la ripartizione è stata contrattata fra Stato e singole Comunità. Per contemperare le istanze unitarie con quelle autonomistiche, sono decisive le modalità di partecipazione delle autorità territoriali ai processi nazionali di decisione politica, e in particolare al procedimento legislativo. In proposito dobbiamo distinguere il sistema DUALE dal sistema COOPERATIVO. Nel primo caso la ripartizione costituzionale delle competenze legislative fra enti territoriali viene ritenuta condizione non solo necessaria ma anche sufficiente di un impianto regionale o federale, per cui la legge nazionale e la legge regionale si muovono ciascuna entro sfere fra loro parallele, cui corrisponde una sfera di attribuzione amministrativa, ossia di una stretta esecuzione della legge nazionale o regionale. Nel secondo caso la ripartizione di competenze fra enti territoriali è ritenuta insufficiente a soddisfare obiettivi della comune convivenza, e le Costituzioni o la legislazione predispongono allora congegni e sedi istituzionali di partecipazione delle autonomie territoriali ai processi nazionali di decisione politica. La distinzione degli Stati ad autonomia costituzionalmente garantita in duali e cooperativi è trasversale a quella fra Stato federale e regionale. In Italia, come in Spagna, i raccordi istituzionali fra centro e periferia si svolgono fra governi o amministrazioni, senza toccare la legislazione: i membri del Senato sono eletti direttamente dal corpo elettorale. Il risultato è che le grandi decisioni statali sono adottate senza la partecipazione effettiva di tali Comunità, e una volta adottate, lo Stato centrale non ha strumenti per imporle gerarchicamente alle Comunità, per cui l’unico modo per risolvere i conflitti consiste nell’adire il Tribunale Costituzionale. 5. LO STATO FEDERALE. Del modello federale sappiamo che può emergere sia da un’aggregazione di Stati un tempo sovrani, sia da un’articolazione in Stati membri di un unico Stato originariamente accentrato. Che, di solito, la ripartizione costituzionale fra Federazione e Stati membri attiene a funzioni amministrative, legislative e giurisdizionali. Che, di solito, le Costituzioni degli Stati federali possono venire modificate solo con la compartecipazione diretta o indiretta degli Stati membri al procedimento di revisione costituzionale. Gli stati federali si caratterizzano per un margine di autonomia degli Stati membri maggiore di quello consentito alle Regioni negli Stati regionali. Però, gli elementi che abbiamo ascritto al modello federale non ricorrono in tutte le esperienze. 5.1. Modello duale e modello cooperativo. La distinzione tra modelli duali e cooperativi è la più importante variabile trasversale alla partizione in Stati regionali o federali. Confronteremo le esperienze degli Stati Uniti, dove il modello duale appare più radicato che altrove, e della Germania, che possiamo considerare il prototipo del modello cooperativo. 5.1.1. L’impianto costituzionale. A) Modalità di ripartizione della funzione legislativa: la Costituzione statunitense ripartisce la funzione legislativa riservandola allo Stato federale nelle materie ivi elencate e in quelle ad esse implicitamente connesse (implied matters), e agli Stati membri in tutte le altre. Non sono esplicitamente previsti casi di legislazione concorrente, anche se possono sempre darsi casi di concorrenza tra legge federale e legge statale. La legge federale che confligga con la legge statale prevale su di essa secondo l’art VI della Costituzione (supremacy clause). La previsione dimostra che i Costituenti erano consapevoli della possibilità di una legislazione concorrente in certe materie. Ma vi vedevano il rischio di conflitti, tanto da non prevedere un elenco di materie su cui avrebbe dovuto esercitarsi. La Costituzione tedesca, oltre ad elencare le materie riservate alla potestà legislativa esclusiva del Bund, prevede al contrario un secondo elenco di materie oggetto di legislazione concorrente, su cui la competenza spetta allo Stato federale alle condizioni dettate dall’art 72 (se una questione non può essere efficacemente regolata dalla legge del singolo Land, se una regolazione con legge del Land nuoce agli interessi di altri Laender etc). In questi casi il Bund può legiferare sull’intera materia oggetto di legislazione concorrente. Fino alla revisione costituzionale del 2006, nelle materie elencate nell’art 75 il Bund inoltre decidere, ove ricorressero le condizioni dell’art 72, di “emanare disposizioni di principio” che il Laender avrebbero dovuto attuare. (economia). In Bund ha sfruttato a fondo la possibilità di esercitare le competenze concorrenti alle condizioni previste dall’art 72, compensando i Laender attraverso un rafforzamento del Bundesrat che i Costituenti non avevano previsto. Inoltre, secondo l’art 91-a, introdotto con legge di revisione del 1969, il Bund collabora all’assolvimento dei compiti dei Laender in alcuni settori strategici. Queste sono le principali forme di cooperazione istituzionalizzata fra gli enti territoriali. Il Bund gode di una potestà legislativa molto estesa sull’imposizione fiscale, mentre quella dei Laender è ristretta ad imposte locali di consumo. Ma anche qui è previsto un sistema di compensazioni, fondato sulla regola di perequazione finanziaria fra i Laender e stabilito con legge, su cui è richiesto l’assenso del Bundesrat (art 107). L'intero sistema federale è quindi improntato alla cooperazione, che investe anche il potere di revisione costituzionale. Per modificare la Costituzione occorre infatti che sia raggiunta la maggioranza dei 2/3 al Bundestag e al Bundesrat (art 79). Le controversie fra Bund e Laender sono state spesso risolte in sede politica, senza giungere dunque al Tribunale Costituzionale federale. Appunto, la funzione di risoluzione dei conflitti fra Stato federale e Stati membri, che negli Stati Uniti ricade sulle spalle della Corte Suprema, viene assolta in prima battaglia dal Bundesrat e dalle altre sedi istituzionali di cooperazione, e trova pertanto uno sbocco giurisdizionale solo quando l’intesa politica non viene raggiunta. 5.2. Procedimenti di revisione costituzionale. La partecipazione gli Stati membri al procedimento di revisione costituzionale compare fra gli elementi connotativi dello Stato federale. Ma le modalità - dirette o indirette – e il grado di partecipazione non sono meno significativi e consentono di individuare le differenze fra gli stati federali. Prendiamo le revisioni costituzionali adottate negli Stati federali improntati a modelli organizzativi rivali. Nessuno degli 8 emendamenti apportati alla Costituzione degli Stati Uniti dal 1933 in poi ha riguardato l’assetto federale, mentre dal 1949 in poi sono state approvate in Germania ben 55 leggi di revisione costituzionale, gran parte delle quali sull’assetto federale. Il dato conferma che le modifiche degli aspetti strutturali, che non trovano nell’ordinamento statunitense uno sbocco politico e restano affidate alle interpretazioni della Corte Suprema, nell’ordinamento tedesco sono adottate, in primo luogo, in sede parlamentare. In effetti, la distinzione fra modello duale e modello cooperativo è importante nel differenziare i procedimenti di revisione costituzionale. In particolare, è decisiva la modalità di composizione della Camera Alta. Negli assetti federali dove i membri del Senato sono eletti a suffragio universale in numero pari per ogni stato membro, è prevista la diretta partecipazione degli Stati membri nel procedimento di revisione, tramite il coinvolgimento degli Stati in quanto tali (Stati Uniti, India), e talvolta anche delle popolazioni degli Stati in veste referendaria. Viceversa, negli assetti federali nei quali il Senato è strutturato quale Camera di rappresentanza degli Stati membri, la partecipazione di questi al procedimento di revisione è soltanto indiretta, ossia attraverso il Senato (Germania, Austria, Sudafrica), tranne che in Svizzera, dove è anche richiesta la maggioranza dei Cantoni e dei cittadini in sede di referendum. La modalità diretta o indiretta di partecipazione corrisponde dunque quasi sempre all’assenza o alla presenza di una rappresentanza degli Stati in quanto tali in seno alla Camera Alta. Un secondo criterio di distinzione riguarda la misura in cui gli Stati membri sono garantiti nel procedimento di revisione. In Germania e in Sudafrica, dove la partecipazione degli Stati è garantita dalla strutturazione del Senato, la legge di revisione è approvata a maggioranza dei 2/3 di ciascuna Camera. In Austria, dove pure il Bundesrat rappresenta gli Stati, è richiesta la maggioranza delle due Camere, tranne nei casi in cui la revisione riguardi la composizione del Bundesrat, il sistema elettorale e i criteri di rappresentanza dei Laender, per i quali è richiesta anche l’approvazione di almeno 4 Laender. Negli Stati federali dove la partecipazione degli Stati membri al procedimento di revisione è diretta, la misura della garanzia è molto variabile. La Costituzione degli Stati Uniti è stata a lungo la più garantista nei confronti degli Stati membri. Secondo l’art V, la procedura di emendamento si articola nelle fasi della “proposta” e della “ratifica”, ciascuna delle quali può articolarsi in 2 modalità procedurali: la proposta spetta ai 2/3 delle Camere o a una Convenzione convocata su richiesta dei 2/3 delle Legislature degli Stati, e la ratifica spetta alle Legislature di ¾ degli Stati o a ¾ delle Convenzioni riunite allo scopo in ciascuno degli Stati, a seconda che l’uno o l’altro modo di ratifica sia stato prescritto dal Congresso. L'art V aggiunge poi “che nessuno Stato, senza il proprio consenso, potrà essere privato della parità di rappresentanza nel Senato” (equal suffrage). Nella prassi è sempre stata utilizzata la procedura della proposta dei 2/3 delle Camere e della ratifica dei ¾ delle Legislature degli Stati. In ogni caso la revisione costituzionale risulta subordinata al consent degli Stati, anche se non è richiesta l’unanimità. La palma della Costituzione più garantista nei confronti degli Stati membri spetta però oggi al Canada, dopo l’approvazione nel 1982 di una legge costituzionale volta a risolvere la controversia con la Provincia del Québec, prossima alla secessione. Nella procedura di revisione ordinaria, è richiesta l’approvazione, oltre che del Senato e della Camera dei comuni, delle Assemble legislative di almeno 2/3 delle Province che rappresentino almeno il 50% della popolazione di tutte le Province; inoltre, se il progetto riguardi le competenze o qualsiasi prerogativa di una Provincia, l’Assemblea di tale provincia può bloccare l’approvazione del progetto. Su determinate materie, comprese la struttura degli organi federali e le disposizioni sull’uso del francese o dell’inglese, il progetto deliberato dagli organi federali deve essere altresì approvato all’unanimità dalle Province. In Australia, il progetto di revisione deliberato dalle due Camere deve essere approvato dalla maggioranza degli Stati membri e dalla maggioranza degli elettori a livello nazionale, tranne nei casi in cui si modifichino la rappresentanza di uno Stato membro, per i quali è richiesta l’approvazione dello Stato interessato. Il procedimento si è rivelato particolarmente gravoso nella fase di approvazione in via referendaria, dal momento che soltanto 8 di 44 progetti di revisione finora sottoposti all’elettorato sono stati approvati. Anche in Svizzera, almeno per i progetti di revisione totale della Costituzione proposti dalle due Camere, vige il sistema della doppia maggioranza, dei Cantoni e dell’elettorato nazionale. Qui il maggior fattore di blocco delle innovazioni costituzionali non risiede nell’elettorato. Il rischio, piuttosto, è dato dalla formazione di coalizioni tra i Cantoni più piccoli, virtualmente in grado di impedire l’approvazione di una legge costituzionale che abbia ottenuto il consenso del 90% dell’elettorato nazionale. Rischio peraltro non verificatosi in occasione della revisione totale della Costituzione avvenuta nel 2000, con cui si sono riformati alcuni aspetti del federalismo e si sono costituzionalizzati principi elaborati dalla giurisprudenza del Tribunale federale e norme di diritto internazionale. 5.3. La distribuzione della funzione giurisdizionale. Nei sistemi federali la funzione giurisdizionale è di regola ripartita fra Stato federale e Stati membri. Ciò vale a segnare un altro elemento distintivo del tipo di Stato federale dal regionale. I fattori che incidono sull’effettiva portata della ripartizione della giurisdizione differiscono da quelli finora esaminati. L'indipendenza del potere giudiziario è infatti un principio generale dello Stato costituzionale che riguarda qualsiasi tipo di Stato o forma di Governo. La parete che separa il giudiziario dagli altri pubblici poteri è più impermeabile di quella che può dividere il legislativo dall’esecutivo. Per individuare i fattori che incidono sulla ripartizione della funzione giurisdizionale non bisogna guardare tanto alla struttura istituzionale (duale o cooperativa). Variabili più rilevanti, invece, sono l’organizzazione della giurisdizione, il modello di giustizia costituzionale, la famiglia giuridica – common law o civil law - cui i singoli ordinamenti fanno capo, nonché le modalità e la misura in cui i diritti fondamentali sono riconosciuti nelle Costituzioni degli Stati membri oltre che nella Costituzione federale. La differenza di maggior peso si può cogliere fra i sistemi federali europei e quello statunitense. In Europa – a parte il Belgio e l’Austria, dove vi è riserva assoluta di giurisdizione federale – il riparto della funzione giurisdizionale non si converte in una differenziazione di tutela dei diritti fondamentali. In Svizzera tutte le autorità giurisdizionali sono cantonali tranne il Tribunale Federale, competente fra l’altro a definire le controversie tra Confederazione e cantoni e i ricorsi per violazione dei diritti costituzionali dei cittadini. Il Tribunale federale può però conoscere delle questioni di costituzionalità delle sole leggi cantonali, non anche delle leggi federali: l’asimmetria deriva dalla fiducia nella democrazia rappresentativa e dalla diffidenza per i giudici per i giudici che animava i Costituenti nel 1848. Su tali premesse, la giurisprudenza del Tribunale federale ammette la legittimità delle norme cantonali sui diritti fondamentali solo nella misura in cui forniscano garanzie più ampie di quelle federali, col risultato di uniformare la tutela di tali diritti sullo standard federale. In Germania, alla stregua dell’art 30 Cost, gli organi del potere giudiziario, compresi gli organi di giustizia costituzionale, sono in principio Tribunali dei Laender, anche se il sistema giudiziario e il procedimento sono disciplinati con legge federale. I Tribunali federali sono istituiti quali “Corti Supreme” e funzionano da organi di ultima istanza avverso le pronunce dei Tribunali dei Laender, e un “Senato congiunto” dei Tribunali federali assicura “l’unitarietà della giurisprudenza” (art 95). Il Tribunale Costituzionale Federale è invece investito di competenze specificamente individuate dall’art 93 e da altre norme costituzionali, fra cui la competenza a decidere sulla richiesta del Tribunale Costituzionale di un Land che intenda adottare una interpretazione della Legge Fondamentale difforme da una decisione del Tribunale Costituzionale Federale o del Tribunale Costituzionale di un altro Land (art 100). Tale competenza si ricollega alla “clausola d’omogeneità” sancita dall’art 28, che richiede la corrispondenza dell’ordinamento costituzionale dei Laender “ai principi dello Stato di diritto repubblicano, democratico e sociale”, e affida al Bund il compito di garantire la corrispondenza a tali principi e a i diritti fondamentali. A differenza che in Svizzera, in Germania l’istanza dell’uniformità di interpretazione era ben presente nell’intento originario dei Costituenti. Il sistema statunitense differisce da quello tedesco non solo per il fatto che il sindacato di costituzionalità delle leggi è diffuso anziché accentrato, ma anche per le modalità di ripartizione della funzione giurisdizionale fra Stato federale e Stati membri. Oltre a un ristretto ambito di la fiamminga e la germanofona” (art 2); “il Belgio comprende 3 Regioni: Regione del vallone, regione fiamminga, regione di Bruxelles” (art 3). Il termine “Comunità si riferisce al fattore linguistico, mentre il termine “regione” designa una ripartizione territoriale dello Stato. L'impianto asimmetrico non riflette dunque peculiarità linguistiche, etniche o culturali di una popolazione stanziata su una parte del territorio. Riguarda l’intero territorio, ripartito in due classi di enti autonomi fra loro distinti. La Costituzione del 1993 è il risultato del precario compromesso raggiunto fra le due maggiori collettività del paese, la fiamminga del Nord e la vallona del Sud, mosse da rivendicazione eterogenee. I fiamminghi, che miravano al riconoscimento dell’identità linguistica e culturale, chiedevano di articolare il Belgio in base a comunità (fiamminga, tedesca, francese), mente i valloni, afflitti da gravi difficoltà economiche, chiedevano la proposta di regionalizzare lo Stato in base a un criterio territoriale. L'unica soluzione praticabile era di accogliere ambedue le richieste. Peraltro, l’art 138 Cost attribuisce alle 3 Comunità il potere di decidere di comune accordo che le competenze della Comunità francese siano esercitate in tutto in parte dalla Regione; inoltre la Comunità fiamminga esercita, anche se solo di fatto, le competenze della Regioni corrispondente. La dottrina ammette l’anomalia di un assetto federale basato sulla sovrapposizione tra Comunità e Regioni, per cui ogni cittadino belga viene a dipendere sempre da 3 autorità differenti (federali, comunitarie, regionali), nonché sul confronto fra le medesime autorità. L’assetto federale belga si discosta non solo dal modello cooperativo ma anche da quello duale. È vero che le competenze degli enti territoriali sono solo di tipo esclusivo, non anche di tipo concorrente. Ma a differenza della Costituzione statunitense quella belga non prevede una Supremacy clause che assicuri la prevalenza della legislazione federale. L'art 35, dopo aver previsto che “l’autorità federale è competente solo nelle materie che le sono formalmente attribuite dalla Costituzione e dalle leggi indicate dalla Costituzione stessa” stabilisce infatti che “le Comunità o le Regioni, ciascuna per quanto la concerne, sono competenti in tutte le altre materie, secondo le condizioni e le modalità stabilite dalla legge”. L'intento garantistico è profondamente diverso da quello di un impianto duale, dove l’assetto delle competenze della Federazione e degli Stati membri è preordinato ad assicurarne in via immediata il reciproco rispetto e a tutelare la libertà dei cittadini da eccessive concentrazioni di potere pubblico. Il sistema delle garanzie è strutturato invece su un duplice piano, trattandosi di assicurare la separazione delle competenze delle Comunità da quelle delle Regioni, non meno della separazione delle une e delle altre da quelle dello Stato federale. Col risultato di esaltare le differenti identità linguistiche e culturali dei cittadini. Corrispondentemente, mentre negli Stati federali a modello duale i procedimenti di formazione delle leggi e i criteri di composizione degli organi federali esprimono un’istanza unitaria, il sistema asimmetrico belga risulta pervaso dall’esigenza di garantire i gruppi e le Comunità linguistiche. Le leggi attributive delle competenze delle Comunità e delle Regioni di cui all’art 35 Cost vanno infatti approvate con “la maggioranza dei voti in ogni gruppo linguistico di ciascuna Camera, alla condizione che sia presente la maggioranza dei membri di ogni Gruppo e che, inoltre, il totale dei voti favorevoli espressi nei due Gruppi linguistici raggiunga i 2/3 dei voti espressi”. L'intento di garantire il rispetto delle volontà di ciascun Gruppo linguistico si riflette anche nella disciplina del procedimento di formazione delle leggi ordinarie adottate a maggioranza semplice, là dove si attribuisce a ¾ dei membri di uno dei Gruppi linguistici di presentare, prima del voto finale sulla legge, una mozione motivata di sospensione del procedimento (c.d. sonnette d’alarme), per l’assunto “grave danno alle relazioni della Comunità” che l’approvazione della legge potrebbe comportare. In tale caso la mozione è deferita al Consiglio dei Ministri, che entro 30 giorni dà il suo parere motivato sulla mozione e invita la Camera a pronunciarsi su di esso e su eventuali emendamenti apportati al progetto di legge (art 54 Cost). La composizione delle istituzioni federali, a parte il Capo dello Stato e la Camera dei rappresentati, risulta ugualmente improntata al rispetto delle differenze linguistiche. Ciò vale per la strutturazione non solo del Senato, ma anche del Governo, composto da massimo 15 ministri in pari numero “di espressione francese” e “di espressione olandese”, salvo il Primo Ministro (art 99 Cost). E la Cour d’arbitrage è composta per legge di 12 membri, 6 di lingua francese e 6 di lingua olandese, e presieduta a turno da un giudice di ciascun gruppo linguistico. Nel complesso la Costituzione del 1993 riflette una specie di patto di non belligeranza tra Federazione, Comunità e Regioni, e soprattutto fra i due principali gruppi linguistici. La monarchia è la sola istituzione unitaria sopravvissuta a tutte le fasi di trasformazione dell’assetto statale. Svolge funzioni di modesta portata nella dinamica istituzionale, compresa la forma di Governo, che la Costituzione del 1993 ha improntato al modello parlamentare razionalizzato. Il coordinamento fra gli interventi dei pubblici poteri viene assolto dagli organi intergovernativi. In particolare, un “Comitato di Concertazione” composto dal Primo Ministro, da 5 ministri e da 6 membri dei governi degli enti federati, e costituito in pari numero di esponenti dei gruppi linguistici. Il comitato esamina l’opportunità, non la legalità, dell’atto, e può sospenderlo per 60 giorni al fine di ricercare un compromesso. Come in Canada, la rigidità delle strutture asimmetriche previste dalla Cost è temperata da organi di coordinamento che agiscono con modalità informali ed elastiche. Infine, l’appartenenza del Belgio all’Unione Europea produce conseguenze notevoli. In generale, le politiche e gli assetti organizzativi dell’Unione agiscono nel senso dell’integrazione tra interessi locali e nazionali interni agli Stati membri. Inoltre, Bruxelles non è solo la capitale, ma anche la “capitale” dell’Unione, dato che vi sono la Commissione e altre istituzioni europee. L'evoluzione del Belgio è stata descritta quindi come una corsa di velocità tra il separatismo interno e l’unificazione europea. 5.5. La soluzione federale di conflitti etnici o religiosi nei progetti di State-building della comunità internazionale. Al termine di guerre civili tra etnie o confessioni religiose l’assetto federale appare spesso il più idoneo a garantire il rispetto delle differenti identità. Nel mondo contemporaneo la pacifica convivenza interna condiziona a sua volta la pace e la sicurezza internazionale. Ciò occorre a spiegare perché di recente, superando l’interpretazione letterale del divieto di ingerenza negli affari interni agli Stati (art 2 par 7 Statuto della Nazioni Unite), la comunità internazionale sia intervenuta in situazioni di guerra civile, con opere di intermediazione ma anche con progetti di soluzione federale. Nel caso dello Sri Lanka, l’accordo di Oslo del 2002 ha cercato di contemperare le rivendicazioni nazionalistiche della minoranza Tamil, situata al Nord-Est del paese, con le pretese centralistiche dei Singalesi, di religione buddista. In Sudan, a conclusione di un conflitto ventennale fra la popolazione musulmana del Nord e quella meridionale del Darfur, un accordo di pace stipulato nel gennaio del 2005 aveva portato all’approvazione da parte del Parlamento di Karthoum di una Costituzione provvisoria per un periodo di 6 anni, la quale prevedeva un sistema federale asimmetrico onde garantire una significativa autonomia al Darfur. Ma il conflitto è proseguito, e nel 2009, a seguito delle stragi di civili commesse nel Darfur su ordine del governo di Karthoum, la Corte penale internazionale ha spiccato mandato d’arresto nei confronti del Presidente del Sudan per crimini contro l’umanità. La comunità internazionale ha svolto un ruolo maggiore nei conflitti esplosi nel territorio della Repubblica Federale Jugoslava dopo la morte di Tito: in molti stati membri della Federazione convivevano popolazioni di diversa matrice etnica o religiosa con un lungo passato di rivalità e tensioni, che il regime comunista di Tito aveva tenuto sotto controllo. In Bosnia-Herzegovina, la guerra tra Serbi, Croati e Musulmani si concluse con l’Accordo di Pace di Dayton. L'allegato n. 4 all’Accordo contiene la Costituzione della Federazione della Bosnia- Herzegovina, composta da 2 entità territoriali, la Federazione Croato-Bosniaca e la “Republika Srpska”, di popolazione serba. Con l’Accordo di Belgrado (2002), che aveva dato vita a una provvisoria “Carta Costituzionale”, la comunità internazionale aveva poi tentato di prevenire la dissoluzione di quanto restava della Repubblica federale Jugoslava, comprensiva di Serbia e Montenegro. Nell'aprile del 2005 una legge del Montenegro ha tuttavia definito i termini di svolgimento di un referendum sull’indipendenza del paese, che si è tenuto l’anno successivo con esito positivo. Lo stesso assetto all’interno della Serbia è tutt’altro che definito. All'epoca del maresciallo Tito, nell’ambito della Repubblica serba era stata riconosciuta un’ampia autonomia alle due province della Vojvodina e del Kosovo, abitate in prevalenza, rispettivamente, da ungheresi e da albanesi. Dissolta la Jugoslava, il Presidente della Serbia Slobodan Milosevic negò ogni autonomia alle Province e avviò nel Kosovo operazioni di pulizia etnica ai danni della popolazione albanese, che furono all’origine di un intervento armato della NATO e della conseguente caduta del regime di Milosevic (1999). Successivamente l’intervento della NATO è stato legittimato con la risoluzione n. 1244 del Consiglio di Sicurezza. Da allora il Kosovo, dove la minoranza serba ha subito violente rappresaglie da parte della maggioranza albanese, è un regime di protettorato internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. I casi passati in rassegna dimostrano i limiti dell’azione della comunità internazionale a favore di una soluzione federale dei conflitti. Differisce dai casi finora esaminati quello dell’Iraq per 2 ragioni. Anzitutto, le Naz. Unite non hanno legittimato nemmeno ex post l’intervento armato degli USA e degli alleati (2003), e le tappe del processo di costruzione di uno Stato democratico e federale sono state concordate dal governo USA con gli esponenti di tutte le forze politiche e religiose irachene. Inoltre, la proposta di un assetto federale è stata avanzata non per risolvere un conflitto etnico già esploso, ma per prevenirlo (paura di conflitto fra kurdi e musulmani, dopo la caduta di Saddam Hussein). La nuova Costituzione qualifica l’Islam “religione ufficiale dello Stato e fonte fondamentale del diritto” e garantisce l’identità islamica della maggioranza del popolo iracheno, ma anche la libertà religiosa degli individui (art 2 Cost), il carattere multietnico e multireligioso dell’Iraq (art 3) e il pluralismo linguistico (art 4). In questo quadro si collocano il riconoscimento di Regioni dotate di ampia potestà normativa, la sola regione esplicitamente nominata nel testo costituzionale è quella kurda. 6. L'UNIONE EUROPEA. visto il suo carattere atipico rispetto agli Stati, non può darsi una Costituzione? In questa prospettiva, non si potrebbe escludere che l’Unione, quale forma di convivenza diversa da uno Stato, possa darsi un documento denominato Costituzione e connotato da principi comuni alle Costituzioni e alle tradizioni costituzionali dei suoi Stati membri, purché intorno ad esso si raggiunga una sufficiente condivisione da parte degli Stati e dei rispettivi popoli, e purché si preveda che le modifiche da apportarsi a tale documento possano essere approvate con un procedimento assimilabile a una revisione costituzionale, quindi a maggioranza qualificata anziché all’unanimità. Tali condizioni non sono state ancora raggiunte a causa di ostacoli effettuali, che anche quando sono insormontabili non vanno confusi con una preclusione teorica nei confronti dell’ipotesi di una Costituzione dell’Unione europea, che si basasse sul presupposto che solo uno Stato può darsi una Costituzione. CAPITOLO X. COMPARAZIONE PER PROBLEMI. 1. Brevemente vediamo quali possono essere gli effetti derivati dalle variabili combinazioni tra forme di stato e forme di governo. Ad esempio, un assetto federale può combinarsi sia con un sistema presidenziale che con un sistema parlamentare, un sistema parlamentare può combinarsi sia con un sistema presidenziale che con uno accentrato e così via. Le combinazioni possono comportare dei rischi di concentrazione del potere o di stallo istituzionale. Questi problemi vanno approfonditi per le conseguenze che provocano sull’organizzazione costituzionale complessiva. 1.1. I rischi di concentrazione del potere nei sistemi accentrati con forma di governo parlamentare. Gli stati territorialmente accentrati e con un assetto compatto delle istituzioni politiche come la V Repubblica francese e il Regno Unito, sono i candidati naturali a correre rischi di concentrazione del pubblico potere. Francia. Dal momento che il modello della V Repubblica premia la stabilità di governo in un ordinamento tradizionalmente accentrato, quando il colore politico della maggioranza parlamentare coincide con quello della maggioranza che ha eletto il presidente, costui detiene le leve del potere politico senza effettivi contrappesi né presso il Parlamento e né presso le collettività territoriali, inidonee ad esprimere indirizzi politici alternativi a quello prevalente al centro. È vero che nelle fasi di cohabitation, imposta dalla divergenza di colore politico tra maggioranza parlamentare e maggioranza presidenziale, i poteri presidenziali si contraggono in via di autolimitazione. Dal 1969 in poi, i rovesci elettorali registrati dal Capo dello Stato, anche successivi ad uno scioglimento dell'Assemblea Nazionale da lui stesso stabilito, non hanno mai influito sulla sua permanenza in carica. Inoltre, dopo una presidenza a fasi alternate di primazia e di cohabitation, diventa difficile per l'elettore valutare l'operato del capo dello stato, che ha da tempo prodotto una “presidentialisation del partis” (Portelli). Oltre a risultare rigido per quando corcerne la forma di governo, il sistema istituzionale francese è appesantito dalla strutturazione territoriale accentrata che abbiamo detto precedentemente. Recenti revisioni della costituzione esprimono consapevolezza dell'eccesso di concentrazione del potere politico. Ciò vale sia per la riforma delle collettività territoriali del 2003 ma soprattutto per quella delle istituzioni centrali. La legge costituzionale 2008/274 ha nuovamente modificato l'articolo 6 della costituzione, con l'apposizione del limite di non più di due mandati consecutivi. Altra innovazione di rilievo della riforma del 2008 ha investito l’art 16, che attribuisce al presidente il potere di adottare le “misure richieste” in caso di minaccia grave ed immediata alle istituzioni o alla sicurezza nazionale. Un comma aggiunto prevede ora che il presidente dell'assemblea nazionale, quello del senato, 60 deputati o 60 senatori possano entro 30 giorni dall'adozione delle dette misure richiedere al consiglio costituzionale di accertare se sussistano le condizioni per l'applicazione dell'articolo 16. si tratta di un significativo correttivo all'eccessiva discrezionalità riservata al capo dello stato, tenuto conto che le misure in esame sono sottratte alla controfirma ministeriale. Infine, sempre in merito ai poteri del Capo dello Stato, va ricordato il nuovo art. 18 che prevede che il presidente possa prendere la parola davanti al parlamento riunito a tal fine in congresso, e che la sua dichiarazione può dare luogo, al di fuori della sua presenza, ad un dibattito che non è oggetto di alcun voto. Un potere del genere ricorda molto la prassi degli USA. Il rafforzamento del ruolo del parlamento, che costituisce il secondo aspetto della riforma del 2008, si basa fondamentalmente sull'attribuzione alle camere di una funzione di controllo dell'azione del governo e di valutazione delle politiche pubbliche e del potere di votare risoluzioni che non mettano in gioco la responsabilità del governo, nonché un accrescimento di autonomia regolamentare sia sul versante del procedimento legislativo, compreso il potere di stabilire l'ordine del giorno, sia su quello dell'organizzazione interna, soprattutto per quanto riguarda la determinazione dei diritti dei grippi parlamentari. Il parlamento può quindi dirsi rafforzato rispetto alla sensibile riduzione delle sue prerogative compiuta dalla costituzione del 1958. Il terzo elemento della riforma costituzionale del 2008 riguarda l'introduzione di un controllo successivo di legittimità delle leggi. Il nuovo art. 61 riconosce ai cittadini il diritto di sollevare in corso di un giudizio una questione di legittimità di una legge che ritengano lesiva dei diritti e delle libertà costituzionalmente garantite, anche se il giudice deve sottoporre la questione al consiglio di stato o alla corte di cassazione, i quali valutano se sollevare la questione davanti al consiglio costituzionale. Regno Unito. I rischi di concentrazione appaiono minori nel Regno Unito. Il Primo ministro britannico dispone di tutte le prerogative che assicurano un'effettiva conduzione dell'indirizzo politico, ma a differenza dei capi dell'esecutivo eletti a suffragio universale la sua durata in carica è precaria, in quanto al mantenimento del rapporto di fiducia è necessario l'appoggio del partito di cui il primo ministro è leader. Anche nel regno unito le funzioni di mediazione e di aggregazione dei partiti tendono di recente a venire scavalcate dalla formazione di un circuito diretto all'elettorato col premier, conosciuto e giudicato più per le qualità personali che per le scelte di indirizzo compiute. La spinta alla personalizzazione della politica con esaltazione o denigrazione della figura del premier, non nasce dall'interno del sistema istituzionale britannico, dove trova anzi significativi momenti di contenimento. Anche Tony Blair, che si è distinto per la tendenza a scavalcare il suo partito e le altre istituzioni alla ricerca di un rapporto diretto con l'elettorato, ha dovuto acconciarsi a una serie di compromessi col Parlamento. Questa spinta di personalizzazione deriva da fattori che riguardano piuttosto tutte le democrazie contemporanee, quali l'accentrata importanza delle funzioni di politica estera e la crescente esposizione dei titolari delle istituzioni politiche all'attenzione dei media. Ancora, occorre considerare gli effetti sull'allocazione dei poteri dell'intenso ciclo di riforme costituzionali che di recente ha investito il Regno Unito. A parte la devolution alla Scozia, al Galles e all'Irlanda del Nord in forza della quale il modello accentrato è stato superato, e lo European Communities Act (1972) di adesione alla Comunità europea, ci riferiamo: – Human right act (1998): ha incorporato nell'ordinamento britannico la convenzione europea dei diritti dell'uomo. – House of Lords act (1999): ha modificato la composizione della camera dei lords, rimuovendo quanti detenevano il seggio per diritto ereditario, ad eccezione di 92 membri. – Constitutional reform act (2005): sottrae al ministro della giustizia una parte delle funzioni giurisdizionali, esecutive e legislative ed istituisce una Supreme Court of United Kingdom destinata a sostituire i Law lords nella funzione di suprema autorità giurisdizionale del Regno Unito. L'insieme di queste riforme investe direttamente il principio di sovranità del parlamento, inteso come monopolio almeno virtuale del potere normativo. Indirettamente incidono anche sul primato politico riconosciuto al governo sugli altri organi costituzionali, Parlamento compreso. Esse incidono su tale primato sia limitando gli spazi decisionali del Governo, sia sottoponendo gli atti governativi e per certi versi la stessa legislazione a sindacato giurisdizionale, con un parallelo potenziamento dell’indipendenza dei giudici. 1.2. Rischi di paralisi istituzionale. Il rischio di stallo istituzionale è latente sia in quelle forme di governo dualiste nelle quali il Presidente eletto a suffragio universale sia dotato di poteri di governo, sia negli assetti federali. 1.2.1. Le forme di governo dualiste. Abbiamo visto il caso della Francia, negli Stati Uniti lo stesso rischio di stallo si presenta in termini molto differenti, per ragioni di ordine costituzionale e per la conformazione dei partiti. Nell'ordinamento statunitense, a differenza che in quello francese, il Governo non è un organo costituzionale distinto dal Presidente della Repubblica, dal momento che costui è il capo dell'esecutivo, i ministri sono non solo letteralmente suoi segretati, ossia suoi collaboratori, e al Presidente spetta dunque la funzione di indirizzo politico, compreso il potere di “raccomandare” al Congresso le misure legislative che ritenga “necessarie e convenienti”. Perciò, sotto la V Repubblica francese la divaricazione fra maggioranze può porre la questione di chi governa fra il presidente e il primo ministro, e tradursi in una paralisi che discende interpretazioni rivali della costituzione; negli USA può tradursi in una paralisi dei poteri presidenziali di indirizzo da parte del congresso quale titolare del potere legislativo. Ma quando parliamo di stallo, non ci riferiamo al conflitto tra istituzioni, bensì alle situazioni in cui il Presidente non può svolgere ciò che aveva prefissato col suo programma. I partiti americani sono meno strutturati quindi il Presidente può comunque trovare un modo, cioè raccogliendo le maggioranze contingenti → le maggioranze d'occasione evitano lo stallo. Se poi il tentativo fallisce, il Presidente rinuncia al suo progetto, come fece Clinton con un impegnativo progetto di riforma sanitaria, come ha già fatto Obama sempre nel tentativo di riformare il settore sanitario. Nondimeno, la paralisi è evitata a costi elevati dal punto di vista democratico. Quando viene evitata grazie a maggioranze d’occasione, è ragionevole presumere uno scambio con politiche di concessioni localistiche, talvolta è lo stesso Presidente a mobilitarsi con attività di lobbying. Bisogna aggiungere che le scadenze elettorali molto ravvicinate richieste dalla Costituzione riducono la probabilità di prolungate convivenze fra maggioranze diverse, ma impediscono molto spesso al Presidente di raggiungere risultati tangibili prima di due anni anche quando la maggioranza ragione, per raggiungere prestazioni efficienti l’amministrazione ha bisogno di continuità di indirizzi e di certezza sulla stabilità di governo. 2.2. L’istituzione di autorità indipendenti. A partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, le legislazioni nazionali di un buon numero di Stati Europei tendono ad attribuire ad autorità indipendenti dal potere politico funzioni di regolazione dei mercati e di garanzia di certe classi di situazioni soggettive. Negli Stati Uniti la tendenza è molto più pervasiva. Di regola, le funzioni di regolazione di cui le autorità indipendenti sono investite si estrinsecano in poteri normativi che diversamente spetterebbero ai parlamenti, e spesso in poteri amministrativi e giurisdizionali che si aggiungono ai primi. L'istituzione di autorità indipendenti pone pertanto problemi sia sul fronte della forma di Stato costituzionale, sia sul piano degli equilibri delle forme di governo. Negli Stati europei le maggiori preoccupazioni concernono le deroghe al principio di separazione dei poteri. In un’accezione della separazione dei poteri adeguata ai principi dello Stato costituzionale, occorre invece vedere se le leggi istitutive delle autorità indipendenti si pongano o meno in contrasto con la Costituzione. Negli Stati Uniti, il rischio di violazione della separazione dei poteri viene scongiurato attraverso la sottoposizione delle autorità a controlli del Congresso sul rispetto degli impegni previsti nelle relative leggi istitutive. Diverso è il caso del legislative veto, frequentemente previsto nelle leggi con cui il Congresso delegava le agenzie indipendenti a produrre atti normativi, in modo da poterli approvare o meno prima dell’eventuale entrata in vigore. Ma le preoccupazioni maggiori riguardano da un lato il fenomeno della “cattura” delle autorità da parte dei gruppi di interessi operanti nel settore, che ne minaccia l’indipendenza, e dall’altro la tendenza del Congresso a rinunciare a compiti di deliberazione politica, istituendo autorità indipendenti dotate di poteri normativi al di là del necessario. Cosa si intende per “necessario”? La loro giustificazione sta e cade con la possibilità di dimostrare che l’affidamento di quelle funzioni ad autorità indipendenti consente di raggiungere l’obiettivo costituzionale di volta in volta in questione in una misura che i parlamenti non potrebbero raggiungere. Gli effetti dell’istituzione di autorità indipendenti differisce a seconda della forma di governo. Nel modello dualista-presidenziale, l’attribuzione delle funzioni alle autorità indipendenti non priva le assemblee elettive del potere di cui dispongono normalmente, ed anzi lo accresce, creando un rapporto diretto con le autorità in sede di controllo sul loro operato. Invece, in regime parlamentare lo spostamento di quelle stesse funzioni dai ministri alle autorità fa perdere al Parlamento il potere che avrebbe avuto se le funzioni fossero restate intestate ai ministri, che al Parlamento debbono rispondere. 2.3. Le funzioni di politica estera e della difesa. Già i membri della Convenzione di Filadelfia sulle funzioni di politica estera e di difesa operarono una “parziale mescolanza di poteri” in luogo dell’ordinaria assegnazione al Congresso della funzione legislativa e al Presidente di quella esecutiva. La Costituzione attribuisce infatti al Presidente, oltre ai compiti di “commander in Chief” in caso di guerra, il potere di stipulare trattati su parere e con il consenso del Senato a maggioranza di 2/3 dei presenti, nonché la conduzione della politica estera. D'altro canto, la Costituzione riserva al Congresso i poteri di dichiarare la guerra, di autorizzare le spese (militari), e di regolare il commercio internazionale. I costituenti dovevano cercare un compromesso con l’anima confederale, e pur distaccandosi dagli Articles of Confederation, che assegnavano al Congresso il potere di stipulare i trattati (treaty- making power), attribuirono allo scopo al Senato, che rappresentava gli Stati, l’avviso e il consenso sulla stipulazione dei trattati conferita al Presidente. Nell'esperienza costituzionale, il Senato avrebbe perduto il suo carattere di assemblea rappresentativa degli Stati, mantenendo la compartecipazione alla stipulazione dei trattati. Il fatto che si chiedesse la maggioranza dei 2/3 dei presenti l’ha reso un procedimento gravoso, che diversi presidenti hanno provato ad aggirare in vario modo. Nel 1845 Tyler fece adottare un accordo con l’atto di approvazione delle due camere del Congresso a maggioranza semplice (joint resolution). Egli inaugurò una prassi che fu seguita da altri Presidenti trovatisi in difficoltà per il mancato raggiungimento della maggioranza qualificata al Senato. Gli accordi e i trattati così conclusi fanno parte della categoria degli EXECUTIVE AGREEMENTS, i quali comprendono accordi conclusi dal solo Presidente. Il ricorso agli executive agreements è molto frequente e, quando gli viene richiesto, il Senato raramente nega l’avviso e il consenso. Eppure, il suo rifiuto ha avuto talvolta effetti dirompenti sulla politica estera americana e sull’intero sistema delle relazioni internazionali. L'approvazione dei trattati è però soltanto una delle componenti del potere estero, specie per un paese come gli USA che svolge una funzione cruciale negli equilibri internazionali. Poiché la conduzione della politica estera spetta al Presidente, da Roosevelt in poi l’esercizio di tale funzione ha spostato gli equilibri fra i poteri al punto da rimpiazzare la designazione della forma di governo come Congressional government. Abbiamo visto come i poteri del Congresso americano sui trattati internazionali si estendano alla fase di stipulazione, attraverso il parere e il consenso del Senato. Una previsione simile non trova riscontro nei sistemi parlamentari, dove la competenza a stipulare i trattati spetta in via esclusiva al governo, e una partecipazione del Parlamento è prevista, sotto forma di autorizzazione, solo nella fase successiva alla ratifica. Già la Costituzione belga del 1831 assegnava al Re il potere di fare trattati (di pace, d’alleanza e di commercio) con obbligo di darne conoscenza alla Camere non appena l’avrebbero permesso l’interesse e la sicurezza dello Stato (art 68). Il compromesso fra istanze di funzionalità e istanze di democrazia maturava in questo caso nel contesto di una monarchia costituzionale. Le costituzioni europee del XX secolo hanno l’area dei trattati per i quali è richiesta la legge di autorizzazione alla ratifica, comprendendovi quelli aventi natura politica. In materia i parlamenti mantengono nella prassi un ruolo subordinato, soprattutto perché, nel silenzio delle Costituzioni, i governi possono valutare l’opportunità di ricorrere ad accordi in forma semplificata (executive agreements), che impegnano lo Stato direttamente all’atto della firma, in luogo della procedura della legge di autorizzazione alla ratifica. Al fine di superare l’impasse, la Costituzione olandese ha previsto che tutti i trattati conclusi vanno trasmessi agli Stati generali ed entrano in vigore a seguito della ratifica, che si intende connessa (istituto del silenzio-assenso) se entro 30 giorni una delle Camere o 1/5 dei suoi membri non abbia richiesto l’espressa ratifica con legge (art 60), salvo i casi in cui questa sia obbligatoria (art 60). La soluzione presuppone che l’esigenza del Parlamento in ordine al treaty-making power non consiste nell’aumentare il numero di trattati da ratificare con legge, ma nel conoscere in ogni caso quali trattati sono stati conclusi dal Governo. Il deficit informativo dei parlamenti, che equivale a deficit decisionale, si manifesta soprattutto nell’area della politica estera che esorbita dal treaty-making power, dove mancano quegli argini che le Costituzioni prevedono per le procedure di adozione dei trattati. Il fenomeno è divenuto ancora più cospicuo con l’aumento dell’interdipendenza fra Stati e dell’incidenza sulle politiche pubbliche delle organizzazioni internazionali verificatisi a seguito della fine della guerra fredda e della globalizzazione. Quali organi degli Stati abilitati a partecipare a procedure decisionali delle org. Int., i governi si difendono meglio dei parlamenti, anche se, di recenti, si registrano forme sperimentali di coordinamento interparlamentare. Diversa è invece la vicenda dell’UE, dove il coinvolgimento dei parlamenti nazionali nelle procedure di formazione degli atti normativi è già operante, e viene accresciuto sotto vari aspetti grazie al Trattato di Lisbona. Fin qui abbiamo esaminato le tendenze comuni agli Stati democratici. Alcune differenze derivano dal radicamento dell’istituzione parlamentare, e soprattutto dalle forme di governo: nel complesso, il modello parlamentare tende ad assorbire le energie e le iniziative dei parlamenti nel circuito maggioritario, e li rende meno reattivi del Congresso americano. Sotto la V Repubblica francese, la politica estera e di difesa sono di dominio riservato del Presidente, anche durante la parentesi di cohabitation. Più che sul rapporto Parlamento/Governo, la peculiarità del potere estero si ripercuotono qui sul rapporto fra Presidente e Primo Ministro. La prassi al riguardo è incerta. 2.4. Le procedure di approvazione del bilancio. Le Costituzioni, e talvolta le leggi, degli Stati contemporanei prevedono che il Parlamento approvi annualmente con legge il bilancio dello Stato. L'approvazione della legge di bilancio è condizione per la riscossione dei tributi per l’erogazione delle spese nell’esercizio finanziario di riferimento, senza che con essa il parlamento possa introdurre nuovi tributi e nuove spese. I parlamenti divennero titolari del c.d. “diritto al bilancio”, cioè del potere di approvarlo, in base al principio “no taxation without representation”. Il potere dell’assemblea rappresentativa di approvare il bilancio e il divieto per esse di introdurvi nuovi tributi e nuove spese cambiano infatti significato nel passaggio dalla monarchia costituzionale al regime parlamentare. All'epoca della monarchia costituzionale, il rifiuto del parlamento di approvare il bilancio venne considerato un mezzo, sia pure estremo, di pressione contro la corona e il governo. E il divieto di introdurre nuovi tributi e nuove spese costituiva il preciso risvolto della presentazione in parlamento di un atto del governo già compiuto sul piano contenutistico o materiale. Per il parlamento la procedura si risolveva in un prendere o lasciare. Nelle democrazie contemporanee a regime parlamentare, sono rimasti gli antichi obblighi e divieti in capo agli organi di indirizzo. Sono rimasti gli obblighi del governo di presentare il bilancio di previsione per l’esercizio finanziario a venire e del parlamento di approvarlo, a pena di non poter riscuotere le entrate ed erogare le spese in quell’esercizio, nonché il divieto del parlamento di introdurre nuovi tributi e nuove spese nella legge di bilancio. Sono mutate, invece, le finalità. L'approvazione del bilancio funge da occasione di discussione politica generale degli indirizzi governativi in tutti i settori, consentendo sia un dominio d’insieme della materia, sia un più puntuale scrutinio circa la congruenza del bilancio nelle sue singole voci nei confronti della legislazione di spesa. Inoltre, il divieto di introdurre nuovi tributi e nuove spese permette al parlamento di concentrare il proprio esame sul bilancio e di riservare all’ordinario procedimento legislativo quello sui tributi e sulle spese di nuova istituzione. pubblico potere avviata con la costruzione dello Stato costituzionale. La rappresentanza politica restava una componente indispensabile, ma non più esclusiva, di un’organizzazione costituzionale articolata in un complesso di istituti e congegni. Nello stesso tempo, tale organizzazione consentiva di accogliere e rielaborare i conflitti delle classi e dei gruppi sociali, e le altre istanze del pluralismo che veniva contestualmente riconosciuto. Un sistema istituzionale semplice reagisce con rigidità ai conflitti sociali. Al contrario, una democrazia pluralista non solo ammette i conflitti che fondano e alimentano una società aperta, ma dispone di una varietà di istituzioni e circuiti decisionali utili a canalizzarli. A società aperte e differenziate corrispondono così assetti istituzionali complessi. La complessità degli assetti delle democrazie pluraliste non è fine a sé stessa. La democrazia si caratterizza per regole e istituzioni che contemperano aspetti diversi. Ma tali regole hanno a loro volta bisogno di essere accettate. Solo la connessione di principi che parlano direttamente ai cittadini ne assicura la legittimazione. Questi principi fanno parte di un diritto più alto, quello costituzionale. 2. Le conseguenze della rottura del rapporto fra esterno e interno. Gli equilibri dello Stato costituzionale si sono basati a lungo su una dimensione nazionale, e tuttora le Costituzioni presuppongono che le aperture all’esterno, compresa la partecipazione all’UE, siano sottoposte al controllo dei pubblici poteri nazionali. Nel frattempo, le conseguenze della rottura dell’equilibrio fra esterno e interno si sono propagate a tutti gli ambiti in cui si era sviluppata la ricerca della giusta distanza fra cittadini e pubblico potere. Una quota di decisioni si è spostata fuori dai confini nazionali, e la quota di decisioni rimaste all’interno degli Stati viene redistribuita fra istituzioni politiche nazionali, autorità indipendenti e poteri regionali e locali. D'altre parte, gli status in cui si articola la condizione del cittadino-elettore oggi fano capo ad istituzioni o ad agenzie dislocate presso una pluralità di sedi territoriali. Si propone così il problema della distanza dai cittadini. Si è detto che più i livelli di governo sono piccoli e più il cittadino può partecipare alle decisioni, che sono però di scarso rilievo, e più sono grandi e capaci di risolvere i problemi più importanti, meno i cittadini possono aver voce nei processi decisionali. Così, il dilemma fra democrazia ed efficienza presuppone tuttavia un’accezione esclusivamente territoriale di “distanza”. Ora, le nuove reti di comunicazione hanno polverizzato le distanze fisiche. Dal primo punto di vista Bruxelles (sede UE) “dista” dal cittadino quanto la capitale di uno Stato membro. Le relazioni fra Stati e organizzazioni sovranazionali e internazionali presentano invece una quantità di questioni irrisolte dal punto di vista democratico, la cui mancata soluzione si ripercuote sui rapporti coi cittadini. Le procedure di decisione dell’UE offrono molti esempi di distanza fra cittadini e pubblici poteri. Eppure, l’UE ha conosciuto in anni recenti una progressiva democratizzazione dei propri assetti interni. Se ci riferiamo ad altre organizzazioni (sovranazionali e internazionali) la distanza diventa massima. Vi sono inoltre nuovi aspetti della convivenza che non sono regolati. Dobbiamo concludere che la democrazia può abitare solo negli Stati, e che ogni spostamento di poteri decisionali al di fuori di essi equivale a una perdita di spazi democratici? Oppure possiamo ipotizzare che lo spostamento di poteri decisionali fuori dagli Stati non è stato finora accompagnato da un’attribuzione di responsabilità per il loro esercizio, né da altri congegni di democratizzazione? 3. L'ipotesi di forme extranazionali di convivenza democratica e i processi di apprendimento delle società aperte. Quando affermiamo che il principio di responsabilità dei pubblici poteri nei confronti dei cittadini ha finora trovato la propria dimensione solo su scala nazionale, affermiamo un fatto comprovato da un’esperienza plurisecolare, ma non affermiamo un principio. Allo stesso modo, quando affermiamo che, finora, le Costituzioni approvate a partire dall’epoca liberale non hanno mai perduto il collegamento con uno Stato, affermiamo un fatto storicamente documentabile, ma che non rientra esso stesso tra i principi del diritto più alto che connotano il costituzionalismo contemporaneo. Occorre aggiungere che i detentori del potere tendono a sfuggire alla responsabilità per l’esercizio del potere: e i fenomeni di aggiramento delle frontiere hanno offerto alle classi politiche occasioni per scaricare all’esterno la responsabilità delle scelte compiute. Eppure, questo non impedirebbe di inseguire il potere, e di identificare sedi e congegni di imputazione di responsabilità democratica. Simili sedi e congegni tenderebbero quindi a raggiungere la distanza fra cittadini e pubblici poteri, ovunque dislocati. Se assumiamo che gli assetti istituzionali delle democrazie pluraliste hanno saputo fronteggiare le sfide e i conflitti del pluralismo grazie a un elevato livello di complessità e a sofisticate procedure, la rottura dell’equilibrio fra esterno e interno avrebbe aumentato il livello di complessità senza predisporre adeguati congegni di democratizzazione. 4. Rischi e opportunità dei processi di apprendimento. Lo spostamento di rilevanti quote di potere decisionale al di fuori degli Stati non equivarrebbe, dunque, a un’inesorabile restrizione degli spazi democratici. Nuovi congegni di responsabilizzazione per l’uso del potere e nuove forme di convivenza democratica sarebbero pensabili anche al di là della dimensione nazionale. A una condizione: che le società aperte non perdano la capacità di apprendere. Gli studi sul malessere delle democrazie mature sono ormai numerosi e circostanziati. Il dibattito pubblico è sempre affidato alla successione di immagini messe assieme dai media (politica- spettacolo). La popolarità temporanea dei leader si combina con il disinteresse collettivo verso la politica, mentre si indeboliscono le istituzioni che sono state inventate per protestare, come i parlamenti, o i partiti di opposizione, o i media indipendenti. In via intuitiva le analisi sul malessere delle democrazie possono apparire fondate ed evidenti. Ma non bisogna trascurare che esse si basano sempre su un confronto con il recente passato democratico. Nel ripercorre l’evoluzione delle forme di convivenza, abbiamo infatti notato come molti elementi di una di esse si ritrovino in quelle successive. Non abbiamo mai incontrato un anno zero che segnasse una table rase che separasse il passato dal futuro. Non c’è ragione per escludere che la vicenda possa ripetersi. D'altra parte, il fatto che i passaggi da una ad altra forma di convivenza non siano prevedibili non significa che siano frutto di un’evoluzione cieca o casuale. Abbiamo visto come il consolidamento di sistemi totalitari in paesi già democratici fu agevolato dal graduale blocco dei sistemi di comunicazione fra le persone e da un’invasione del potere nelle coscienze, sulla base di una strategia già calcolata. E abbiamo visto che la scelta per lo Stato costituzionale assicurò le condizioni per la ricerca della giusta distanza fra cittadini e pubblici poteri. Quando cresce l’incertezza sulle condizioni del vivere civile, a ricorrere è solo la tentazione di trovare rifugio in un destino già segnato. CAPITOLO XII. I PROCESSI DI DEMOCRATIZZAZIONE. 1. La diffusione della democrazia equivale all’esportazione dei valori occidentali? La diffusione della democrazia è il fenomeno che più caratterizza la recente evoluzione delle forme di Stato. Bisogna ben esaminare la tesi che identifica la democrazia con il patrimonio della civiltà occidentale. Se la tesi fosse fondata, i processi di democratizzazione in corso rispecchierebbero l’espansione di una determinata “civiltà” a scapito delle altre. Se invece si rivelasse infondata, tali processi avrebbero piuttosto il significato di una diffusione della democrazia quale valore universale, pur se storicamente radicato solo in alcuni continenti. In tal caso la comparazione costituzionale dovrebbe a rigore restringersi allo studio delle analogie e differenze fra modelli ed esperienze che rientrano nell’ambito di ciascuna civiltà. Ricercheremo il fondamento della tesi non sul piano teorico, ma con richiami ad alcuni aspetti concreti della recente convivenza che più ci sembrano significatiti. 1.1. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo 1993. Bisogna ricordare che gli autori (occidentali) della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1949 videro nel rispetto della persona l’alternativa etica e giuridica al totalitarismo. E la Dichiarazione dei diritti dell’uomo approvata a Vienna nel ‘93 ha aggiornato il contenuto della Dichiarazione Universale ai mutamenti successivi alla fine della guerra fredda. Nell’aprile del ‘93, gli Stati asiatici avevano approvato la Dichiarazione di Bangkok, che dopo aver reso l’omaggio di rito alla natura universale dei diritti dell’uomo auspicava norme internazionali “rispettose delle particolarità nazionali e regionali e delle diverse tradizioni storiche, culturali, religiose”. Queste parole riflettevano l’intento di affermare su scala internazionale il “relativismo culturale”. Ma a Vienna gli Stati dell’Asia hanno aderito, ad eccezione della Cina, a una Dichiarazione che considera “dovere degli Stati, quale che sia il sistema politico, economico e culturale, promuovere e proteggere tutti i diritti dell’uomo e tutte le libertà fondamentali”, così rigettando il relativismo culturale. La dichiarazione assume che il godimento effettivo dei diritti dell’uomo non si esaurisca nel divieto di ingerenze da parte degli Stati nella sfera individuale, ma consista anche nella possibilità di coinvolgimenti attivi e mutui apprendimenti nella sfera pubblica, considerati la ricchezza della libertà. 1.2. L’esperienza indiana. La Costituzione del 1950, proclamata a seguito della dichiarazione di indipendenza dal Regno Unito, ha delineato una “Unione di Stati” assimilabile ad una articolazione federale del potere, un modello parlamentare di tipo inglese in sede centrale, e un insieme di garanzie dei diritti di libertà, giurisdizione costituzionale compresa, che esprimono i principi del diritto più alto. In una società segnata da profonde differenze religiose ed etniche e da divisioni per caste, il radicamento dello Stato costituzionale si è rivelato particolarmente tormentato. Il partito del Congresso ha ottenuto la maggioranza dei suffragi per parecchi decenni, e il difetto di alternanza al potere ha alimentato clientelismo e corruzione. A metà degli anni ‘70 il governo guidato da Indira Gandhi impose una legislazione di emergenza fortemente restrittiva dei diritti politici e civili fra i più poveri del mondo ma altrettanto sensibile alle libertà. Anche se non si può escludere l’avvio di un ciclo di involuzione della democrazia indiana, rimangono da spiegare l’attenzione ai diritti e il radicamento dello Stato costituzionale nel corso di mezzo secolo. Essi sono avvenuti attraverso progressivi apprendimenti dei valori della convivenza civile. A dittature e a favorire l’elezione popolare di leader intenzionati ad introdurre la democrazia (Filippine, Cambogia, Corea, Taiwan, Ecuador, Peru, Uruguay) . • State building. L'introduzione di principi e istituzioni democratiche può coincidere con la necessità di costruzione o ricostruzione dello Stato in Paesi afflitti da guerre civili, conflitti armati con altri Paesi, occupazioni illegittime. In questi casi le Nazioni Unite autorizzano organi appositi a collaborare con i poteri pubblici nazionali alla ricostruzione democratica (Haiti, Namibia, Rwanda, Sierra Leone, Afghanistan) o ad esercitare provvisoriamente tutti i poteri legislativi, di governo e giurisdizionali, in attesa dell’insediamento di autorità nazionali legittimate in sede internazionale oltre che dal voto popolare (Cambogia, Bosnia, Kosovo, Timor Est). Nelle ipotesi di State building, i processi di democratizzazione vengono accompagnati dall’approvazione di nuove Costituzioni. 3. Le forme di Stato contemporanee e i provvisori approdi dei processi di democratizzazione. Nell'epoca contemporanea, si è sostenuto, la democrazia avrebbe acquisito il significato di un “valore universale”, inteso nel senso di un valore accettato al punto che l’instaurazione di un sistema democratico non richiede più giustificazione. La tesi si riferisce alle rappresentazioni della democrazia. E le rappresentazioni delle forme di convivenza incidono sempre sulla concreta evoluzione degli assetti istituzionali. In effetti, la condivisione della democrazia come valore e la legittimazione internazionale dei regimi democratici appaiono assai più elevate del suo effettivo radicamento. A quest’ultimo riguardo, possiamo distinguere a grandi linee 4 gruppi di casi: • Stati autocratici. Comprende gli Stati totalitari a partito unico (Cina, Cuba, Bielorussia, Corea del Nord), un buon numero di stati di ispirazione islamica e infine “democrazie di facciata” dove le elezioni sono controllate dall’alto, diffuse soprattutto in Africa. • Stati dove è riconosciuto il diritto di voto a tutti i cittadini, ma non gli altri diritti di libertà. Comprende Venezuela, Russia, alcuni Stati della penisola balcanica (Albania, Serbia, Montenegro, Bosnia, Macedonia, Moldavia), dell’Asia (Iran, Iraq, Afghanistan, Stati dell’Asia centrale già parte dell’Unione Sovietica e del Sud-est), il territorio della Palestina e numerosi stati africani. • Stati dove sono riconosciuti, oltre al diritto di voto, gli altri diritti di libertà, senza però che vengano garantiti a sufficienza. Comprende Bulgaria, Romania, Turchia, Ucraina, America, Georgia, Azerbaigian, Messico, gran parte degli Stati dell’America centromeridionale e, in Africa, Mozambico, Mali, Senegal, Ghana. • Stati costituzionali. Comprende l’Europa, Stati Uniti, Canada, Israele, Sudafrica, Giappone, India, Australia, Nuova Zelanda. Dobbiamo soffermarci sul secondo gruppo di stati, che presentano un assetto diverso da quelli finora incontrati, poiché il suffragio universale viene riconosciuto senza combinarsi con le garanzie dei diritti di libertà. Si è parlato perciò di “democrazie illiberali”. La vicenda delle “democrazie illiberali” accomuna situazioni molto diverse. Si pensi alla Russia, dove il presidenzialismo autoritario di Putin ha fatto leva anche sull’instabilità delle maggioranze parlamentari in seno alla Duma, quasi a ribadire l’alternativa fra anarchia e ordine. Si pensi all’Iran, dove la repressione del dissenso politico convive con una forte dialettica interna alla classe dirigente. Sono situazioni diverse fra loro, e ancor più da quelle dell’Iraq e dell’Afghanistan, ancora occupati da forze militari straniere. La crescente tendenza a riconoscere ai cittadini il solo suffragio universale induce tuttavia a ricercare qualche spiegazione generale. In primo luogo, va ricordato il fallimento dei tentativi di riformare regimi autocratici a partire dal riconoscimento di alcune libertà, senza pervenire al suffragio universale. Botha in Sudafrica e Gorbaciov in Unione Sovietica tentarono di liberalizzare il sistema autocratico senza democratizzarlo ma non vi riuscirono. Il fatto è che, in un sistema autocratico, un riconoscimento anche limitato delle libertà civili fa venire a galla il dissenso politico senza dargli uno sbocco istituzionale. Per gli autocrati in carica, l’introduzione del solo suffragio universale non presenta un inconveniente del genere. Naturalmente, il rischio maggiore è che perdano il potere. Ma, a certe condizioni, il suffragio universale può offrire loro l’opportunità di candidarsi alle elezioni quali “padri della patria” nella speranza di vincerle. Inoltre, è più facile assicurare la regolarità delle elezioni che garantire i diritti di libertà diversi dal diritto di voto. Ancora, i controlli degli osservatori internazionali sulla regolarità delle procedure elettorali si prestano a minori controversie della valutazione del rispetto dei diritti umani. Infine, e soprattutto, l’esercizio delle libertà non si può comandare dall’alto. La democrazia non è un patrimonio esclusivo della civiltà, ed è divenuta un valore universale grazie a molteplici apporti. D'altra parte, il suo radicamento effettivo richiede condizioni che il solo suffragio universale non può assicurare, ed è ovunque reversibile.
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