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Forme estetiche e società di massa arte e pubblico, Sintesi del corso di Sociologia

Riassunto dettagliato del libro "Forme estetiche e società di massa arte e pubblico" per l'esame di sociologia dell'immaginario da non frequentante.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 18/06/2020

spiritedawayghibli
spiritedawayghibli 🇮🇹

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Scarica Forme estetiche e società di massa arte e pubblico e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! SOCIOLOGIA DELL’IMMAGINARIO LIBRO: FORME ESTETICHE E SOCIETA’ DI MASSA, ARTE E PUBBLICO NELL’ETA’ DEL CAPITALISMO PREMESSA E’ dell’ultimo decennio la scoperta di spettacolo come espressione della società industriale: su questa scoperta di una società dello spettacolo, votata all’inautenticità, si è svolta la rilettura dei sacri testi della sociologia dell’arte e della critica all’ideologia. La tecnologia dell’informazione distrugge finalmente ogni vecchio discorso sull’immagine spettacolare. Si è detto: “L’informazione tecnologica è ben lontana dal poter rappresentare uno strumento valido per un programma politico rivoluzionario, costituisce il mezzo più idoneo per rimettere nella logica capitalistica ogni tentativo che cerchi di sbloccarne il meccanismo: l’informazione tecnologica serve al sistema per attuare in maniera accelerata la politica socialdemocratica della redistribuzione dei redditi o quella puramente capitalistica dello sviluppo. L’opposizione viene resa interna al sistema e ad esso completamente funzionale (...)”. Lo sviluppo del proletariato è ormai un tutt’uno con lo sviluppo della tecnica: al capitale resta ancora il controllo politico di questo sviluppo necessariamente omogeneo. Sebbene l’ideologia trovi ancora alimento in ciò che di più nuovo la tecnologia le propone, quest’ultima si impone di più per i modi concreti del suo intervento sociale, che per l’aspetto pubblicitario sostenuto dall’ideologia stessa. Il rifiuto della tecnologia significa tornare all’utopia contadina. Il rifiuto della tecnologia dell’informazione significa tornare a dialogare con il nulla. L’informazione è uno dei punti vitali del potere. Chi la studia dovrebbe sapere che è una ed una soltanto. In relazione ai modi di produzione e di circolazione delle informazioni (siano esse immagini, suoni, parole o altro) il pubblico e lo spettacolo rappresentano un momento fondamentale ma non unico. Il metodo con cui questo momento fondamentale è stato analizzato è stato sempre o quasi errato. In Italia vi è: -assenza tradizione tecnologica -conflitto fra cultura e informazione, autore e merce, creazione e messaggio Occorre procedere per gradi ripercorrendo momenti ed esperienze che mancano alla nostra civiltà, riportandoci alla dimensione internazionale. E’ di nuovo da definire il ruolo che l’ideologia ha svolto nella civiltà occidentale in concomitanza con la crescita dello spettacolo come impresa produttiva, come investimento tipico delle grandi società di massa, come forma specifica della società industriale. Per una lunga epoca, che inizia con i primi segni della crisi ottocentesca sino alle avanguardie storiche, lo spettacolo ha teso ad istituirsi come coefficiente dell’alienazione, anche se è naturalmente vero l’inverso: l’’alienazione capitalista è stata l’eterno coefficiente dello spettacolo. E’ possibile comprendere l’interdipendenza fra forme spettacolari e sistemi di informazione tramite la merce: elemento di congiunzione fra spettatore e spettacolo. Nuovo livello della ricerca: eliminare ogni interesse immediato per la manipolazione estetica dei messaggi visivi o audiovisivi e ritrovare il gusto per un’analisi diversa, volta a scoprire in ogni informazione entrata in circolazione sociale la sua qualità di merce, la composizione del capitale che l’ha prodotta, i modi stessi di produzione e la dinamica dell’acquisto. Andando a ripercorrere la storia dell’informazione ci si accorge di non avere strumenti e che non si può contare su un solo campo di studio, ma che è la totalità stessa del sistema ad offrirsi come informazione. 1 Entità reali di gran parte dell’ideologia borghese: -pubblico -spettacolo -merce L’ultima di queste entità tende ad inglobare le due prime. La prima circolazione organizzata di notizie si ha con lo stabilirsi di una rete di traffici mercantili. La fisionomia dello spazio pubblico era caratterizzata all’interesse del capitale e l’estensione della notizia rappresentava anche il progressivo estendersi del mercato. Potere economico e potere statale sono state le due spinte fondamentali dei sistemi informativi. Un vincolo indissolubile lega ora la crescita del potere alla crescita dell’informazione: momento della rivoluzione borghese (quando cioè un primo livello di socializzazione dell’impresa generale produttiva scatena un riassetto generale della società civile). La fase storica in cui il pubblico acquista il suo moderno ritmo di sviluppo che lo porterà ad identificarsi con la totalità della società civile è rappresentata dall’iniziale conflitto fra pubblico borghese e massa proletaria. L’istituzione civile dello spettacolo ci sembra a buon diritto poter rappresentare il corrispettivo dell’ideologia. Ideologia che potremmo definire del pubblico, in quanto ha teso ad inglobare nei valori borghesi l’esistenza del proletariato. Lo spettacolo ha rappresentato la massima socializzazione della cultura, l’infinita circolazione dell’immagine, l’ultimo livello dell’ideologia. Pubblico = elemento fondamentale dell’ideologia. Quanto più il capitale costringe l’individuo come soggetto e come classe ad essere parte integrante della produzione, quanto più cioè la logica della fabbrica richiede una partecipazione attiva e totale al livello sociale, tanto più si è resa necessaria l’organizzazione del consenso al sistema capitalista. Lo spettacolo ha assunto una funzione sempre più precisa fino ad acquistare una dimensione colossale perfettamente rispondente al bisogno capitalista (l’arte del cinema è solo una fase conclusiva dell’iter dell’ideologia del pubblico: la fase in cui essa si smaschera per avere più fascino). In questo senso il dato estetico perde progressivamente di valore. Dietro le varie tecniche spettacolari si scopre il pubblico come entità prioritaria dal punto di vista storico e teorico; la sua definizione implica il chiarimento di alcuni temi fondamentali che riguardano il rapporto fra prodotto estetico e suo acquirente, quale si è andato sviluppando prima del Novecento. L’ideologia del pubblico passa anche attraverso l’ideologia socialista. Solo con un’analisi completa del graduale formarsi di una concezione del pubblico si può giungere a trovare il senso di quel rito di massa che giornalmente viene compiuto, acquistando, alla cassa di una sala cinematografica, un biglietto di ingresso: il momento in cui il pubblico paga lo spettacolo o, come vedremo, paga se stesso. Strumenti possibili per questa ricerca: -ricostruzione storica dettagliata -analisi di tipo sociologico -“psicologia dello spettatore” Abbiamo preferito seguire il criterio di mantenere lo studio internamente allo sviluppo culturale che l’idea di pubblico ha mostrato. All’origine di un tale sviluppo storico vi è l’illuminismo. Il pubblico rivela una sua configurazione sociale tale da mantenersi fondamentale nella sua terminazione storica, esso trova la sua funzione naturale sotto il canone stesso della civilisation. Le leggi che ne regolano la formazione appaiono integrate alle leggi del progresso. Il pubblico nasce come strumento attivo e produttivo della società. E’ a partire dalla crisi romantica che l’ideologia del pubblico pratica le sue funzioni con il carattere stesso dell’alienazione moderna. Su questo tema la ricerca si divide in due parti collegate fra loro e la cui dipendenza reciproca costituisce il significato dell’analisi stessa. Se poteva sembrare più corretto far dipendere l’ideologia del pubblico dalla tradizione progressista e quarantottesca, abbiamo ritenuto che, al contrario, essa trovi il suo dialettico aggancio con la 2 possibilità di godere in concreto, da quando ha perso il proprio essere autentico.” Schopenhauer spinge la sua analisi al fondo di questo trascorrere inautentico della vita, individuando nella civiltà un sistema mistificatore: “Quando ha un valore reale nel mondo non è apprezzato, e (...) per contro quando vi è apprezzato non ha alcun valore”. Ci interessa saper cogliere la parte destruens del suo pensiero, gli elementi fondamentali alla nostra ricerca. L’ideologia del pubblico non può prescindere da quella che è stata ed è l’ideologia della felicità, ovvero la ricerca del vivere autentico. Su questo asse il pubblico ha trovato anzi i suoi caratteri tipici, la sua forma organica di esistenza: esso è una forma della felicità. “Il modo più giusto - scrive Schopenhauer - di concepire la vita sarà quello di vedere in essa una delusione”. Solo cioè restando lucidamente estranei al sistema di falsi valori, cui l’uomo si abbandona per le stesse leggi meccaniche dell’esistenza, è possibile recuperare la propria autenticità e la capacità di un vivere autentico. E’ in questa direzione che Schopenhauer sviluppa la funzione del “genio” nei confronti della società. Ambiguità di fondo: il suo continuo oscillare fra la consapevolezza di una condizione oggettiva del vivere umano e il tentativo di trovare un punto fermo nel moto continuo di questa. Ciò che costituisce l’elemento caratterizzante della sua filosofia, è la piena coscienza spinta sino alle ultime conseguenze, che un’esistenza, libera dalla “dissimulazione del mondo”, “deve essere quella cui apre la strada la negazione della volontà di vivere”. Schopenhauer penetra e teorizza uno dei cardini più possenti della cultura borghese: l’accettazione della tragicità della vita come unica logica del suo superamento, l’esaltazione cioè della coscienza del procedere eterno ed immutabile delle cose ed il trionfo dunque dell’uomo astratto sull’uomo storico. Un genio è un uomo che ha un duplice intelletto: l’uno per sé, al servizio della volontà, e l’altro per il mondo, del quale è lo specchio in quanto lo concepisce come puramente oggettivo. L’uomo normale ha invece solo il primo intelletto che si può chiamare soggettivo, come quello geniale si chiama oggettivo. Questa distinzione è la conseguenza più logica dell’analisi schopenhauriana della società: “Ogni società richiede necessariamente un accomodamento e un temperarsi reciproco dei suoi componenti: quanto più grande dunque essa sarà tanto più risulterà insipida”. Schopenhauer sviluppa un argomento centrale alla tematica che vogliamo individuare: ciò che qui riguarda il concetto di massa, contrapposto al soggetto-genio, costituisce poi la dialettica che presiederà sempre all’idea di pubblico, nel pensiero borghese moderno. Costantemente nei Parerga e Paralipomena la polemica con la società, i suoi falsi valori e i caratteri del suo procedere, si identifica di necessità con la polemica nei confronti della massa, e ha come polo diametralmente opposto il soggetto autentico. Esso, è l’unico a concepire il mondo in modo puramente oggettivo: a lui solo è concesso di penetrare la realtà oggettiva delle cose. La società ha infatti le sue leggi; il vivere sociale pone tutti sullo stesso piano e ciò che la natura ha stabilito fra gli uomini come gerarchia fra individuo e individuo, non ha più valore. Schopenhauer eredita la distinzione filosofica tra natura e società, ma la arricchisce di un contenuto nuovo: la massa diviene il corpo stesso di quel movimento privo di valore, che può essere compreso solo attraverso la negazione. La massa diviene lo strumento più efficace dell’impoverimento spirituale della sua epoca, alla gerarchia della natura la società sostituisce infatti “le differenze e i gradi artificiosi della classe sociale e della posizione”. La massa segue le leggi dell’illusione e del bisogno; ad essa mancano il tempo e l’esercizio necessari per pensare. In quanto subisce la volontà di vivere, e non ne comprende la ragione, agisce senza possedere la realtà oggettiva della propria esistenza. Accetta l’assurdo della sofferenza umana e, col restringere sempre il proprio campo visuale, si abbandona ad una falsa felicità. 5 “La società chiamata buona - scrive - non ha quindi soltanto lo svantaggio di presentarci degli uomini che non possiamo né lodare né amare, ma non ci permette neppure di essere secondo quanto è conveniente alla nostra natura; essa ci obbliga, piuttosto, per armonizzarci con gli altri a rimpicciolire o addirittura deformare noi stessi”. Dentro al contesto filosofico schopenhaueriano è difficile distinguere il livello puramente astratto della speculazione su “la vera e profonda pace del cuore e la perfetta tranquillità d’animo”, dalla consapevolezza di un punto d’arrivo storico della civiltà moderna. La ricerca tradizionale della “salute” filosofica trova in lui una nuova configurazione tutta misurabile nella distanza tra le sue formulazioni e la condizione generale della cultura a lui contemporanea. Il contenuto della sua filosofia è interno alla logica di sviluppo della civiltà della borghesia europea. In Schopenhauer cioè la sostanza negativa della sua valutazione della società non è ancora tradizione, ma anzi tanto nuova da non poter trovare alcuna funzionalità immediata all’interno delle istituzioni. Queste costituiscono necessariamente l’unico orizzonte. Una funzionalità si verificherà nella ripresa della filosofia schopenhauriana in quelle fasi di sviluppo che consentiranno un inserimento del pensiero negativo sotto forma di tradizione es. tema dell’intellettuale e della massa nei confronti dei prodotti della tecnica (pag 21). Anche l’originario significato del contrasto tra individuo e massa quale lo stiamo ora analizzando, dovrà subire una sua progressiva integrazione tale da capovolgere spesso i termini. Nella sua prima formulazione la ricerca di autenticità non ha ancora perso il senso di negazione. Essa consiste nel rifiuto: è essenzialmente negazione della massa e dei suoi valori. anche l’estetica non si presenta più come disciplina autonoma ma interamente all’interno della filosofia della negazione. L’arte diviene il momento dell’obiettività. L’opera d’arte è dunque negata alla massa; se si venisse a stabilire anche un solo legame essa perderebbe la sua obiettività. L’arte che contiene in sé i valori della massa non potrà mai essere autentica. Il genio opera esclusivamente per i propri simili e rifiuta il rapporto con un assieme indiscriminato di individui. La sua solitudine acquista un senso preciso: la salvaguardia di una possibilità di analisi oggettiva delle cose, dell’arresto della storia in direzione opposta. E se il mondo delle forme estetiche, per essere tale, deve separarsi dalla vita, anche il genio deve separarsene. Da un lato il genio, dall’altro la massa. Tra questi due poli l’opera l’arte non occupa il livello intermedio e non si assume una funzione di tramite né di momento unificante. L’opera d’arte non contiene cioè l’intenzione di stabilire un contatto neppure fra genio e genio, dal momento che un tale rapporto è estraneo all’oggetto dell’arte. In essa ciascuno scopre l’oggetto autentico solo ed esclusivamente essendo se stesso. Ed essere se stessi come abbiamo visto significa essere soli. L’arte allora non è consolazione alla solitudine, ma anzi ne è il momento culminante, e non può realizzare una qualsiasi unità perché questa sarebbe una nuova gerarchia sovrapposta alla gerarchia naturale, vale a dire un nuovo dogma della “buona società”. Su questa base Schopenhauer sviluppa ancora il divario fra genio e massa: “Così si spiega la vivacità spinta all’irrequietezza in individui geniali, di rado potendo loro bastare il presente - questo dà loro quell’incessante ricerca di oggetti nuovi e degni di considerazione, quindi anche quell’ansia quasi mai appagata di trovare esseri a loro somiglianti, fatti per loro, coi quali possano comunicare; mentre l’ordinario figlio della terra riempito ed appagato dall’ordinario presente in esso si assorbe, e trovando pari suoi possiede quello speciale benessere nella vita quotidiana, che al genio è negato” L’irrequietezza del genio, nella ricerca quasi mai appagata di un contatto, è il segno tangibile del suo tentativo di opposizione continua al “movimento” della vita; ma questa sua operazione la sconta nel non potere godere del benessere quotidiano che la 6 massa invece possiede. Schopenhauer introduce anche un’interdipendenza drammatica fra di esse: il rapporto fra individuo e massa non può non contenere una tensione drammatica. “Dall’individuo alla massa” e “dalla massa all’individuo” divengono due diverse scelte esistenziali e segnano un primo momento dello sviluppo dell’ideologia del pubblico. In Schopenhauer è possibile trovare non soltanto la radice del mito del genio, ma anche i valori, che la massa solo più tardi saprà propagandare sino in fondo per vincere la propria battaglia. 3. TOTALITA’ DELLE FORME SPETTACOLARI Schopenhauer ha dunque scoperto in negativo il privilegio della massa: il suo soddisfarsi nell’ordinario presente. Questa rivelazione viene a costituire il punto di partenza anche dell’ideologia della collettività, quale si era andata e andrà sviluppandosi dall’Ottocento al Novecento. Per Schopenhauer la massa ha un suo sistema di valori, che, per essere da lui negato sino in fondo, è anche stato approfondito e completamente rivelato. E’ proprio questo il merito storico di Schopenhauer; laddove la sua analisi rivela la logica stessa dell’ideologia borghese, il terreno aperto offre corrispondentemente una nuova serie di configurazioni opposte, naturalmente inserite nell’unico grande corso della cultura europea, ma contraddistinte da un diverso sistema di valori. All’interno della cultura tedesca assistiamo al contemporaneo svolgersi del pensiero negativo di radice schopenhaueriana e dell’ideologia progressista romantica. Le due direzioni troveranno spesso punti di incontro e confluenza, ma non potranno nella sostanza coincidere se non a conclusione del loro percorso. Ciò che consente lo scontro di queste opposte ideologie è l’alto livello dell’analisi e tuttavia le due vie si separano: da un lato chi è con la storia, dall’altro chi è contro di essa. Contemporaneamente a Schopenhauer anche Wagner fissa in termini molto dissimili lo stato della società europea e la sua proposta estetica sarà una conseguenza diretta dei contenuti ideologici ricavati da quest’analisi. Il punto di arrivo è sostanzialmente mutato e Wagner svolge un ruolo totalmente opposto nella storia della civiltà quanto nella storia dell’ideologia del pubblico. Lettera di Nietzsche a Wagner: accostamento entusiasta di Wagner a Schopenhauer (nel 1869). Anche Nietzsche, in una prima fase, tende ad individuare la sostanza del pensiero schopenhaueriano con in una capacità unica di critica etica e morale, ma non esaltandone il carattere assolutamente negativo. Proprio sulle basi di questa iniziale difficoltà a penetrare completamente la filosofia si fonda la sua ammirazione per Wagner. In questo si sente lo Schopenhauer educatore e lo stesso Nietzsche recupera quella parte del maestro come indice sensibile di una aspirazione positiva e costruttiva per la propria persona e per il vivere sociale. Tale positività è ciò che accompagna ogni analisi wagneriana della società, ed è anch’essa apprezzata dal primo Nietzche. Wagner sembra negare i valori della società moderna tanto da poter passare agli occhi di un contemporaneo “fratello nello spirito” di Schopenhauer. E di fatto un punto iniziale di incontro vi è per la stessa incidenza del progressivo costituirsi della massa sotto la spinta del rapido evolversi delle strutture della società. Se in Schopenhauer la massa sorge come realtà di valori che vanno negati e combattuti, in Wagner la stessa realtà viene rivelata come mito, come ultima meta della storia e come contenuto primo dell’ideologia. Questo capovolgimento avviene tramite una volgarizzazione dell’analisi teorica schopenhaueriana. La felicità in abstracto diviene il bisogno immaginario e fittizio (Wagner). La soddisfazione di tale bisogno immaginario è il lusso. Ora questo demone, questo bisogno insensato senza bisogno, questo bisogno del lusso, che è il lusso stesso, regge il mondo. E’ l’anima dell’industria che uccide l’uomo per usarne come di una macchina, è l’anima del nostro stato, che non riconosce all’uomo alcuna dignità per dargli quella di essere suddito (...) 7 senza una periodica fiducia nella vita. Elemento costante del pensiero di Nietzsche = la felicità si configura come bisogno artificiale, abstracto e costituisce un valore senza contenuto reale. Quanto è dovuto ad una serie di operazioni storiche e culturali è entrato a far parte del carattere stesso dell’esistenza umana “Essa ha ora un bisogno in più, il bisogno appunto di un sempre rinnovato apparire di tali teorici e teorie sul fine”. Qui è possibile valutare il salto in avanti della filosofia nietzschiana rispetto alla tradizione shopenhaueriana: la raggiunta coscienza di una perfetta corrispondenza e reciproca funzionalità fra vivere sociale dell’individuo e forme della sua cultura. La scoperta del legame indissolubile fra l’uomo storico e l’uomo astratto, fra realtà dell’esistenza e speculazione, consentono a Nietzsche di inserire Schopenhauer stesso all’interno di quel processo di modificazione della natura umana dovuto al perpetuarsi di un falso bisogno. Ciò che stabilisce il nesso fra i due filosofi è l’antitesi fra individuo e collettività. Anche in Nietzsche i due elementi su trovano presenti come discriminante principale di ogni analisi. A noi interessano solo alcuni nodi fondamentali di tutta la sua vasta produzione filosofica: il mito del superuomo nasce come negazione della massa e questa costituisce l’ideologia entro cui si inserisce il pubblico. Ne La gaia scienza si legge: “L’educazione procede sempre in questo modo: attraverso una serie di allettamenti e di vantaggi cerca di determinare il singolo a un certo modo di pensare e d’agire che è contrario alla sua ultima utilità, ma che domina in lui e sopra di lui per il bene comune (...). Se avrà successo l’educazione, ogni virtù dei singoli sarà un’utilità pubblica e un privato svantaggio nel senso del massimo obiettivo privato.” Preannunciano l’analisi nietzschiana delle forme estetiche sulla base della negazione di quelle virtù che dall’uomo sono chiamate buone, sulla base cioè di una completa penetrazione del sistema di valori che regola la vita sociale. L’individuo viene ridotto ad essere uno strumento e questa trasformazione si verifica mediante l’accettazione dei valori in sé; dalla virtù come tale. In Schopenhauer esisteva una possibile scelta fra valori autentici e valori inautentici, per Nietzsche questa alternativa non esiste più: nella società vi è un unico sistema di valori la cui accettazione o utilizzazione comporta immediatamente l’accettazione della logica della collettività. L’individuo come tale non contiene un suo patrimonio di virtù da contrapporre alla massa: il superamento della condizione moderna non dipende dalla contrapposizione di due diversi sistemi, ma dalla negazione dell’intero rapporto che esiste fra i due poli. Analisi che Nietzsche fa della civiltà industriale: In essa il filosofo denuncia la carenza del ceto imprenditoriale. Novità: Alla superiorità del genio si è sostituita la superiorità di razza. Non a caso uno dei punti in cui Nietzsche critica Schopenhauer è la concezione del genio come puro soggetto della conoscenza, senza volontà, senza dolore, senza tempo. Per Nietzsche “essere d’accordo con la maggioranza” significa essere di cattivo gusto, quindi trovare la classe dei grandi industriali mancante di distinzione significa definirne il suo carattere caotico e fortunoso e non perfettamente funzionale al sistema di cui si trova ad essere tuttavia artefice e ministro. La lucidità nietzschiana si spinge tanto in avanti da volere una perfetta coerenza logica nel rapporto tra la classe dirigente e la classe dei lavoratori, priva di ogni falsificazione cristiana e di ogni ideologia liberale. La buona coscienza dell’egoismo è la necessità di una grande politica e la rappresentanza dei grandi interessi. Questa è la buona coscienza del superuomo: Zarathustra predica per questo. Contro questa logica e per la stessa mancanza di essa è sorta l’ideologia socialista: poiché la società industriale non è riuscita ancora a organizzarsi secondo quelle uniche “forme nobili” che ne consentono lo sviluppo e il potere, anche le masse hanno tentato “il caso e la fortuna”, hanno gettato il dado, hanno dato inizio al socialismo. Dove in Schopenhauer la solitudine era una preziosa ed esclusiva conquista, in Nietzsche è soprattutto il livello di una prima negazione e di una necessità politica. Per ambedue costituisce il 10 fondamentale strumento di interpretazione del mondo e della vita sociale, ma in Nietzsche non occupa tutto lo spazio ideologico. Nella sua filosofia si rivela l’esigenza costante di proporre non tanto un uomo diverso dagli altri, ma una nuova società. Da un lato, allora, si costituisce la definizione negativa della “buona società”, dove la nostra plebe dorata falsa imbellettata si estende come valore, dall’altro lato si prefigura una nuova società, che nell’ideologia nietzschiana non si pone come compimento qualitativo di ciò che prima era imperfetto e contrastato, ma, significatamente, come qualche cosa di assolutamente diverso. Secondo Nietzsche l’uomo deve essere superato. Ciò che l’uomo del presente può ancora offrire è il senso di un trapasso e un tramonto. Il genio opera esclusivamente per la dimensione del nuovo, il suo egoismo è la previdenza e la provvidenza della donna gravida. In questa direzione l’etica schopenhaueriana dell’individuo non conta più e con essa non conta più l’arte come incomparabile esperienza dell’uomo superiore. Per Nietzsche è possibile approfondire l’analisi e distruggere la categoria del bello. L’arte non è più una possibile lettura oggettiva dell’esperienza umana, ma svolge una funzione diametralmente opposta. Non nella civiltà greca dove lo schiavo svolgeva il suo ruolo in perfetta coerenza alle leggi, e la tragedia aveva saputo astrarsi nella rigidità della maschera per non sopraffare gli spettatori con le passioni. Sicuramente nella civiltà moderna, dove è giunto a compimento il lento processo di formazione delle forme estetiche, dell’utilità superstiziosa dell’arte. In essa, già in antico, il ritmo tentava di costringere gli individui e d’esercitare su di loro una violenza, era esso un laccio magico per avvinghiarli. Omero diceva “Molti mentiscono i poeti!”. Da allora il mondo della bellezza ha compiuto il suo corso e rivelato la sua realtà, che non è la sua sostanza formale, ma il suo significato sociale. Nietzsche è in grado di cogliere per intero la tragicità e comicità del rapporto tra opera d’arte e pubblico, di superare l’aura autonoma dello specifico estetico e spingersi sino all’identificazione dell’inautenticità delle forme estetiche con l’inautenticità della vita stessa. Comprendere la realtà oggettiva dell’esistenza, negare cioè per ciò stesso il corso della storia ed arrestarne il senso della distruzione nichilista dei suoi valori, significa per Nietzsche avere portato sino alle sue estreme conseguenze la logica stessa della propria civiltà, ed avere scoperto che l’uomo di genio trova nel mondo delle forme una rappresentazione tautologica della sua stessa coscienza. A questo uomo di genio e ad esso soltanto è concesso di comprendere il linguaggio estetico. 
 Per chi si trova ad essere finalmente consapevole della necessità di una trasmutazione dei valori, non è più possibile la superstizione dell’arte, e la bellezza diviene un’utopia della libertà. All’infuori del superuomo il dramma dell’arte non ha alcun senso e non può avere nessun valore oggettivo. Per ciò che riguarda la società e, dunque, la massa, l’arte può essere soltanto assoluta mistificazione. Lo spettacolo delle forme estetiche si rivela per Nietzsche uno strumento essenziale della inautenticità della vita civile. Attraverso il linguaggio dell’arte la massa custodisce se stessa in uno stato di ubriachezza, dandosi continuamente l’illusione di potere comprendere e veramente comunicare. La bellezza nel momento in cui viene contemplata dal pubblico diviene il simbolo stesso dell’avvenuta perdita di ogni possibile contatto. Con questo Nietzsche porta alle sue estreme conseguenze la tragicità del rapporto individuo-pubblico, già indicata con Schopenhauer. L’analisi nietzschiana è in grado di fissare con una notevole anticipazione il carattere contraddittorio che l’ideologia del pubblico acquisterà in tutta la serie di esperienze storiche. Ogni qualvolta, all’ideologia del capitalismo, si sostituirà un’ideologia indirettamente tale sul terreno della strumentalizzazione o salvazione democratica del pubblico, la contraddizione interna della caduta dell’arte come valore, o del perpetuarsi della sua sostanza in quanto mistificazione, torna a sussistere interamente. Nel campo dello spettacolo tale contraddizione trova una tecnica mistificante. L’angoscia della solitudine è interna alla volontà dello spettatore e ne 11 costituisce parte del carattere. A partire dalla filosofia, l’ideologia borghese saprà progressivamente impossessarsi di questa sua scoperta e farne uno strumento utilissimo per la conquista del mercato dello spettacolo. 5. BAUDELAIRE E LE GRANDI ESPOSIZIONI UNIVERSALI La prima grande esposizione universale di Parigi è contemporanea ai Parerga e, per ciò che riguarda il costituirsi fisico del pubblico, è infinitamente più importante. Nel 1855 furono fondati infatti i caratteri essenziali e tipici dello spettacolo di massa. Walter Benjamin è stato forse il critico più sensibile al valore di questa fase storica in cui “il collettivo cerca di eliminare o abbellire l’imperfezione del prodotto sociale”. Benjamin pone al polo opposto di questa nuova realtà della vita sociale lo spazio privato di Baudelaire: la fantasmagoria della società capitalista non appartiene ancora al mondo dell’interno. Il dominio permanente del capitale si costituisce come spettacolo per la massa: rispetto alla suggestione di un simile spettacolo il poeta Baudelaire si trova ad essere ribelle. Da un lato il collettivo piacere per l’immagine dell’universo delle merci, dall’altro il profondo pathos di un’angoscia solitaria. Baudelaire e Nietzsche posseggono una comune volontà di interrompere il corso del mondo. Dietro alla poesia de Les fleurs du mal o dello Spleen de Paris vi è la stessa folla parigina di Victor Hugo, ma nel primo caso essa è angoscia, ripugnanza e spavento, nel secondo un valore universale e positivo. Questa folla è la sostanza stessa delle ideologie del progresso. Il principe Napoleone, detto Plon-plon, presenta all’imperatore Napoleone III il Rapport sur l’exposition universelle de 1855: è un documento che si apre con la convinta dichiarazione che le esposizioni universali siano una necessità dei nostri tempi. Il resoconto di Plon-plon fa di lui una sorta di teorico dello spettacolo e del pubblico. Tutta la teoria del pubblico, per il principe Napoleone, dipende dal concetto base, che esso si costituisce socialmente, in forma completa e fattiva per il resto del sistema, solo quando si dispone o è disposto a venire educato. Lo spettacolo delle esposizioni industriali è uno strumento prestigioso ed eccezionale, che il ceto dirigente di un paese possiede per l’educazione del suo pubblico. Vi sono due parti in causa di cui Plon-plon è cosciente: da un lato l’industriale che deve far coincidere il suo interesse con l’educazione del pubblico, dall’altro lato il pubblico, le varie classi sociali che compongono la folla di una grande metropoli, interessate alla propria educazione tanto quanto il proprio divertimento. Lo stato promuove l’iniziativa delle grandi esposizioni come mediatore di questa dialettica. Il 19 settembre 1798 si apriva la prima esposizione nazionale. Situata in mezzo all’immenso Campo di Marte, formava un rettangolo che comprendeva 58 portici di legno, disegnati da Francesco Chalgrin. L’entusiasmo della novità spinse François de Neuchateau - un precursore di Plon-plon - a decidere che le esposizioni dovessero essere annuali. Un cronista del Novecento scriverà che il pubblico non rispose. L’eccessiva frequenza di tali esposizioni e la mancanza in esse di una gamma sufficiente di svaghi e divertimenti, non consentivano ancora uno spettacolo di successo. In essi si creò la coscienza delle esigenze insopprimibili della massa, delle caratteristiche del gusto collettivo, di qui mossero l’arte necessaria a fare, di questa follia cittadina, un pubblico. Si trattava di superare la vecchia fase in cui la creazione di un pubblico era un fatto episodico, concluso da un inizio ed una fine. Si trattava di prendere possesso delle masse e fare del pubblico una realtà fisica e sempre presente. Si decise di trovare dei tempi più funzionali al successo dello spettacolo e quindi alla soddisfazione del pubblico. Si capì allora che la massa degli spettatori poteva essere attratta gradualmente, attraverso un processo ipnotico distribuito non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Le grandi esposizioni furono stabilite con intervalli di anni, tali da consentire una forma di controllo sul divertimento. Su questa via torna utile ancora la relazione del principe Napoleone. E’ infatti di fondamentale importanza capire il senso della funzione educatrice delle esposizioni. Sull’apprendimento della solidarietà industriale si fonda la ragione 12 sociale in generale, di cui egli può pretendere l’egemonia spirituale solo a patto di accettarne sino in fondo l’assoluta identità con le idee del proprio tempo. Nella prefazione al Cromwell Hugo tentò di teorizzare il grottesco come forma paradossale dell’arte ma véritable della vita, giungendo così a separare distintamente il poeta dallo scrittore. Baudelaire aveva un altro possibile riferimento in Alfred de Vigny, in cui la distinzione tra le forme sublimi della poesia e le forme strumentali della prosa appariva estremamente netta. L’aristocraticità del fare estetico appartiene cioè tutta all’istituzione della poesia, in quanto essa sfrutta e sublima un’esperienza storica decantata nel tempo e nella tradizione. E mentre il gusto estetico è tipico del verso, la commozione sentimentale è tipica della prosa. Mentre la poesia è un elisir di idee, la prosa può persino essere il linguaggio degli affari. Per concludere la poesia è conoscenza senza avere il meccanismo o utilitarismo della scienza, ed è passione senza avere il carattere indiscriminato della prosa. Al mantenimento di un’assoluta aristocracità del gusto estetico corrisponde l’allentamento democracistico e progressista della prosa come sistema degradato ma aperto, cioè disponibile. Baudelaire scelse una terza via tra Hugo e Vigny. Il discorso parte dal punto di arrivo del Cromwell, riportando l’accento sul problema dell’interiorità dell’artista. La possibilità di esprimere i nuovi oggetti dell’arte, di riportare questa nella sfera dell’espressione estetica, risiede tutta nell’assoluta privatizzazione dell’esperienza poetica. Tornando all’immagine del joujou, Baudelaire operò non tanto alla caduta dell’aura poetica quanto al mantenimento di essa nonostante la decadenza dell’istituzione artistica e dell’artista individualmente inteso. Nell’iniziale dedica di Les fleurs du mal, al lettore futuro e collettivo, Baudelaire rivelò oltre l’innumerevole bestiario della paura cristiana il gran mostro orribile, maligno e laido del «tedio». La massa di cui il lettore appare l’anima e il simbolo, costituisce la verifica di un unico destino, che sovrasta artista e collettività. Destino e realtà si identificano nell’iconografia baudelairiana e determinano l’insormontabile barriera esistenziale oltre la quale non è più possibile al poeta compiere i viaggi liberi dello spirito e della bellezza. Se un tempo le forme della bellezza corrispondevano alle linee di un universo etico, nella civiltà industriale la bellezza non sopravvive all’angoscia dell’esistenza, perde una volta per sempre i propri contenuti e si affida tuta alla sua funzione consolatoria. (cit pag. 25 fleurs du mal) Questa citazione fornisce i presupposti storici e teorici di gran parte dell’avanguardia. La memoria artistica, cioè la psicologia della percezione estetica, si intreccia con l’esperienza storica, cioè sul vivo conflitto fra individuo e collettività, e le forme, che un tempo appartennero a determinati archetipi culturali, vengono assunte in un nuovo contesto. 
 Si manifesta l’esigenza di trovare uno stile nella rappresentazione, un metodo nell’affermazione degli oggetti estetici, un controllo nella loro diffusione. Il discorso travalica ormai i confini tradizionali dell’arte: quanto più Baudelaire tentò di privatizzare la sua sostanza di poeta, tanto più fu costretto ad estendere i campi semantici della sua poesia. Il lettore non gli appare ancora come espressione concreta del mercato letterario, anzi pretende di rappresentare l’umanità intera, ma questa ha perduto il carattere assolutamente astratto o determinato che la classe dominante le aveva assegnato. Si vedano le pagine più intenzionali de Le spleen de Paris, laddove lo scrittore resta ambiguamente legato all’esperienza stilistica di Les fleurs du mal e all’aspirazione saggistica, sperimentando un suggestivo simbolismo morale. Ecco allora la professata comunanza di sentimenti con il lettore, sulla base di un peso universale e perenne che condanna l’uomo. A questa realtà dell’esperienza, a tale quotidianità del vivere civile, corrisponde la nostalgia di tutto ciò che nega la vita reale, di tutto ciò dunque che si ignora. In questo universo semantico le immagini sono separate tra mondo morale della sofferenza e mondo estetico del sogno. Tali immagini costituiscono il repertorio, non solo della lirica novecentesca, ma della pittura, del teatro, dello spettacolo, del cinema, che verranno. Costituiscono cioè un repertorio non in quanto immagini inerti o isolate, ma proprio come assieme già definito di 15 corrispondenze psicologiche ed estetiche come inventario per i bisogni esistenziali di ciascun individuo. Sulla promiscuità dell’esperienza individuale e sulla mostruosità dell’esperienza collettiva nell’intenzione baudelairiana sovrasta ancora l’arte. Al culmine della vita materiale, al vertice stesso della propria individualità fatta carne, passione e desiderio, la bellezza non ha alcun archetipo che le corrisponda e l’archetipo si rivela soltanto angoscia nella ricerca e curiosità morbosa. Persino il più straordinario viaggio perviene in ultimo ad una meta angosciosa e insormontabile. Poetica e poesia in Baudelaire sembrano, a questo punto, contraddirsi ben oltre il semplice problema della dannazione. Qual è infatti il significato dell’arte, se il significato delle forme è sempre e soltanto la vita ridotta alla sua essenza di morte? Baudelaire crede profondamente al bisogno oggettivo che ciascun individuo in se stesso cova per la consolazione estetica. Il fanciullo, che è dentro l’anima più profonda dell’uomo baudelairiano, non è l’imbecille pascoliano o il degenerato crepuscolare, e neppure ancora il simbolo della spontanea disponibilità alla fruizione nella giovane massa degli acquirenti. E’ invece l’uomo proprio in quanto fatto storico reale e deformabile: non è un’entità astratta, un valore metafisico, ma invece un essere concretamente vivo. Ad esso appartengono le conoscenze e le nevrosi del suo tempo: viaggiatori e visitati hanno, infatti, la stessa struttura fisica, nervosa e sentimentale. Ma non hanno certo lo stesso ruolo sociale. Se l’arte è un bisogno della vita, e la vita distrugge l’arte, all’artista non spetta né la distruzione del suo privilegio, poiché la creazione estetica è la risposta a un bisogno reale e collettivo, né la distribuzione della vita, poiché essa stessa ormai conosce l’unico possibile oggetto dell’arte. Solo agli incredibili viaggiatori, solo a chi realmente può dirsi tale, poiché ha realmente compiuto l’esperienza del viaggio estetico, e dunque solo a chi coscientemente occupa il posto istituzionale di artista, è possibile oggi rivelare sino in fondo la realtà ultima del processo creativo. Nel cercare l’anima dell’oggetto artistico ci si trova nell’ignoto e nello smarrimento tormentoso. La possibilità di raggiungere nuovi livelli creativi alberga tutta nella capacità di svestire la forma come divina rappresentazione della bellezza, di ogni sua apparenza morale, di ogni suo antico equilibrio armonico, di ogni sua misura espressiva, di ogni classico canone. La perdita dell’aura poetica è progressiva conquista di vita e l’attività creatrice recupera le sue possibilità ricavando direttamente dalla vita il materiale semantico necessario all’espressione. Così il topo di fogna, la più putrida e repellente carogna cittadina, diviene l’adeguato joujou di un’umanità degradata, ma sempre capace, ad onta delle barriere sociali che la dividono, di godere la sola gioia del proprio gioco. La disgregazione della concezione della forma, come identità armonica di valori e come espressione aurea di una supremazia aristocratica, fu mirabilmente descritta dai saggi benjaminiani che si dipanavano sviluppando la tematica della folla presente in Edgar A. Poe. Vi è in questo appunto la matrice autobiografica dei celebri passi dello Spleen de Paris, rispettivamente intitolati Les foules e Perte d’auréole, che costituiscono il nucleo fondamentale della poetica baudelairiana e segnano l’inizio di un nuovo metodo creativo: la nascita dello stile non come dimensione particolare della forma estetica, ma in quanto programmazione generale delle forme estetiche nella totalità dell’esperienza umana. E’ dal conflitto fra artista-individuo e collettività che nacque una nuova coscienza del fatto letterario, non più come espressione verticale e rigida di un determinato messaggio, ma come momento dinamico e dialettico del messaggio e del suo destinatario allo stesso tempo. In altre parole l’artista volendo conservare la sua qualità individuale e la sua insostituibile funzione, può servirsi di forme degenerate solo a patto di inglobare nel proprio sistema semantico il valore reale e concreto di quelle immagini senza armonia interna, poiché prive di autonome strutture etiche ed estetiche, e quindi, solo a patto di inserire nel procedimento creativo le ragioni storiche della perdita di 16 valori. Cadono gli antichi presupposti della morale ed il caos dell’esperienza diviene l’oggetto della rappresentazione, ma la folla stessa determina le ragioni dello stile. Come materiale esistenza di ceti nuovi, che si accalcano impetuosi a sconvolgere gli antichi rapporti di classe, il volto del capitale e la qualità del lavoro, la folla tende sempre più a sostituire l’idea astratta di totalità ed ad imporre le sue grottesche immagini di inconciliati interessi, turbinose passioni, nevrosi individuali e collettive. La folla è la somma reale e concreta di tutto ciò che nega l’olimpica individualità del poeta. La folla e la macchina industriale costituiscono un unico movimento dinamico, che sembra minacciare di morte ogni autonoma attività creatrice. Al genio baudelairiano non restò che superare definitivamente i limitati campi dell’etica e dell’estetica verso qualche cosa di più complesso e più dinamico, capace di considerare nel procedimento creativo una variante sino ad allora respinta: la collettività. La perdita dell’aureola è la sanzione di una assoluta privatizzazione dell’attività creatrice giunta al punto di gioire della propria anonimità. La dissoluzione dell’aura nell’esperienza dello choc, costituito dall’urto ciò la grande folla metropolitana, si rivela dunque una necessità. Ma ad essa si contrappone un’altra necessità, di cui ben sapeva Baudelaire: la fruizione estetica come bisogno esistenziale. Poiché un tempo i valori aulici dell’armonia e della forma rappresentavano il momento realizzato delle istituzioni sociali destinate all’amministrazione dell’arte, mentre agli albori della riproducibilità tecnica quegli stessi valori non ebbero più alcun sicuro riferimento e la loro realizzazione doveva estendersi ad un pubblico mai conosciuto eppure ormai immediatamente presente. Quanto più l’oggetto estetico riduceva gli archetipi a misura della vita sociale e confrontava la rigidità delle forme con la polivalenza della massa, la ricerca dell’interiorità, diviene la ricerca di se stesso nella collettività. L’esteriorità del mondo diviene il modello nuovo su cui l’artista svolge i temi della propria interiorità. I messaggi estetici non provengono più da un’istituzione, che ne ha congelato il significato, essi si manifestano nel reciproco scontro tra individuo e massa. Il privilegio creativo non è più autonoma trasmissione di messaggi sotto forma di oggetti estetici, ma interrelazione continua di messaggi che già sfruttano l’oggetto estetico come canale e dunque inseriscono nella propria struttura espressiva i nuovi dati dell’esperienza storica. Ne scaturisce un metodo di scrittura completamente diverso dal passato. Ne scaturisce anche un lessico estremamente più ricco, poiché la lingua si rivela come fatto sociale e si divide nei vari livelli, dal più aulico al più umile: il linguaggio poetico si costruisce su componenti linguistiche, la cui ragione non discende dall’autonomia dell’ispirazione, ma dalle componenti stesse del pubblico letterario. Ne scaturisce un ribaltamento ciclico dell’interiorità individuale in situazioni extraindividuali: sono appunto le maschere, necessarie ad esprimere unità semantiche, che non possono più sussistere isolate come un personaggio o un evento particolari, ma debbono essere date al pubblico secondo le linee di un codice prestabilito. Il gioco alterna fra razionalità e irrazionalità, fra senso e non-senso, tra programma e negazione, costituisce appunto la tecnica di questo nuovo stile dell’espressione estetica, per cui il segno non vive soltanto nella tradizione che lo ha istituito, ma anche delle risultanti, che derivano dal conflitto fra segno e segno nel campo ricevente del fruitore. Le varianti a cui il messaggio estetico viene sottoposto si moltiplicano proporzionatamente all’intenzione creatrice. La commedia umana dei caratteri lascia ora il posto ad una ragionata strumentalizzazione del carattere umano che entra per intero esso stesso come uno dei segni necessari all’espressione. Razionalità del proprio io, isolato dalla vita sociale e dalla storia, liberato dunque dalle qualità degenerate dello sviluppo e irrazionalità della folla, imbevuta dei miti della società civile. Ma all’opposto, irrazionalità della solitudine in quanto spazio aperto alla fantasia, terra che non pone confini alle immagini e ai segni dell’inconscio, e razionalità della moltitudine. 17 alto. Cerchiamo di analizzare le coordinate di questa nuova utopia dell’arte di Rimbaud. Tale definitiva rinuncia al mondo delle forme e scoperta volontà di far vestire all’anima gli abiti del comportamento sociale, significò la rinuncia all’utopia. Il progetto valeva per gli strumenti che ancora potevano essere trovati ad uso dell’uomo estetico, la totalità dei sensi valeva per la condizione che annunciava come futura. Ma invenzione, progetto e totalità contenevano implicitamente una logica di sviluppo con tempi lunghissimi: l’attuazione del progetto non sarebbe certo dipesa da lui e dall’opera sua. Tra la vita e l’utopia restava ancora una volta l’azione: comportamenti, viaggi, commerci e vendite che potevano apparire liberi dai segni dell’arte, sgombri di immagini culturali, pregni di inventiva individuale. L’angoscia pareva ancora non percorrere le stesse vie della scoperta geografica: è il silenzio dell’autore in cambio del denaro e degli affetti dell’uomo. La scoperta di un’instabilità organica dell’espressione estetica induce il poeta a teorizzare l’arte come linguaggio universale. L’universalità dell’espressione estetica non dipende più dalla supremazia di un archetipo originario, ma invece dall’universalità dell’esperienza rivelata nella totalità degli atteggiamenti umani. L’arte, cessando di essere congelamento di forme in uno spazio immobile, intorno a cui s’agitava e s’infrangeva l’emotività terrena, non soltanto diviene lingua viva, ma anche anticipazione d’universalità. Ed in base a questa esigenza fondamentale, per cui il poeta recupera una sua collocazione insostituibile rispetto allo sviluppo, l’arte del passato diviene cosa morta, inoperante. Le nuove forme dell’universalità hanno quindi come riferimento il rapporto dinamico e tutto problematico tra uomo e sviluppo del suo tempo, tra individuo e progresso della civiltà. Siamo al momento germinale di quel processo storico, per cui l’artista si fa portatore dell’esigenza stessa, insita nella società civile, di esteriorizzare la coscienza e di organizzare collettivamente l’utopia individualista della libertà e del valore come alternativa allo sviluppo. Nessuna spiritualità metafisica, tuttavia, è presente in Rimbaud. Egli prospetta l’avvenire nei termini di un’evoluzione materialista, in cui il livello espresso dai poeti e quello espresso dalla società tendono a congiungersi solo a patto che l’ignoto universale prevalga e vinca sulla norma della civiltà conosciuta. Ma l’ignoto universale coincide con lo sconvolgimento di tutti i sensi, con la smentita di se stessi, della propria antica configurazione morale e sociale. Ed abbiamo anche detto che l’universalità dell’esperienza estetica si fonda sulla totalità dei sensi umani, fisiologicamente inclini all’arte in quanto assieme di anime, profumi, suoni, colori e concetti che formano il linguaggio o meglio ancora il fenomeno della fruizione. Se l’attività creatrice si trasforma, nel poeta di tipo rimbaudiano, in anticipazione di bisogni, ma anche si riferisce al mondo materiale e ad esso vuole restare legata, lo stile apparirà allora un modo di essere della sensibilità alternativo alla sensibilità comune. L’oggetto estetico si distingue dalla merce senza ancora dovere affrontare direttamente il discorso della mercificazione ma semplicemente offrendosi esso soltanto come spiritualità capace di investire l’uomo molto oltre la merce stessa. Nello scontro tra sensibilità poetica e sensibilità sociale si crea l’oggetto estetico: esso circola, può essere valutato e può funzionare solo come conflitto e, in quanto tale, è anticipazione del futuro, forma dell’ignoto. Lo scontro conflittuale costituisce l’obiettivo dello stile: lo spostamento in avanti dell’insoddisfazione, attraverso lo sgretolamento progressivo della norma e quindi il bisogno di ricomporre l’equilibrio a livelli ulteriori, mantiene sempre viva la curiosità dell’ignoto e le possibilità stesse del conflitto. A questo punto si colloca il passaggio da ciò che in Rimbaud rappresenta la poetica a ciò che concretamente si istituisce come tecnica. Lo scrittore trae dalle forme ormai sterili dell’arte i segnali necessari alla creazione del nuovo codice, su cui lo stile fonderà la propria riuscita. L’alchimia è lo stile con cui il poeta crea un codice simbolico. In esso tuttavia il simbolo ha perso la sua originaria funzione e 20 dunque si offre come immagine, che si rivela poetica solo grazie alle correlazioni volute dal poeta. Lo stile consiste nel creare un codice poeticamente fruibile anche se momentaneamente incomprensibile: l’incomprensibilità è il residuo necessario del godimento estetico con cui l’artista costringe al conflitto il fruitore, poiché quest’ultimo, emotivamente scosso da sensi che riconosce in se stesso, si scontra tuttavia con il caos attraverso il quale gli vengono proposti. Mentre la forma conciliava il gusto artistico con i bisogni esistenziali, lo stile separava invece l’abitudine estetica dalle esigenze umane. Abbiamo già per intero tutto l’armamentario estetico provocatorio ed onirico del dadaismo e del surrealismo. Il caos fornisce il materiale visivo, le forme apparenti allo stile; la totale irrazionalità si contrappone alla razionalità esteriore del vivere civile. Nella fruizione estetica lo stile raggiunge il ribaltamento tra irrazionalità e razionalità ed impone l’eccezione alla regola. Lo stile inventa la riproduzione artigianale dello choc e preannuncia così la riproduzione industriale dei conflitti. La progressiva mercificazione dello choc significherà il consumo massificato della paura e dell’angoscia. Dall’alchimia del verbo alla mercificazione dell’alienazione stessa: un arco di alcuni decenni di intensissimo sviluppo culturale e industriale, in cui le istituzioni dello spettacolo si assumono una funzione fondamentale di trasferimento dei moduli letterari al grande pubblico. Scandalo e provocazione divengono i modi ideali dell’espressione, la quale non tende più all’unificazione delle esperienze possibili ed infinite nella totalità del fruitore, ma invece alla separazione del fruitore della massa. Sono evidenti gli infiniti richiami tematici e la continuità sostanziale con la tecnica della provocazione da Jarry ad Artaud e poi ad Hitchcock. La possibilità stessa della fruizione, l’esistenza, dunque, dell’arte, e la dinamica dello stile, dipendono dal gioco dialettico tra pubblico e massa, tra avanguardia e collettività. Da Rimbaud al surrealismo, sino a tutte le avanguardie, la scoperta dello stile determinò appunto il fenomeno delle avanguardie come ciclica dialettica di sviluppo: prima ideologica, poi di mercato. Dalla negazione al denaro, al valore della merce come unico fattore espressivo. L’inventiva dell’ultimo livello della grande cultura borghese si congiungeva all’inventiva dell’imprenditore rispetto ai due poli del suo interesse: la merce ed il pubblico acquirente. La qualificazione della merce significò il processo necessario e urgente di modificazione dei meccanismi produttivi per trasformare la massa in acquirente. La qualità unica che si conferma nella molteplicità della produzione in serie è la qualificazione progressiva della massa indiscriminata: un bisogno già presente, come abbiamo visto e documentato, nelle anticipazioni di Baudelaire e Rimbaud. La qualità della produzione in serie fu quindi determinata in senso verticale e dall’alto verso la base. La fantasmagorica umanizzazione della tecnica e del prodotto è sì il segno dello sviluppo, la sua stessa socializzazione, ma non è libertà se non nel senso del capitale. Anzi lo stile, divenendo la logica stessa dell’imprenditrice, tende non solo a programmare la libera iniziativa del fruitore, ma anche a controllare l’anarchia della concorrenza. Il primo obiettivo sarà raggiunto creando modelli di sviluppo capaci di determinare i bisogni del tempo libero. Il secondo obiettivo sarà ottenuto con il coordinamento, stabile, tra ogni settore della fruizione, da quello spirituale a quello gastronomico. All’interno di questo processo, dal teatro wagneriano si passa al teatro popolare e all’operetta, dalle Grandi Esposizioni della merce al primo cinema, ed infine dallo spettacolo espressionista, dadaista e surrealista all’industria cinematografica degli anni trenta. 21 7. PARIGI 1900 Dallo stile al pubblico. Abbiamo parlato di Baudelaire e Rimbaud perché la loro angoscia si trasferisce progressivamente dalla morbosità dell’esperienza estetica alla morbosità della vita sociale. La paura della perdita dell’individualità, il conseguente bisogno di distrarsi nell’eccezionale, di provare uno choc liberatore, costituiscono la molla segreta della massa a farsi pubblico. L’organizzazione dello spettacolo possiede sempre la coscienza dell’angoscia della vita associata: il progresso trova nuove tecniche e nuovi linguaggi perché una tale situazione di disagio verso la civiltà, si integri nel passaggio stesso da individuo a semplice parte della collettività. Il 1900 segna una data storica. Al visitatore dell’Esposizione Universale di Parigi del 1900, si offriva uno spettacolo di eccezionale imponenza. Alla sua realizzazione avevano partecipato le forze del capitale, i tecnici dell’industria, gli ideologi del progresso ed il ceto politico della borghesia mondiale. Nel momento dell’inaugurazione gli operai ascoltarono il discorso di Emilio Loubet: «O lavoro! lavoro, liberatore e sacro; sei tu che rendi nobile e sei tu che consoli! Sotto i tuoi passi l’ignoranza si dissipa, ed il male ne fugge.» Le grandi esposizioni si costituivano come supremi altari del lavoro, dove i sacerdoti dell’industria innalzavano la loro preghiera. L’operaio viene invitato a consacrare il culto della potenza, giustizia e bontà della merce. “Istruire divertendo” è lo slogan dell’esposizione di Parigi = volontà di fondere in un solo punto le opposte tendenze della folla cittadina, da un lato la sua paura e stanchezza per i ritmi della civiltà, dall’altro il suo desiderio di dimenticare la propria individualità alienata nel magma consolatorio della massa. Già per Plon-plon istituire o educare significa costringere il pubblico alla partecipazione. Il divertimento acquista sempre più il carattere di una droga, così la merce diviene l’unico spettacolo possibile. La tecnica del colpo d’occhio è uno degli strumenti principali di questo spettacolo per annullare progressivamente la volontà dello spettatore, per atrofizzare le sue capacità individuali di riflessione, e costringerlo alla sua funzione di pubblico. L’immagine, il suo ritmo e il suo colore, cancellano la coscienza sociale dell’individuo: egli dimentica la propria condizione e il proprio ruolo politico. Si dimentica, cioè, dei caratteri fondamentali della propria classe. Il visitatore delle grandi esposizioni universali si trovava ad esistere in uno spazio senza dimensione e senza tempo. Egli percepiva una sola realtà tangibile intorno e dentro di sé: la meraviglia assoluta di quello spettacolo. Esso gli appariva come ciò che si vuole essere, ciò in cui tutti trovano la felicità, ciò stesso per cui la società vive e progredisce. Ogni possibile resistenza si annulla nella totale partecipazione a tutto ciò che lo spettacolo sa offrire, e l’ideologia ha vinto. I padiglioni stessi dell’esposizione sono concepiti e realizzati per la vittoria dell’ideologia. Essi costituiscono le quinte del grande spettacolo delle merci. Vengono disegnati e costruiti come una scenografia cinematografica. Le loro architetture nascono da una concezione folkloristica dello spettacolo, dove tradizioni storiche e artificiosità esotica si fondono con l’unico scopo della meraviglia. Anche la bizzarria trionfa come attrattiva. I fratelli Milinaire proposero la costruzione di un palazzo monumentale smontabile, composto di piani sovrapposti, come nei palazzi di Babilonia e di Ninive. Il momento sarebbe stato provvisto di ascensori, di strade ferrate, terrazze e giardini, teatri e ristoranti. Persino la Torre Eiffel veniva sacrificata al culto della bizzarria. Il signor Leclerc, al suo posto, aveva intenzione di scavare un bacino d’acqua di proporzioni immense. La stessa visione del processo produttivo si costituisce dunque come spettacolo. La società intera deve partecipare alla gran festa del Novecento. M. Bouvard, abilissimo disegnatore del suo tempo, decora, per sedurre la folla, tanto la natura quanto la macchina. In essi vi era la volontà di tacere l’angoscia della fine del secolo e il desiderio di abbellire il futuro. Robida è il regista di un intero settore dell’esposizione del 1900: il Vieux Paris. Oggi ci resta un gran numero di disegni e stampe della ricostruzione, che egli fece, di alcuni vecchi quartieri parigini, 22 cessò pure d’essere popolare, e restrinse la gamma dei sentimenti che potevano trasfondere. Infatti il numero dei sentimenti che provano i ricchi e i potenti è molto più ristretto e insignificante rispetto a quello provato dai lavoratori. Possiamo riassumere due concetti fondamentali che Tolstoj inserisce nella sostanza dell’arte: da una parte la comprensibilità dell’opera come condizione prima della sua universalità, dall’altra l’identità dei contenuti con il pubblico cui l’opera è destinata. Si tratta del momento in cui la cultura si appresta a svolgere un diverso ruolo sociale, in cui perde i caratteri classici per conquistarsi quelli più direttamente interni allo sviluppo della società, i caratteri cioè della massa. Thomas Mann saprà cogliere il valore di questa svolta esercitata da Tolstoj, il quale aveva capito che era iniziata un’epoca cui non bastava più del tutto la trasfigurazione vitale dell’arte, ma nella quale lo spirito descrittivo, decisivo e illuminante, legato alla società e pronto a servirla deve presiedere al genio obiettivo, la moralità e l’intelligenza all’irresponsabile bellezza. La definizione tolstoiana della vera arte: «L’arte non è un godimento, un piacere, né un divertimento, l’arte è una grande cosa. E’ un organo vitale dell’umanità, che trasporta i concetti della ragione nel dominio del sentimento». Il rifiuto tolstoiano della sfera del piacere e la subordinazione del dominio della ragione costituiscono il veicolo principale della comunicazione artistica tra uomo ed uomo. L’atto della creazione estetica, dovuto ad un irresistibile bisogno interiore, ha per effetto di sopprimere la distinzione tra la persona a cui è indirizzata e l’artista. E’ appunto in questa soppressione di ogni barriera tra gli uomini, in questa unione del pubblico con l’artista, che sta la virtù principale dell’arte.» Da parte dell’artista il bisogno interiore scaturisce dalla nuova consapevolezza che «allorché gli spettatori o gli uditori provano i sentimenti espressi dall’autore, c’è opera d’arte». Da parte del pubblico ogni barriera cade quando viene convinto che per l’atto stesso che compie, il suo farsi pubblico in nome della «fratellanza», l’arte diventi uno degli strumenti dell’unione degli uomini e perciò del progresso. Il pubblico risponde all’artista, e questi riesce a realizzarsi nel pubblico quando «sentimenti così universali da poter essere provati dalla massa degli uomini» sono il tramite estetico di questo unico messaggio: «fare in modo che quell’unione pacifica degli uomini possa effettuarsi per il libero e gioioso consenso di tutti». La felicità sociale si conquista soltanto attraverso il progressivo annullamento delle singole caratteristiche dell’individuo e delle classi. Attraverso il consenso l’arte recupera il popolo e si fa religiosa e popolare, cancella l’opposizione del lavoro e realizza la felicità dell’uomo. Se la vera opera d’arte si attua pienamente nel preciso istante in cui il pubblico prova gli stessi sentimenti dell’autore, ne condivide cioè il messaggio e vi aderisce, Tolstoj qui fonda un principio determinante: l’arte è il pubblico stesso e la bellezza estetica si cancella nella riuscita di questo processo ideologico. Thomas Mann sottolinea come un tale risultato della teoria e della produzione dello scrittore russo sia direttamente comparabile a Wagner. Anche Tolstoj come Wagner possiede la vastità di proporzioni del naturalismo, il democratico uso delle masse. Ma tra le due loro teorie estetiche vi è un salto considerevole. L’ideologia wagneriana di popolo ne accettava le classiche leggi ed il complesso linguaggio, scavalcava il pubblico avendo per meta il popolo come mito ancora puro, come possibilità ancora estetica. La bellezza delle forme nasceva sulla tensione di un tale mito, ma restava l’elemento di raccordo tra artista e opera: al pubblico non rimaneva altro che assistere e comprendere. L’ideologia Tolstoiana tende al contrario a realizzare di fatto ciò che in Wagner si conservava utopia: il pubblico viene ora introdotto come struttura portante dell’operazione estetica e i valori che lo riguardano costituiscono le nuove leggi del linguaggio e dello stile. Si prefigura così il primo grande abbozzo di una cultura di massa. 25 Il primo incontro di Tolstoj con il cinema, il 28 agosto 1908, non registra nulla di significativo. Già solo un anno dopo egli ha un incontro più diretto con lo spettacolo cinematografico: «Che peccato, il cinema potrebbe essere uno dei mezzi più potenti per diffondere sapere e grandi idee e invece serve solo a mettere disordine nel cervello della gente». Il cinema mostrava tutto il proprio ricco apparato tecnico direttamente funzionale ad una concezione dell’arte quale appariva in una personalità universalmente riconosciuta come Tolstoj. In un diario di Bulgakov si legge di un incontro tra Leonid Andrejev ed il vecchio scrittore, avvenuto il 21 aprile 1910. Il critico K. Ciukovskij ha sollevato la questione di una letteratura nata appositamente per il cinema. Andrejev era entusiasta di questa idea. Lev Nikolaevic all’inizio ascoltava scettico, ma poco a poco andò visibilmente interessandosi all’argomento: scriverò di sicuro per il cinema, annunciò alla fine della conversazione. Con questo Tolstoj inserisce il cinema nel mondo dell’arte, o meglio intuisce che il pubblico può diventare arte anche attraverso il cinematografo. Nel 1908 il cinema aveva già un suo pubblico, non vasto, ma già definito nella sua composizione. Vi era dunque un pubblico potenzialmente in crescita, ma non vi era l’arte dello spettacolo. Nell’intenzione di Lev Nikolaevic di scrivere per il cinema vi era la volontà di cambiare il pubblico da semplice acquirente di una futilità da baraccone in «popolo». Ma questo capovolgimento di valore di una massa varia e molteplice di spettatori può avvenire per Tolstoj solo attraverso il trasferimento diretto dei contenuti dell’arte “vera” in quella di massa. Il fatto che, nella sua concezione dell’arte, abbia assunto valore massimo la comunicazione e che l’universo armonico di queste non sia più la creazione in sé, ma il momento di fusione tra artista e pubblico, dimostra chiaramente quanto l’ideologia giunga ad identificare la funzione con il risultato. Per Tolstoj il pubblico già esiste perché esiste l’ideale possibilità che il popolo conquisti la propria felicità. Il vecchio pubblico dell’arte aristocratica è condannato a scomparire, poiché non ha mai avuto un carattere universale. Il vero pubblico deve rappresentare se stesso, la propria ricca varietà di esperienze, l’ottimismo in una progressiva unione di ogni ceto e classe nello spirito religioso del passato: questa è la vera arte. Tolstoj chiama il pubblico alla conquista dell’arte, il popolo alla conquista del cinema. Egli ancora non poteva comprendere che il cinema era veramente una nuova arte, perché interamente connaturato all’industria culturale. Il cinema è l’arte della fabbrica e per comprenderlo bisogna ripercorrere la storia. 9. NASCITA DEL CINEMA Il cinema è l’arte della fabbrica nel senso che racchiude in sé le forme e l’ideologia della moderna civiltà industriale. Sorte d’usine (1895) è l’esemplare punto di origine della futura istituzione cinematografica: i fratelli Lumière sfruttarono alcune innovazioni tecniche del loro campo produttivo a fini pubblicitari, filmando l’uscita degli operai della loro stessa fabbrica. L’obiettivo: in quei pochi minuti di proiezione veniva dimostrata all’acquirente la perfezione tecnica raggiunta dalla ditta, la sua consistenza in capitale fisso e mano d’opera, le infinite utilizzazioni pratiche del cinematografo. Sin dall’inizio il cinema pubblicizzava se stesso. I fratelli Lumière avevano scelto per il loro film un momento particolare della vita di fabbrica: l’uscita degli operai dal loro luogo di lavoro. Essi volevano esaltare l’ammirazione per la tecnica, l’invito all’acquisto, la coscienza ed il culto del lavoro, ma anche la partecipazione dinamica degli operai, dentro la globalità della società civile. Per Sorte d’usine l’operaio appartiene all’immagine della fabbrica ma anche alla società tutta, nella quale rapidamente si immette e si confonde una volta che la sua forza lavoro è stata sfruttata e fatta fruttare. Il cinema nasceva così, come una merce che pubblicizza la merce. Sorte d’usine dei padroni Lumière risultò allora un piccolo capolavoro di realismo. Molti compresero le molteplici possibilità del linguaggio 26 cinematografico e la sua disponibilità per l’uso tecnico-scientifico, ma pochi riuscirono a prevedere l’enorme successo che avrebbe avuto. Appare con chiarezza il nesso organico che lega l’origine ed il primo sviluppo del cinema all’ideologia dell’era tecnologica e scientifica, del progresso industriale e della simultaneità. Il cinema è strutturalmente vicino alle aspirazioni ideologiche e linguistiche del futurismo. Questa avanguardia è un momento unificante di vari livelli intellettuali e sociali sotto una stessa spinta progressista, che si fa più forte laddove i dislivelli sono più alti, e che ritroviamo all’interno di ogni movimento poetico del Novecento. La consapevolezza di dover superare una volta per tutte i vincoli del passato, la necessità di negare le forme belle di una cultura che non corrisponde più ai tempi e ai modi della società industriale, costituiscono tanto i valori del futurismo quanto corrispondono al linguaggio cinematografico, in se stesso anti-letterario, anti- individualista, meccanico e meccanicizzante, mercificato e mercificatore, linguisticamente simultaneo, originariamente nuovo, intatto e disponibile. L’invenzione del cinema costituisce una delle più grandi spinte alla formazione dell’ideologia futurista: quando escono i primi manifesti marinettiani il cinematografo ha già una sua storia. Ai primi del Novecento la crescita del capitalismo contemporaneo è ancora in una dura e problematica fase preparatoria. La prospettiva ideologica del mito estetico wagneriano e l’utopia tolstoiana non hanno ancora trovato una loro traduzione reale. Vecchia e nuova borghesia, vecchio e nuovo capitalismo non hanno ancora sostenuto l’urto della rivoluzione proletaria. E’ il momento in cui la produttività dei settori maggiormente progrediti del capitale si trova ad essere troppo avanzata rispetto alla società stessa. Momento di stridenti contrasti tra i nuovi modelli della fabbrica e l’antica struttura di un sistema paleocapitalista. I miti altoborghesi della totalità dovevano tradursi in strumenti operanti su tutta la società e la produttività dell’artista doveva estendersi alla produttività delle masse, e lo spettatore-pubblico divenire una forza direttamente organica allo sviluppo sociale e dunque ai meccanismi di crescita della produzione capitalista. Ma tale necessaria produttività collettiva trovava un ostacolo nelle forme ideologiche dell’artista e nei modelli culturali del pubblico. Mentre il pubblico manca ancora di un’oggettiva possibilità di unificazione ideologica, l’enorme distacco fra produttività del capitale avanzato e produttività sociale provoca le avanguardie, come fase di ristrutturazione delle forme estetiche. E’ necessario ripercorrere i momenti più significativi di questa fase di transizione perché a partire da qui l’ideologia del pubblico si fa operante a livello sociale e lo spettacolo si istituisce come strumento del sistema. L’esaltazione futurista del cinema e i primi investimenti nelle case di produzione francesi e italiane costituiscono la matrice del grande impero hollywoodiano. Una grande civiltà industriale ha bisogno di una grande dimensione spettacolare e questa fu progressivamente istituita in tutto il globo dai capitali di Hollywood. Il suo grande strumento fu il divismo: la qualificazione della merce cinematografica dipese dall’esatto rapporto fra sviluppo economico e pubblicità. Esso costituiva la rappresentazione reale del rapporto alienato fra spettatore e film. L’ideologia del pubblico consisteva nel dare alla merce stessa la capacità automatica di possedere lo spettatore: al divo era poi assegnato il compito di mantenere ed esaltare nella società l’interesse del pubblico per l’acquisto. Forse Hollywood può definire lo spettacolo come coefficiente dell’alienazione, ma il metodo di ricerca che ci proponiamo ci sembra cogliere alla sua origine molto di più del semplice fenomeno hollywoodiano. Per le mistificazioni in celluloide della cinematografia basta l’alto livello di analisi di Horkheimer e Adorno o quello più pubblicistico di un Edgar Morin. Il difetto di questa tradizione critica si è rivelato proprio nel voler demistificare le istituzioni dello spettacolo senza avere un quadro completo del loro sviluppo. Dietro all’ironica condanna di Adorno per le forme estetiche degradate dell’industria cinematografica spesso vi è stata l’ignoranza delle componenti stesse dei testi presi in esame. Nel senso che anche la più elementare struttura spettacolare nasconde tutta una tradizione 27 vecchio modo di comunicare che intende sopravvivere nel nuovo marasma delle comunicazioni di massa. Nel 1916 dunque si scrive che: «A prima vista il cinematografo può sembrare già futurista, cioè privo di passato e libero di tradizioni: in realtà esso sorgendo come teatro senza parole ha ereditate tutte le più tradizionali spazzature del teatro letterario. Il cinematografo sino ad oggi è stato e tende a rimanere profondamente passatista, mentre noi vediamo in esso la possibilità di un’arte eminentemente futurista e il mezzo di espressione più adatto alla plurisensibilità di un artista futurista. Salvo i film interessanti di viaggi, cacce, guerre ecc. non hanno saputo infliggerci che drammi, drammetti passatistissimi. La stessa sceneggiatura che per la sua brevità e varietà può sembrare progredita, non è invece il più delle volte che una pietosa e trita analisi. Tutte le immense possibilità artistiche del cinematografo sono dunque assolutamente intatte. Il cinematografo è un’arte a sé. Il cinematografo non deve dunque mai copiare il palcoscenico. Il cinematografo deve compiere l’evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso e dal solenne. Diventare antigrazioso, deformatore, impressionista, sintetico, dinamico, parolibero.» Proprio da questa prospettiva nacque la tradizione di uno specifico filmico. Dal rifiuto della vecchia letteratura nasceva il cinema d’avanguardia. Mentre l’avanguardia funzionava da anticipazione di un futuro mondo semantico, lo spettacolo commerciale proprio facendo il passatista realizzava un nuovo livello di comunicazioni corrispondenti all’oggettività del mercato culturale disponibile. Fu l’intellettuale a teorizzare un uso verticale e autoritario dell’immagine. Scriveva Marinetti: «Il cinematografo futurista che noi prepariamo diventerà la migliore scuola per i ragazzi: scuola di gioia, di velocità, di forza, di tenerità e di eroismo. Il cinematografo futurista acutizzerà la sensibilità, velocizzerà l’immagine creatrice, darà all’intelligenza un senso di simultaneità e onnipresenza.» L’aspirazione a rappresentare questo nuovo mondo si scopre come tentativo del letterato di dominare la realtà. Egli scavalca la natura commerciale dello spettacolo e propone la trasmissione di valori che i vecchi strumenti letterari non sono più in grado di propagare. 
 L’utopia dell’immagine consiste nell’illusione di poterla sottrarre alle leggi della merce. Essa sopravvive sino a quando lo sviluppo produttivo è in grado di accettarne e sfruttarne le implicite contraddizioni. Il regista americano Griffith conserva un posto particolarmente significativo, egli impersonò la figura ideale del nuovo quadro intellettuale necessario all’industria culturale. In Rescued from an eagle’s nest interpretò la parte di un montanaro che sottraeva un bambino agli artigli di un’aquila. Quel gesto è considerato emblematico del rapporto che lega questo autore alla grande cultura borghese simboleggiata dall’aquila. Inclinazioni popolari e commerciali di Griffith riuscirono a creare le basi del linguaggio cinematografico, nel senso che l’immagine fu da lui organizzata in modo da essere perfettamente corrispondente alle esigenze del mercato. Scrive Sadoul: «Méliès aveva elaborato questo alfabeto ma lo aveva considerato come un trucco teatrale. Griffith trasformò i trucchi da procedimenti magici in mezzi di espressione drammatica. Con la sua doppia esperienza degli esterni e del teatro di prosa fu il primo ad utilizzare la macchina da presa come elemento drammatico.» Griffith aveva cioè trovato gli strumenti tecnici per riprodurre lo schema fondamentale del dramma. Da questo momento il cinema eredita e rilancia le possibilità sociali del romanzo d’appendice. 30 11. ESPRESSIONISMO E SOCIALDEMOCRAZIA Mentre la fotografia e il cinematografo funzionavano come moltiplicatori della cultura popolare, le avanguardie portarono avanti i meccanismi di funzionamento dell’arte borghese. Si stabilirà così un’alternanza ciclica tra sperimentazione delle avanguardie e riproduzione tecnica verso un processo graduale di simbiosi. Chi alla fine dell’Ottocento pretendeva di accedere nelle sfere della grande arte, prima di raggiungere l’espressione, doveva superarne la problematicità. L’artista è costretto a identificarsi con l’intellettuale: ciò che perde in aristocraticità dello spirito lo guadagna in coscienza di classe, in consapevolezza del proprio ruolo storico, in organizzazione come ceto sociale. Il fatto che già da tempo la filosofia avesse abbandonato l’arte a se stessa o il fatto che l’arte avesse trovato un nuovo rapporto all’interno della struttura stessa del vivere associato, sottolinea la fondamentale dipendenza della crisi delle forme estetiche dalla tematica tipicamente filosofica e idealistica del rapporto fra soggetto e oggetto, individuò e realtà. L’analisi storica ha definito l’organica coincidenza tra crisi dei valori estetici e sviluppo dell’economia industriale e tecnologica del capitale, tra scomparsa dell’aura delle forme del bello e crisi di rinnovamento della grande borghesia. L’acutizzarsi storico del contrasto fra arte e vita si manifesta proprio per la violenza d’urto delle masse in continua ascesa sotto la spinta di un sistema sociale in rapida proletarizzazione. Segno indicativo è l’emarginazione oggettiva che, contemporaneamente allo sviluppo dell’ideologia socialista, da un lato, e alla maturazione dei ceti dirigenti dall’altro, l’antico rapporto alto-borghese tra individuo e opera d’arte subisce per i ritmi stessi della produzione capitalista. L’arte si scopre sempre più come istituzione e rivela a se stessa una totale mancanza di strumenti atti a darle un ruolo preciso e rispondente ai livelli più avanzati del sistema. E’ la crisi stessa delle istituzioni borghesi della cultura e dell’arte a produrre le avanguardie storiche ed è bene sottolineare che ciò avviene dentro alla logica della borghesia. Vasilij Kandinskij si rivelò un creatore di immagini visive. I suoi scritti di poetica pittorica svilupparono alcuni temi fondamentali della civiltà industriale. In Lo spirituale nell’arte egli descriveva in toni suggestivi la condizione materialista della cultura. La bellezza come forma esteriore, come immagine apparente dei valori presupposti nell’arte, è quindi entrata a far parte storicamente degli interessi abstracti dell’uomo moderno: il rapporto fra pubblico ed opera d’arte è divenuto allora un rapporto emblematico ma equivalente ad ogni altro rapporto. La perdita della qualità ha modificato i modi della fruizione estetica verso una loro meccanicizzazione: «L’armonizzazione del tutto sulla tela è la via che conduce all’opera d’arte. Quest’opera viene guardata con occhi freddi e con animo indifferente. I conoscitori ammirano la fattura e gustano la pittura». L’indifferenza dello spettatore ha la stessa sostanza dell’ammirazione esteriore e della valutazione gastronomica poiché essa rivela la scarsa partecipazione interiore, l’assenza cioè di una dinamica tra oggetto estetico e individuo. Nel mercato dell’arte ci si muove verso l’inflazione dei valori artistici e l’assoluta mercificazione del lavoro intellettuale. «Questa situazione si chiama l’arte per l’arte, questo disperdere nel vuoto le forze dell’artista è l’arte per l’arte. Per la potenza di invenzione e di sentimento, l’artista cerca un compenso in forma materiale. Suo scopo è la soddisfazione della sua vanagloria e della sua avidità. Nasce una lotta di possesso di quei beni. Ci si lamenta di un eccesso di concorrenza e superproduzione. Odio, intrighi, sono la conseguenza di quest’arte materialistica priva di scopo. L’arte è figlia del suo tempo. Un’arte rifatta può riprodurre artisticamente soltanto ciò che già satura chiaramente l’atmosfera presente. Quest’arte è un’arte evirata. E’ di breve durata e muore moralmente nell’istante in cui si modifica l’atmosfera che l’aveva prodotta». 31 La coscienza infelice dell’usura a cui l’oggetto artistico è sottoposto e dell’assenza di scopi non materialisti nella produzione estetica, induce Kandinskij a contrapporre, alla chiusa circolarità di una creazione che riproduce se stessa, l’arte spirituale ovvero i valori interiori che si rivelano come forza evocatrice. Dal materialismo allo spiritualismo e dalla ragione all’irrazionalismo: “La vita spirituale, a cui appartiene anche l’arte, è un moto ascendente e progrediente, ma determinato e suscettibile di esser ridotto a unità. Questo moto è quello della conoscenza. Può assumere varie forme, ma in fondo mantiene sempre il medesimo significato interiore, il medesimo fine”. Mentre la forma materiale del compenso (cioè il valore in denaro) chiude nella logica sterile del commercio il significato dell’oggetto estetico, la forma spirituale dell’interiorità determina la produttività di tutto il ciclo del fenomeno artistico e ne instaura la struttura aperta. Se lo spettatore si allontana dall’artista, sarà necessario far comprendere e cioè educare lo spettatore dal punto di vista dell’artista. Quindi non è più bastevole, per un’arte che voglia essere produttiva nel futuro creare semplicemente. L’artista dovrà modificare la qualità del proprio lavoro intellettuale: gli elementi necessari alla creazione dovranno essere messi in rapporto dialettico e dinamico con fattori estranei all’oggetto estetico in se stesso, ma necessari invece alla sua affermazione sociale. L’artista sviluppa una teoria dell’arte che va ben oltre i limiti della sua produzione individuale. L’artista deve creare il mercato per gli oggetti della sua produzione: si tratta di quella prima fase dello sviluppo contemporaneo delle forme estetiche, in cui ideologia del pubblico, o già ideologia del mercato, vengono distinte dalla creazione. Si tratta della maturazione dell’artista verso il ruolo di imprenditore. La produzione di beni spirituali trova negli strati di pubblico il modo di esprimersi secondo forme dinamiche, di cui il genio stabilisce i tempi d’espansione. L’immagine della cultura viene finalmente identificata con l’immagine del pubblico, e l’immagine non ha più i confini infiniti della totalità, ma le strutture assolutamente definite, anche se dinamiche, di una piramide in movimento. Lo sviluppo progressivo dei beni culturali dipende dal loro consumo ed esaurimento. Quel che conta è la novità incredibile della piramide, per quanto riguarda la circolazione reale dei valori nelle strutture sociali. Kandinskij si riferisce in questo caso alla filosofia negativa sin nel repertorio dei suoi moduli espressivi. La follia del veggente non basta più a garantire lo sviluppo della fruizione estetica. L’isolamento provvisorio, anche se doloroso, si rivela il vero elemento propulsore del progresso. Ma l’isolamento abbisogna di una tecnica, anche se il problema è proprio quello di scoprire una tecnica che sia essa stessa proiezione perfetta dell’interiorità medesima. Kandinskij, Franz Marc, Arnold Schonberg con Der Blaue Reiter, l’almanacco artistico-letterario pubblicato nel 1912, caratterizzarono il primo ventennio del secolo nella ricerca di quella tecnica. Partendo dalla consapevolezza che la società moderna usava criteri assolutamente diversi, essi operarono ad un’azione di convincimento progressivo che inizialmente non poteva essere altro che discriminazione tra vita dello spirito e sterilità del mondo. Scrive August Macke: «L’uomo esteriorizza la sua vita in forme. Ogni forma d’arte è estrinsecazione della sua vita interiore. L’esteriorità della forma d’arte è la sua interiorità. Ogni autentica forma d’arte sorge da un vivo e scambievole rapporto dell’uomo con il materiale concreto delle forme di natura». Ogni immagine, ogni espressione, ogni codice, ha perso il suo nesso originario con la vita, quale era possibile conservare nel lavoro creativo della civiltà artigianale. Scrive ancora Macke: «Dietro le iscrizioni, dietro i quadri, i templi, i duomi e le maschere, dietro le opere musicali, stanno le gioie, i dolori degli uomini e dei popoli. Dove manca questo sottofondo, dove le forme nascono vuote e sradicate, là manca anche l’arte». Modernismo e avanguardia si intrecciano. Si veda la funzione di William Morris che “agli inizi di questo processo, aveva opposto al prodotto dell’industria il lavoro 32 delle forme estetiche con la civiltà. Significa colmare lo spazio vuoto fra opera e sistema civile e fra creazione estetica e nazione. Centrale è l’ideologia del pubblico. Per poter assegnare uno stile alle discipline estetiche del sistema e per dare piena funzionalità alla creazione dell’artista, la via da percorrere è quella di negare i rapporti materialistici, inautentici, commercializzati dalla vita moderna. Tornano allora i concetti di interiorità e solitudine; il processo di valorizzazione della società moderna si compie attraverso lo stesso sistema di valori della borghesia giunto alla sua completa autocoscienza. Il rapporto fra interiorità e conoscenza può essere raggiunto nell’arte solo attraverso la negazione dei valori collettivi della società, dell’interesse generale delle masse, delle ideologie progressiste. La prima grande fase dell’ideologia del pubblico è la negazione assoluta del pubblico stesso. La conquista della massa risulta necessaria ed urgente proprio a chi ne rifiuta la logica. L’eredità del grande passato della cultura borghese è consumata: il problema è riuscire a sostituire ad essa un sistema di valori che ne riproduca la perfezione, mentre invece la massa appare interamente dedita ai surrogati di un passato che non le appartiene. Vi è un nodo ideologico fondamentale: la massa appare ormai come valore reale, come entità, su cui ancora va esercitato un controllo, ma che, in quanto tale, è entrata a far parte della punta più progredita dell’intellettualità borghese. Tuttavia, essa appare anche come il nemico da battere a breve termine. Ciò che viene ancora visto in forma negativa è il sistema di valori degradati, che essa rappresenta e tende ad imporre alla totalità del sistema. Le avanguardie tentano di restaurare la totalità, di attuare il mito borghese dell’assoluto della nuova società industriale; le poetiche dell’arte astratta saldano la creazione di un nuovo sistema di segni con l’ambizioso programma ideologico di tornare a dare all’intera società una dimensione estetica. I valori sostanziali dell’arte dipendono dalla necessità perenne di una legge spirituale e cioè ideologica. L’ideologia dell’assoluta moralità individuale è l’ideologia stessa dell’intellettuale borghese. All’origine dell’ideologia del pubblico permane la concezione taumaturgica dell’artista. Il genio si pone al di sopra della propria classe e all’esterno del sistema civile. Egli usa l’arte come rappresentazione formale del proprio progetto. L’arte allora deve tornare a possedere la sacralità del simbolo e tale sacralità può essere penetrata e compresa solo mantenendosi estranea alla massa. Prima del pieno realizzarsi del pubblico vi è la funzione delle élites e in tal modo il procedere dialettico ed evolutivo della storia è garantito. Il rapporto fra avanguardia e massa si istituisce come rapporto dialettico e la dissonanza fra spettatore e arte dimostra la dinamicità di tale rapporto. I contenuti ideologici delle élites borghesi sono l’uomo e l’arte: si richiede alla tradizione umanistica di essere ancora produttiva per la società industriale. Al ceto imprenditoriale del capitale si contrappone la figura del genio. All’arte materialistica si contrappone l’arte dello spirito e alla positività del rapporto fra bellezza e realtà dell’oggetto si sostituisce la negatività di una espressione estetica tormentata ed esasperata per la sofferenza del suo proprio disadattamento. L’espressionismo fu dominato da varie teorie dell’astrazione, ma certamente unitaria doveva risultare la violenza dei procedimenti espressivi: alla crescita dello sviluppo veniva data una risposta equivalente sul piano dello choc. L’individuo è alla base dell’espressionismo. Parti essenziali = metodi del linguaggio, il pubblico che intende formare e il rapporto che istituisce con la società e dunque con il mondo capitalistico della merce. La fabbrica intensifica i ritmi di lavoro, produce a sua volta la macchina: l’operaio paga con la sua esistenza giornaliera lo sviluppo scientifico e appare come schiavo della società. Lo choc è provocato più dalla mostruosità della macchina e del lavoro in fabbrica, che dalle caratteristiche della merce. Mentre il futurismo tentava di usare questo trauma sociale come forza direttamente attiva, l’ideologia espressionista tenta una soluzione delle contraddizioni tra capitale e lavoro. La forma specifica dell’espressionismo è il teatro. La teoria di un “teatro proletario” veniva criticata in quanto appariva il rovesciamento meccanico ed esteriore della prospettiva elitaria. 35 Al proletariato non si nega il merito di avere introdotto nella società un nuovo sistema di valori, ma il teatro come istituzione morale delle masse e come punta di diamante dell’arte ha il compito di saldare, nell’unità del popolo, operaio e borghese. L’espressionismo esaspera le sue forme, esalta il contenuto morale e sociale del materiale estetico sino a contorcersi nel disperato urlo della sofferenza umana. Gli strumenti dell’espressionismo cercano di tradursi in forme spettacolari. La scoperta e valorizzazione della sfera psichica è un dato fondamentale per ogni futura esperienza d’avanguardia, che conterà sul valore dello choc. Il livello psicanalitico funziona come elemento generalizzatore ed unificante dell’esperienza umana oltre ogni distinzione di classe. Dietro alla tematica del superamento dell’individuo e della creazione di un’autentica coscienza collettiva, si scopre l’ideologia socialdemocratica che vuole unificare capitale e lavoro.
 Con questo l’espressionismo pone storicamente in rilievo la determinante centralità sociale delle comunicazioni di massa. Il modulo costante del dramma espressionista stabilisce una dialettica particolare fra i fatti della scena e le passioni del pubblico: in un primo momento è l’individuo solo, alienato, sommerso dalla paura della macchina e della civiltà umana che diviene il soggetto dell’opera. L’oggetto estetico acquista una violenza attiva investendo in sé il singolo spettatore e costringendolo a ritrovare nella sua anima la stessa tragica consapevolezza della vita. Per il teorico espressionista il pubblico è composto da individui che possiedono come comune denominatore la sola qualità di uomini: il senso della solitudine e dell’angoscia appartiene alla sostanza umana eterna e primordiale dello spettatore e non alla sua particolare appartenenza al ruolo alienato di una classe sociale. Il bisogno della catarsi consolatoria si traduce in necessità di ricomporre una solidarietà umana totalizzante: il singolo entra a far parte del tutto, si sente organico alla massa del pubblico solo quando ha superato le contraddizioni del sistema sociale. Lo spettatore conquista la sua qualità di pubblico negando l’antagonismo di classe, negando dunque se stesso e le realtà della produzione per una ideologia umanitaria mistificante. Nello spettacolo espressionista si realizza il progetto di rendere produttivo il pubblico. Il progetto fallisce perché l’operazione si vale di strumenti che permangono ad un livello puramente ideologico. I due punti di fuga dell’avanguardia espressionista: -restringimento della tematica sociale nello spazio esistenziale; -funzionalità socialdemocratica tendente ad unificare vecchio e nuovo capitalismo attraverso il consenso della classe operaia e la cementazione della piccola borghesia. L’ideologia del pubblico come ideologia socialdemocratica non tocca il profondo della società, si ferma alla semplice scoperta delle modificazioni apparenti e resta legata ai vecchi rapporti di produzione. L’artista espressionista aveva portato al suo estremo limite le tensioni del romanticismo nel disperato tentativo di renderle attuali. I frantumi di questa operazione ideologica li ritroviamo nella molteplicità delle strutture tecniche dello spettacolo. Molti espedienti che tuttora operano alla massificazione del pubblico dipendono per via diretta dall’avanguardia espressionista; la tecnica della suspance, l’uso dello choc, la dipendenza fra stimolo formale, stimolo emozionale e stimolo ideologico, l’uso estetico ed ideologico della macchina. Il tratto distintivo di quest’uso dell’immagine e dello spettatore è l’ideologia: l’oggetto estetico e l’artista mantengono una loro autonomia, entrano progressivamente nella circolarità della merce. Due esempi, uno teatrale e uno cinematografico: Wedekind e Lang, pessimista uno e ottimista l’altro. Nella drammaturgia Wedekindiana infatti si consuma la lotta fra vita e non vita, sesso e repressione, arbitrio dell’istinto e ordinamento etico, senza alcuna possibilità di soluzione. Nel cinema di Lang si tende sempre alla soluzione fra assoluta negatività e assoluta positività. Esiste un grosso divario in campo semantico. Il cinematografo seppe ricavare tutto il possibile da Wedekind e dalla scoperta espressionista che la realtà è deformabile secondo una tecnica 36 derivata dalla sostanza psicofisica dello spettatore in quanto entità culturale. Contemporaneamente il linguaggio cinematografico andava selezionando temi e funzioni della letteratura e del teatro espressionisti in relazione alle enormi possibilità tecniche di deformazione dell’immagine e alla enorme massa di pubblico da emozionare. Il cinematografo espressionista si conquistò una sua specificità privilegiata. La tecnica filmica conservò a lungo le sue matrici culturali e le trasmise anche ad altri settori. Prima di Lang era stato scritto che: «L’essenza più intima del teatro - il dialogo, la parola, è interdetta al cinema. Ma proprio quelle possibilità costituiscono la caratteristica essenziale del cinema: natura animata, trucchi sorprendenti, scene fortemente movimentate. L’obiettivo che l’arte più nobile vorrebbe attingere è raggiunto dal cinema con mezzi rozzi e primitivi». Il giovane regista vorrà rendere ricco e complesso il suo linguaggio. Si legga Paul Kornfeld dopo le pagine di L’uomo ispirato e l’uomo psicologico, dove denuncia la mercificazione di tutti i valori spirituali: «Esiste però un’arte indipendente dall’oggi: il teatro. Nel suo duplice ruolo di arte a sé e di mediatore di un’altra arte, esso può scegliere a quale arte fare da portavoce. E’ la più suggestiva di tutte le arti, perché agisce su tutti i sensi, tradotta in viva corporeità è la più protesa, quasi il volto stesso dell’arte che gli uomini possono guardare faccia a faccia». Lang aspirava a fare del cinema un mezzo di riproduzione, non sceglierà un codice espressivo tutto espressionista: tenterà una soluzione eclettica che esalti la funzione sociale e spirituale dell’espressionismo, ma usi veicoli linguistici più liberi. Le possibilità mediatrici dello spettacolo nascevano dall’intreccio di elementi espressionisti con elementi naturalisti. La struttura emozionale dell’opera asserviva totalmente i vari strumenti linguistici: la regia consisteva non soltanto nella guida dell’equipe ma anche nella selezione di vari livelli estetici e diverse poetiche. Tuttavia l’eccedenza estetica rendeva ancora insicuro il livello tecnico della riuscita spettacolare. Il momento culminante di questa ambiguità tra stile artistico e spettacolare è rappresentato da Metropolis (1925). Lo strumento filmico rivelava la tendenza a cancellare i confini temporali e dunque a sostituire lo schema delle saghe medievali con la fantascienza. Le stesse incarnazioni simboliche degli eroi nibelungici come archetipi dell’eterna competizione tra gli opposti valori della storia e dell’individuo, vengono utilizzate per incarnare la parabola evolutiva del capitalismo. La città futura appare divisa fra sfruttatori e sfruttati: l’unico organo vitale è costituito dal giardino felice di Joshiwara. La ricomposizione di questa frattura storica costituisce la trama del film: i diversi linguaggi espressivi costituiscono un modello dialettico su cui lo spettatore deve proiettarsi. Lang sente il bisogno di costruire nel montaggio del film una drammaticità che scavalca la bellezza delle singole parti. La componente romanzesca e avventurosa percorre il film spesso addirittura contrastando con la ieraticità di alcune situazioni. Lang dovrà presto comprendere la logica dello spettacolo come progressiva liberazione dai meccanismi specifici dell’arte, potrà allora rinunciare definitivamente all’immagine come mediazione e ampliamento delle arti figurative o sceniche e sceglierà invece l’immagine come mediazione e ampliamento di alcuni schemi di sviluppo sociale. In questa seconda fase Lang riduce il linguaggio espressivo a strumento di suggestione integrato allo schema sociale. Dietro all’esperienza langhiana vi è una ben più vasta esperienza europea sulle ragioni e i modi della standardizzazione. Si pose il problema di conciliare l’ornamento della macchina, la consacrazione della creatività individuale dalla funzionalità. La standardizzazione aprì un conflitto continuo con l’ornamento, se ritenuto un residuo di bisogni estetici non necessari al campo prescelto. Il cinema dopo essersi a lungo fondato sulla funzione liberatrice dell’ornamento, ebbe bisogno di ricorrere alla sua più intima e meccanica natura. L’ornamento venne confinato nella pausa eccentrica, se non soltanto nella figura dell’assassino. 37 essere superati saltando delle grandi capacità dell’ideologia socialista nel crearsi il consenso delle masse. L’ideologia accresceva le sue capacità, attraverso la disgregazione della grande cultura e l’estendersi della cultura popolare e democratica. Momento estremamente significativo = il passaggio di Dada al surrealismo. Dalla negazione all’impegno. Il dadaismo nella sua fase più alta aveva rifiutato di aderire a qualsiasi ideologia. Alcuni dadaisti avevano raggiunto a tratti l’indifferenza totale per ogni valore e avevano rappresentato essi stessi l’impossibilità di intervento dell’arte nella vita. Ben presto rinasce il bisogno di un sistema di valori etici e sociali, che presiedano all’operare artistico: Breton prevale su Picabia. Nel numero 5 de La révolution surréaliste del 1925 si legge: «Noi vogliamo proclamare il nostro più assoluto allontanamento dalle idee che sono alla base della civiltà europea ancora viva e contemporaneamente il rifiuto di ogni civiltà basata sugli intollerabili principi della necessità e del dovere. Si tratta della nostra speranza nelle forze nuove, capaci di sconvolgere la storia, di spezzare la ridicola catena dei fatti che ci fa volgere lo sguardo verso l’Asia. Noi siamo la rivoluzione dello spirito, noi non siamo degli utopisti: questa rivoluzione noi la concepiamo solo sotto l’aspetto sociale, non dimentichiamo che l’idea della rivoluzione è la migliore e più efficace salvaguardia dell’individuo». Poesia, pittura e spettacolo surrealista furono il primo livello di diffusione degli archetipi negativi. Il surrealismo nacque dalle ceneri di Dada: la ricerca dell’inconscio, l’esasperazione di una lettura fantastica della vita, tornano a coprire il carattere specifico della merce, creando ancora un mito collettivo della libertà dell’individuo. La poetica surrealista sviluppa in senso sociale il gesto dadaista. Ciò che per il dadaista era scandalo per il surrealista diviene imperativo morale: avvicinarsi lentamente e senza sbalzi all’intelletto operaio. L’avanguardia illuminata della rivoluzione, non ancora annientata dal realismo socialista di Stalin, si unisce all’avanguardia illuminata della borghesia: Trotzkij a Breton. Lo spettacolo surrealista usa ogni ritrovato della tecnica per dare immagine e suono al fantastico, per sottoporre lo spettatore ad una serie di suggestioni consce e inconsce, per macerarne nascisticamente la qualità di individuo. La merce viene trasfigurata nel sogno onirico, nell’incubo; ad essa si contrappone la sola realtà del profondo io - definito come entità originariamente estranea alla mercificazione capitalista. Nel momento in cui all’oggetto estetico viene assegnato un valore produttivo e lo si inserisce nella dinamica sociale, la merce torna, come antitesi di se stessa, arricchita di qualità e di attributi, estremamente ambigua quanto affascinante, a costituirsi come valore. La rivoluzione perpetua dei surrealisti di traduce nel vasto programma di trasfigurazione poetica e ideologica della realtà secondo uno schema progressivo, ancora troppo astratto e culturale per poter realizzarsi, ma storicamente necessario al trasferimento dei contenuti e delle tecniche dell’avanguardia nelle forme attuali dello spettacolo. Arte, tecnica e impegno tendono a svolgere lo stesso ruolo. 40 13. L’EPOCA DELLA TECNICA L’epoca della tecnica doveva apportare le modificazioni più sensibili alle vecchie istituzioni, ma doveva anche rivelare la straordinaria capacità rigenerante della borghesia nel dominare e controllare ogni suo strumento. La capacità di non partorire figli al patricidio è rintracciabile nel pensiero di chi ha voluto essere osservatore e critico: chi assistendo al continuo e minaccioso mutar pelle della società, ha voluto cogliere gli elementi salienti, intendendo ora denunciare un momento, ora invece il permanere di un valore o di un diritto. Per un certo settore culturale la tecnica veniva a muover le acque dell’arte: la sostanza del mutamento veniva compresa nella disponibilità ad una completa integrazione delle funzioni del sistema. Tipico atteggiamento di tale cultura si trova es. in un libro L’arte e la civiltà moderna di Pierre Francastel, dove l’analisi muove dichiaratamente nell’intento di dimostrare che l’arte è una delle funzioni permanenti dell’uomo: con queste premesse l’arte e la tecnica non vengono viste come antagoniste, bensì la seconda viene a costituire un valido aiuto alla prima. Con la caduta di certi pregiudizi artistici, l’arte raggiunge dunque una sua più alta coerenza. Con la conquista di un nuovo spazio acquista un nuovo fascino e mantiene un antico diritto. «La tecnica non crea i valori d’una società, ma li serve e li materializza. Nel mondo moderno sono forze di violenza e forze di relazione e d’organizzazione che si affrontano. E una tradizione artistica che riposa sulla selettività e sul montaggio delle sensazioni si oppone ad una determinata tecnica al servizio dei violenti, che vogliono un effetto immediato, limitato naturalmente alle momentanee capacità dell’azione» (Francastel). Ogni volta che si fa ritorno ad una concezione ideologica o ad una posizione interna alla cultura, il discorso, anche se apparentemente lontano da quello dello studioso francese, non può alla lunga nascondere una sostanziale affinità. Se il libro di Francastel risulta indicativo di un atteggiamento costante tanto dalla parte borghese- illuminata quanto di quella progressista-socialista, una personalità del tipo di Walter Benjamin può occupare l’altra sponda, il limite antitetico. Al nascere del cinema sorse il problema di quali valori assegnare a questo nuovo meccanismo, tanto potente da necessitare un’immediata istituzionalizzazione. «E’ sempre difficile liberarsi dalla confusione dei concetti: ai nostri giorni è nato qualcosa di nuovo e di bello, ed invece di coglierlo nel suo peculiare modo di essere, si fa di tutto per comprenderlo con l’ausilio di vecchie e inadeguate categorie, sottraendogli così il suo significato ed il suo valore autentico». (Lukàcs) L’interpretazione è caratteristica del primissimo Lukàcs. Nei saggi del 1911 al proposito di superare le forme del bello letterario, corrispondeva l’intenzione di cogliere in una forma di superiore bellezza la manifestazione totale dell’esistenza: il saggio doveva essere l’esposizione suggestiva di una forma dell’esistenza; in essa ogni elemento poetico culturale ed ideologico finiva per trovare la sua collocazione. Attraverso un’operazione non letteraria, si giungeva al vasto schema di una realtà superiore di cui l’artista preso in esame finiva per essere la vittima. Lukàcs vuole trovare al cinema la sua forma bella: la forma caratteristica che lo possa rendere valore. E’ significativa la distinzione tra le prerogative del teatro e quelle del cinema: «La parola parlata è veicolo del destino, soltanto in essa e attraverso essa si realizza la coerente continuità psicologica degli uomini drammatici. Con il venir meno della parola, tutto si risolve in volubile frivolezza di danza. Nel teatro il valore di destino di un evento è tanto decisivo che l’evento, di per se stesso, non è mai importante; nel cinema è il come degli eventi ad ottenere la massima pregnanza». L’intenzione di circoscrivere ad un determinato campo d’azione le possibilità del mezzo filmico è un atteggiamento comune ai primi del Novecento. Lukàcs rivela il punto focale: la tragedia è per lui il sacrario del destino umano, nel dramma si ricompone tutto ciò che riguarda l’uomo e la sua anima. Concezione aristocratica del dramma: teatro = per vivere i nostri attimi sublimi; cinema = diventare irresponsabili. Egli non intendeva trascurare le possibilità 41 del mezzo cinematografico. In lui operava la convinzione che l’esistenza totale di un genio potesse fornire valori trasferibili, riportando all’uomo il potere prima assegnato all’opera, ma ritrovando nel dramma dell’esistenza un’idea più completa. Lukàcs cercava una sistemazione del caos che andasse al di là di una semplice ricostruzione attraverso le forme: la sua insistenza sull’anima come concetto inerente ad una manifestazione completa dell’uomo dimostra chiaramente il carattere delle sue intenzioni. Questa fiducia nella capacità riordinatrice del genio artistico ci può spiegare il Lukàcs più tardo, diverso e lontano dalle pagine dell’Anima e le forme: «Per sua stessa essenza lo spettacolo cinematografico ha carattere ricreativo, del divertimento più sottile e raffinato o grossolano e primitivo; esso non soddisfa fini di edificazione o di elevazione spirituale». Vi è l’ammissione esplicita della mancanza del cinema di quella trasmissione di valori. Lukàcs concede al cinema la possibilità di rendere poetica la macchina, ma ciò non risolve una questione: dal momento che il concetto di cultura cui Lukàcs si attiene ha superato il culto dell’aura poetica, trasferendo i valori a una sfera superiore, viene spontaneo raffrontare la questione lukacsiana di divertimento con quella di Brecht. Lukàcs nel raffronto fra teatro e cinema non vede una distinzione di pubblico; Brecht vede nel divertimento la possibilità di un aggancio strategico del pubblico di massa. La sua estetica teatrale finiva per essere un anti-cinema nell’enunciato delle sue posizioni, ma veniva anche a costituire la proposta di un cinema per le masse tale da emettere un messaggio fruibile al vasto pubblico e propagandare un credo ideologico e realizzare una battaglia delle idee. Il raffronto distingue nettamente il senso e il valore di un Lukàcs ancora estraneo a tutto il clima culturale della civiltà di massa e quello di un Lukàcs che ruoterà intorno al binomio arte e socialismo. Resta il fatto che tutti sentiranno più o meno consapevolmente il peso della civiltà di massa e la loro possibilità di scampo sarà inversamente proporzionale all’intenzione di voler operare attraverso gli strumenti che questa società andava offrendo. L’impegno di questi in senso marxista veniva inevitabilmente marcato dagli eventi storici: il nazismo e il fascismo dovevano necessariamente portare un revival ideologico anche laddove l’ideologia aveva iniziato da tempo un suo processo di autodistruzione. Per Gramsci il discorso rientra nell’ambito più stretto della cultura italiana: i termini della questione si schematizzano fino all’osso, scoprendo d’altro canto il meccanismo del rapporto cultura- società. Il peso della tradizione artistica come depositaria di valori, una volta che tali energie vengono sottratte all’intervento diretto del capitalismo appare in Gramsci quando, praticando anche lui una profonda frattura tra teatro e cinema, fa di questa distinzione una questione di qualità e non più di categorie estetiche. Gramsci non riesce a cogliere nella sua complessità il fenomeno cinematografico. Il suo pensiero resta legato alle vecchie forme del fare artistico. Nel 1916 scrive: «Si dice che il cinematografo sta ammazzando il teatro. Si dice che a Torino le imprese teatrali hanno tenuti chiusi i loro locali nel periodo estivo perché il pubblico diserta il teatro, per addensarsi nei cinematografi». E’ il periodo in cui Gramsci fa anche il critico teatrale sulle pagine dell’Avanti; i tempi in cui avrebbe preso in esame con più lucidità e attenzione le forme dell’arte popolare. Per quanto riguarda il cinema Gramsci dimostra un’ottica più corta di quella che in più punti rivelò per il romanzo d’appendice. Nel 1916 egli è ancora un intellettuale che ama la grande arte del teatro, di cui traccia il confine rispetto alla spettacolarità triviale. Tuttavia si rende perfettamente conto di quanto il cinematografo sia superiore al teatro commercializzato. «Prendersela con il cinematografo è semplicemente buffo. Quelli che credono veramente a una funzione artistica del teatro, dovrebbero invece essere lieti di questa concorrenza. Perché essa serve a far precipitare le cose, a ricondurre il teatro al suo vero carattere». Rispetto alla vuota e inoperante letteratura, vengono considerate estranee sia le forme auliche dell’arte sia i modi fondamentali del divertimento. Se si confronta questa individuazione dello spettacolo filmico come 42 della costruttività tanto tesa e sottolineata da mostrare questi continuamente affaccendati all’organizzazione di un modulo di vita. Anche soltanto nel piccolo mondo di una comunità contadina, Benjamin si sente portato ad un’interpretazione che ribalti il dramma nell’ambito della tragedia. Così facendo trova il suo limite nel dare la cultura in conflitto con se stessa, come oggetto e non come mezzo della sua ricerca. Giunge a scoprire il senso più profondo del destino ma, contemporaneamente, si arresta là dove il discorso dovrebbe cominciare. Giunto all’elemento assurdo della cultura, analizza culturalmente il meccanismo essenziale che presiede Le affinità elettive: il contrasto drammatico tra un ordine di cose razionali e l’esigenza di rompere quest’ordine. Il contrasto cioè tra il sistema sociale e la libertà che questo stesso suggerisce ma non consente: il lavoro come inserimento in una possibilità razionale di vita, l’amore come ribellione, la morte come termine della lotta e segno della sconfitta subita. Edoardo e Ottilia rappresentano un tentativo mancato confermano il sistema stesso che li opprime: «La solitudine non costituisce un rifugio. Il più prezioso rifugio è da cercare là dove possiamo essere operosi. Ma se in ozio devo servire di spettacolo, questo allora mi riesce odioso e mi affligge». L’errore può servire d’insegnamento. Se è vero, come dice Benjamin che «il personaggio fantastico è sempre troppo ricco e troppo povero per sottostare ad un giudizio morale». E’ Benjamin stesso che coglie quel che per noi è il punto focale delle Affinità e concezione tipica del mondo goethiano: essi soccombono alle forze che essa pretende di aver dominato, anche se si rivela poi sempre impotente a reprimerle. La rinuncia a penetrare l’arte come istituzione di valori costa molto più che la consapevolezza della fine del suo mistero, quanto più essa viene liberata dalla sua aura, tanto più estende i suoi confini oltre il limite del tempio estetico. Man mano che il misticismo cede il passo ad un razionalismo lucidamente intellettuale l’arte viene sempre meno considerata come categoria dell’esasperazione estetica, del godimento spirituale, della libertà delle forme per trovare invece i suoi schemi nell’ambito della grande società. Tipico di questo fenomeno è il nucleo centrale dell’estetica di Galvano della Volpe utile per l’affinità che egli mostra con parte del pensiero di Benjamin: l’aspetto più vitale del pensiero dellavolpiano discende in linea diretta dalla critica dell’aura condotta dal critico tedesco. Nell’ambito della cultura italiana risulta di gran peso un saggio come Crisi dell’estetica romantica che consente di comprendere l’attenzione del filosofo per il cinema. Egli esemplifica in maniera evidente la fine del mito romantico del poeta, nella distruzione della creazione soggettiva, a vantaggio dell’opera frutto di una collaborazione collettiva. L’operazione critica si dirige verso un’azione intellettuale di ricostruzione: al misticismo dell’arte si sostituisce una sorta di razionalismo dell’arte. Dietro alla teoria della polisemia si nasconde il recupero di ogni elemento della tradizione, con il vantaggio di non limitare l’arte ad una sfera fascinosa ed aristocratica, ma potenziarne le prerogative facendola divenire uno dei linguaggi della cultura e negando la sua ambiguità in nome della razionalità necessaria ad ogni concetto. Attraverso delle tipiche astrazioni filosofiche Galvano della Volpe ricostruisce un concetto più saldo di arte, liberandola dal suo mito romantico, la rende più adatta al nuovo corso delle cose. Ne consegue una teoria estetica che è pronta ad accettare ogni più sperimentato luogo comune poetico, a patto che esso venga sottratto della veste mistificante delle aberrazioni estetiche romantiche. Il cinema, negando in partenza, la creazione individuale, raggiunge la sua specificità artistica, quando l’uso dei suoi mezzi tecnici sa rappresentare il suo contenuto razionale. Non importa più al filosofo che la resa filmica avvenga sulla linea tradizionale del prestigio delle forme. L’importante è aver mantenuto e rinnovato i valori dello spirito, attraverso l’assegnazione di ideologia e bellezza. Giustificare razionalmente l’assurdo dell’alienazione umana è il paradosso della ragione stessa: il sentimento estetico trova le sue più fascinose esasperazioni ma scopre anche la sua più squallida inutilità. Per Benjamin il discorso è sempre più difficile data l’estrema ricchezza delle sue oscillazioni, anche a lui sfugge l’elemento essenziale del sorgere di una nuova 45 arte: la morte di un mito, la cui scadenza è voluta dal sistema stesso, a vantaggio di una nuova tecnica capace di saldare al punto giusto ogni frattura. Quando Benjamin analizza le caratteristiche fondamentali dell’attore cinematografico, dimentica che la teoria estetica che se ne può trarre è vicina a quanto Diderot aveva sostenuto nel suo Paradosso sull’attore e non considera che lo scadere di certe tecniche non significa la negazione del mondo passato, ma soltanto l’estendersi di alcune concezioni tipiche del sistema sociale. Se l’attore con il cinema perde alcune prerogative del suo mito, ciò non significa che il senso e la ragione della sua mitologia si siano estinti, ma che il mito per sopravvivere ha bisogno di nuove prerogative: la concessione o la perdita vengono compensate dall’estensibilità del mito stesso. Alla base de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica vi è una fiducia particolare nel connubio fra tecnica della riproduzione e massa: «La massa è una matrice dalla quale esce rinato oggi ogni comportamento abituale nei confronti delle opere d’arte». La massa avrebbe nel suo interno l’energia per ribaltare posizioni tradizionali create a suo svantaggio = visione utopica dove Benjamin stabilisce la discriminante dei valori positivi e dei valori negativi in base all’enunciato politico del progressismo: «La riproducibilità tecnica dell’opera d’arte modifica il rapporto delle masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo si rovescia in un rapporto estremamente progressivo». Benjamin non verrà mai a contatto con la società americana dove la tecnica, la massa, la fine dell’unicità del prodotto dovevano acquistare un loro ben preciso significato se permettevano ad Horkheimer e Adorno di fissare nell’industria culturale l’illuminismo come mistificazione di massa. In Benjamin è sempre presente la convinzione di fondo che la possibilità di mobilitare e manovrare le masse è un dato costante dell’epoca e che si tratta di vedere chi le manovra. Una sorta di ottimismo che ha radici in due opposte convinzioni: 1. di carattere culturale, dove il mezzo filmico gli suggerisce un arricchimento dell’istituzione nella sua forma intellettuale; 2. di carattere ideologico-politico, si evidenzia nel fascino del documento fotografico, della certezza della realtà filmata. Il cinema diviene per Benjamin qualcosa di vicino alla lotta a favore del comunismo, il suo ottimismo si concretizza nel disegno di una politica culturale. Nel cinema sarebbe innata una sostanza rivoluzionaria, egli cerca di conferire al corso storico della fotografia il senso di una progressiva liberazione dal peso della tradizione. La funzionalità del mezzo cinematografico, quella sua predisposizione alla scienza, inducono il filosofo di Berlino a scorgere una catarsi cinematografica del fenomeno estetico: «Nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’arte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla poltica». Questo perché la tecnica della riproduzione sottrae il prodotto all’ambito della tradizione. Dieci anni dopo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, sarà interamente evidente la natura del meccanismo cinematografico e che la razionalità tecnica è la razionalità del potere. La sostanza del prodotto non dipende dal contenuto che è necessario per la conquista del pubblico stesso. Il conoscitore di tale prodotto pubblicizza con essa la sostanza del meccanismo sociale. Nuovi volti, nuove formule psicologiche, nuovi apporti letterari danno al film il suo prestigio e allo spettatore illuso di una ricerca di realtà, un mondo creato, quale il sistema lo vuole. Cerchiamo di vedere la storia dell’altra faccia del suo sviluppo. Cerchiamo di rileggere Lukàcs, Adorno e Benjamin dalla parte della produzione, dentro la crescita oggettiva dell’immagine, con la logica del sistema. Mentre Lukàcs e Adorno congelano il mercato culturale, Benjamin evidenzia i margini dialettici che l’oggettività della condizione estetica e del mondo delle merci offre allo sviluppo. L’utopia progressiva benjaminiana supera l’utopia regressiva adorniana e a sua volta è superata e integrata dal procedere della tecnica. L’utopia di Benjamin è parzialmente politica perché solo 46 parzialmente poteva offrire di fatto al proletariato l’oggettività scoperta, il meccanismo dello sviluppo, il potere dell’informazione. Assumendo il proletariato come forza dialettica, negatrice del progresso borghese, il filosofo faceva della teologia per quanto riguarda il progresso nella sua totalità storica. Cogliendo il punto oggettivo di innesto tra proletariato e tecnica, tra massa e riproducibilità dell’opera d’arte, tra lavoro e creatività collettiva, Benjamin riusciva a possedere tutta la produttività ancora operante dell’ideologia e dell’arte. E’ questione di saper distinguere tra storia e teoria, tra anticipazione e analisi. Benjamin tende a spingere ideologicamente la massa al dominio sulla cultura. Se è vero che lo schema politico di Benjamin è inadeguato alla tecnologia, è altrettanto vero che è proprio l’ideologia benjaminiana a garantire alla tecnologia il suo sviluppo e contemporaneamente a garantire la presenza del proletariato come forza attiva e partecipe. Indicazione benjaminiana per l’egemonia e non per la subordinazione. Il discorso non esplicita il destino dei valori tecnologici e produttivi come integrazione totale. Il proletariato dentro allo sviluppo, ne tiene fuori l’intellettuale in quanto coscienza. In quanto intellettuale, Benjamin proietta su se stesso nel proletariato la sua scoperta dello sviluppo nella tecnica. Significativo il suo rapporto con Brecht. «Il teatro epico si rivolge a persone cointeressate le quali non pensano senza una ragione. Brecht non perde di vista le masse, il cui uso condizionato del pensiero probabilmente corrisponde a questa formula». L’egemonia brechtiana è affidata alla spontaneità creatrice del pubblico-massa, ma contemporaneamente, Benjamin non è così ingenuo da credere Brecht personalmente egemone. Egli considera dinamica la politica culturale del drammaturgo tedesco, vista internamente al proletariato. I nuovi modi di interpretazione della realtà e i nuovi modi di percepire il prodotto estetico per quanto riguarda il pubblico vengono rinnovati dalla tecnica. Una competizione egemonica esiste tra borghesia e proletariato sul terreno della tecnica. La prospettiva benjaminiana è da preferire. Legare fermamente la rivincita della classe operaia all’oggettività della merce è il modo più concreto per un intellettuale di far politica. Resta irrisolto il ruolo che l’intellettuale deve svolgere nel nuovo contesto creato dalla tecnologia. Mentre per il proletariato non si può parlare di un dover essere nel processo economico, ma solo di un poter essere finalmente come potere su tutto il ciclo sociale, per l’intellettuale è ancora necessario parlare di un suo dover essere nel processo economico. Benjamin concede all’intellettuale soltanto il ruolo di creatore. La creatività individuale si oppone alla produttività collettiva nel senso che cerca di organizzare lo spazio sociale fra produzione e consumo, accettando l’idea che l’intelligenza di massa si sia accresciuta con il crescere della merce. Così l’intellettuale si mantiene ai margini della merce, tentando di caratterizzare il consumo, perde la capacità di cogliere il nuovo linguaggio delle merci, la vera dimensione del commercio. Legato ai vecchi confini psicologici tra prodotto e suo acquisto, non coglie cioè la dimensione reale della merce dentro e fuori dall’individuo alienato. Crea allora un valore che pretende di circolare in forma autonoma o almeno dialettica rispetto ai canali stabiliti dalla produzione. Spera di creare un prodotto che abbia solo una faccia della merce e non l’altra, quella produttiva. L’intellettuale benjaminiano ha scoperto l’illusione del collezionista, quella per cui esso va oltre gli oggetti raccolti, si protende nell’infinito e spera di giungere alla propria assolutezza e alla soppressione della propria morte. 
 Parlando di Eduard Fuchs il filosofo aveva riportato nella coscienza collettiva lo spirito del collezionista. Benjamin manteneva a se stesso un largo margine di autonomia e restringeva ad una parzialità irreale la totalità del ciclo produttivo, laddove la merce occupava già ogni momento di quelle infinite correlazioni sociali. Conservando il linguaggio astratto della creazione perdeva la possibilità di intendere e possedere il linguaggio della merce. Egli si fermò all’utopia dell’estetica. Sul piano della prassi intellettuale significò funzionare da incremento collettivo per la collettività, poiché l’intellettuale offriva anche se stesso all’universo delle merci, ma anche la rinuncia consapevole a far parte organica dello sviluppo. Lo smarrimento 47 europeo aveva molto da insegnare. Certi ambienti intellettuali volevano per l’Urss un’arte nuova, comunista, anti-borghese. Se era difficile creare un’anti-arte, poteva tuttavia essere più facile rappresentare, attraverso l’arte, il senso di una lotta e la gioia di una vittoria. La corazzata Potiomkin non poteva non essere epopea. Ejzenštejn seppe far coincidere un grosso e geniale bagaglio culturale con la perfetta conoscenza di quanto il mezzo poteva dargli. Riprodusse quanto era avvenuto in Germania con l’espressionismo. La cultura tedesca si era impossessata del mezzo filmico, lo aveva trovato adatto alle richieste ideologiche e alle premesse estetiche dell’espressionismo. La società dava modo allo spettatore di ammirare sullo schermo i suoi stessi prodotti. Si trattava dello spettacolo più suggestivo possibile: in Urss la cultura della rivoluzione cercava la sua epopea nel cinema vedendo in esso l’arte tipica del proletariato. Il lavoro di Ejzenštejn era intellettuale. Conosceva le leggi del contrasto emozionale, la sentimentologia delle espressioni, le possibilità della metafora, il ritmo della narrazione epica. Sentiva anche i temi più generali della cultura del tempo quali il mito della macchina e del nuovo uomo. Aveva vissuto il comunismo, lo possedeva come oggetto e lo poteva immettere nello schema dell’arte. Il film parlava comunista con la voce dell’arte. I burocrati non lo capirono perché per loro l’arte rendeva oscuro l’enunciato o limitava il messaggio. Nella civiltà occidentale ebbe successo: piaceva agli esteti e a chi nella rivoluzione vedeva la salvezza sua e della propria società. Oggettivamente ne La corazzata Potiomkin, attraverso l’ideologia, l’uomo della rivoluzione fu spettatore di un dramma che otteneva la sua drammaticità sfruttando e imponendo il vasto mondo dell’esperienza estetica: l’epopea del comunismo, attraverso l’epopea di una società che non era quella della rivoluzione. Ne risultò un’opera densa di pathos, le sequenze venivano organizzate secondo un ritmo crescente di tragedia. L’individuo è uno dei tanti, lui solo, con il suo volto potentemente espressivo. La resa estetica estetica trova le sue punte massime quando un montaggio digitale e rigoroso esaurisce la sua funzione nell’esperta costruzione di una situazione dei momenti di attesa, sia quando un violento uso fotografico, l’evidenziamento di un particolare tendono la componente sentimentale sino a farla coincidere con l’esasperata astrazione della sofferenza terrena. I momenti culminanti del film sono anche quelli capaci di emozionare pubblici diversi a patto che questi abbiano una base culturale artistica di radice borghese. Eizenštejn finirà per contrastare con le direttive della società che gli commisisona il lavoro. La sostanza dei valori etici ed artistici, che avevano animato La corazzata Potiomkin, spingono il regista a vedere nel cinema le possibilità dell’arte nelle sue forme più evolute: la possibilità di dare un’interpretazione alla vita, di rendere il linguaggio estetico della nuova società. Non più il film del passato glorioso o del presente proletario, ma il film che assurga a summa di valori astorici, etici, politici, morali. Risorge il mito. Poi il concetto del destino. Ejzenštejn vuole creare la tragedia cinematografica. Egli contraddice Lukàcs, ma riproducendo le forme di un’arte già completamente vissuta, offre in uno spettacolo i resti della grande tragedia. 50 15. LO SPETTACOLO E L’INFORMAZIONE Fra avanguardia e tradizione, fra negazione e progresso, fra individuo e massa, si stabilisce una circolarità sempre più ampia regolata dalla circolazione della merce, dall’aumento del potere di acquisto, dal moltiplicarsi dell’organizzazione del mercato dentro alla politica del capitale. Tutto lo spazio che divide il patrimonio estetico dell’individuo alto-borghese dall’esistenza fangosa dell’individuo massificato si scopre e rivela come un immenso campo di vendita. Esiste già un’estensione quantitativa del discorso, una dialettica motoria che sposta la tematica del rifiuto dal chiuso ambito dell’individuo aristocratico ad un primo ben determinato settore della società. Dall’ideologia del pubblico come modello utopico di una nazione perfetta, si passa a scoprire una realtà concreta e capitalistica della massa. L’individuo spettatore assume dentro di sé quanto alcune forme avanzate dello spettacolo gli impongono come qualcosa di altro dalla vita reale, e per ciò esso entra in contraddizione con la propria qualità di individuo sociale, con le forme spettacolari della tradizione e con la passività dell’individuo- massa. Ricchezza dello spettatore di avanguardia = il massimo della drammaticità: coscienza dell’alienazione contrapposta alla felicità delle masse; senso angoscioso della solitudine contrapposto al variopinto mondo della merce; caduta di ogni possibile linguaggio e comunicazione, contrapposta al consumo del sesso. Vi è il bisogno di appartenere ad una realtà diversa e bisogno immediato di uscire dal proprio isolamento. Il rifiuto si traduce allora nella necessità di una dimensione collettiva. A questo punto però dentro alla classe l’individuo scopre ancora la propria alienazione e torna all’isolamento dell’io. Questa estrema sofferenza dell’individuo spettatore si contrappone alla passività della grande massa che accetta ed acquista nel gran mercato della merce ogni prodotto. L’enorme produttività che si sprigiona dal tormentato rapporto fra io e società, io e storia, io e immagine, si contrappone alla improduttività dello spettacolo di massa, in cui la merce è sfruttata alla superficie, e l’acquirente è organicamente limitato nel suo potere di acquisto. Il carattere dello spettatore d’avanguardia si è sempre esteso in una prospettiva di massa. Le forme attuali dello spettacolo contengono lo stesso strabiliante sincretismo culturale e ideologico che possedeva l’avanguardia. Avanguardia e massa, il loro rapporto produttivo, costituiscono l’intera dimensione dello spettacolo. L’idea socialdemocratica del pubblico entra a far parte della rappresentazione estetica come merce. É importante non abbandonare questa realtà dello spettacolo come merce, che funziona a rendere produttivo il tempo libero, che ha riportato il suo passato estetico, le sue tensioni ideologiche, la sua creazione di consenso e partecipazione, all’unico carattere della merce che si fa coefficiente dell’alienazione attraverso l’ideologia. Il capitale usa l’ideologia come merce da vendere dove ancora c’è chi ha bisogno di comprarla. Così lo spettacolo mondiale usa l’ideologia solo laddove il pubblico richiede ancora una motivazione ideologica dell’immagine spettacolare e un risultato politico alla fruizione. Chi paga lo spettacolo paga la sua propria alienazione e inevitabilmente conferma la sua appartenenza al sistema di produzione. Il concetto di piena identità tra creazione e produzione è già tutto nel cervello di Marx quando scrive i Grundrisse: «La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale (...). L’oggetto artistico crea un pubblico sensibile all’arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto. La produzione produce quindi il consumo: 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo di consumo; 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente creato come oggetti. Torniamo all’esempio delle grandi esposizioni universali. Da metà Ottocento sino ai primissimi decenni del Novecento la fantasmagoria della merce viene collocata in una dimensione spettacolare. L’imprenditore ha ancora bisogno di costruire un sistema di informazione artificiale in un determinato e circoscritto ambiente. 51 L’operazione gli riesce perché la massa, la merce e i messaggi estetici, etici, ideologici, o altro, sono già da tempo entrati in turbinose correlazioni. Quanto più la produzione si perfeziona tende a smobilitare livelli artigianali o sovrastrutturali ormai inutili. I recinti delle grandi esposizioni cadono: l’organizzazione delle informazioni tecniche, scientifiche, artistiche, umane, ecc. necessarie a creare un ambiente favorevole al consumo, si trasferisce su scala totale, sull’intera società civile, sull’uomo, e non più soltanto sullo spettatore. 16. EJZENŠTEJN: FORMA, TECNICA E PROGRAMMAZIONE DEL FILM Le teorie estetiche di Ejzenštejn vengono dopo l’esperienza delle avanguardie rivoluzionarie caratterizzate dal 1917. Precedentemente abbiamo parlato dell’artista con tutto il suo peso di ideologia e passione, ora è utile parlare della sostanza teorica della sua tecnica registica. Nel 1927 Boris Ejchenbaum scriveva: «Le arti come tali, come fenomeni della natura, non esistono: esiste il bisogno d’arte proprio dell’uomo. Singoli elementi naturali, che entrano a far parte della struttura quotidiana, vengono isolati, diventano il fondamento di una determinata arte». E ancora «La natura primaria dell’arte consiste nella necessità di dare sfogo a quelle energie dell’organismo umano che vengono escluse dalla vita quotidiana o impiegate soltanto parzialmente. Questo fondamento si incarna in quelle tendenze fine a se stesse che traspaiono in ogni arte e ne costituiscono il fermento organico. L’arte si organizza quale fenomeno sociale, quale linguaggio peculiare. La costante opposizione fra transmentalità e linguaggio rappresenta l’antinomia interiore dell’arte, che ne sovrintende l’evoluzione». L’evoluzione delle forme estetiche appariva al formalismo russo tutta fondata sulla dialettica fra homo ludens e homo faber, e partiva dalla biologia dell’arte per giungere alla sociologia. Ai formalisti si deve la sensibilità per lo spettacolo filmico: «Lo spettatore cinematografico si trova in condizioni di percezione completamente nuove, contrarie a quelle della lettura: dal movimento visibile egli muove la sua comprensione. Il successo del cinema è dovuto in parte a questo nuovo tipo di lavoro intellettuale che non si verifica nella vita quotidiana. La cultura cinematografica si contrappone alla cultura della parola che predominava nel secolo scorso. Lo spettatore cinematografico cerca riposo dalla parola: vuole soltanto vedere e indovinare». Ejchenbaum precisa che «Ancora più importante è un altro elemento: il processo del discorso interiore nella mente dello spettatore. La ricezione e la comprensione del film sono indissolubilmente legate al formarsi di un discorso interiore che connetta le varie inquadrature fra loro. Lo spettatore cinematografico è costretto a un complicato lavoro celebrale per collegare le varie inquadrature fra loro, lavoro quasi completamente assente nella vita in cui la parola elimina ogni altro mezzo di espressione». L’asserzione prevede il sonoro perché lo anticipa teoricamente nelle didascalie dialogiche. Il discorso interiore è aperto a ogni suggestione dall’esterno, a patto che essa sia polisensa e non determinata alla definizione univoca dell’immagine: l’accompagnamento musicale facilita il processo di formazione del discorso interiore. Ejchenbaum: «Il fondamento della cine-semantica è costituito da quella riserva di espressività mimica che noi acquistiamo nella vita quotidiana e che riesce quindi immediatamente comprensibile sullo schermo. Questa riserva è troppo povera per la costruzione del film, è di per sé polivalente». I formalisti russi degli anni trenta tendono a scoprire la novità di un meccanismo visivo: “Il protagonista del cinema non è l’uomo visibile e nemmeno l’oggetto visibile, bensì un uomo e un oggetto nuovi trasformati sul piano dell’arte. L’uomo e l’oggetto del cinema». Essi tendono a scoprire il nuovo rapporto che lega lo spettatore alla crescita oggettiva del materiale visivo nel senso di materialmente presente nella società: «Tra il consumatore e il materiale reale si frapponeva 52 materiale semantico, suggerito dalle esperienze decadenti di un Klee o un Kandinskij, è presente in funzione attiva. Ejzenštejn pur negando l’ideologia occidentale delle avanguardie sfrutta al massimo la tecnica dell’espressione collettiva per riconquistare così l’unità perduta dell’opera. Il regista chiama unità organica il punto di arrivo di questa sua consapevole operazione creativa mediante le scoperte della conoscenza negativa dell’arte borghese. Le sue convinzioni di artista lo portano a credere che, depurato il gran macchinario della cultura universale dei suoi contenuti borghesi, lo studio scientifico del rapporto fra immagine, autore e pubblico possa recuperare l’oggettività di una struttura tipica ed automatica della fruizione estetica. Egli supera le vecchie definizioni di cinema intellettuale con una teorizzazione del linguaggio che ricorda per certi versi Ejchenbaum: «Il linguaggio interiore e il susseguirsi dei pensieri non formulati ha una propria struttura particolare. Questa struttura si fonda su una serie ben distinta di leggi. Le leggi di costruzione del linguaggio sono quelle leggi che si trovano alla base di tutta la varietà di leggi governanti la costruzione della forma e della composizione delle opere d’arte. Alla base della creazione della forma si trovano procedimenti di pensiero fondati sulla sensazione e sull’immagine». Sensazione e immagine sono i punti di riferimento necessari alla creazione dell’artista. Ejzenštejn ricerca una tecnica del film capace di dialetticizzare positivamente l’individuo nella massa. La necessità del soggetto si istituisce come bisogno organico per l’opera d’arte di creare dei contrasti per essere fruita e per il sistema sociale di creare delle dinamiche partecipazioni nella massa, esaltando ciascun individuo. Questi bisogni sociali nel mondo occidentale venivano garantiti dal carattere della produzione e dall’esistenza attiva della merce come drammatizzazione della volontà individuale nella volontà sociale. Nella Russia sovietica era doveroso porre la questione in termini ben diversi. Ejzenštejn traccia la suggestiva storia dell’istituzione cinematografica dopo la rivoluzione e dopo che il possesso dei mezzi di produzione ha negato l’anarchia concorrenziale dell’imprenditore, il dominio spirituale della merce, la dinamica alienante di un libero mercato: «Portavamo sullo schermo l’azione collettiva della massa, in contrasto con l’individualismo e il triangolo del cinema borghese. Idea della massa come protagonista. Mai prima d’allora era comparsa sullo schermo l’immagine di un’azione collettiva. Si trattava ora di rappresentare il concetto di collettività. Collettivismo = massimo sviluppo dell’individuo nel collettivo». Così come lo stato regola il rapporto fra capitale e lavoro e determina dunque la merce, l’artista regola il rapporto tra i bisogni individuali e bisogni collettivi determinando un prodotto estetico, il cui spazio semantico sia sempre commisurato all’equilibrio del rapporto stesso. Lo studio dei modi emotivi e intellettuali con cui l’immagine si collega alla coscienza individuale diviene allora necessario alla creazione in quanto rappresenta l’unica sua funzione e non prevede una creatività dell’immagine autonomamente dal suo produttore. Il cinema si rivolgeva alla massa sia in occidente che nella Russia proletaria. La produzione del film dipendeva nel primo caso dall’iniziativa privata degli imprenditori e nel migliore dei casi da grosse concentrazioni industriali, nel secondo caso dallo stato. In tutte e due le condizioni l’intellettuale aveva funzione di intermediario, mediatore o tecnico. Ejzenštejn come Sternberg, Lang o Dreyer: la consapevolezza o inconsapevolezza di svolgere un lavoro intellettuale più non classicamente umanistico. Cinematografia capitalista: produrre una merce capace di scatenare le contraddizione di classe del pubblico per esaltarne il bisogno di acquisto; Cinematografia sovietica: rinunciare all’universalità della merce + produrre un oggetto estetico capace di rappresentare la collettività come un solo individuo. Industria culturale: si rivolgeva alla massa come somma di individui non riconciliati rispetto alle loro classi; Cultura sovietica: si rivolgeva a un individuo astratto che aveva il carattere necessario all’equilibrio del sistema e questo carattere era 55 destinato a mutare in relazione ai mutamenti espressi dallo sviluppo del sistema stesso. Ciò che il capitale affidava ad una sempre più apparente anarchia delle merci, il potere sovietico tendeva sempre di più ad affidarlo al controllo della merce, alla negazione di determinati consumi, alla soddisfazione di determinati bisogni e alla eliminazione di altri. Relazione stretta fra chiusura del realismo socialista per il prodotto culturale dell’occidente borghese e la programmazione economica dello stato che doveva rinunciare ai prodotti di consumo e alla liberalizzazione del mercato interno nella necessità prioritaria di salvaguardare la posizione politica internazionale. Ejzenštejn si fece interprete di quanto abbiamo detto, laddove la sua tecnica della percezione visiva non si organizza sulla massificazione dei modi espressivi, ma sulla loro assoluta individualizzazione: «L’opera d’arte colpisce perché si svolge in essa un processo dualistico: un’ascesa lungo le linee dei più livelli espliciti di conoscenza e la penetrazione simultanea negli strati del più profondo pensiero sensoriale. La separazione antitetica di queste due linee di movimento crea quella tensione unitaria di forma e contenuto che è caratteristica delle vere opere d’arte». La realtà oggettiva dei meccanismi emotivi e intellettuali dell’individuo si fonda sul concetto di realtà. L’autore sentiva l’esigenza di non definire il processo creativo come matematica applicazione di determinati messaggi estetici a meccanismi ricettivi fissi. La scoperta di questo margine di libertà per l’autore e per il suo pubblico è la scoperta di una necessità dialettica nella fruizione estetica in generale e nella fruizione dello spettacolo in particolare. Un sostanziale rapporto dinamico fra spettatore e immagine si può chiamare produttivo perché costringe alla continuità del consumo e alla inesauribilità del bisogno. Per quanto riguarda l’ambito sovietico la coscienza spettacolare apparteneva al passato, tendeva a trasformarsi in un inutile fantasmagoria del mondo borghese. Le frontiere dell’arte vennero chiuse alla merce che veniva dall’Europa e dall’America perché avrebbero potuto costituire un pericoloso strumento di liberalizzazione del mercato. Negli anni trenta si tentava tuttavia un primo grande esperimento di programmazione dell’immagine tentando di fare a meno della merce. Nel caso di Ejzenštejn si tradusse nella sostituzione della merce con le sue qualità originarie del prodotto estetico «Il pathos dimostra la sua efficacia quando lo spettatore è costretto ad uscire da se stesso». Abbiamo più volte indicato l’estasi dello spettatore nei confronti della merce, in Urss assistiamo al recupero dell’estasi in funzione dello strumento tecnico dell’ideologia. ““Uscire da se stessi” - scrive ancora E. - non è andare nel nulla. Implica un passaggio a qualcos’altro. Il salto fuori di sé diviene inevitabilmente un passaggio a una qualità nuova e il passaggio da una qualità all’altra mediante salti non è una semplice formula di svolgimento ma di sviluppo, che implica che anche noi nel suo canone, in quanto parti di un’unità collettiva e sociale.” Il consumatore è la proiezione dell’autore stesso, moltiplicata sino a coincidere con la massa sociale. L’homo ludens così si nega nell’homo faber. Il processo di disautomatizzazione percettiva ha portato ad una automatizzazione dell’individuo: le forme dell’immagine acquistano la struttura del ruolo sociale del cittadino organico al potere e alle funzioni del sistema. -> conduce all’arte di propaganda. Mentre in occidente è la merce che costituisce il messaggio, in Urss la merce tornerà a entrare in conflitto con il messaggio. Dopo i primi film senza protagonista, egli si rivolse al passato cancellando la dialettica dell’individuo nella dialettica della storia -> necessario per eludere il pericolo che attraverso un’arte rivolta al presente la merce tornasse a rivivere come nostalgia borghese. 56 17. GLI ANNI TRENTA Negli stessi anni di Schopenhauer, Marx e Nietzsche, i primi parapsicologi andavano scoprendo che gli oggetti inanimati hanno un’anima e una memoria. Il filosofo dottor Joseph Rodes Buchanan affermava che l’elemento onirico circonda ogni apparenza materiale. E’ oggi possibile accettare il paradosso che furono proprio la produzione industriale e lo sviluppo del capitale a conferire la massima spiritualità alla merce. Se Jung aveva detto una volta, che l’anima, entrando in contatto con l’inconscio, veniva a trovarsi in rapporto con la collettività dei morti, l’imprenditore avrebbe tranquillamente potuto dire che il consumatore, entrando in contatto con la merce, veniva a trovarsi in rapporto con la totalità del lavoro sociale, necessario all’esistenza della merce stessa. I confini fra passato, presente e futuro erano destinati a cadere -> nuova semantica oltre ogni confine fisico dell’espressione. Allo stato attuale delle teorie dell’informazione siamo in grado di considerare qualsiasi elemento di natura economica, ideologica o estetica come messaggio. Qualsiasi messaggio appare basato su un codice che non ha più nessun margine d’autonomia rispetto alla circolazione definita dalla sua qualità di merce. Il sistema ha potuto privarsi del margine di scarto fra campo semantico e campo economico attraverso una lunga organizzazione del tessuto sociale costituito dalle infrastrutture. Laddove la determinazione, la scelta di un significato e la conseguente organizzazione di un significante venivano fatte dipendere dalla necessità per il sistema di avvalorare il dominio della produzione sulla società tutta, la costruzione di cicli produttivi e di dinamiche di mercato doveva portare alla soluzione ottimale che vede la fabbrica istituirsi come unico significato reale e la società intera come suo naturale significante. Il valore sopravvive solo se interamente mercificato, solo se non rinuncia ad essere il suo significante, essere la merce che è. Il consumatore entrando in contatto con la singola merce, entra in rapporto con la totalità delle merci prodotte e da produrre, con un vasto numero di segni del codice generale ovvero della lingua viva del capitale. L’industrializzazione va studiata nella sua dimensione americana. Là vi è la possibilità di ricostruire i modi con cui il sistema fuse in un’unica vita le funzioni dell’industria culturale con l’informatica. Industria culturale = in America aveva già raggiunto fra il 1920/1930 il massimo delle sue dimensioni. Con l’avvento del sonoro, l’immagine cessò di circolare in forme mute, l’ultimo salto tecnologico fu compiuto. La mercificazione dell’universo estetico della vecchia Europa era stata compiuta nel primo decennio del Novecento: l’ideologia americana sapeva già ampiamente servirsi della cultura di massa, spregiudicatamente offerta come spettacolo. L’esigenza della massa in quanto pubblico coincideva con l’esigenza degli imprenditori di teatri, cinematografi, sale da gioco, che intendevano a loro volta sfruttare al massimo i bisogni di quel pubblico. Ogni attrito europeo fra individualismo, estetico o morale, e collettivismo industriale in America veniva ingoiato dalle proporzioni stesse del fenomeno. Nasceva una cultura di massa, che realmente corrispondeva al linguaggio e ai bisogni del suo enorme pubblico, massificava i valori elitari della cultura borghese d’origine europea, distribuendoli già come merce alla totalità dei consumatori, In Italia non si ebbe mai un capitale, né una massa sociale disponibile, né una cultura di massa. In America la cultura trovò nella collettività la sua dialettica, in Europa le forme del potere quanto le forze di opposizione al sistema tentavano di usare la cultura come elemento dialettico nella collettività o su una parte di essa. Oggi, in America siamo nell’epoca della cibernetica, in Europa siamo ancora agli albori o al tramonto dell’industria culturale. Quando le avanguardie stavano tentando di usare i mezzi audiovisivi in senso rivoluzionario, l’iniziativa industriale americana andava contemporaneamente costruendo le stesse immagini su una base assolutamente non elitaria. Nel grande scenario di immagini è difficile distinguere ciò che fu ragionata e consapevole trasposizione dei contenuti dell’avanguardia, da ciò che è dovuto alla creatività dell’interesse imprenditoriale. La pretesa consapevolezza della creazione estetica è scomparsa dall’universo dell’industria culturale: archetipi, miti, 57 King Kong In esso gli autori non inseriscono soltanto gran parte delle esperienze cinematografiche e spettacolari dell’epoca passata, ma anticiparono anche gran parte delle soluzioni filmiche future. Contrapposizione fra spettacolo di consumo e documentario, in quanto riproduzione della natura. Produzione di un film che renda consumabile la natura, il compromesso con i gusti del pubblico viene presentato come grande avventura imprenditoriale, l’avventura espressiva, che riguarda il trasferimento dell’attore da un contesto artefatto ad un contesto naturale si identifica in un’avventura esistenziale poiché si trasforma in viaggio verso l’ignoto; esiste una profonda spaccatura fra regista ed imprenditore e il resto dell’équipe di lavoro. La società è ostile all’impresa e quindi al regista viene a mancare l’elemento principale costituito dall’attrice. Ricerca dell’attrice nella metropoli (peregrinando nella notte il regista trova una ladra, in un secondo momento si rivela essere un’attrice). La giovane e bella offre il suo corpo al rischio del viaggio, in cambio di denaro e successo. Le condizioni per l’avventura sono raggiunte e si può partire. Durante il viaggio si stabiliscono i ruoli: mentre la genialità del regista appare isolata, la funzionalità del giovane avventuriero appare incrinarsi emotivamente in un rapporto di antipatia-simpatia con l’attrice. Il regista impiega i provini: consistono nel far indossare un abito alla donna e nel farle recitare una scena di terrore. La coppia impiega il viaggio per conoscere il reciproco amore. Manca il contenuto reale della paura, alla consapevolezza del desiderio erotico manca una contrapposizione dialettica: così la moda espressa nel provino non trova una soluzione espressiva nell’urlo di paura che la fanciulla lancia contro il vuoto. Mentre il regista crea una struttura semantica che possa imprigionare un contenuto, la coppia crea una struttura psicologica ed emotiva solo oscuramente presagendo contenuti estranei al rapporto sentimentale. Il regista rivela ciò per cui ha creato una partner: non è più la semplice natura, ma ciò che la trascende, ovvero il mito. King Kong è un dio pagano. Di fronte alla possibilità di trovare l’espressione vivente del mito tutti i protagonisti rivelano il proprio egoismo, ovvero la loro specificità sociale: -imprenditore: valuta il capitale investito -donna: curiosità e possibilità di trovare un ruolo nell’avventura -l’uomo che la ama: diviso fra la libertà del rischio individuale e la responsabilità nei confronti di chi sembra potergli garantire un equilibrio non individuale. Ai margini estremi dell’isola abita una tribù dedita al culto sacrificale di King Kong: un possente recinto divide il villaggio da una gigantesca foresta tropicale. Quando il regista, la coppia, la cinepresa e i marinai giungono sull’isola si sta svolgendo un sacrificio umano. Da un punto di vista antropologico lo spettacolo è chiaro, una comunità primitiva sta fruendo l’unico spettacolo che conosce. Indigeni travestiti da scimmia danzano intorno alla fanciulla coperta di fiori = rito propiziatorio che rende materiale il sacrificio della propria individualità per il bene della comunità. I gesti, la musica, i costumi e la finzione sono tutti inerenti ad una struttura religiosa che deve conciliare attore e pubblico con la divinità sconosciuta, la rappresentazione è funzione diretta di un bisogno. Nell’economia del racconto filmico la prima sequenza di tale sacrificio è presentata come folklore, come curiosità che non fa spettacolo perché non corrisponde alla religiosità dello spettatore moderno. Siamo nella fase preliminare dell’avventura poiché alla completa riuscita dei suoi valori simbolici sarà necessaria la presenza di un coinvolto voyeur. Tale condizione ideale può essere raggiunta soltanto con una radicale sostituzione della vittima: tra i fiori del sacrificio viene posto il corpo bianco della giovane attrice. Ora l’attrice ha trovato un contenuto reale all’espressione. Ora anche la moda ha ragione di esistere in quanto negata, ma anche parte integrante del sacrificio, al pari della carne. Al regista imprenditore l’eccezionalità del fatto sottrae ogni strumento espressivo: per salvare l’elemento estetico dovrà ricorrere la vita. All’uomo della donna viene a mancare la ragione fondamentale del suo equilibrio psichico ed emozionale. Il sacrifico a King Kong di una protagonista 60 della società moderna chiude la possibilità di ogni fruizione: l’équipe sembra essere respinta nel terrore dell’impotenza. Il sacerdote offre all’attrice la furia di King Kong. Il dio appare e contempla la donna. Mentre prima era una donna qualunque, ora appare bella. Il grande corpo della scimmia, la sua bestialità sono l’espressione di un’umanità ferma alla sua turbinosa origine. La bestia contempla la bella e la rapisce conducendola nel suo regno. La donna moderna viene assunta dal mito in quanto immagine sublime della bellezza. L’insegnamento di valori propri della società industriale nella sacralità del rito pagano provoca un vasto processo di inversione semantica: il prodotto della natura, dio, appare in forme mostruose mentre il prodotto standardizzato della civiltà, l’umano, appare in forme armoniche. Sino a qui la dinamica del bisogno non aveva incontrato contraddizione. King Kong eseguiva un gesto di supremazia corrispondente alla sua perenne insoddisfazione: il caos ha per sua intima tendenza e vocazione bisogno di una forma. Il non raggiungimento di equilibrio tra caos ed espressione determina una furia distruttrice. La distruzione della forma quale è, perché manca quella che dovrebbe essere, genera angoscia. A partire dal momento in cui la bestia si impossessa della bella, iniziano un arresto e un’inversione dei bisogni. Il dio ha trovato la sua forma ideale: il cannibalismo apocalittico può trasformarsi in erotismo come ideale congiungimento della totalità con la forma, del caos con l’armonia. La donna patisce l’erotismo come angoscia e volontà disperata di fuggire. Il regista è costretto a destituire di fondamento ogni teoria estetica ed ogni previsione: può solo affidarsi alla tecnica e all’iniziativa individuale. Sempre più il regista appare come avventuroso imprenditore (costretto ad arrestare la logica dei suoi bisogni imprenditoriali). Perseguire altri intenti sarebbe follia, il tentativo di salvare la donna significa riconfermare il valore su cui l’avventura è iniziata anche se ha perso interesse in quanto spettacolo. Nuova serie di conflitti. Ciò che separa ognuno dal raggiungimento della sua più urgente meta è la foresta = luogo onirico in cui si intrecciano le forme mostruose del passato e incubi dell’inconscio. L’irrazionale qui domina ogni immagine e l’individuo, per trovare una via, deve costruirne il tracciato per la prima volta. Avventura nel mondo del surreale: in esso la lotta e il conflitto sono gli unici modi di esistere: la bestia conosce questa regola e difende la bella da innumerevoli insidie, gli altri perdono presto le possibilità di usare le armi della tecnica e sono sopraffatti quasi interamente dal caos. King Kong prendendosi cura della donna ascende verso la vetta. Questa custodisce il suo rifugio = sede ideale del divino ricongiungimento. Sublimazione dell’erotismo = sublimazione della morte. Contro le forze del sublime solo l’uomo massa continua la sua lotta. Nella sua figura avviene il recupero dell’eroe, individuo privato dell’ausilio della tecnica o collettività, agisce nell’interesse della sua dimensione privata. L’uomo qualunque nega nel proprio interesse il congiungersi ideale fra arte e vita, connubio fra la bestia e la bella. Mentre King Kong combatte la logica perpetua dei suoi grandi conflitti abbattendo giganteschi mostri celesti, l’uomo riesce a sottrarre la bella. Ella torna ad essere la sua donna e insieme praticano un’inversione della fuga. Ora conoscono i rischi, i pericoli e le vie della foresta. Essi provano la gioia del possesso solo nella sicurezza della fuga. La donna può godere di essere stata vittima e l’uomo può godere di aver sottratto ad altri il possesso. L’erotismo = pieno soddisfacimento delle proprie paure, equilibrata risposta alla negazione del rischio. La sconfitta di King Kong dipende dalla rottura di un equilibrio atavico, secondo cui alla insoddisfazione per un bene perduto poteva sempre corrispondere un provvisorio soddisfacimento. La divinità ha accolto in se stessa la contraddizione vivente della bellezza; ha reso dialettica la propria volontà. La bestia viene legata, caricata sulla nave e condotta laddove la civiltà potrà contemplarla. Il regista ha rinunciato a creare, ma l’avventura lo ha portato così avanti da fargli sperare di poter destituire i valori e i modi della produzione. Egli riconduce in patria il mito stesso della vita. King Kong è stato trasportato nella grande metropoli americana. Appare la collettività; di essa l’équipe costituiva una coraggiosa avanguardia e il regista ne era il genio. Per i bisogni di questa 61 collettività King Kong viene esposto al pubblico: sono i modi spettacolari della sua esposizione quelli che dovranno soddisfare la massa. La massa solo scegliendo una precisa dimensione di pubblico acquirente può tendere alla conoscenza di un nuovo messaggio: il dio appare come merce. Il pubblico tende ad acquistare prima di vedere, perché confida sulla novità della visione. Il regista ha raggiunto così il massimo livello pubblicitario in quanto promette la contemplazione della divinità. L’avventura metropolitana di King Kong ha inizio nel teatro, nel luogo cioè della finzione. Per poter essere fruito il mostro scimmiesco è stato legato a delle catene: quando il sipario si apre il pubblico è percorso da un fremito di paura. La vita stessa è offerta senza alcuna mediazione estetica. L’imprenditore, la donna, l’uomo sono testimonianze. King Kong rifiuta la sua condizione spettacolare di vittima e spezza le catene: sfonda i recinti del teatro e infuria contro la città. Ora lo spazio scenico è superato dallo spazio esistenziale. Lo spettacolo ha invaso l’uomo e non più soltanto lo spettatore. Ora nel terrore, pubblico e massa sociale coincidono interamente e la loro condizione torna ad essere quella degli indigeni dediti al culto di King Kong, ma la possibilità del sacrificio è sconosciuta ad una società civile che ha costruito le forme fittizie dello spettacolo come illusori momenti di autoliberazione. Al dio furente le macchine della metropoli appaiono sotto forma di immagini oniriche sconosciute, contro di esse egli combatte e vince. Tanto nell’isola quanto nella città il luogo sacrificale è separato dal luogo dei conflitti: nell’isola il villaggio è isolato rispetto alla foresta così come il teatro è distinto dal resto della metropoli. Nella prima come nella seconda situazione il sacrificio viene interrotto. Il rifugio dell’uomo è costituito da una camera da letto; la mano di King Kong penetra nella stanza e solleva la bella. Il dio sale verso l’alto. King Kong ora è una paurosa presenza nel luogo stesso della propria abitazione, è una minaccia collettivizzata: la massificazione della sua vittoria sarebbe inconcepibile per l’armonico sviluppo della civiltà. E’ la tecnica che risolve la dimensione sociale e istituzionale del conflitto. Alcuni aeroplani militari ingaggiano la lotta con King Kong giunto al vertice dell’Empire State Building e lo abbattono. La rappresentazione della morte torna ad essere la rappresentazione di vita, ma in questo caso il caos ha sacrificato se stesso: la cultualità ha riprodotto lo schema antico del sacrificio, lasciando intatta la vittima e distruggendo l’origine della paura. King Kong rappresentava, in quanto natura libera e caos, l’anarchia più totale: l’imprenditore e la società civile erano riusciti ad essere il momento coercitivo di quella libertà. Il primo aveva interesse a rappresentare la fase più avventurosa della coercizione, la seconda aveva intenzione di evidenziare il risultato definitivo della soppressione. Il regista è costretto a mitizzare invece le funzioni della bella. Egli sa che a se stesso resterà qualche margine di espressione poiché ha imparato che esprimere significa delimitare il caos. Questa l’analisi tematica. Restano da esaminare la sua struttura formale, i modi espressivi che ottiene e divulga. Recitazione americana, ambientazione realistica della metropoli prima dell’avventuroso viaggio, schematismo psicologico volto a fissare i ruoli ecc. Vicinanza di alcuni moduli ai modelli del film d’avventura; espedienti tecnici volti a stuzzicare l’aspettativa del pubblico. Commento musicale di Max Steiner teso a sottolineare la rapida crescita di tensione, linguaggio onirico ricavato da soluzioni espressioniste ma anche da forme di spettacolo popolare es. circo. Perfezionamento tecnico dei trucchi ottici e delle macchine sceniche, accostamenti insoliti come: grande mano pelosa e bianca veste. Veri e propri collage come occhi di King Kong nel riquadro di una finestra. Tendenza ad effetti di verosimiglianza, montaggio monolitico, introduzione allo choc come elemento consapevole dello spettacolo volto ad ottenere una proiezione iterata dello spettatore. Tre motivi conduttori per penetrare il funzionamento sociale della cultura hollywoodiana: bestia, bella, coppia. 1) Bestia: sembianze di una scimmia gigantesca. Iconograficamente questo tema lo troviamo già sfruttato nello spettacolo hollywoodiano che lo ha desunto da alcuni tipici motivi letterari. Nel 1912 Victorin Jasset aveva girato in Francia Balao in 62 domanda e offerta dentro la struttura del film come modello macroscopico e facilmente organizzabile degli impulsi contenuti dalla merce. La tecnica della ripresa e del montaggio non dipende solo dalla sceneggiatura dei tempi di produzione, in quanto necessità del capitale investito, ma anche dal rapporto critico tra quantità di impulsi verificati e da verificare. In King Kong la possibilità di filmare la vita si pone come esigenza di mercato. Filmare la natura costituisce una tendenza documentaristica. Il regista sente inadeguata al livello raggiunto dal cinema la semplice riproposizione del documentario e si fa portatore dell’esigenza sincretica tra realtà e finzione, tra documentario e spettacolo. Con King Kong vi fu la rappresentazione della convinzione di Schoedsack in uno spettacolo cinematografico che contenesse al suo interno il bisogno della realtà e il gusto per la natura, senza dover per questo essere strozzato nei confini del reale. In quest’opera non vi è la struttura di un Tarzan. In quel film la sintesi fra documentario e racconto è abbastanza rozza, il procedimento di Schoedsack e Cooper era molto più ricco e complesso. Si fondava sul diretto inserimento di espedienti fantastici su un supporto psicologico del pubblico dato per scontato, considerato alla base del potere di fruizione: la coscienza della natura come elemento reale, ricco di connotati ormai acquisiti operanti in modi dialettici con la realtà urbana. La sintesi è quella dinamica fra coscienza della natura, espressa come bisogno, e bisogno della natura, espresso come fantasia. Il prodotto ottenuto non farà ricorso alla realtà in quanto merce-documentario, ma alla realtà in quanto bisogno insoddisfatto. La sintesi è la rappresentazione di simili morbosi. Per gran parte del documentarismo in genere e quello americano significò tanto realtà ma natura. Mentre le correnti estetizzanti e formaliste fecero costante affidamento sulle forme espressive delle macchine come tali, le correnti documentaristiche preferirono avvicinarsi alla macchina solo attraverso solo attraverso la descrizione del lavoro. Molti filoni del documentario nacquero come ideale ricongiungimento all’utopia ottocentesca di Thoreau. Se confrontiamo il segno negativo che la natura assume nei confronti del sistema industriale, con il segno negativo che l’individuo anti-sociale acquista nei confronti dello sviluppo civile, potremo stabilire una identità tra documentario e ladro o assassino. In questa identità riusciamo a scorgere il legame più intimo, che in King Kong collega la figura del regista al personaggio chiave rappresentato dall’attrice: ambedue sono destinati a svolgere un alto ruolo di integrazione sociale. Sempre nel 1932 usciva Scarface e ben quattro dopo quattro anni Fury di Lang, che abbiamo detto essere film che valorizzavano il criminale. King Kong si colloca tra di essi. Rubare risulta essere il segno tangibile di una non avvenuta integrazione sociale. Secondo una linea di sviluppo tipicamente americana l’integrazione avviene attraverso un processo di aggregazione dei reietti. Il peccato consiste nel congelamento della produttività: l’imprenditore non avventuroso è per ciò colpevole di essere un ladro, se riesce a farsi produttivo, trasforma la sua qualità sociale e cancella il proprio furto. Non esiste delitto senza pena, così come non esiste capitalista improduttivo senza fallimento. 2) la bella: i modelli femminili che ebbero maggior peso nella formazione del cinema hollywoodiano sono quello griffithiano e quello espressionista europeo. Nel primo caso si tratta di una fedele riproduzione del ruolo che la donna svolge nella letteratura del romanzo di appendice: l’eroina funge da pretesto emotivo per l’intreccio. La donna è vittima in quanto la sua natura intima entra in duro conflitto con la meccanica dello sviluppo sociale. Griffith aveva praticato una rigida separazione tra la valorizzazione simbolica della storia e la valorizzazione psicologica della protagonista femminile. Il mito viene estromesso dalla natura della donna: se ella appartiene alle forze del bene potrà allora divenire protagonista, se invece appartiene alle forze del male non esisterà alcun possibile sviluppo. Nella definizione del modello espressionista, al contrario, la fanciulla, attraverso una serie di crimini che vanno contro la società l’amore, sfrutta il sesso per punire e distruggere il suo creatore. Solo dopo questo sacrificio la protagonista può legarsi alla vita e accettare le 65 norme del vivere civile. Tutta l’opera del primo Pabst è dominata dal simbolo della prostituta = sintesi socialmente irrisolta fra individualismo erotico e collettivismo sociale. Lang aveva teorizzato addirittura il significato spirituale e sociale della donna in Metropolis, il ruolo della prostituta veniva svolto in uno sdoppiamento meccanico della donna autenticamente innamorata. La contrapposizione fra sesso e amore si arricchiva così di stratificazioni simboliche: la scienza genera un automa del sesso, una copia della donna che ben presto si rivela caos e anarchia. Lo sviluppo scientifico non deve mai andare oltre lo sviluppo naturale del suo modello umano. La scienza dovrà distruggere i mostri che ha creato, così come la prostituta dovrà distruggere il suo passato, dare un contenuto reale ai suoi gesti erotici. Il legame simbolico tra attrice e prostituta = lavoro ben retribuito. Tipico motivo melodrammatico della Traviata, film come Phantom of the opera tendevano a istituire uno stesso valore simbolico separando nella donna-attrice la componente peccaminosa da quella autenticamente umana: presenza di un mostro necessaria per far sì che la recitazione dell’attrice sia perfetta senza corrompere la sua verginità. Quando la protagonista verrà a contatto con i fantasma dovrà sacrificare il proprio destino di attrice e scegliere la vita della moglie. Dall’operetta al musical cinematografico, la prostituta o l’attrice, che nel dramma era condannata a morire, nella commedia è costretta a negare la propria parte e a rivelarsi come provvisorio travestimento. La protagonista di King Kong conservava tratti caratteristici della prostituta espressionista. Il film doveva rappresentare i modi in cui lo spettatore stesso, proiettandosi nella protagonista, dà contenuto reale alla propria emozione. Bisogno di qualificare la donna con un più netto collegamento negativo alla realtà sociale: l’attrice è ladra. La trasgressione della legge frutta la partecipazione emotiva dello spettatore. Se non ci fosse il delitto non ci sarebbe spettacolo. La città appare nel film in stretta correlazione con l’attrice ladra, città come rappresentazione della realtà sociale nella sua più inevitabile emanazione fisica: le vie della metropoli sono la verità istituita mentre le vie del viaggio sono l’evasione. Città = crea la malattia del furto, così come la realtà dello spettacolo crea una recitazione senza contenuto. Il documentario è la riproduzione reale della natura, la città è realtà oggettiva dello sviluppo nella sua componente visiva e negativa, autenticare lo spettacolo significa integrare documentario e spettacolo, dunque attrice e natura, l’attrice = parte malata della città, dunque l’integrazione avviene fra città e natura. Natura = negazione di ogni valore, bisogno di evasione fantastica, liberazione del proprio io. La bestia consente lo scatenamento dei bisogni insoddisfatti del pubblico e potenzia la sua sensibilità percettiva, rende presente e visibile la possibilità dell’evasione e costituisce la struttura del racconto filmico. Il ruolo della bella va ricercato in un ambito culturale più esteso. L’ascesa materiale del proletariato aveva messo in crisi gli archetipi tradizionali della bellezza + la presenza del pubblico dentro la struttura delle forme estetiche costringeva la bellezza ad un rapido processo degenerativo verso le sembianze grottesche della vita. La collettività impone sempre più standardizzazione degli antichi oggetti estetici, il dominio e consumo sulla qualità della creazione. Le leggi di mercato imposero nelle fasi di produzione estetica un processo inverso a quello prefigurato dai decadenti. Mentre i primi tendevano a cancellare ogni presenza armonica dell’universo sensibile, i secondi riuscivano ad imporre la volgarizzazione degli archetipi ad opera dei beni di consumo che si era voluta frenare grazie all’invenzione dello stile. La valorizzazione della donna = come doppia sede della bellezza e del desiderio e cioè della contemplazione e dei bisogni. Quando in King Kong gli sceneggiatori decidono di porre la bella lo fanno perché è necessario consolare lo smarrimento del pubblico con un mito che li soddisfi pienamente; la vittoria della bellezza = antidoto alla paura dell’incoscio. Su questo tema un regista come Stenberg aveva già svolto la sua analisi. In Blonde Venus la cantante-ballerina esce da una pelle di scimpanzé ma il conflitto fra i valori mercificati e valori assoluti è ormai mistificato nel conflitto fra moglie e amante. Sempre più si fa necessaria l’eliminazione del sacrificio. Perché la diva si sviluppi 66 verso l’archetipo della bellezza, ella si deve spogliare da ogni sua implicazione mostruosa: così al posto della bella, in King Kong è la bestia a morire. La coppia rappresenta il terzo motivo del film. In King Kong l’amore fra l’uomo e la donna è provocato dal viaggio e rinsaldato dalla paura es. Hitchcock Rich and Strange. Il mistero dell’avventura, la serie di choc continua sono necessari al mantenimento della coppia. L’affermazione della coppia presuppone il superamento di una serie infinita di tabù e contemporaneamente un sacrificio cruento tale da avvalorarne l’inserimento definitivo nella società. Nell’economia del racconto la bella nobilita automaticamente l’uomo esaltando le sue qualità: egli raggiunge la vetta dell’isola per amor suo e per amor suo torna in cima all’Empire State Building. Se la coppia è la cellula fondamentale della società, King Kong è in linea con il matriarcato. L’ideologia del film tende ad eliminare i vertici dell’esperienza e a ritrovare il buon senso delle vie urbane e del traffico cittadino. Alla netta contrapposizione di questi valori corrisponde una forte dinamica conflittuale dentro alla coppia. Da un punto di vista strettamente sociale, invece, è l’uomo ad avere il sopravvento: alle sue capacità pratiche la donna si piega docilmente. Da «Modern Times» a «Hellzapoppin» La struttura esistenziale del film comico non differisce in nulla da quello drammatico e sentimentale: la caratteristica dell’assoluta comicità è l’assoluta estraneità alle leggi del racconto. Per questo motivo Keaton conclude quasi sempre i suoi film con il matrimonio. es. Spite Marriage la coppia affronta peripezie alla stessa maniera di Rich and Strange. Keaton fonda la sua arte: le gags risultano un’invenzione soggettiva rispetto agli standard ottici e psicologici. In The Playhouse Keaton si truccava da scimpanzé e rivelava che la comicità nasce dall’uomo come tale = visione aristocratica del genere comico, in cui ideologia e sentimento sono banditi come elementi spuri. La tecnica keatoniana si contrappone in modo netto a Chaplin. Il primo operò dentro la sua tradizione spettacolare cercando di conservare le qualità originarie, il secondo tese ad estendere i confini del comico sino a farli coincidere con una forma ibrida di spettacolo. Modern Times. Prima di esso Chaplin aveva già definito i poli estremi della sua attività di attore e regista. In The Pawnshop ci offriva un gesto dadaista, crudele e provocatorio, ai danni di un poveraccio che si era recato da lui per dargli in pegno una sveglia. In un altro breve film, del 1914, Chaplin aveva chiara la linea di tendenza dell’industria culturale. Penetrato in uno studio cinematografico sconvolge l’andamento meccanico del lavoro. Buttato fuori egli rientra vestendosi da donna e mistificando così in partenza il proprio rapporto cinematografico. In tutto il lungo arco della sua produzione filmica Chaplin darà numerose prove di questa capacità nel travestimento. L’omino chapliniano viene meno ad ogni lavoro salariato che riesce faticosamente ad ottenere. Condannato ad essere improduttivo, l’unica condizione che lo rende felice che ha conosciuto è quella del carcerato. Schema narrativo condotto sulla rete di più sondaggi: alienazione della civiltà industriale, disumanità della catena di montaggio, rigidità delle autorità padronali e delle autorità civili, dislivelli sociali, violenza di classe, povertà, fame, sfruttamento. Il tipo chapliniano percorre dall’inizio alla fine del film una via intermedia la cui ciclicità è consentita da una decisa riluttanza del protagonista ad integrarsi in uno dei due poli. Vi è solo un momento in Modern Times che rivela il consistere del lavoratore improduttivo in una condizione ottimale: la felice occasione in cui la donna amata lo spinge a cantare in un cabaret, il suo numero ha grande successo di pubblico. = sequenza manifestazione della moderna arte dello spettacolo. Ciò che nel lavoro si esprime come disorganizzazione dei modi di produzione, nello spettacolo si rivela organizzazione spontanea e immediata del pubblico. Alla massima inettitudine nei confronti della macchina sociale e del dominio della fabbrica sulla vita privata e civile, corrisponde la massima valorizzazione della propria umanità sopita. L’inettitudine = elemento 67
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