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Fotografia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari, Appunti di fotografia

Riassunto libro "fotografia e inconscio tecnologico" di Franco Vaccari per storia della pubblicità

Tipologia: Appunti

2019/2020

Caricato il 27/01/2020

Francescaromana96
Francescaromana96 🇮🇹

4.4

(21)

18 documenti

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Scarica Fotografia e inconscio tecnologico di Franco Vaccari e più Appunti in PDF di fotografia solo su Docsity! RIASSUNTO LIBRO VACCARI Note a cura di Paola Di Bello A cura di Roberta Valtorta «Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui». Franco Vaccari «Non è importante che il fotografo sappia vedere, perché la macchina fotografica vede per lui»: attraverso il fertile concetto di inconscio tecnologico, Franco Vaccari sviluppa un profondo lavoro di “scardinamento” dei condizionamenti visivi che limitano le potenzialità della fotografia. Nei suoi scritti, cosí come nelle sue “esposizioni in tempo reale”, l’artista dimostra che quando la macchina fotografica non viene utilizzata in modo forzatamente “artistico”, ma viene lasciata agire come strumento in grado di produrre registrazioni e memorie autonome, essa favorisce il sorgere di comportamenti, relazioni, funzioni fondamentali per la definizione del significato stesso della fotografia nella civiltà contemporanea. Gli scritti di Vaccari qui presentati in edizione piú ricca e completa delle precedenti (1979; 1994) offrono una stimolante elaborazione teorica complessivamente incentrata sul tema di una civiltà – la nostra – tutta basata sulle merci, sulla comunicazione, e avvolta nelle immagini. L’ESPOSIZIONE IN TEMPO REALE NELLA POETICA DI FRANCO VACCARI di Antonella Alberghini LA POETICA DI FRANCO VACCARI L’artista Franco Vaccari è un intellettuale. Come tale si aggiorna costantemente, informandosi su ciò che accade nel mondo e dedica alla lettura tempo e attenzione. Possiede un concetto di cultura a 360°: non si occupa solo di arte contemporanea, ma è attento alla realtà nelle sue diverse sfaccettature e si rapporta ai fatti della vita con uno spirito fortemente critico nei confronti della società. La sua poetica coincide con la sua intera weltanschauung, comprende le sue esperienze, i suoi valori, le sue relazioni con ciò che lo circonda e quindi non è statica e definibile una volta per tutte, ma si sviluppa in concomitanza con la sua personalità. Vaccari ha una spiccata curiosità nei confronti di tutto ciò che lo circonda e affronta le questioni con un singolare interesse, come se venisse assorbito da ogni particolare. La sua mentalità è aperta e positiva. Quando parla delle sue opere, non le fa sentire agite da lui, ma le rende protagoniste del discorso; non enfatizza il proprio ruolo di autore, ma si limita ad innescare le situazioni, controllandone a distanza l’evoluzione. Dai suoi ragionamenti emerge spesso un’intelaiatura, uno schema logico sotteso ai processi mentali. Si tratta del suo sapere scientifico che è lo strumento principe di cui si avvale per pensare. Il connubio tra arte e scienza è la peculiarità più affascinante di questo artista, che negli approcci col mondo propone letture inusitate, che non sorgono spontanee alle altre menti. La sua produzione artistica è inscindibile dalla sua riflessione teorica ed entrambe hanno diverse sfaccettature. Nella poetica dell’autore non è possibile stabilire una gerarchia d’importanza tra i concetti. Piuttosto emerge una struttura, come un insieme di punti connessi tra loro, alcuni più marcati e altri meno rilevanti, ma comunque tutti appartenenti ad un unico sistema generale. La sua concezione artistica viene qui esposta prendendo in considerazione gli aspetti più significativi della sua poetica e approfondendo alcune questioni particolarmente interessanti. Franco Vaccari è nato nel 1936, ha compiuto studi regolari ad indirizzo scientifico e si è laureato in fisica. Già dagli ultimi anni di liceo si è interessato di fotografia e ha coltivato questa passione nel corso di tutta la vita. Conseguita la laurea, il molto tempo libero che aveva a disposizione durante il servizio di leva svolto a Roma, gli ha consentito di dar corso al secondo lato della sua natura: quello dedito all’arte piuttosto che alla scienza. Il suo primo interesse in campo artistico è stata la poesia visiva. Pur senza aver contatti con qualcuno di essi era approdato alle stesse problematiche che si trovavano ad affrontare i poeti visivi, soprattutto il gruppo 70 di Firenze. Dopo la presa di contatto con questi poeti è nata quell’attività che lo ha portato a sviluppare approfonditamente il territorio dell’arte. Ad un certo punto ha ibridato la fotografia e la parola con i graffiti, dove le scritte sui muri assumono valenze e significati derivanti dal contesto in cui sono state fatte. Attraverso la fotografia queste parole si caricano di echi che certamente non avrebbero se si trovassero semplicemente su una pagina tipografica. In tutta l’arte del ‘900 c’è stata la tendenza a sbarazzarsi delle forme artistiche canoniche per esplorare territori nuovi, confluiti nella cosiddetta ‘avanguardia di massa’. L’appellativo può sembrare una contraddizione in termini, perché l’idea della folla mal si sposa col concetto d’innovazione, di solito promosso da un gruppo ristretto d’artisti. Esso ha comunque un senso, perché il movimento innovatore ha investito diversi ambiti artistici ed è stato promosso da numerosi autori, tra i quali anche Franco Vaccari. In questo movimento artistico assume una forte rilevanza il rapporto tra l’autore e gli utenti. Vengono potenziati gli aspetti relazionali delle opere e si tenta di far partecipare il pubblico con un elevato grado di coinvolgimento. L’intervento dello spettatore raggiunge talvolta un’intensità tale che diventa legittimo considerarlo protagonista dell’opera. Nel 1965 è stato pubblicato Pop esie, il primo libro di Franco Vaccari. Il titolo rievoca il fenomeno artistico della Pop Art, che aveva ottenuto un enorme successo, alla Biennale di Venezia nel 1964. Nella seconda metà degli anni ’60 l’artista ha lasciato la pagina, per esplorare forme più innovative. Nel 1966 ha pubblicato il libro sui graffiti Poesia anonima. Poesia trovata. In quegli anni i graffiti non erano ancora stati accolti nel mondo dell’espressione e venivano interpretati prevalentemente in chiave surrealista, piuttosto che considerarti il frutto di un linguaggio poetico autonomo; solo in seguito sono diventati una forma espressiva di massa. Nel modo in cui Vaccari si era interessato ai graffiti si poteva intravedere la presenza di una sensibilità confluita poi in una delle correnti artistiche predilette dall’autore: la cosiddetta ‘arte povera’. Qui la fisicità dei materiali è particolarmente accentuata e si fa uso di oggetti solitamente adibiti ad altre attività, proponendo una loro risemantizzazione e producendo un senso aggiuntivo che investe l’intera opera. Nel 1967 Vaccari ha cominciato ad uscire dalla pagina del libro per affrontare gli ambienti. Ha dedicato la propria attenzione alle installazioni, in cui l’ambiente espositivo veniva investito nella sua totalità da un’urgenza espressiva. Ad esempio, nel 1968 aveva riempito lo spazio di un edificio con un gran numero di palloncini. Il fatto curioso di quest’esperienza è che trent’anni dopo, nel 1998, la sua idea è stata riproposta tale e quale da un altro artista in una mostra, in cui lo spazio è stato occupato esattamente nello stesso modo. All’autore è successo più volte di scoprire che le sue opere avevano subito un plagio e giustifica questo fatto dicendo che probabilmente la sua preparazione di tipo scientifico gli ha messo a disposizione degli strumenti conoscitivi diversi da quelli interiorizzati da coloro che hanno seguito l’iter classico delle discipline artistiche. Questi strumenti gli hanno dato la possibilità di sondare la realtà in modo particolarmente adatto all’epoca contemporanea e facendone uso ha vissuto certe esperienze precocemente rispetto al resto degli artisti. Egli pensa che sia fisiologico per gli altri approdare in ritardo a forme artistiche come le sue e si sente privilegiato per questo vantaggio. Sa di avere due doti notevoli: possiede infatti strumenti conoscitivi che condivide con pochi altri ed è dotato di una spiccata sensibilità artistica. Il connubio tra questi due elementi è estremamente raro e l’artista è consapevole di esserne una delle poche incarnazioni. Non si accanisce contro il plagio, perché ritiene che ognuno abbia a disposizione una certa quantità d’energia che non può essere diretta contemporaneamente in tutte le direzioni. Ha dovuto scegliere se spendere tale energia per difendere le proprie opere o se impiegarla per produrre arte e ha deciso di trascurare, per carenza di tempo, i plagi, i debiti o le interpretazioni discutibili e di dedicarsi invece all’attività artistica, che considera certamente più stimolante. Ciò nonostante gli preme molto che gli venga riconosciuta la paternità dei suoi concetti. Nel gennaio 1969 ha introdotto il concetto di ‘esposizione in tempo reale’, che allora nessuno utilizzava. Presentando il libro sui graffiti aveva cominciato ad accorgersi dell’importanza delle parole. Esse servono a nominare oggetti e azioni, ma se si fa uso di termini inadeguati, la lettura del lavoro viene dirottata verso significati fuorvianti. Dai modi di operare dell’autore scaturisce l’idea di un senso privilegiato e anteposto agli altri. Egli non esclude che i fruitori delle sue opere possano formulare interpretazioni diverse dalle sue, ma predilige certi significati e tende ad indirizzare il lettore verso di essi. Spesso fornisce elementi che guidino lo spettatore a cogliere certi aspetti dell’opera. Ritiene che il momento della fruizione sia importantissimo e desidera che nell’opera vengano sottolineati certi tratti. In questa prospettiva usa parole precise, scelte con cura. Le esposizioni in tempo reale si differenziano da altre esperienze artistiche che in quegli anni riscuotevano successo, come gli ‘happening’, le ‘azioni’ o le ‘installazioni'[i][1]. Soprattutto quelle più aperte, gli happening e le azioni, erano caratterizzate da una struttura in movimento: i fatti si dispiegavano nel tempo e la loro successione aveva un andamento lineare. Invece le opere di Franco Vaccari non erano così. Egli ha individuato nel ‘feed-back’, o ‘contro reazione’, l’elemento capace di innescare un meccanismo tale per cui la struttura si sviluppa attraverso un continuo riesame di quello che è appena accaduto, con un riaggiustamento continuo nel processo di produzione, influenzato incessantemente dagli esiti del processo stesso. L’autore ha cominciato ad utilizzare il concetto di feed-back a partire dal 1970, quando in campo artistico non c’era nessuno che avesse sentito la necessità di prestarvi attenzione ed utilizzarlo come strumento concettuale. Ovviamente dicendo che nessuno usava questo concetto si intende dire che l’uso non avveniva coscientemente, perché in realtà vengono compiute continuamente numerose operazioni di cui non si ha consapevolezza ed esse cominciano ad esistere pienamente solo quando entrano nel panorama della coscienza di chi le sensazioni di questi stati sottili. L’arte ha come conseguenza il miglioramento della vita, ma tale conseguenza è ottenuta in maniera preterintenzionale, non volutamente. Citando Oscar Wilde, l’autore ricorda che l’arte non si fa con delle buone intenzioni. Però, secondo Vaccari, l’artista nei confronti dell’arte deve avere una certa moralità, nel senso che deve essere onesto nei confronti della sua attività artistica. Ciò non significa che per fare arte sia indispensabile avere pensieri e comportamenti onesti: un autore con buone intenzioni e propositi altruistici non è necessariamente migliore di un altro dal punto di vista artistico; tuttavia egli ha nei confronti dell’arte la capacità di mettere a fuoco in maniera più netta, più vera e meno adulterata certi stati di coscienza. Franco Vaccari ritiene che tra tutti gli approcci mentali, quello artistico coinvolge nel modo più complesso l’apparato psichico. É indubitabile che un grande pensatore utilizzi in modo profondo un settore del pensiero e ad esempio in matematica non occorrono soltanto capacità logiche, ma anche fantasia, coraggio, audacia e intraprendenza. Ciò nonostante per ottenere grande arte occorre un coinvolgimento ancora maggiore e un processo quanto più articolato e complesso possibile, dell’intero sistema nervoso. L’artista deve riuscire a dimenticarsi, mediante un processo molto complicato, per far vivere la sua arte. Come tutte le grandi imprese, ad esempio l’amore, anche l’arte può essere maestosa o miserabile. L’amore può configurarsi come una delle massime esperienze di vita, ma può anche realizzarsi in una forma di brutalità senza limiti; così l’arte può raggiungere vette altissime, ma può anche essere un completo fallimento. Franco Vaccari considera sperabile che l’artista abbia certi valori che lo guidino nel suo fare. Ritiene che uno dei miti più perniciosi sia quello dell’artista ‘genio e sregolatezza’ e tra i vari contributi che si augura di aver dato all’arte, spera ci sia quello di aver contribuito a far crollare il mito della figura dell’artista come creatore autonomo. Fondamentalmente questi miti paralizzano il funzionamento dell’intera complessità del nostro sistema nervoso. In realtà è la ricerca intellettuale a livelli molto interiorizzati che permette gradi elevati di spontaneità. D’altronde, in qualsiasi campo, non esiste esecutore che non si eserciti molte ore al giorno e anzi solitamente più un artista è capace, maggiore è il suo controllo del mezzo; certamente un artista potrà essere più dotato di un altro se a parità d’esercizio otterrà più di lui, ma in genere gli abili esecutori sono anche maniaci dell’esercitazione e mirano alla perfezione. Questo ragionamento può riassumersi nella frase: ‘bisogna sapere per poi dimenticare’; se però la dimenticanza non è il presupposto della scioltezza nell’esecuzione ma il camuffamento di un’effettiva ignoranza, oggi non si ha spazio per emergere in alcun modo. L’autore non condivide il mito del buon selvaggio, dotato di un’istintività sorgiva che automaticamente gli consente di guadagnare ampi spazi. É convinto che non sia possibile saper usare un linguaggio senza essersi addestrati a farlo. Oggi l’arte sfrutta alcuni miti derivanti dal prestigio che si è conquistata nei secoli, esattamente nello stesso modo in cui si tende a sfruttare giacimenti di ricchezze di qualsiasi tipo. Si tende a valorizzare la figura dell’artista, sottraendolo ai contesti e alle vicissitudini storiche e mettendolo in un empireo dove non è possibile indagarlo ulteriormente. Come nelle varie epoche possono emergere diverse attitudini verso la scienza ed essere inibite altre che potrebbero emergere in altri tempi, così non esiste un’unica figura dell’artista, ma varie tipologie dell’essere artista. Una delle principali modalità in cui la figura dell’autore emerge è il riconoscimento dell’opera, che avviene con la firma. Vaccari non considera questa pratica particolarmente importante; per comprendere le ragioni di questo suo atteggiamento si può ricordare un aneddoto: Nel 1967 in Germina sono state esposte delle sue opere che lui non aveva autenticato con la firma. Il suo gesto era motivato dal timore di furti e infatti parte delle opere era scomparsa. Di recente un collezionista, trovatene tre in una galleria, ha proposto all’autore di firmarle e di tenerne una per sè, cedendo le altre due al gallerista e a lui. Il fatto di non aver firmato le opere, come aveva previsto trentatre anni prima, ha creato le condizioni perchè alcune gli si ripresentassero. Quanto accaduto conferma che la firma non è un dispositivo fondamentale per dimostrare l’autenticità dell’opera e anzi può metterne a rischio l’incolumità. Inoltre, nelle esposizioni in tempo reale l’autore non saprebbe in quale parte dell’opera in esposizione porre la firma. La loro autenticità è dimostrata dal catalogo[ii][2], che viene realizzato a posteriori per documentare l’accaduto; esso non fa solo parte integrante dell’opera, ma è anche un elemento utile a comprovare quanto è avvenuto. Il problema della firma viene in primo piano con l’autentica della documentazione. Vaccari non è ossessionato dal riconoscimento e ritiene necessario abbandonare il mito della figura dell’autore. Attualmente l’immagine di questo personaggio assume connotati diversi dal passato: oggi l’autore è come il regista di un film, che non realizza le fotografie del film, la colonna sonora e via dicendo, ma è colui che coordina un insieme di specificità e ha coscienza della globalità del fatto; nessun regista firma le singole pellicole di proiezione e la sua originalità e paternità viene colta con meccanismi diversi da quelli delle forme tradizionali che testimoniano l’autenticità dell’opera. Questo cambiamento era già stato messo in evidenza da Duchamp coi suoi ready-made, che non hanno solo importanza estetica, ma anche filosofica. Funzionano come dei paradossi, in cui molte questioni riguardanti l’oggetto artistico vengono portate ad una conclusione estrema, e si trovano spesso in una situazione d’indecidibilità. Il ready- made mette in discussione il ruolo dell’autore, in quanto egli si riserva soltanto il compito di scegliere un oggetto che non deve portare traccia del suo lavoro e non viene modificato in alcun modo. Ad esempio Picasso ha utilizzato degli oggetti inserendoli dentro alle sue opere; tuttavia il suo atteggiamento, per quanto esteticamente estremamente interessante, innovativo e valido, è meno radicale del modo in cui Duchamp utilizza gli oggetti trovati fatti. Vaccari ha sempre accompagnato al momento espositivo quello della riflessione teorica. Ha scritto poesie, articoli, presentazioni e altro ancora, ma tra tutti i testi di sua produzione due possono essere considerati i più importanti della sua speculazione teorica. Uno è Duchamp e l’occultamento del lavoro, scritto nel 1978, e l’altro è Fotografie e inconscio tecnologico, del 1979. Parti di entrambi sono state pubblicate in precedenza e il secondo ha avuto poi una certa fortuna editoriale, in quanto in Italia è stato riedito a quindici anni di distanza dalla prima pubblicazione e un anno dopo la sua prima edizione italiana è stato tradotto e pubblicato in Francia, entrando nel dibattito culturale anche di quel paese. Duchamp e l’occultamento del lavoro è uno scritto sintetico e incisivo. In esso l’autore spiega come la critica abbia concentrato e rivolto la propria attenzione sulle fasi di produzione del lavoro artistico e sulle motivazioni dell’artista, trascurando invece il momento d’osservazione dell’opera. In realtà se è vero che un artista compie un lavoro sull’opera è altrettanto vero che il visitatore, nel dirigere la propria attenzione all’opera, compie anch’egli un lavoro e in qualche modo tale lavoro deve essere remunerato, affinché nello scambio di informazioni e d’attenzione valga il principio di non dissipazione dell’energia. La spesa energetica dell’artista viene compensata dalla soddisfazione di tipo narcisistico, dall’attenzione che viene rivolta al suo operato e dall’aspetto economico che assume il suo lavoro. Ma che ricompensa ha l’osservatore? In passato egli veniva appagato dalla qualità dell’opera, in cui il valore era testimoniato dalle tracce di maestria che essa manifestava nelle proprie fattezze. Il fruitore era gratificato dalla visione dell’opera, che testimoniava il lavoro compiuto per produrla. Quando però ci si trova di fronte ad un’opera moderna, come ad esempio un ready-made di Duchamp, quale ricompensa ottiene un osservatore dalla contemplazione di uno scolabottiglie o da una ruota di bicicletta appesa ad una sedia? É impensabile che egli trovi la ricompensa per il lavoro d’interpretazione che svolge, soltanto nel godere di quanto l’artista gli mette a disposizione, soprattutto oggi, in un momento di dissipazione delle forme d’attenzione in cui si è chiamati in tutte le direzioni, perché ovunque si richiede attenzione. In opere come i ready- made di Duchamp, l’equilibrio viene rotto e l’artista si limita a scegliere un oggetto già esistente; egli non compie più un lavoro di creazione che gli richieda un’abilità tecnica di cui l’opera sia la manifestazione e il fruitore non incontra le forme tradizionali di gratificazione. Franco Vaccari si è sentito molto responsabilizzato nei confronti di chi visita le sue mostre ed essendo consapevole di questa mancanza di appagamento, ha voluto introdurre forme di gratificazione per il fruitore, che consistono nel coinvolgimento e nella partecipazione alla creazione dell’opera stessa. Il ruolo dello spettatore è reso più attivo ed egli sperimenta personalmente il valore dell’opera, che consiste proprio nella creatività. A prescindere dalla sua soluzione personale, Vaccari affronta la questione dei ready-made sviluppando un’acuta riflessione sull’operazione di Duchamp. Rispetto alle opere d’arte tradizionali, quelle dell’artista francese nascondono l’attività lavorativa compiuta dall’autore e in tal modo non mostrano tracce del suo intervento, ma si limitano a manifestare se stesse e le proprie caratteristiche materiali. Sebbene siano privi di connotati artistici, questi oggetti vengono indagati come le opere tradizionali e assorbono l’intera attenzione del fruitore. Questi si sofferma sui particolari cercandovi l’intervento dell’autore, ma, non trovandolo, esaurisce il suo sguardo sull’opera. Così essa, senza meriti apparenti, catalizza l’interesse del pubblico esibendo solamente se stessa; di conseguenza la valutazione non si basa su elementi oggettivamente presenti nell’opera e i giudizi sono espressi arbitrariamente: essi non individuano l’artisticità, ma la stabiliscono. La precarietà di questo gesto deriva dal vuoto di valore dell’opera. Essa ha un valore se è stato svolto un lavoro per crearla e tale lavoro costituisce la garanzia del suo valore. Senza lavoro nulla garantisce la validità dell’opera ed essa pretende di avere un’identità che fatica ad essere riconosciuta: l’identità artistica. Tuttavia la mancanza di lavoro può non essere letale per l’opera, perché può intervenire un altro meccanismo: l’opera può essere comprata e con l’acquisto le viene riconosciuto un valore. Lo scambio tra l’opera e il denaro sottintende un’equivalenza, se si pone che lo scambio sia equo. Il denaro è il segno del lavoro e il suo valore ha come fondamento un sacrificio compiuto. Allora di cosa è segno l’opera? Se essa viene scambiata col denaro sarà segno di un valore equivalente a quello del denaro, che in tal modo funge da garante dell’opera. Come è notoriamente risaputo, lo scibile umano è infinito e la possibilità d’ampliare la conoscenza non ha limiti. Una conseguenza di questa constatazione è che non è possibile conoscere l’arte nella sua totalità e anche chi dedica l’intera esistenza al suo studio, non può che approdare ad una conoscenza parziale. Nella fruizione dell’opera d’arte si mettono in atto vari meccanismi di lettura, l’opera si presta a diverse interpretazioni e l’approccio è multilivellare. In particolare, maggiore è la conoscenza e più perspicace, dettagliata e precisa è la visione. Il grado più o meno approfondito di conoscenza si misura proprio attraverso i livelli e più ampia è la conoscenza, più alto è il livello interpretativo. La conoscenza necessaria ad interpretare un’opera ad un alto livello comprende nozioni sull’opera stessa, sulla poetica che l’ha prodotta, sulla sua storia, sul genere artistico a cui appartiene, sull’arte in generale e nozioni su quanti più argomenti possibili. Che la conoscenza sia indispensabile per valutare un’opera d’arte è un presupposto che riposa anche nel senso comune. Pensiamo ad esempio al film Mr Bean, in cui, ad un certo punto, il protagonista si trova a dover fare un discorso su un’opera d’arte. L’ansia che lui prova e la comicità della situazione scaturiscono proprio dal presupposto che un’interpretazione d’alto livello si basi su una conoscenza approfondita, che il personaggio del film non ha. Vaccari ha nutrito uno spiccato interesse per la psicanalisi, che negli anni ’70 era molto diffusa. Ha letto Freud, Jung, Lacan e altri interpreti di queste forme di pensiero e ritiene che senza questi approfondimenti non sarebbe stato in grado di scrivere Fotografia e inconscio tecnologico. Per parlare del concetto di ‘inconscio tecnologico’ non ha usato l’angolazione culturale di Freud o Jung, ma piuttosto quella dello strutturalista francese Levi-Strauss. L’autore ha poi applicato le tecniche psicanalitiche ai suoi casi personali affrontando una forma di autoanalisi e pensa che nel suo panorama mentale risiedano vari tipi di inconsci. Il suo interesse si è accentuato tanto da spingerlo ad affrontare problemi artistici in prospettiva psicanalitica. Probabilmente le sue nozioni non tecnicamente approfondite della psicanalisi sono state compensate dall’elevata conoscenza delle problematiche artistiche. La sua attrattiva per la dimensione onirica è affiorata prevalentemente nel periodo in cui è calata l’attenzione per l’esposizione in tempo reale. Sebbene l’autore abbia realizzato anche esposizioni in tempo reale legate al tema del sogno, l’esperienza onirica vera e propria è diventata protagonista della sua arte in altri tipi di opere, quando ha disegnato le immagini che lo andavano a trovare in sogno. Egli dice di non aver prodotto le immagini oniriche, ma di averle semplicemente ospitate durante il sonno. In tal modo egli si è trovato nelle condizioni di dover dar sfogo a queste figure-ospiti, che avevano scelto lui come mezzo attraverso il quale aver accesso alla realtà. Ha dipinto quadri di enormi dimensioni (circa due metri e venti per lato) per dare allo spettatore l’impressione di entrare nel sogno. Il suo intento era quello di costruire un rapporto con le immagini dei sogni che non fosse di tipo surreale, ma che permettesse di vedere il sogno come una manifestazione della fisicità umana. Egli usa l’espressione ‘dream idea – ready made’ (in cui le prime due parole sono un anagramma delle seconde due) e la traduce come ‘idea trovata fatta in sogno’. Questa operazione può essere meglio compresa con un esempio: in uno dei suoi incontri onirici l’autore si è imbattuto nel poeta russo Maiakovskj e lo ha reso il protagonista di un suo libro, realizzato come quei testi per bambini in cui emergono oggetti tridimensionali nello sfogliare le pagine; nel libro il personaggio ha assunto spessore e dinamismo e la fisicità è stata resa con l’uso di diversi materiali. L’autore ha scritto diari di sogni riempiendo parecchi album da utilizzare privatamente (anche se pensa che alcune di quelle pagine potrebbero essere esposte al pubblico). La scelta di mantenere nel privato questo aspetto della sua vita era motivato dal fatto che quel periodo era caratterizzato da una sovrapproduzione d’immagini gratuite. Con questa definizione si intende far riferimento ad espressioni che non nascevano da necessità particolarmente forti, ma erano soltanto una risposta all’accentuata richiesta nel mercato di immagini che si avvicinassero a figure presentate in forme tradizionali, come ad esempio nella pittura. Franco Vaccari descrive la situazione contemporanea del mondo delle immagini con la metafora della ‘discarica dei rifiuti’. Spiega che le immagini si trovano nel mondo come i rifiuti in una discarica, dove un’enorme diversità a livello settoriale costituisce un’ampia genericità a livello globale. L’autore era contrario ad aggiungere immagini alla già sterminata produzione del momento, ma ha considerato che quelle che gli si imponevano in sogno, avessero una qualche forma di necessità, perché non erano ottenute attraverso uno sforzo di volontà cosciente. Si trattava invece dell’emergere di qualcosa che aveva bisogno di essere osservato e preso in considerazione. Fotografia e inconscio tecnologico è il frutto di una riflessione molto intensa. Prima della stesura, l’autore si è ampiamente documentato studiando numerosi saggi di altrettanti numerosi scrittori appartenenti a diverse discipline: Levi-Strauss, de Saussure, Kracauer, Baudrillard, Benjamin, Bourdieur, Lacan, Mac Luhan, Chomsky e altri ancora. Il testo risulta sorprendente anche letto a distanza di un ventennio dalla sua prima uscita e i quattro saggi aggiunti nella riedizione non hanno modificato il senso complessivo dello scritto. Le considerazioni dell’artista sulla realtà scaturiscono da una visione del mondo che deriva dalla sua capacità d’osservazione, costruita con un meticoloso e approfondito studio teorico e filtrata attraverso una sensibilità straordinaria. É un testo da cui si possono apprendere informazioni interessanti, scaturite da un punto di vista diverso dal comune. In questo suo libro Franco Vaccari spiega uno dei concetti fondamentali della sua poetica. Occorre precisare che l’autore, nell’arco della sua vita, in svariate circostanze ha nominato la realtà facendo uso di approcci mentali che non erano ancora stati messi a fuoco dagli altri pensatori; in tal modo ha spesso anticipato concetti nuovi, che sono riaffiorati in seguito nel pensiero di altri autori. Citiamo un esempio. Francesca Muzzarelli, in un testo di recente pubblicazione, ha scritto un capitolo intitolato L’immaginario automatico in cui espone il concetto di ‘nonluogo'[iii][3] di Marc Augè, mostrando come esso fosse già stato introdotto in precedenza da Franco Vaccari, che aveva parlato di ‘luoghi dell’identità sospesa’. Se qualche volta emerge un riconoscimento di questo tipo e si rende giustizia alla riflessione teorica dell’autore, molte altre volte ciò non accade e le anticipazioni rintracciabili nel suo pensiero vengono trascurate. Parlando dunque dei concetti fondamentali della sua poetica, si sottintende che ci sono altri concetti altrettanto importanti ma meno fortunati perchè non hanno raggiunto la notorietà. I concetti su cui si insiste maggiormente sono quelli più famosi perché sono stati riconosciuti dalla critica. L’inconscio tecnologico viene presentato dall’autore sotto il duplice aspetto teorico e pratico: lo si trova nei contenuti concettuali delle sue opere e nelle esposizioni in tempo reale. Se ne parla in Fotografia ed inconscio tecnologico, dove è indissolubilmente legato alla fotografia. In realtà esso è proprio di ogni strumento meccanico e non solo della fotografia; tuttavia l’autore individua in questa un ottimo esempio per mostrare come il concetto viva nella realtà; la fotografia è infatti una tecnologia le cui caratteristiche permettono di comprendere l’importanza dell’inconscio tecnologico, perché la peculiarità del mezzo fotografico ha fatto sì che l’autore riuscisse a modificare la sua visione. É comunemente accreditata la convinzione che un individuo sia in grado di vedere ciò che sa, in quanto la lettura della realtà è necessariamente selettiva: essa privilegia solo certi aspetti scartando tutto il resto. Il privilegio che un individuo accorda alla porzione di realtà osservata è quella che i suoi schemi mentali reputano degna d’interesse ed egli si sofferma solo su ciò che il suo senso del perché delle cose gli fa ritenere significativo. In tal modo la conoscenza condiziona la visione e tra tutto ciò che c’è alla portata dello sguardo, solo qualcosa viene individuato. Con l’uso che fa della fotografia, Franco Vaccari riesce a modificare questo postulato sostenendo che talvolta è possibile vedere anche ciò che non si sa. L’immagine fotografica rende infatti visibili certi particolari che vengono solitamente trascurati e impone al sistema percettivo una scelta obbligata. Fermando la realtà di un istante in un’immagine, si lascia all’occhio il tempo di percorrere lo spazio visibile, di assemblare molteplici particolari disseminati o di focalizzarne uno che nel trascorrere del tempo sarebbe stato trascurato. In tal modo l’occhio non è costretto ad accontentarsi di una visione d’insieme globale e complessiva, ma spesso anche approssimativa e grossolana; può sondare tranquillamente territori altrimenti inesplorabili e quindi può arrivare a vedere ciò che non sapeva. Questa è la sbalorditiva potenzialità insita nella fotografia e addebitabile all’inconscio tecnologico: la macchina fotografica è uno strumento creato e utilizzato dall’uomo, che mantiene comunque sempre un certo grado di autonomia. Essa si fa strumentalizzare per immortalare la realtà, ma nel farlo conserva un margine d’indipendenza e chi realizza lo scatto non riesce a padroneggiarla completamente perchè
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