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Forme e funzioni dell'arte contemporanea - 6 CFU - Roberto Pinto, Sintesi del corso di Storia Dell'arte

Selezione di testi: Scritti M Duchamp (A proposito del readymade, A proposito di me stesso, Il processo creativo, L’artista deve andare all’Università) Rosalind Krauss Passaggi. Storia della scultura da Rodin alla Land Art (pp. 79-111) Carla Subrizi, Introduzione a Duchamp (pp. 3-64) Stefano Chiodi (a cura di), Marcel Duchamp. Critica Biografia e Mito Da Elio Grazioli (a cura di) Marcel Duchamp, Riga, Maros y Marcos Elio Grazioli, Infrasottile (pp.9-35) Giovanna Zapperi, L’artista è donna

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 07/05/2020

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Scarica Forme e funzioni dell'arte contemporanea - 6 CFU - Roberto Pinto e più Sintesi del corso in PDF di Storia Dell'arte solo su Docsity! A proposito del Readymade di Marcel Duchamp (MoMa, 1961) Verso il 1915, Duchamp conia il termine “readymade”, specificando che la scelta di questi readymade non mi fu mai dettata da un qualche diletto estetico. La scelta era fondata su una reazione d’indifferenza visiva, unita a una totale assenza di buono o cattivo gusto... dunque un’anestesia completa. Altro punto centrale dei readymade è la frase che li accompagna: essa è destinata a condurre la mente dello spettatore verso altre regioni più verbali. Duchamp, inoltre, distingue tra readymade, readymade aiutato (aggiunta di un particolare grafico) e readymade reciproco (servirsi di un Rembrandt come tavola da stiro). Importante fu anche la limitazione che Duchamp si autoimpose: “mi accorsi allora che per lo spettatore ancora più che per l’artista, l’arte è una droga ad assuefazione”. Nessuno dei readymade oggi visibili è unico, perché nessuno di questi è l’originale: sono tutti repliche. E allora il cerchio si chiude: “come i tubetti di pittura utilizzati dall’artista sono prodotti di manifattura e già pronti, dobbiamo concludere che tutte le tele del mondo sono dei readymade aiutati e dei lavori di assemblaggio” (?). A proposito di me stesso di Marcel Duchamp (City Art Museum di Saint Louis, 1964) 1902, Eglise de Blainville. Influsso impressionismo (Monet). 1904, Portrait de Marcel Lenfrancois. Reazione contro impressionismo: sperimenta una tecnica conosciuta ai pittori del Rinascimento (olio bianco e nero e poi sottili strati di colore trasparente). “Questa tecnica mi aiutò a preservare la mia indipendenza di sviluppo invece di assoggettarmi a un’unica formula. Poi scoprii finalmente Cézanne”. 1909/1910, Portrait père. Sono gli anni in cui Duchamp è a Parigi con il fratello, gli anni in cui si approccia all’opera di Cézanne. 1910, Partie d’échecs. Ancora Cèzanne. Fu presentato al Salon d’Automne dello stesso anno; nonostante il titolo di socio, non vi espose mai più. 1910. Portrait du Dr. Dumochel. Esaurita la presenza di Cézanne, approccio ai fauves. 1910, Le buisson (cespuglio, arbusto). Prima volta che compare un titolo non descrittivo: da qui in poi, il titolo diviene parte integrante dell’opera. 1910, Yvonne et Magdeleine. Interpretazione molto estesa del cubismo. 1911, Sonate. Scena familiare che denota più interesse per la teoria cubista che, stando alle parole dello stesso Duchamp, “mi attraeva per il suo approccio intellettuale”. Però, l’artista afferma di “voler inventare o trovare la mia strada personale invece di essere il semplice interprete di una teoria”. 1911, Portrait de joueurs d’échecs. Tecnica demoltiplicazione cubista. Quadro dipinto alla luce del gas per ottenere l’effetto di attenuazione che ha quando lo si vede. 1911, Moulin à café. Fatto per il fratello che voleva decorare la cucina: sono descritti i diversi aspetti dell’operazione della macinatura del caffè. 1911, Nu descendant un escalier n1. Ancora demoltiplicazione del movimento: il problema del movimento interessa moltissimo Duchamp in questa fase. 1912, Nu descendant un escalier n2. Nella tela convergono gli interessi di Duchamp del momento: cinema, cronofotografia di Marey e Muybridge, questione del movimento (è l’anno in cui a Parigi espongono i Futuristi). Infatti, l’aspetto naturalistico scompare, lasciando spazio alle venti diverse posizioni statiche nell’atto successivo della discesa. Nel 1912 il quadro fu rifiutato al Salon des Indépendants di Parigi perché Duchamp non volle cambiare il titolo dell’opera. L’anno seguente fu invece esposto all’Armory Show di New York. In generale, il quadro ha colori cubisti, ma interessi al movimento e trattazione della questione lo ascrivono all’influsso futurista. 1912, Le Roi et la Reine entourés de nus vites. Spariscono i giocatori di scacchi, per lasciare spazio alle sole pedine. È ancora il movimento al centro della riflessione. 1912, Mariée (sposa). Studio per il Grande Vetro: non più manualità, ma tecnica di precisione. La sposa è frutto dell’unione di elementi meccanici e forme viscerali. 1913, Broyeuse de chocolat n2. Dal 1913 (anno del soggiorno a Monaco, durante il quale Duchamp afferma “[ho] raggiunto la mia completa liberazione: tracciai il piano generale di un’opera di grandi dimensioni che m’avrebbe lungamente occupato a causa del numero di problemi tecnici nuovi da risolvere”) Duchamp lavora al Grande Vetro. Questo, fa parte dei suoi studi, effettuati su ogni particolare del Vetro. Utilizzò prospettiva diretta e disegno geometrico, avente il risultato di un’interpretazione architettonica e secca della macinatrice. 1913, 3 stoppages-étalon (3 rammendi-tipo). Ogni striscia propone una linea curva fatta con un filo da cucito lungo un metro, lasciato cadere da un metro di altezza, senza che la deformazione del filo durante la caduta venga determinata. La forma ottenuta è stata fissata sulla tela per mezzo di gocce di vernice. Questa esperienza è stata fatta per imprigionare e conservare forme ottenute attraverso il caso, il mio caso. Inoltre, l’unità di lunghezza era cambiata da linea retta in linea curva senza perdere effettivamente la propria identità (un metro), ma ponendo un dubbio patafisico. 1913, Glissière contenant un moulin à eau en métaux voisins. Secondo studio per il Grande vetro e prima pittura su vetro. “Si ritiene che la ruota visibile all’interno venga mossa da una caduta d’acqua che non mi preoccupai di rappresentare per evitare di cadere nella trappola del paesaggismo”. 1914/1915, 9 moules malic. Disegno eseguito con fili di piombo fissati sul vetro per mezzo di gocce di vernice, colorato ad olio. Rappresenta i nove stampi dei calchi di nove uniformi diverse presenti nel Grande Vetro. Forme del readymade: Duchamp e Brancusi di Rosalind Krauss Nel 1911 Duchamp è a Parigi e, assieme ad un gruppo di amici (Apollinaire e Picabia), assiste alla rappresentazione di Impressioni d’Africa, uno spettacolo teatrale tratto dall’omonimo romanzo di Raymond Roussel. La rappresentazione lo colpì molto. Come lui stesso affermò, fu la scena a colpirlo, e la scena era popolata da figure che, utilizzando delle macchine, automatizzavano e ripetevano in maniera meccanica la produzione artistica. In tal modo, l’opera è priva di tutte quelle implicazioni emozionali e psicologiche che l’artista, anche incoscientemente, riversa nell’opera; impressioni che siamo abituati ad attribuire alle opere e, più in generale, alla creazione. E sono proprio queste particolarità che ci spingono a considerare l’opera d’arte come autentica, originale. Roussel smentisce tutto ciò, costruendo quella che potremmo definire una parodia dell’arte, un’arte fai da te, un po' come negli album da colorare. Oltre ad eliminare la soggettività dell’artista, lo spettacolo mette in discussione e critica fortemente un sistema di pensiero, occidentale, per il quale tutto è fondato sulla razionalità, sulla logica. Nello stesso periodo, i pensieri di Duchamp erano sulla stessa lunghezza d’onda1. L’anno seguente abbandonò la sua ricerca cubista e iniziò a dedicarsi alla produzione di immagini di meccanismi complessi (La sposa o Il re e la regina attraversati da nudi veloci); per poi approdare agli oggetti industriali. Siamo nel 1913/1914, Duchamp “gioca” con una ruota di bicicletta e uno sgabello, e continua a chiedersi: che cos’è che fa un’opera d’arte? Nello Scolabottiglie (1914), è la firma dell’artista a creare l’opera d’arte (a legittimarla). Lo stesso procedimento verrà poi ripetuto per In advance of the broken arm (1915) e in Fontana (1917)2. L’oggetto è scelto dall’artista da una moltitudine di oggetti che popolano l’esperienza quotidiana. Non lo fabbrica, non lo costruisce, non lo realizza. Semplicemente, lo seleziona. L’atto che Duchamp compie con i readymade assomiglia a quello effettuato dalle macchine di creazione di Roussel: nell’oggetto non vi è più alcuna traccia del suo creatore, non vi è alcuna traccia della personalità dell’artista. Duchamp si è trasformato in un interruttore meccanico che innesca processi impersonali di produzione di un’opera d’arte. Al di là dell’atto di scegliere, Duchamp apre l’arte a una serie di quesiti riguardanti lo stesso lavoro d’arte: fare arte diventa atto speculativo sull’arte stessa. È possibile sintetizzare il processo in due momenti fondamentali: 1. L’opera d’arte perde la sua fonte convenzionale di significato poiché, la meccanicizzazione del gesto artistico diventa un ostacolo per la comunicazione che si instaura tradizionalmente tra la soggettività del creatore e lo spettatore. Il processo artistico si fa opaco, non più trasparente (analogia vetro). 1 Anche nei giochi di parole prodotti da Duchamp è da intravedersi un forte legame con Roussel. Infatti, in Impressioni d’Africa, l’autore aveva trasformato testi anteriori –Victor Hugo – per mezzo di giochi di parole, omofonie, raggruppamenti fonetici. Dalla creazione di queste parole, nasceva la storia. Il metodo di Roussel fu tuttavia pubblicato solo nel 1935 (Come ho scritto alcuni miei libri). 2 Vedi testo in inglese per tutte le implicazioni della firma di R. Mutt, artista sconosciuto. 2. Colpendo il significato tradizionale dell’opera, l’attenzione (estetica, ma anche dello spettatore) viene deviata sul processo di produzione dell’opera stessa. Prendiamo Fontana (1917), presentata all’esposizione della Society of Indipendent Artists di New York. Perché viene fatta sparire? Per questioni di gusto, ma anche perché Fontana non è altro che un orinatoio, un oggetto comune. Ma R. Mutt non aveva presentato un oggetto comune, perché l’aveva girato. Il riposizionamento fisico dell’oggetto (orinatoio rovesciato) corrisponde al riposizionamento metafisico dello stesso (da oggetto comune a oggetto d’arte). È qui che il suo (nuovo) significato si palesa: lo spettatore, o chi per lui, si interrogherà sulla produzione, sul perché e sul come la produzione di Fontana avviene. A differenza delle ricerche che andavano perseguendo le Avanguardie, Fontana non indaga la costruzione formale dell’oggetto, né l’articolazione delle sue parti, né tanto meno la relazione presente tra segni e significato. Fontana indaga quesiti che vanno al di là dell’oggetto stesso. Se l’esperienza cubista può essere paragonata a una retta lineare, Fontana è rappresentata invece da una forma circolare, che si ripiega su se stessa. Partendo dall’oggetto, la produzione di significato si interroga sul suo esterno, per poi ritornare all’oggetto stesso: si tratta di un processo di autocritica più che di produzione di significato. Lo stesso schema circolare era seguito da Roussel nella costruzione dei suoi testi (un racconto inizia e finisce con la stessa frase, al massimo varia qualche lettera). Concretamente, quest’aspetto dell’arte di Duchamp è rappresentato dai suoi giochi di spirali (Rotorilievi o Anémic Cinéma) o, ancora, dal nome del suo alter ego Rrose Sélavy – Eros, c’est la vie. D’altra parte, l’erotismo è centrale nell’opera di Duchamp. La stessa Fontana può essere interpretata come una forma uterina. Trovato il rapporto (e ricordandoci che la questione sulla quale stiamo ragionando è: cosa fa l’opera d’arte?), si potrebbe dire che è la metafora a fare l’opera. Si potrebbe procedere con centinaia di supposizioni e di significati metaforici, quando le domande che Duchamp ci (im)pone, difronte a Fontana, sono in realtà altrettanti quesiti di carattere autocritico. Io spettatore, cosa mi aspetto in termini di significato da un’opera d’arte? Perché interrogo le opere, le interpreto, come se queste mi veicolassero un dato contenuto/significato? Ma allora, sono io spettatore ad avere delle aspettative nei confronti dell’opera? Sono io ad avere l’esigenza di trovare un significato ad ogni opera? E se anche la risposta fosse affermativa, ho il diritto di arrogare una mia necessità all’istanza che l’ha prodotta [all’autore dunque], ho il diritto di traslare un mio contenuto sul produttore dell’oggetto? Fontana, e più in generale l’oggetto readymade, elimina anche l’interpretazione di tipo formale; poiché non è Duchamp a determinare le forme e la superficie degli oggetti scelti. In questo senso, l’opera è distaccata dai sentimenti personali del suo firmatario e non offre nessun tipo di chiave di decodificazione o di interpretazione allo spettatore. Verso gli anni Sessanta, quando la fortuna di Duchamp era ormai alle stelle, molti critici hanno assunto interpretazioni psicoanalitiche e significati simili nel suo lavoro. Tutte queste impalcature cadono poiché, come appena visto, Duchamp annulla ogni traccia di narratività all’interno delle sue opere. Ora è più chiaro, forse, il concetto di “bellezza dell’indifferenza” che contraddistingue la sua arte: un’arte libera da ogni affetto personale. Nella rinnovata concezione dell’opera, nel suo drastico taglio con le catene storiche, psicologiche o estetiche del tempo, Duchamp rompe con l’illusione idealizzata che all’epoca vigeva nell’interpretazione delle sculture (o opere). In questa riflessione va inserita la pittura su vetro: scomparso lo sfondo ideologico che permetteva l’interpretazione di un’opera d’arte, il suo nuovo contesto istituisce una nuova serie di rapporti semantici. Come in Slitta contenente un mulino ad acqua in metalli vicini (1913/1915), lo sfondo pittorico usuale (che permette allo spettatore di immaginare lo sviluppo spaziale dell’oggetto figurato) è sostituito dalla realtà stessa dell’oggetto. Si passa dunque da un fondo pittorico fine all’illusione; a uno sfondo trasparente che inserisce l’opera nello stesso spazio – fisico – dello spettatore: attraverso il fondo di vetro lo spettatore vede sempre un’estensione del proprio spazio. Ne consegue che lo spettatore si interrogherà sul gesto estetico illusionista preesistente, ne considererà la stranezza3. Anche Brancusi costruì sulla sua stessa figura di artista un alone di miticità. Non si tratta dell’unico punto in comune tra lo scultore e Duchamp. Come ha notato Sidney Geist: “la sua opera è priva di stile. Ho notato che le sculture hanno spesso bisogno le une delle altre, ma che non hanno affatto bisogno dello scultore o della sua personalità. La cancellazione dell’io [...]”. Secondo la Krauss, non si tratta semplicemente di cancellazione della personalità dell’artista. Osservando più profondamente le sue sculture, infatti, percepiamo una sorta di impedimento che blocca ogni tipo di interpretazione formale. La scultura di Brancusi si basa sulla deformazione leggera di forme geometricamente ideali che agisce su due fronti: da un lato, non intacca la qualità del volume geometrico (di per sé, dotato di una capacità d’analisi irriducibile)4; ma dall’altra astrae la scultura dal regno della geometria, per inserirla nel mondo contingente. Come ben esplicitato in l’Inizio del mondo – con le sue ombre, i suoi riflessi e i giochi di luce che vediamo sulla sua superficie e la base – la contemplazione imposta dalle opere di Brancusi non ci spinge ad analizzare i rapporti interni della scultura; piuttosto, ci chiede di riconoscere il modo singolare che la materia ha di inserirsi nel mondo. Brancusi sembra sempre fondare il significato di una scultura sulla capacità che una situazione particolare ha di modificare l’assoluto della sua forma geometrica. La sua evoluzione in tal senso risale al 1907, con Supplizio, che rappresenta il torso e la testa di un bambino simile all’Ecce Puer! di Medardo Rosso. La compressione delle parti del corpo è evidente, e la nostra attenzione è incentrata sul contrasto strutturale che oppone l’esterno all’interno. Nel 1911, in Prometeo, sono già evidenti i cambiamenti di piano che abbiamo sopra descritto per l’Inizio del mondo: vi 3 La Krauss parla di “campione a farfalla” poiché solitamente l’arte estrae un oggetto dal suo contesto reale per installarlo in un contesto pittorico; mentre Duchamp estrae un oggetto dal suo contesto reale per negare il contesto pittorico e, allo stesso tempo, denunciandone l’esistenza. 4 Nel senso che, come si analizza un cerchio? Come lo si scompone in parti costitutive? Via Lattea serve da conduttore. I 9 Stampi maschi, sentendo recitare le litanie del Carrello (ritornello della macchina celibe) lasciano fuoriuscire il Gas d'illuminazione attraverso un certo numero di tubi capillari situati nella loro parte superiore (ognuno di questi tubi ha la forma di uno Stoppage-étalon). Il gas, arrivato così al primo setaccio, continua a subire diverse modificazioni di stato, al termine dei quali, dopo essere passato per una specie di toboga o di cavatappi, diventa liquido esplosivo uscendo dall'ultimo setaccio2. Durante l'operazione precedente, il carrello recita, come si è visto, le sue litanie, il tutto abbandonandosi a un movimento di andirivieni sul suo gocciolatoio. Questo movimento ha per effetto di aprire le Forbici, provocando lo spruzzo del Gas liquido, che viene proiettato verticalmente: attraversa i testimoni oculisti e arriva alla regione degli Spari. Il Giocoliere di gravità, che non è raffigurato, doveva stare in equilibrio sull'abito della Sposa e subire il contraccolpo delle peripezie di un Incontro di pugilato (non rappresentato) che si svolge sotto di lui. L'abito della Sposa (non raffigurato) doveva essere concepito applicando il sistema Wilson-Lincoln (ossia approfittare di una certa capacità di rifrazione del vetro). L'Iscrizione in alto, sostenuta da una specie di Via Lattea color carne, è ottenuta, come si è visto, con i tre Pistoni di corrente d'aria, che sono tre quadrati perfetti tagliati nel- la garza e che si suppone abbiano cambiato forma al vento. Attraverso questi pistoni, vengono trasmessi i comandamenti che andranno a raggiungere gli Spari e lo spruzzo, dove si concludono le operazioni celibi. Va osservato che la Macinatrice di cioccolato (la cui Baionetta serve da sostegno alle Forbici), nonostante il posto relativamente notevole che occupa nel vetro, sembra soprattutto destinata alla qualificazione concreta dei celibi. E questo in applicazione del fondamentale adagio di spontaneità: "Il celibe macina da sé il suo cioccolato". Il Grande Vetro può essere soggetto a molteplici interpretazioni, ma non può passare inosservato il commento erotico dell’opera. Lo stesso Duchamp l’ha scritto, in un testo di una decina di pagine, e contenuto anch’esso all’interno della Scatola verde. Come si è visto, Duchamp cerca di analizzare razionalmente l’irrazionale. Breton conclude affermando “credo sia inutile insistere su quanto c’è di assolutamente nuovo in questa concezione. [..] un posto preminente tra le opere significative del XX secolo. [..] è una meraviglia constatare come esso serbi intatta tutta la sua potenza di anticipazione. Conviene mantenerlo luminosamente eretto per le navi future.” 2 La polvere interviene nella preparazione dei Setacci: un allevamento di polvere ha permesso di ottenere una polvere di quattro o sei mesi. Su questa polvere è stata fatta colare una vernice in modo da ottenere una specie di cemento trasparente. Marcel Duchamp o il campo immaginario di Rosalind Krauss Octavio Paz, paragonando l’arte di Pablo Picasso e quella di Marcel Duchamp, parla da un lato di un’attività tesa a fare opere, dall’altro un’operazione invece di negazione dell’opera. Certo, vi è una differenza tra i due, ma il distacco tra i loro modi di creazione è da rintracciarsi nella dicotomia livello alto-serio (Picasso) e livello basso-ironico (Duchamp). Per Duchamp, infatti, era impensabile perseguire l’idea di un’opera d’arte autonoma, distaccata e protetta dal mondo reale. Abbattendo le barriere dell’arte alta e seria, Duchamp raggiunse le forme mimetiche basse che, a inizio del XX secolo, corrispondevano al realismo. Uno dei mezzi del realismo era la fotografia, e Duchamp, fin dall’inizio della sua carriera, ebbe un forte legame con questo mezzo. Oltre all’iniziale interesse per la cronofotografia di Marey e all’attenzione per i ritratti fotografici; Duchamp si interessò anche a impieghi più estesi del mezzo: saggi di fotografia stereoscopica o lavori cinematografici ne sono la prova. Anche un’opera come il Grande Vetro intrattiene molti legami con la fotografia: la trasparenza del Vetro che funge da sfondo per le figure, apre la superficie “dipinta” al contatto con il reale. La sensazione è quella di trovarsi difronte a soggetti reali, appartenenti al nostro mondo, come appunto in una fotografia. Scavando più in profondità, al pari della fotografia, il Grande Vetro ha bisogno di una didascalia, di un testo esplicativo; poiché entrambe, a differenza della pittura che innesca processi di simbolizzazione e di organizzazione interna, sono presenza muta. Il Grande Vetro, quindi, come la fotografia, ha bisogno di un testo che spieghi il legame narrativo tra i suoi elementi. Ecco quindi il titolo: La Mariée mise à nu par ses célibataires, même; un titolo che però complica la lettura dell’opera. Nel 1934, verrà pubblicato Notes o Boîte Verte, un supplemento testuale esaustivo per una comprensione dell’opera (più che una, molteplici, essendo le Notes scritte in maniera criptica e contraddittoria). La Krauss si concentra in particolare sulla Prefazione delle Notes, poiché è qui che risiede il carattere fotografico del Grande Vetro3. Le Notes riportano inoltre i procedimenti tecnici utilizzati da Duchamp; operazioni che sottolineano ulteriormente il carattere fotografico del vetro: i Tre pistoni di correnti d’aria, ad esempio, sono la traccia di tre forme arbitrarie che tre ritagli di tessuto di forma uguale assunsero mossi del vento4. I tre Pistoni sono dunque delle tracce dei ritagli di tessuto originali. In generale, la fotografia è considerata un segno indicale (Peirce), ovvero un segno che mantiene un legame fisico (traccia) con il suo referente materiale. Tutto il Grande Vetro è costruito sul concetto di traccia, come testimonia il processo di produzione dei sette Setacci. Qui è registrata un altro tipo di traccia, quella del tempo che si deposita sulla superficie. 3 “Per riposo istantaneo = fare entrare l’espressione extra-rapido” e “Si determineranno le condizione della migliore esposizione del Riposo extra-rapido”. Parlare di esposizione rapida produce uno stato di riposo, un segno isolato, che rimanda al linguaggio della fotografia. 4 Qui è evidente l’influsso di Man Ray, che nel mentre tentava di ridurre la fotografia alla forma di silhouette e piatta del rayogramma. Anche Tu, m’ è costituito sulla costante presenza di indici e tracce, costituite dalla fissazione sulla tela di ombre proiettate dai readymade stessi di Duchamp, ma anche dei Tre rammendi-tipo (anch’essi segni indicali, tracce dei fili lasciati cadere da Duchamp). Lo stesso concetto di readymade è spiegato nelle Notes come un appuntamento, un’istantanea che diviene traccia di un avvenimento particolare. E l’avvenimento è rappresentato in Tu, m’come traccia di una traccia. Tu, m’ è inoltre un’opera che potremmo definire autobiografica: oltre alla presenza delle tracce delle opere di Duchamp stesso, la sua natura autobiografica è rafforzata dalla presenza dell’indice di una mano dipinto al centro del quadro. Il significato dell’indice è da rapportarsi con il titolo dell’opera, che letteralmente significa “Tu, a me”. L’opera di Duchamp sembra qui rifarsi, più che a un’impostazione prospettica classica, al sistema di prospettiva doppia – anamorfosi – in cui due punti concorrenziali, uno di fronte all’altro, si fanno schermo reciprocamente. L’io duchampiano è qui duplicato. Tu m’ costituisce in un certo senso il pendant del Grande Vetro: entrambi fungono da autoritratti di Duchamp. In uno schema che riportava la costruzione generale del Grande Vetro, Duchamp indicò infatti come MAR(iée) il pannello superiore e CEL(ibataries) quello inferiore. Il Grande Vetro è quindi l’autoritratto in cui il soggetto si sente come doppio e diviso. Tuttavia, nel Grande Vetro l’autoritratto non si esplicita: noi sappiamo di MAR-CEL solo grazie allo schizzo. L’autorappresentazione scissa dell’artista è dunque dissimulata. Nelle opere seguenti, essa però si esplicita in maniera quasi teatrale con l’apparizione di Rrose Sélavy. L’attenzione al ritratto è presente anche negli esordi della sua attività, ancora legata alla pittura e al cubismo: numerosi sono infatti i quadri raffiguranti membri della sua famiglia. L’adesione allo stile cubista, però, poneva un problema non irrilevante: come fare a coniugare la volontà di individuazione di un individuo con un linguaggio pittorico che ripudia il soggetto individuale? Così Duchamp si dedica alla fotografia, vedendo in questo strumento un mezzo per avvallare tutte quelle operazioni di sostituzione o di simbolizzazione che stavano alla base dei coevi movimenti artistici. Come già detto, la fotografia, grazia al suo statuto di indice (e non di icona), permetteva una forte adesione al mondo reale, rinviando così il processo dell’elaborazione del senso verso il supplemento costituito dalla didascalia scritta. Se l’immagine pittorica è simbolica, l’immagine fotografica è pre-simbolica, ed è questa sua caratteristica a permettere di definire un rapporto particolare di organizzazione dell’Io. In conclusione: Duchamp è particolarmente interessato al fotografico, in particolare al suo statuto semiologico di traccia, poiché la natura strutturale dell’indice è completamente diverso dalle altre forme di rappresentazione. Bisogna comprendere che il lavoro fatto da Duchamp, nonostante sia legato alla "volgarità" in arte, è in qualche modo profetico. Egli si rese conto che il mondo ormai stava cambiando e, con esso, anche la struttura delle forme visive, e che questo cambiamento veniva in particolare determinato dalla fotografia. A sua volta è la Krauss che ci permette di cogliere questa presa di coscienza di Duchamp e di capire la portata rivoluzionaria del ogni readymade è “arte a proposito dell’arte”. Ed è questa sua caratteristica che fa sì che l’artefatto6 si designi da sé, si faccia paradigma e acquisisca una portata generale. Ma come è stato possibile che un oggetto comune diventasse arte? Cosa fa “arte “ una pala di neve? Ciò che la fa arte è la frase che la designa come tale. E una volta appurata questa condizione, com’è stato possibile? Come ha funzionato l’enunciazione, cioè A quali condizioni di enunciazione il readymade si traduce nell’enunciato “questo è arte” dato i readymade lo sono? Bisogna allora indagare la natura dell’enunciato e le sue condizioni enunciative: 1) “Questo” ha bisogno di un REFERENTE (un oggetto). 2) L’enunciato ha bisogno di un ENUNCIATORE. 3) DESTINATARIO (condizione fondamentale perché la sua ricezione, a prescindere dal consenso o dal rifiuto, assicura l’esistenza dell’enunciato). 4) Ricevuto l’enunciato, esso si iscrive nella “SUPERFICIE DI EMERGENZA”, terreno in cui si ha la formazione culturale. Qui l’enunciato si registra e si istituisce. Passiamo ora al readymade. È evidente che: 1) “Questo”, il REFERENTE, è il READYMADE stesso. 2) L’ENUNCIATORE è l’ARTISTA, cioè Duchamp (ed è stato riconosciuto come tale). 3) Il PUBBLICO è ovviamente il DESTINATARIO, ha recepito il readymade. 4) L’enunciato “readymade=arte” è stato ISTITUITO, poiché i readymade sono ancora oggi conservati, esposti e valorizzati in quanto oggetti d’arte. Come si può notare, queste ‘regole’ valgono per ogni oggetto d’arte. Il readymade, per quanto singolare, si iscrive nello stesso contesto enunciativo di ogni altra opera. Ogni oggetto d’arte ha bisogno di quattro condizioni fondamentali: 1) l’OGGETTO; 2) l’AUTORE; 3) il PUBBLICO; 4) il LUOGO ISTITUZIONALE, cioè un dispositivo decisionale o un’istanza di registrazione la cui funzione è di effettuare le prime tre condizioni. Queste sono le condizioni necessarie, ma sono anche sufficienti? Duchamp, con la sua arte a proposito dell’arte, enuncia sia la necessità che la sufficienza di queste quattro condizioni enunciative. Ogni qual volta che queste quattro condizioni si incontrano (devono infatti essere concomitanti), può nascere un’opera d’arte. Incontro di un oggetto e un autore Precisare i “readymade”. Progettando per un momento futuro (giorno tale, data tale, minuto tale), di “annotare un readymade”. – Il readymade potrà esser cercato in seguito (con ogni rinvio). L’importante allora è dunque questo orologismo, questa instantanea, come un discorso pronunciato in qualsiasi occasione ma a tale ora. È una specie di appuntamento. – annotare naturalmente questa data, ora, minuto, sul readymade come informazioni. Anche il lato esemplare del readymade. supposizione è costruito la teoria dell’arte di de Duve: le opere d’arte esistono come enunciati, in quanto appunto esistono, si mostrano, e si mostrano in quanto arte. 6 ARTEFATTO nel senso di opera artificiale di secondo grado: arte sull’arte/arte a proposito dell’arte. Nella Boite Verte, Duchamp ha dichiaro che il readymade è “specie di appuntamento” in cui artista e oggetto sono considerati semplicemente condizioni di tale incontro, tant’è che il readymade potrà “esser cercato in seguito”. Se basta un incontro per far sì che si possa “annotare il readymade”, cade l’idea della fabbricazione e del produrre: l’autore non fa più l’oggetto con le sue mani, basta che si presenti all’appuntamento. L’incontro ha tuttavia delle condizioni: 1. PRECISARE IL READYMADE. Cioè scegliere, perché “fare è sempre scegliere”. Ma con quale criterio? “È lui a sceglierci, per così dire”. E ancora “[con] una indifferenza tale da non provare emozione estetica. La scelta dei readymade è sempre basata sull’indifferenza visiva e contemporaneamente sull’assenza totale di buono o cattivo gusto”. Dunque, non c’è traccia dell’azione consapevole, della responsabilità dell’artista. Cioè, il principio di autorialità è annullato. Oltre a decadere il fare, decade anche la personalità attiva dell’artista. 2. INSCRIVERE IL READYMADE, cioè annotarlo con ora, data, minuto. In realtà non lo fece mai. Forse, è negli stessi titoli che è possibile rintracciare un filo logico: la pala da neve anticipa il pettine (poiché pelle à neige si anagramma in elle a peigne) e, ancora, il pettine anticipa la fine della pittura (peigne significa pettine, ma è anche il congiuntivo di peindre). Tolta l’azione di dipingere, del fabbricare; rimane l’atto del nominare. Come ben sappiamo, Duchamp ha vagliato in lungo e in largo ogni possibilità di nominalismo pittorico: la tautologia, la metafora, i giochi di parole, gli anagrammi, eccetera. La conclusione fu anche abbastanza rapida: il nominalismo pitturale diviene sinonimo di pratica autoriale. 3. FIRMARE. Duchamp non ha mai messo in discussione il valore della firma, ma ne ha cambiato le regole. Il nome dell’autore, al pari dell’oggetto, è accidentale. Poco importa se è Marcel Duchamp, Rrose Sélavy, Richard Mutt o George W. Welch, come dimostrato in Wanted (1923). Incontro di un oggetto e di un pubblico Consideriamo innanzi tutto due fattori importanti, ossia i due poli di ogni creazione di ordine artistico: da un lato l’artista, dall’altro lo spettatore che, con il tempo, diventa la posterità. “Do la stessa importanza a chi guarda l’opera come a colui che la fa”. Interessante, considerato che nessuno produce il readymade. In questi oggetti allora, ciò che distingue l’autore dallo spettatore è il fatto che questa venga per secondo. Nel Grande Vetro sono rappresentati i Testimoni oculisti, che assistono all’incontro mancato tra le gocce e la Sposa. Questi rappresentano l’incontro reale tra l’opera e lo spettatore secondo Duchamp. Questo era già presente nello studio del 1918: nel Petit Verre era infatti inserita una lente Kodak chiamata per l’appunto da Duchamp À regarder d’un oeil (l’autre coé du verre), de prés; pendant preqsque un heure. Se lo spettatore guarda attraverso la lente, vedrà un’immagine rovesciata e ridotta della stanza del MoMa in cui è conservato il Petit Verre. Aspettando, si vedrà prima o poi un altro visitatore della stessa sala che appare al posto di chi sta guardando perché posto dove si trovano le istruzioni dell’uso: “sono gli spettatori che fanno il quadro”, in effetti essi sono inclusi nell’opera. L’incontro mancato è mediato dall’opera, ed è un incontro che avviene sì con l’altro spettatore, ma anche con me stesso, ed è mancato perché io spettatore sono in ritardo. Questo gioco verrà recuperato con Étant donnés. Comunque sia, si tratta in entrambi i casi di incontri individuali: solo uno guarda nella lente Kodak, solo uno guarda dallo spioncino. L’arte non si rivolge alla massa, ma all’individuo; ma gli spettatori sono sempre due, poiché ne vedo uno riflesso nelle lente, e alle mie spalle ce n’è un altro che mi osserva. Le dinamiche presenti tra l’opera e lo spettatore accompagnano anche i Nove Spari: ammettendo che la meta rappresenti l’oggetto prima o al di fuori dell’incontro, e le tre (tre indica la folla in Duchamp) posizioni di rito le attese del pubblico, la dispersione degli spari rappresenta allora l’impossibilità dei membri del pubblico di intendersi su ciò a cui mirano e che pretendono di chiamare oggetto d’arte. L’incontro ha avuto luogo, ma l’oggetto si è perso. Duchamp non ha nemmeno indicato la posizione di tiro, questo perché il pubblico non ha una strategia concertata e la sua coesione è solo un corpo moltiplicato. Alla fine, il pubblico si disperde. Étant donnés ci ricorda invece che, anche se le attese dell’osservatore sono state appagate (il voyeurismo), non è detto che l’opera ne soddisfi il desiderio. Tu m’ fa cadere lo sguardo dello spettatore, perché quest’ultimo quadro è da leggere, non da guardare. Se non è più lo sguardo la condizione dell’incontro tra lo spettatore e l’opera, lo è il ritardo. Ma in che senso? Nel senso che “l’artista dovrà attendere il verdetto dello spettatore perché le sue dichiarazioni assumano un valore sociale”. Lo spettatore, in ritardo, determinerà il valore dell’opera. Incontro di un oggetto e un’istituzione Ancora oggi occorrerebbe prima di tutto sapere cosa significa “l’arte come istituzione” o, più concretamente, se tutte le istituzioni artistiche, cioè i luoghi in cui l’enunciato “questo è arte” si vede registrato e riceve la sanzione sociale, istituiscono la stessa cosa sotto il nome di arte. Due readymade sono stati esposti nel 1916 a New York, ma passarono inosservati. L’anno seguente, Duchamp inviò Fontana alla mostra della Society of Indipendents Artists. L’epilogo lo conosciamo: l’opera venne fatta sparire e Duchamp scrisse un articolo di difesa nei confronti del signor R. Mutt. Solo più tardi – e dunque in ritardo – l’opera verrà riconosciuta come tale, ma come lo stesso Duchamp disse “l’artista può Ventisei dichiarazioni su Duchamp di John Cage (1964) I. Tutti gli altri erano artisti. Duchamp raccoglie la polvere. [..] Tutto ciò che si vede dunque, vale a dire ogni oggetto e in più il modo di guardarlo, è un Duchamp. II. Duchamp ha mostrato l’utilità dell’addizione (baffi). Rauschenberg ha mostrato la funzione della sottrazione (De Kooning). Bene, adesso ci aspettiamo la moltiplicazione e la divisione. È lecito presumere che qualcuno imparerà la trigonometria. III. Pare che Pollock ci abbia provato a dipingere su vetro. In un filmato. Era l'ammissione di un fallimento. Non era quello il modo di procedere. Non si tratta di rifare ciò che Duchamp ha già fatto. Oggigiorno dobbiamo essere capaci di guardare oltre ciò che abbiamo davanti, come se fossimo dentro e guardassimo fuori. Cosa annoia più di Marcel Duchamp? Lo chiedo a voi. (Ho libri e libri sulla sua opera, ma non sono mai preso dalla briga di leggerli). Affaccendati come api che non hanno niente da fare. Vuole che sappiamo che essere artista non è un gioco da ragazzi: senza dubbio equivalente, come difficoltà, al gioco degli scacchi. Inoltre, una nostra opera d'arte non è solo la nostra ma anche l'avversario che è li per questo. Anarchia? Ha semplicemente trovato quell'oggetto, gli ha dato il proprio nome. Che fece allora? Ha trovato quell'oggetto, gli ha dato il proprio nome. Identificazione. Che faremo allora? Lo chiameremo con il suo nome o con il nome di lui? Non è un problema di nomi. IV. Procedere in silenzio. Un modo di scrivere musica: studiare Duchamp. Un apprezzamento di Jasper Johns (1968) Marcel Duchamp, uno degli artisti pionieri di questo secolo, s’è mosso col suo lavoro attraverso le frontiere retiniche stabilite dall’Impressionismo, fino a un capo dove lingua, pensiero e visione interagiscono. Ha anticipato molti aspetti dell’arte recente. Lui stesso l’ha messo, così come ha messo di non aver smesso “volontariamente” di dipingere1. Il Grande Vetro è il fulcro del suo pensiero: l’arte intesa come trasposizione lascia il passo alla vista e al pensiero. Ha dichiarato che voleva uccidere l’arte, ma i suoi reiterati tentativi di distruggere gli schemi di riferimento hanno cambiato il nostro modo di pensare, stabilito nuove unità di pensiero, “un nuovo pensiero per quell’oggetto”. 1 Ha parlato di rompersi una gamba “non sono cose che uno fa di proposito” ha detto. Il grande vetro di Richard Hamilton L’idea del progetto del Grande Vetro fu elaborata da Duchamp in breve tempo, probabilmente tra il luglio e l’agosto del 1912, mentre si trovava a Monaco. Risale infatti a questa data l’illustrazione esatta dello schema del Grande Vetro, che tra l’altro all’epoca riportava già il titolo attuale praticamente per intero: La Mariée mise à nu par ses célibataires. Prima di Monaco, Duchamp aveva assistito allo spettacolo di Roussel. A Monaco aveva iniziato a lavorare al Grande Vetro, una sorta di gioco da lui stesso ideato. Qui si scontra con il problema de Il passaggio dalla Vergine alla Sposa (1912): come fare a rappresentare un mutamento metafisico? Esso non può certamente risolversi in un mutamento spaziale. E allora con Sposa (1912) cerca l’identità di quel mutamento. Al suo ritorno, e siamo nell’agosto del 1912, Duchamp ha chiuso con la pittura. In realtà non fu proprio così, perché successivamente realizzò il dipinto della Macinatrice di cioccolato (1913). Qui raffigura fedelmente uno strano oggetto la cui esistenza formale dipende esclusivamente dal suo funzionamento. Nel dipinto il movimento è implicito. Intanto, gli appunti composti nel corso del travaglio del Grande Vetro vengono raccolti. Verranno tutti pubblicati nel 1934, nella famosa Scatola verde. Tra questi, ve n’è uno da considerarsi tra i primi cronologicamente. Qui Duchamp descrive l’intera composizione: già dal principio è previsto un doppio livello, uno per lo sposa (MARiée) e uno per i Celibi (CELibataires); due mondi separati. Ogni elemento ha una sua denominazione e una sua funzione; queste, assieme alle interazioni tra i vari elementi, sono stabilite con una logica inesorabile. Nonostante la precisione che connota l’impostazione del Grande Vetro, Duchamp considera ogni raffigurazione come arbitraria, uno stato fisso e determinato in un flusso di tempo e spazio. Alla Sposa, concepita come una forma organica irregolare (che gli diede non pochi problemi), è contrapposta la Macchina celibe, concepita con una precisione millimetrica. Se il pannello della Sposa non ha avuto bisogno di accorgimenti prospettici, la parte inferiore è invece pensata come vista dall’alto. Al centro troviamo la piattaforma circolare della Macinatrice; dalla quale si generano tutte le altre dimensioni. Tra il 1913 e il 1914 Duchamp ha ormai maturato la prospettiva dell’intero Apparato celibe. Il progetto era disegnato su una parete dello studio dell’artista. Il calcolo (predeterminato) del disegno venne realizzato con l’aiuto di un filo di cotone, strumento maneggevole per determinare i punti di fuga. Non è un caso che allo stesso periodo risalgano i Tre rammendi tipo. Un argomento molto discusso all’epoca era la teoria della relatività di Einstein, e Duchamp ne diede la sua interpretazione personale: “un filo orizzontale di un metro di lunghezza cade dall’altezza di un metro su un piano orizzontale deformandosi a suo piacimento e fornisce così una nuova immagine dell’unità di lunghezza”. Dunque, una misura standard (1 m) viene modificata dal movimento attraverso il tempo e lo spazio. A sinistra della Macinatrice si trova il Carrello (o Slitta o Scivolo). I due elementi sono uniti dalle Forbici (o Baionetta), che si trovano sul fusto centrale della Macinatrice. Lo studio della Slitta venne realizzato separatamente su una superficie di vetro, ancora oggi conservata intatta nella collezione Hamilton di Londra. Lo sfondo del vetro è fondamentale: esso avrebbe permesso all’opera di trovarsi in uno sfondo casuale, perché generato dall’ambiente in cui l’opera si sarebbe poi trovata. Per il disegno della Slitta, Duchamp provò dapprima – senza successo – ad utilizzare l’acido fluoridrico, ma, avendo ottenuto una sagoma appena visibile, ripiegò sull’utilizzo del filo di piombo. Essendo infatti il piombo un materiale malleabile e duttile, il filo poteva essere modellato per eseguire i contorni di un disegno posto a rovescio sotto la lastra di vetro. Il filo venne poi fissato con del mastice al supporto vetroso e, successivamente, era possibile stendere il colore entro i margini creati. Lo strato di pittura venne poi sigillato da una lamina di piombo, che permise appunto di “incastrare” il colore tra il vetro e la lamina. Il caso, però, ha mutato la struttura dell’opera: in primo luogo, vi fu un’interazione imprevista tra la lamina di piombo e i pigmenti di piombo e, secondo, il vetro si frantumò nel corso di uno spostamento. Anche i Nove stampi maschi sono stati dapprima studiato un in disegno su vetro. Inizialmente otto (il nono fu aggiunto direttamente su vetro), ognuno dei quali rappresentato da una diversa uniforme professionale vuota al suo interno. A livello prospettico, essi poggiano tutti sul “piano orizzontale del sesso [dell’inguine]”, mentre la posizione di testa e piedi varia. Questi “individui” hanno il compito di fornire il Gas d’Illuminazione; il quale filtra attraverso Vasi capillari attaccati al copricapo di ogni Stampo. I Vasi capillari sono ricavati dalle tre sagome (ognuna ripetuta dunque tre volte) dei Tre Rammendi-tipo. Attraversando i Vasi, il Gas si solidifica e, una volta raggiunta l’apertura, viene espulso dallo Stampo. A causa della forte pressione, il Gas si frantuma in brevi “aghi” che salgono attraverso i Setacci; ovvero i sette coni disposti a semicerchio dietro la macinatrice. Leggendo le note presenti all’interno della Scatola, ci rendiamo conto della sottigliezza concettuale di Duchamp: molte delle sue idee, però, a causa degli scarsi mezzi presenti all’epoca, non riuscirono a prendere forma. L’idea fondante era comunque quella di un Gas che, solidificatosi, si trasforma in sospensione liquida, risucchiata da una pompa a farfalla. Da qui, le spirali di liquido scendono e creano un grande scolo, che culmina con lo spruzzo orgasmico. Accanto a questo processo, se ne verifica un secondo, puramente meccanico. La Slitta, muovendosi avanti e indietro per mezzo dell’acqua; permette a sua volta alle lame delle Forbici di aprirsi e chiudersi (la Slitta ha due aste verticali sulla destra, collegate appunto alle Forbici). Fu nel 1915, con l’arrivo a New York, che Duchamp iniziò concretamente a lavorare sul Vetro. A causa delle restrizioni doganali, Duchamp portò con sé solamente i suoi appunti e i disegni su carta. La parte dei Celibi fu quindi realizzata senza troppe difficoltà; mentre rimaneva ancora da capire come realizzare il regno della Sposa. Per riportare la parte dell’Impiccato femmina su vetro, Duchamp provò una nuova tecnica senza però riscontrare successo. Decise dunque di adoperare nuovamente il filo di Infrasottile. L’arte contemporanea ai limiti di Elio Grazioli Capitolo I. Guardare due volte Nel 1964 Andy Warhol espone alla Stable Gallery di New York le sue merci artistiche: si tratta di scatole di compensato che ripropongono, attraverso la tecnica della serigrafia, l’imballaggio di alcuni dei prodotti più in voga del momento: Brillo, Heinz, etc. La Gallery viene trasformata in un magazzino delle merci: non si distingue più l’opera d’arte dall’oggetto. Inoltre, la serigrafia rende di fatto uguali tutte le scatole: non esiste differenza tra copia e originale, è una produzione in serie. Nel momento in cui non è più possibile distinguere tra una merce e un’opera, è giunta la morte dell’arte? Era Danto – filosofo e critico d’arte – a interrogarsi sulla questione, concludendo che alla fine ciò che distingue una scatola di Brillo da un’opera d’arte che consiste in una scatola di Brillo è una certa teoria dell’arte. Secondo Bertrand Rougé, in realtà, la differenza tra la scatola e la rappresentazione della scatola c’era: i boxes sono di compensato e non di cartone. Dunque, non si tratta di oggetti presi dalla realtà e inseriti in un nuovo contesto (readymade); ma di trompe-l’oeil, di inganno ottico, di illusionismo visivo. Ciò implica uno spostamento della creazione da un piano concettuale (readymade) a uno metalinguistico: l’inganno del trompe-l’oeil funziona solo se svelato, se ci rendiamo conto che un’opera d’arte ha preso il posto della realtà. Un tale accorgimento è possibile solo se “si guarda almeno due volte”. Ed è questa la linea sottile che distingue l’opera d’arte dall’oggetto: L’opera d’arte si distingue dal semplice oggetto per il fatto che è ciò che ci chiama a guardavi almeno due volte. La prima è un guardare, la seconda un vedere. Riguardare è scoprire qualcosa che ci concerne, che ci tocca, e che ci restituisce lo sguardo, ce lo rimanda [..]. il guardare un’opera d’arte, già la prima volta è un riguardare: non si guarda un’opera come si guarda il reale, la si guarda già con un’attenzione interrogativa, una consapevolezza che non si tratta di un oggetto come gli altri. Già il primo sguardo, in arte, è il secondo. E il readymade? Il readymade, secondo l’opinione di Rougé, compie un passo in più. Prendiamo ad esempio Painted Bronze (Savarin) di Jasper Johns: è un barattolo vero o è una scultura? La colatura è vera o finta? È un trompe-l’oeil o un readymade? Entrambe. Il barattolo è sia un vero barattolo, sia la rappresentazione di un barattolo. La colatura è reale, ma al tempo stesso finge la colatura stessa. Painted Bronze, dunque, è sia un readymade, sia un trompe-l’oeil. Come Johns e Rougé avevano compreso, il readymade aggiunge un livello in più all’illusione del trompe-l’oeil: è lo sguardo a cambiare, perché è l’oggetto stesso ad essere sia oggetto che opera d’arte, e la differenza è sottile. O meglio, per dirla come Duchamp, infrasottile. Il termine infrasottile compare tre volte nell’opera di Duchamp. 1) Nella nota 35, datata 1937 (pubblicata postuma, nel 1980). 2) Nel 1942, in una lettera privata all’amico Roché, in cui Duchamp scrive “Il lavoro, è orribilmente difficile mettere la mano su un’idea tangibile. Farò un tentativo di infrasottile applicato a una produzione ‘gomitica’ (del gomito), evidentemente tutto questo è molto criptico”. 3) Nel 1945, sulla copertina della rivista View. Al fotomontaggio è accompagnato un collage: “Quando il fumo del tabacco sente anche della bocca che lo esalta, i due odori si sposano per infra-sottile”. Quando Denis de Rougemont gli chiese cosa significasse, Duchamp rispose che ci stava lavorando da una decina di anni. Tuttavia, il concetto di infrasottile occupa un ruolo centrale all’interno del suo pensiero. Anche se il primo appunto scritto riguardante il concetto risale al 1937, non è assurdo pensare che tale nozione risalga in realtà già agli anni del circolo di Puteaux (anni Dieci). Qui si discuteva della quarta dimensione, dello “spazio infinitamente sottile”, di trattati di geometria e di Poincare. Dobbiamo sottolineare che il termine infrasottile, in realtà, è un neologismo creato da Duchamp (lo scriverà per tre volte diversamente) per designare fenomeni o stati o concetti al limite della percezione e della concezione, che fanno appello a uno sforzo immaginativo e speculativo. Essendo dunque il concetto d’infrasottile vicino a quello di ultrasottile, perché inventare un nuovo termine? Probabilmente per sottolinearne la qualità diversa, ancora più sottile dell’ultrasottile. Un concetto, quello di infrasottile, per l’appunto molto “infrasottile”; come del resto tutti i concetti che hanno accompagnato la vita di Duchamp1. L’infrasottile apre a una trasformazione, a un’estensione delle nostre capacità di percezione, [..] fa apparire le cose impercepite, apre il campo sensoriale a un’altra esperienza possibile, a un’altra qualità del reale. Fa apparire il lato impercepito delle cose, la differenza non visiva. L’infrasottile mostra la differenza come limite, soglia, attraverso cui avviene il passaggio. Porta dunque al limite [..] perché a quel punto si “vede” diversamente. La vita di Duchamp, come abbiamo appena detto, è permeata dalla nozione di infrasottile: sostanze come il vetro o la polvere; fenomeni come il caso i il ritardo; azioni (nel suo caso più non azioni); etc. Ma l’infrasottile va cercato in qualcosa di tangibile e di immanente. Va cercato nella realtà. E qui subentra il readymade. Il readymade è la presentazione di un oggetto esposto INFRASOTTILMENTE diverso da se stesso. La differenza tra lo scolabottiglie e l’opera d’arte è minima, impercettibile, infrasottile. A patto però di guardarlo “una seconda volta”, di guardarlo con occhi diversi. A questo punto, a seconda dello sguardo, ogni cosa può essere se stessa e altro, insieme. Questo perché l’infrasottile è connotato da caratteri di ambivalenza e sovrapposizione. Per spiegare l’infrasottile, Duchamp scrive nel collage che l’odore del tabacco si sposa con la bocca. Quando un individuo si sposa non si trasforma, ma 1 Prendiamo ad esempio l’arte. Duchamp non ha mai fatto arte, ma nemmeno anti-arte, definendola invece non-arte attraverso il concetto di “indifferenza”; anche questo un concetto infrasottile tra la partecipazione e la non differenza. si sovrappone all’altro: due persone sono al contempo inseparabili, ma distinti. Quello che io vedo in questi casi è quello che vedo senza sovrapposizione (lo Scolabottiglie per quello che è), ma che la sovrapposizione mi rende infrasottilmente manifesto. Guardare due volte significa dunque guardare infrasottilmente, significa vedere due livelli sovrapposti, magari anche due storie, non una alternativa all’altra, ma una dentro e sovraimpressa all’altra. Significa considerare la differenza infrasottile tra apparenza e apparizione, tra spettacolo e simulazione, tra copia e inganno, tra virtualità e iperrealtà. Capitolo II. L’opera schermo Le tele bianche di Rauschenberg (dal 1951 in poi) non vanno intese in termini di negazione, bensì di schermi in cui la realtà proietta le sue ombre e la sua polvere. Lo stesso Cage le descriverà come “aeroporti per le particelle di polvere e le ombre che sono presenti nell’ambiente”. Queste tele rappresentano dunque l’avvio di una serie di percorsi riguardanti l’infrasottile: ombre e polvere sono fenomeni e sostanze infrasottili e le tele diventano lo sfondo per una sorta di readymade cangiante. Ben lontane dal concetto di bidimensionalità, le tele monocrome sono esercizio di differenze minime, in cui la pittura sfonda la barriera retinica, appellandosi a una sensibilità concettuale, che stimola la “materia grigia” per dirla come Duchamp. Riducendo al minimo la presenza sulla tela, l’attenzione è spostata dal colore al fondo ricettivo dell’opera, dalla rappresentazione alla visibilità stessa. Lo stesso spostamento sta alla base di 4’33’’ di Cage: l’attenzione è spostata dalla musica (rappresentazione) al fondo ricettivo (sfondo in cui si proiettano i rumori dell’ambiente). Il silenzio della composizione diventa lo sfondo su cui si proiettano i rumori dell’ambiente come i quadri bianchi di Rauschenberg facevano per gli accadimenti visivi. L’assenza di una cosa è la condizione della manifestazione di altre; il vuoto non è l’opposto del pieno ma la condizione della sua apparizione. Il silenzio di Cage comporta da un lato la sua non-produzione di suoni, ma dall’altro è animato dal rumore di altre presenze (gli spettatori in sala). Il silenzio e i rumori si compenetrano. Divenendo non separabili, il rumore si fa suono stesso. Allo stesso modo, Nam June Paik elabora, tra il 1962 e il 1964, Zen for film, ovvero la proiezione di una pellicola sviluppata senza riprese. Senza le immagini, cosa si vede? Uno schermo bianco, animato unicamente dai riflessi dovuti alle imperfezioni della pellicola e della polvere che si è depositata su di essa. Il film evidenzia – o forse rivela – il processo stesso di proiezione. Nel 1977 Nam June ripeterà l’operazione in My jubilee ist unverhemmet, un disco vuoto su cui si è registrato il suono del solco stesso, e cioè, il suono del funzionamento del dispositivo. dunque, assimilabile alla donna (e agli omosessuali). Queste tre “categorie”, considerate come gruppi marginali, rappresentavano l’alterità. Erano considerate negazioni delle virtù positive maschili. Il libro Sesso e carattere di Otto Weininger, pubblicato nel 1903, testimonia perfettamente il clima di antisemitismo, misoginia e omofobia dell’epoca. Stando al pensiero di Freud, il complesso di castrazione – e, di conseguenza, assenza di virilità – è rappresentato da donne (mancanza del pene) e dagli ebrei (circoncisione); ed è proprio il complesso di castrazione che costituisce la radice comune di questi comportamenti razziali. Questi stereotipi venivano concretizzare anche a livello di vestiario. Forse, fu proprio il disappunto di Duchamp per queste teorie a fargli concepire un’identità femminile ebrea. Fatto sta che concepire un alter ego ebreo significava minare alla base il concetto altamente individualizzato dell’artista (l’ebreo non è considerato un individuo dalle Nazioni); ma pensare a una figura femminile estremizzava l’atto di Duchamp. Lo stereotipo comune voleva infatti un pittore individualizzato e virile, mentre Rrose Sélavy oltre ad essere donna, è anche una persona considerata marginale, perché ha anche origini ebree. Nella costruzione di uno stereotipo, comunque, è necessario identificarne anche il controtipo, poiché quest’ultimo funge al tempo stessa a una definizione completa dell’ideale. Rrose Sélavy è dunque una figura ambigua perché, se da un lato costituisce il controtipo dell’artista di inizio Novecento, dall’altro procede a una ridefinizione del ruolo dell’artista e della sua mascolinità. Femminilità come spettacolo Le prime fotografie di Rrose, scattate da Man Ray, sono del 1920/1921. La posa di Rrose richiama quelle in voga all’epoca nel ritratto femminile, di una donna alla moda, seducente e assimilabile all’oggetto-merce. A questa prima serie appartiene il ritratto presente nel boccettino di profumo Belle Haleine. Eau de Voillette (1921 – slogan originale: ‘un parfum qui embaume’), utilizzata poi anche per una copertina della rivista New York Dada (pubblicata sempre da Man Ray e Duchamp). Qui Rrose porta un cappello di piume, un cappotto pesante e una doppia collana di perle. Uno stile un po' alla Belle Époque. Una seconda serie fotografica testimonia invece una Rrose più attenta alla moda di quegli anni, contraddistinta da uno stile androgino, come testimoniato anche dal taglio dei capelli. In particolare, in uno di questi scatti, Rrose stringe a sé il collo della pelliccia, lanciando allo spettatore uno sguardo sorpreso- invitante. Qui Duchamp rivisita le fotografie delle star degli anni Venti, che si proteggono con civetteria dallo sguardo maschile. Un secondo scatto conferma la vicinanza allo stereotipo della donna seducente e misteriosa, diffusosi nella cultura di massa dell’epoca. I rapporti tra genere femminile, sessualità, cultura visiva del capitalismo sono chiari: la donna è incarnazione del desiderio associato alla merce. Tale stereotipo era allora diffuso anche nel cinema hollywoodiano: nelle pellicole, la donna è spesso incarnazione della femme fatale; presenza minacciosa ma al contempo attraente. Un punto di vista tutto maschile, che contrappone una donna pericolosa all’eroina rassicurante, casta. La femme fatale, dunque, non incarna una posizione privilegiata della donna; ma al contrario rappresenta le ansia maschili nei confronti della sessualità femminile. Duchamp fa propri gli ideali del tempo, unisce la figura del dandy a quella della femme fatale, e insiste sul legame della donna con il mondo del consumo di massa. Rrosé Sélavy è l’emblema della spettacolarizzazione femminile: bella, giovane, desiderabile e dal fascino pericoloso: il passaggio dalla femme fatale della pittura del XIX secolo alla star mediatica corrisponde anche alla trasformazione dell’immagine femminile come incarnazione della sessualità all’epoca dell’industrializzazione. [..] Nell’epoca in cui si afferma la cultura di massa, l’immagine femminile e la seduzione che essa esercita è indissociabile dalla fotografia. Il femminile e la merce Analizziamo brevemente Belle Haleine (1921): la manipolazione dell’etichetta e la presenza di Rrose rappresentano la parodia del mondo della moda e delle sua modalità di rappresentazione mediatica legata al consumo della merce. Lo stesso titolo (mai scontato in Duchamp) richiama un’operetta di Offenbach, Belle Hélène (1864), ironizzando così anche sullo stesso ideale di bellezza femminile incarnato da Elena di Troia. L’apposizione del marchio ironizza sulla logica del marchio commerciale che si andava sviluppando negli stessi anni: se in Fresh Widow Rrose Sélavy era il copyright, in Belle Haleine è la donna stessa a fungere da logo, il che implica che è la donna ad essere merce. Produttrice e prodotto al contempo, “il prodotto più celebre di Rrose Sélavy è Rrose Sélavy stessa”. A partire dagli anni Dieci, l’industria dell’intrattenimento, del cinema e il conseguente sviluppo dello star system sono in rapida ascesa: personaggi fortemente mediatizzati diventano modelli di riferimento per la realizzazione dell’individuo e il perseguimento di questo passa attraverso il consumo. Oltre al marchio – che certifica l’autenticità di un dato prodotto, è la star del momento a fungere come altro garante: le star del cinema divengono vere e proprie icone del consumo, simboli del capitalismo americano che si fonda su un eccesso di produzione per un eccesso di consumo. Il nesso presente tra l’immagine femminile e la merce è sempre più forte, a causa dell’identificazione della donna con il desiderio. In poche parole: un uomo attesta il valore della merce per la sua notorietà; una donna enfatizza invece il legame tra la merce e il desiderio, poco importa se questa sia famosa o meno, l’importante è che sia appetibile. Come ha notato Helen Molesworth in Rrose Sélavy goes shopping, Duchamp opera nell’America dei grandi magazzini, delle pubblicità e del crescente consumo di massa: Con lo sviluppo del consumo di massa e attraverso la diffusione dei grandi magazzini gli americani si trovano di fronte ad una quantità sempre crescente di prodotti. Il problema di sapere cosa scegliere e perché scegliere in una tale abbondanza di merci è evidentemente centrale. Se l’attività del consumo è presentata come una sorta di teatro del desiderio. Questo meccanismo ha anche l’effetto paradossale di produrre un gusto di massa che però viene presentato come individualizzato, cioè come la scelta individuale della consumatrice, che diventerà in seguito il suo stile o gusto personale. Il problema della scelta a fronte della proliferazione delle merci riecheggia quella del readymade, di cui Duchamp rivendica il carattere arbitrario e indifferente, come in una sorta di “anestesia completa” di fronte all’oggetto”. Capiamo dunque che in Belle Haleine c’è tutto questo: il readymade e, quindi, il problema della scelta e dell’indifferenza visiva; la figura femminile intesa come incarnazione del desiderio; l’attività del consumo e tutte le sue implicazioni: il marchio, la pubblicità, il desiderio, la merce. Un economia del desiderio e del consumo. Abigail Solomon-Godeau ha studiato i rapporti esistenti tra donna fotografia e merce. La fotografia, essendo un mezzo di riproduzione della realtà connotato da forti possibilità di divulgazione, ha infatti giocato un ruolo di primo piano nell’affermazione dell’immaginario capitalista (intendo con questo moda, star system, pubblicità). Essa è stato (ed è ancora) il mezzo ideale per identificare le dinamiche di intersezione presenti tra merce e desiderio suscitato dalla donna. L’attrazione del prodotto è direttamente proporzionale a quello della donna che è lì per venderlo, poiché la donna che incita al consumo è essa consumabile (Walter Benjamin parlava di donne merce, meretrici). L’associazione donna-merce è possibile attraverso un incontro-scontro tra le due: la merce disumanizza la donna, rendendola essa stessa merce; mentre la donna umanizza la merce, rendendola anche questa desiderabile, al pari della donna. I due poli del meccanismo desiderante vengono messi in discussione da Duchamp, il quale ne denuncia l’ingannevolezza. Da un lato, la merce Belle Haleine cioè Buon Alito; dall’altro, l’immagine della donna, che in realtà non è una donna. La conclusione è semplice: l’attrazione della merce (e della donna) è ingannevole in quanto portatrice di una promessa irrealizzabile, [ovvero] quella di una soddisfazione impossibile. Più sopra abbiamo affrontato il tema della femminilità sotto un altro punto di vista, ovvero quello dell’alterità e della non virilità. La figura di Rrose Sélavy, utilizzata come merce di consumo, denuncia un’altra dicotomia dell’epoca: la separazione tra una cosiddetta élite alta (tra cui gli artisti), e una cultura popolare, dedita al consumo di massa. Da un lato, dunque, l’originalità della creazione mascolina; dall’altro l’assenza di individualità associata al mondo femminile. La scelta di Duchamp di un alter ego femminile, può allora ricondursi ad un atto di rinuncia nei confronti dell’autorità maschile dell’artista; volontà tra l’altro già espressa con l’abbandono della pittura. L’identificazione di Duchamp con la donna tuttavia non va interpretata come una semplice rinuncia ai privilegi maschili, ma, ancora una volta, come un segno del suo complesso processo di disidentificazione rispetto ai ruoli sociali che determinavano l’identità dell’artista. Leonardo/Gioconda, non può non richiamare il rapporto Duchamp/Rrose Sélavy. Con L.H.O.O.Q., così come con l’invenzione di Rrose, Duchamp smaschera e ridicolizza la bellezza idealizzata della pittura (rappresentata da una donna) e la mascolinità dell’artista (omosessuale/travestito). La scelta della Gioconda ricade sul suo ruolo di protagonista del consumo artistico di massa con cartoline e pubblicazioni. Duchamp, appropriandosi della riproduzione fotografica della Gioconda (oggetto mercificato e feticcio), testimonia fino a che punto la riproducibilità tecnica è in grado di incidere e trasformare aura e circolazione delle opere. Nel 1964 realizzerà L.H.O.O.Q. rasata (la Gioconda senza la sua aggiunta di baffi e barba), l’ennesimo capovolgimento identitario e sessuale. Introduzione a Duchamp di Carla Subrizi I. La “bellezza di indifferenza” e gli anni della formazione Si possono fare opere che non siano arte? (1913) Questa domanda, contenuta nella Scatola Bianca (1914), racchiude l’essenza di Duchamp. Non bisogna interpretare il quesito come volontà di negazione, quanto piuttosto come un cambiamento sostanziale dell’arte stessa, comune a tutti i movimenti d’Avanguardia del primo Novecento. Ad essere rifiutati non erano l’arte o il fare artistico, ma il progresso, la linearità della storia dell’arte, l’unicità dell’opera e del suo autore. Ma che cos’è un’opera non d’arte? L’assimilazione del processo creativo all’esperienza del quotidiano. Duchamp stava cambiando la prospettiva che si aveva del rapporto arte-vita; avviandolo verso nuove ipotesi formali e concettuali. A differenza dei suoi colleghi, Duchamp introdusse una serie di quesiti fondamentali: il problema della riconoscibilità dell’opera, della sua individuazione, delle sue qualità e del suo senso. Dunque, come già detto, fare un’opera che non sia arte non presuppone un rifiuto della stessa arte, quanto piuttosto la considerazione di nuove possibilità per l’arte, colte da Duchamp in oggetti qualsiasi capaci di aprire nuovi possibili del senso. Lui non era un anti-artista, ma un non-artista. In questo processo, il “nominalismo” è fondamentale: nominando o rinominando un oggetto, Duchamp creava nuove possibilità per lo stesso oggetto oltrepassando i limiti del linguaggio1. L’opera non doveva più essere apparenza, ma apparizione (sono sempre parole di Duchamp contenute nella Scatola Bianca). Cioè, si doveva passare da una percezione ordinaria dell’oggetto a una “riduzione” dell’oggetto secondo una prospettiva che non permette più di osservarlo per quello che è usualmente. Ma che intende per “riduzione”? L’opera d’arte doveva essere ridotta al fatto qualsiasi. Come lui stesso affermò: “Ridurre, ridurre, ridurre. [..] un artista poteva impiegare qualsiasi cosa per esprimere ciò che vuol dire”. Attraverso la “riduzione” dell’opera, Duchamp potè dunque estratte l’opera d’arte dal mondo convenzionale, usuale, per inserirla nel mondo del possibile. Un’estetica dell’indifferenza Riduzione e indifferenza. Solo così un’opera d’arte poteva tornare ad essere possibile: Tutto è sempre una scelta dell’artista. Anche quando dipingi qualcosa di ordinario, svegli tutto. Non c’è arte, c’è una scelta. La scelta, ovviamente, dipende dalle motivazioni per le quali fai certe scelte. Invece di scegliere qualcosa che ti piace o qualcosa che non ti piace, scegli qualcosa che non ha 1 Non credo al linguaggio perché “crea il pensiero attraverso e dopo le parole”. nessun interesse, dal punto di vista visivo, per l’artista. In altre parole, arrivare ad UNO STATO D’INDIFFERENZA verso l’oggetto. È in quel momento che questo diviene un readymade. Ancora una volta, non si tratta di negazione estetica, ma di una scelta operata mediante un diverso punto di vista. Il concetto di indifferenza, appuntato sempre all’interno della Scatola Bianca tra il 1912 e il 1914, ci aiuta a comprendere il concetto di apparizione sopra esposto. Attraverso il principio di indifferenza visiva, infatti, Duchamp elimina il concetto di bellezza e di piacere associato da sempre all’opera d’arte, per poter passare da un’opera d’arte intesa come apparenza, a un’opera d’arte intesa come apparizione: attraverso lo stato di indifferenza visiva l’opera d’arte smette di essere una copia (apparenza) per divenire punto di partenza per una domanda sulla sua significazione (apparizione che apre al possibile). L’indifferenza permette di sottrarsi al gesto intenzione, alla creazione del nuovo e alla soggettività esclusiva dell’opera. 1902/1907. L’attenzione per la vita ordinaria Le prime opere di Duchamp sono soprattutto paesaggi (di Blainville, dove era nato nel 1887) e soggetti circoscritti all’ambito familiare. I primi anni dell’artista sono già contraddistinti da un continuo sperimentare; in primis, la tecnica impressionista, in particolare Monet. Un posto centrale occupa il disegno, in bianco e nero, spesso accompagnato da brevi iscrizioni. Il disegno è inteso da Duchamp come strumento analitico: attraverso questa tecnica l’artista studia, analizza, indaga la gente, i gesti, la vita di tutti i giorni; lo interessano le cose comuni. La famiglia occupa un posto centrale nelle sue rappresentazioni: è attento osservatore dei comportamenti dei suoi familiari; ne traduce con ironia le fisionomia e i caratteri; come facevano i pittori umoristi. Una volta conclusi gli studi liceali, si trasferisce a Parigi, a Montmartre, dove abitava già il fratello più grande, Gaston, anche lui artista (incisore e scultore). Per un’archeologia dell’ironia Grazie al fratello, Duchamp conosce molti pittori umoristi. Anche a Parigi Duchamp presterà attenzione alle cose semplici, al banale, alla vita ordinaria e alla tradizione popolare. In questi anni legge l’almanacco di Vermot, una pubblicazione nota all’epoca per giochi di parole e immagini attinenti alla cultura francese comprensibili al vasto pubblico. Nel 1905, chiamato per la leva obbligatoria2, svolgerà un apprendistato in una tipografia di Rouen, ottenendo poi il titolo di “operaio d’arte”. Inizia a collaborare con le riviste umoristiche dell’epoca e nel 1907 espone per la prima volta al Salon des artistes humoristes. L’ironia e la curiosità per gli aspetti popolari sono dunque aspetti principali che si inscrivono nella natura di Duchamp fin dagli esordi. Duchamp li assimila per poi trasformarli in strumenti di provocazione. La parola inizia ad essere indagata come possibilità per introdurre ambiguità, doppi sensi e altri punti di vista: 2 Superando l’esame di “operario d’arte” il servizio di leva passava da tre a un anno. II. Verso « La Mariée mise à nu par ses célibataires, même ». Mettere l’arte al servizio della mente La tecnica della demoltiplicazione Risale al 1910 una prima versione della Partita di scacchi. L’influsso di Cézanne è evidente – nella solidità delle figure e nell’uso dei colori, che hanno una funzione costruttiva – ma l’opera annuncia novità salienti: le figure andavano decomponendosi, anticipando così le figure meccaniche e irriconoscibili del Grande Vetro. Nel mentre, prendono corpo le Notes che andranno a comporre le sue famose Scatole; esplora la tecnica cubista e sperimenta la pittura di notte a luce artificiale (tecnica che permette di ridurre la gamma dei colori per approdare a una visione monocromatica). Come sempre, la conoscenza di Duchamp di un determinato ‘stile’, fa sì che egli approdi poi a una versione più libera, fino a produrre a un distaccamento da questa. È il caso del Nudo che scende le scale n2, in cui egli sperimenta sì la tecnica cubista, ma aggiungendo l’interesse personale del movimento. Se il cubismo tenta di decomporre le figure in chiave spaziale, Duchamp le decompone dal pdv temporale, in cerca di un “appiattimento visibile del corpo demoltiplicato” (SV) che lo porti a concepire una “[la persistenza di una] situazione distribuita”, ma in uno stato di trasformazione continua delle apparenze, come in Yvonne e Magdalene (ridotte) a brandelli (1911). Nel mentre, Duchamp legge il Trattato elementare di geometria a quattro dimensioni di Jouffre (1903), e si avvicina al tema della macchina. Da qui in poi, sarà proprio la macchina, con ingranaggi e funzioni, a permettergli di azzerare la fisionomia degli oggetti e delle figure. Il Macino da caffè risale a queste date (1911): qui Duchamp indica le diverse fasi della macinatura del caffè, realizzando uno dei primi quadri in cui il movimento è suggerito concettualmente. Il movimento produce trasformazione, e sono soprattutto la riduzione degli elementi e l’uso privilegiato della linea portano Duchamp a creare situazioni dinamiche in cui l’azione materiale e concettuale produce movimento. Ne sono un esempio gli Studi per il ritratto dei giocatori di scacchi: lo spazio è andato in frantumi e gli oggetti sono dislocati attraverso un processo di destrutturazione. In questi studi, come per quelli per la Partita di scacchi, possiamo osservare come l’azzeramento delle fisionomie e della riconoscibilità delle figure, unite alla tecnica della demoltiplicazione [= scomposizione dell’unitarietà dell’immagine], portino Duchamp a rimettere concettualmente in movimento la staticità dell’immagine. Il Nu descendant un escalier. Sottrarsi a tutti gli ‘ismi’ Giovane triste in treno, Nudo che scende le scale n1, Nudo che scende le scale n2. Bisognava pensare a un nuovo modo di far pittura, e la soluzione andava al di là dell’invenzione di un nuovo stile pittorico: bisognava abbandonare ogni eredità per iniziare una sperimentazione inedita. Duchamp, nel 1912, è alla ricerca di questo. La volontà di non cambiare il titolo al Nudo rifiutato al Salon è un’ulteriore prova della sua ‘distanza’ rispetto ai colleghi. Con il Nudo, Duchamp realizza un passo decisivo verso una “pittura non retinica”. Il parallelismo elementare Tra il 1912 e il 1914 Duchamp mette a punto la tecnica del “parallelismo elementare”, ovvero alla perdita di fisionomia e movimento da parte delle figure tradotta poi in funzione meccanica. Il quesito centrale rimane la quarta dimensione: come può un volume passare a questa dimensione? Attraverso il parallelismo e l’intuizione. Ecco quindi che entrano in campo, attraverso l’intuizione, il principio di casualità e la variabilità; variabilità introdotta dalle emozioni o dalle passioni, perché sono questi due elementi ad aggiungere l’imprevedibilità. È evidente che le riflessioni fin qui esposte saranno tutte riportate nel Grande Vetro. Come testimoniano gli studi risalenti appunto tra il 1912 e il 1914 – Due nudi: uno forte e uno veloce; Il Re e la Regina attraversati da nudi veloci; Il Re e la Regina circondati da nudi veloci – il passaggio, la trasformazione, l’attraversamento giocano un ruolo di primo piano. Attenzione: non si tratta di un movimento dinamico come quello futurista, ma di un passaggio, di un interstizio, tra una condizione e l’altra [concetto di infrasottile]. Verso La Mariée mise à nu par ses célibataires, même In una lettera del 1949, Duchamp spiega che il Grande Vetro andava accompagnato da un testo; in maniera tale però che il Vetro non fosse guardato con occhi estetici e che il testo non fosse letto con occhi letterari. Il testo, lo sappiamo bene, è più un archivio arricchito a partire dal 1912 con appunti, disegni e schizzi. Verrà pubblicato solo nel 1934 nella Scatola Verde. È a Monaco che l’ideazione del Grande Vetro prende avvio. Qui, nel 1912, disegna infatti La Mariée mise à nu par ses célibataires – Meccanica della modestia, Modestia meccanica, Vergine e Il passaggio dalla Vergine alla Sposa. Segue poi la Sposa. Nelle ultime tre opere è evidente il movimento è inteso come passaggio da una forma umana a una meccanica. Movimento e durata, dunque, intesi come trasformazione. Duchamp ha trovato il suo linguaggio. Il metodo dell’arbitrarietà totale di Raymond Roussel Duchamp assiste nel 1911 allo spettacolo di Raymond Roussel Impressioni d’Africa. Lo spettacolo lo colpì moltissimo, in particolare per l’ironia di Roussel e l’utilizzo delle macchina sceniche. Nuovi accostamenti erano composti attraverso l’utilizzo dei suoni e dell’arbitrarietà: il linguaggio artistico subirà una radicale trasformazione. L’Armory Show Nel 1913 viene inaugurato a New York l’Armory Show, un’esposizione realizzata sul modello del Salon d’Automne (Francia). Un terzo delle opere esposte provenivano dall’Europa e produssero un forte scossone nell’arte e nel collezionismo americani. Gli Stati Uniti avevano bisogno di rinnovare la loro cultura artistica e, in questo panorama, un ruolo di primo piano fu giocato dalla Galleria 291 di Stieglitz. Tra le opere esposte, si trovava anche il Nudo che scende le scale n2. Nel 1915 Duchamp arrivò per la prima volta nella Grande Mela, e fu subito accolto come un rivoluzionario. La ‘pittura di precisione’ o risalire al disegno Nel 1913, nuovamente a Parigi, Duchamp realizza il progetto completo del Grande Vetro, andato perduto. Rimane uno schema più piccolo, nel quale constatiamo già la divisione in due pannelli e l’utilizzo di proiezioni geometriche per l’inserimento dei corpi. Prospettiva e anamorfosi sono utilizzate da Duchamp in quanto tecniche meccaniche non creative, di precisione. La tecnica del disegno, invece, gli consente di prendere le distanze dalla pittura retinica; di indagare gli oggetti e le figure e la loro collocazione nello spazio; di ripensare la quarta. Ridurre l’apparenza e il visibile, alla ricerca di ciò che costituisce l’idea, questo è lo scopo. Così, mentre molti artisti a lui contemporanei riducevano le forme della pittura, Duchamp riduce i mezzi. La smaterializzazione [demoltiplicazione] degli oggetti, lo porta a una rimaterializzazione in termini di linguaggio e forme meccaniche. Negli stessi anni sperimenta i primi readymade che, non a caso, si fondano sugli stessi principi: riduzione all’oggetto a forme meccaniche, già fatte, risemantizzazione in termini di linguaggio. La stessa Macinatrice di cioccolato può essere considerata un readymade: fu vista infatti da Duchamp per caso nella vetrina di una pasticceria nello stesso 1913. La Macinatrice e la Ruota di Bicicletta (1913) costituiscono dunque la doppia articolazione di una svolta radicale: da una parte verso una definizione sempre più mentale della processualità artistica, alla quale il disegno l’aveva condotto, dall’altra verso una concezione totalmente nuova dell’oggetto. Dunque, allontanamento dalla tradizione pittorica e ricerca di una struttura logica- meccanica per carpire quello che non si può cogliere superficialmente. In questo modo, Duchamp arriva a porsi il problema della distanza tra la rappresentazione dell’oggetto e la presentazione del suo dispositivo concettuale e il disegno si configura come il mezzo adatto per cercare non la trasposizione del reale, ma la figurazione del possibile. Avoir l’apprenti dans le soleil o il ciclista etico Nella Scatola Bianca (1914), tra 16 note e 2 disegni, è compreso Avoir l’apprenti dans le soleil. Si tratta di un disegno fondamentale per il periodo, poiché raggruppa un po' tutta la ricerca di Duchamp: il tentativo di dissociazione tra parole e immagine per poter espanderne il significato; il ciclista e quindi la Ruota di bicicletta; la salita del ciclista come l’ambire dei nove celibi alla sposa; la fatica fisica di questo assimilabile alla fisicità stessa del desiderio. Quelle appena esposte non sono semplici congetture, Duchamp stesso scriverà nella Scatola Verde: “questo sboccio è l’immagine di una
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