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FOTOGRAFIA E PITTURA NEL NOVECENTO (e oltre) - riassunto, Sintesi del corso di fotografia

Fotografia ContemporaneaStoria della Fotografia ModernaStoria dell'Arte

Riassunto libro "Fotografia e pittura nel novecento (e oltre)", per esame con professor Marra presso Dams Bologna

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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caaami
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Scarica FOTOGRAFIA E PITTURA NEL NOVECENTO (e oltre) - riassunto e più Sintesi del corso in PDF di fotografia solo su Docsity! FOTOGRAFIA E PITTURA NEL NOVECENTO (e oltre) 1. IN ZONA FUTURISMO 1.1 Passatismo antifotografico Futuristi > rifiuto/disinteresse nei confronti della fotografia. Solo nel 1930, alla lunga lista dei manifesti già pubblicati dal movimento, si aggiunge quello della Fotografia Futurista firmato da Tato (Guglielmo Sansoni) e sottoscritto da Marinetti. La sorpresa per il rifiuto da parte dei futuristi verso la fotografia va naturalmente ricondotta all'interesse che manifestavano nei confronti della tecnologia. Quando la fotografia entra nelle loro opere lo fa poi a livello di tema, di soggetto affrontato, senza intaccarne effettivamente l'identità e la logica. I pittori del futurismo non attaccano mai l'oggetto quadro come faranno i letterati con la scrittura. Ecco il motivo per cui i futuristi della prima generazione sembrano disinteressati, se non del tutto avversi alla fotografia. Quindi quando la fotografia entrerà negli interessi dei futuristi lo farà secondo la vecchia logica dell'aiuto, del sostegno tecnico della visione: <<Privilegiata come modello di lettura della realtà, ma esclusa come possibile medium estetico». L'esplosione definitiva della polemica antifotografica arriva nel 1913 quando, Giuseppe Sprovieri (firmata da Boccioni) scrive una lettera dove attacca le tesi espresse da Anton Giulio Bragaglia nel Fotodinamismo futurista. Già dal 1910, Anton Giulio, assieme ai fratelli Arturo e Carlo Ludovico, aveva avviato la sperimentazione fotografica, poi etichettata come Fotodinamismo. L'attacco ai pittori futuristi si risolverà con una vera e propria scomunica. Boccioni commentando il suo dipinto del 1911, La strada entra nella casa, disse: <<La sensazione dominante è quella che si può avere aprendo una finestra: tutta la vita, i rumori della strada, irrompono contemporaneamente come il movimento e la realtà degli oggetti fuori. Il pittore non si deve limitare a ciò che vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fotografo, ma riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione, dal balcone [...]>>. Boccioni si scaglia contro la fotografia, la sua critica chiama in causa la componente moderna del mezzo fotografico, quel suo essere legato, attraverso la tecnologia ottica della camera oscura, a una visione del mondo, materiale e simbolica, di tipo monoculare-fissa, unica e centrale. Le critiche alla fotografia da parte di Baudelaire nel suo famoso commento al Salon parigino del 1959 posso essere riassunte in: a) L'arte “vera” è negazione assoluta della naturalità; non c'è arte nel momento in cui si imita specularmente la natura, e la fotografia, producendo una copia esatta di questa, non può che proporsi come opposto dell’arte. b) La fotografia è la palestra dei pittori mancati, di chi non ha mai avuto talento e di chi non ha posseduto costanza negli studi, la fotografia conferma la sua estraneità all’arte per il fatto che non richiede quelle capacità, tecniche e mentali, che caratterizzano il “vero” artista. Secondo Boccioni, la visione alla base dell’operare del pittore futurista è aperta, complessa e plurima, non selettiva. Egli critica la fotografia ma la tiene in considerazione “passatistamente”, come se fosse più rappresentativa della pittura pre-futurista. La posizione di Boccioni sulla fotografia non si manterrà su un livello così alto di criticità, perché si uniformerà a un giudizio negativo manierato e superficiale. L'occasione gli è offerta da una delle tante risposte alle accuse che la cultura accademica aveva fatto piovere sulla pittura futurista: <<Ora è bene ricordare che tanto il nostro manifesto, quanto la prefazione al catalogo, quanto i nostri quadri, furono tacciati di imperfezione e di arrièrisme. Si gridò allo scandalo a Parigi e altrove; fummo chiamati fotografia, antiartistici, cinematografici>>. Boccioni risponde con un altrettanto luogo comune: <<Una benché lontana parentela con la fotografia l'abbiamo sempre respinta con disgusto e con disprezzo perché fuori dall'arte. La fotografia in questo ha valore: in quanto riproduce ed imita oggettivamente, ed è giunta con la sua perfezione a liberare l'artista dalla catena della riproduzione esatta del vero». Boccioni dimostra una maggiore benevolenza nei confronti del cinema, sempre da considerarsi un parente stretto della fotografia. Il Manifesto della Cinematografia firmato da Marinetti nel 1916 anticipa di quattordici anni quello della fotografia, questo nuovo mezzo lascia l'opportunità di un possibile riscatto, al contrario di quello della fotografia: <<Il cinematografo, essendo essenzialmente visivo, deve compiere anzitutto l'evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso e dal solenne»>»>. Secondo i futuristi il riconoscimento artistico del cinema è possibile solo quando il rapporto con la fotografia sarà interrotto; è possibile rilevare una coincidente anticipazione delle posizioni sostenute da un esponente del Formalismo russo, Jurij Tynajanov: <<Il cinema è nato dalla fotografia. Il cordone ombelicale che li univa è stato tagliato nel momento in cui il cinema si è trasformato in arte». La fotografia, essendo priva di movimento, non poteva essere considerata un linguaggio e di conseguenza neppure aspirare al riconoscimento artistico. Diversamente dal cinema che, basato sullo scorrimento di fotogrammi e sviluppato sul principio del montaggio, era già un linguaggio e dunque poteva trasformarsi in arte, ma solo dopo aver rinnegato la parentela con la fotografia. Il cinema non verrà mai visto come un concorrente diretto della pittura, ma di altri settori, come il teatro. | futuristi continuavano a vedere il quadro come unico e immutabile strumento espressivo. In quegli stessi anni anche i fotografi con il Pittorialismo sviluppano una riflessione analoga, che identifica l'avvicinamento al quadro, unica strada per essere riconosciuti come artisti. FOTOGRAFIA E PITTURA NEL NOVECENTO (e oltre) 1. IN ZONA FUTURISMO 1.1 Passatismo antifotografico Futuristi > rifiuto/disinteresse nei confronti della fotografia. Solo nel 1930, alla lunga lista dei manifesti già pubblicati dal movimento, si aggiunge quello della Fotografia Futurista firmato da Tato (Guglielmo Sansoni) e sottoscritto da Marinetti. La sorpresa per il rifiuto da parte dei futuristi verso la fotografia va naturalmente ricondotta all'interesse che manifestavano nei confronti della tecnologia. Quando la fotografia entra nelle loro opere lo fa poi a livello di tema, di soggetto affrontato, senza intaccarne effettivamente l'identità e la logica. I pittori del futurismo non attaccano mai l'oggetto quadro come faranno i letterati con la scrittura. Ecco il motivo per cui i futuristi della prima generazione sembrano disinteressati, se non del tutto avversi alla fotografia. Quindi quando la fotografia entrerà negli interessi dei futuristi lo farà secondo la vecchia logica dell'aiuto, del sostegno tecnico della visione: <<Privilegiata come modello di lettura della realtà, ma esclusa come possibile medium estetico». L'esplosione definitiva della polemica antifotografica arriva nel 1913 quando, Giuseppe Sprovieri (firmata da Boccioni) scrive una lettera dove attacca le tesi espresse da Anton Giulio Bragaglia nel Fotodinamismo futurista. Già dal 1910, Anton Giulio, assieme ai fratelli Arturo e Carlo Ludovico, aveva avviato la sperimentazione fotografica, poi etichettata come Fotodinamismo. L'attacco ai pittori futuristi si risolverà con una vera e propria scomunica. Boccioni commentando il suo dipinto del 1911, La strada entra nella casa, disse: <<La sensazione dominante è quella che si può avere aprendo una finestra: tutta la vita, i rumori della strada, irrompono contemporaneamente come il movimento e la realtà degli oggetti fuori. Il pittore non si deve limitare a ciò che vede nel riquadro della finestra, come farebbe un semplice fotografo, ma riproduce ciò che può vedere fuori, in ogni direzione, dal balcone [...]>>. Boccioni si scaglia contro la fotografia, la sua critica chiama in causa la componente moderna del mezzo fotografico, quel suo essere legato, attraverso la tecnologia ottica della camera oscura, a una visione del mondo, materiale e simbolica, di tipo monoculare-fissa, unica e centrale. Le critiche alla fotografia da parte di Baudelaire nel suo famoso commento al Salon parigino del 1959 posso essere riassunte in: a) L'arte “vera” è negazione assoluta della naturalità; non c'è arte nel momento in cui si imita specularmente la natura, e la fotografia, producendo una copia esatta di questa, non può che proporsi come opposto dell’arte. b) La fotografia è la palestra dei pittori mancati, di chi non ha mai avuto talento e di chi non ha posseduto costanza negli studi, la fotografia conferma la sua estraneità all’arte per il fatto che non richiede quelle capacità, tecniche e mentali, che caratterizzano il “vero” artista. Secondo Boccioni, la visione alla base dell’operare del pittore futurista è aperta, complessa e plurima, non selettiva. Egli critica la fotografia ma la tiene in considerazione “passatistamente”, come se fosse più rappresentativa della pittura pre-futurista. La posizione di Boccioni sulla fotografia non si manterrà su un livello così alto di criticità, perché si uniformerà a un giudizio negativo manierato e superficiale. L'occasione gli è offerta da una delle tante risposte alle accuse che la cultura accademica aveva fatto piovere sulla pittura futurista: <<Ora è bene ricordare che tanto il nostro manifesto, quanto la prefazione al catalogo, quanto i nostri quadri, furono tacciati di imperfezione e di arrièrisme. Si gridò allo scandalo a Parigi e altrove; fummo chiamati fotografia, antiartistici, cinematografici>>. Boccioni risponde con un altrettanto luogo comune: <<Una benché lontana parentela con la fotografia l'abbiamo sempre respinta con disgusto e con disprezzo perché fuori dall'arte. La fotografia in questo ha valore: in quanto riproduce ed imita oggettivamente, ed è giunta con la sua perfezione a liberare l'artista dalla catena della riproduzione esatta del vero». Boccioni dimostra una maggiore benevolenza nei confronti del cinema, sempre da considerarsi un parente stretto della fotografia. Il Manifesto della Cinematografia firmato da Marinetti nel 1916 anticipa di quattordici anni quello della fotografia, questo nuovo mezzo lascia l'opportunità di un possibile riscatto, al contrario di quello della fotografia: <<Il cinematografo, essendo essenzialmente visivo, deve compiere anzitutto l'evoluzione della pittura: distaccarsi dalla realtà, dalla fotografia, dal grazioso e dal solenne»>»>. Secondo i futuristi il riconoscimento artistico del cinema è possibile solo quando il rapporto con la fotografia sarà interrotto; è possibile rilevare una coincidente anticipazione delle posizioni sostenute da un esponente del Formalismo russo, Jurij Tynajanov: <<Il cinema è nato dalla fotografia. Il cordone ombelicale che li univa è stato tagliato nel momento in cui il cinema si è trasformato in arte». La fotografia, essendo priva di movimento, non poteva essere considerata un linguaggio e di conseguenza neppure aspirare al riconoscimento artistico. Diversamente dal cinema che, basato sullo scorrimento di fotogrammi e sviluppato sul principio del montaggio, era già un linguaggio e dunque poteva trasformarsi in arte, ma solo dopo aver rinnegato la parentela con la fotografia. Il cinema non verrà mai visto come un concorrente diretto della pittura, ma di altri settori, come il teatro. | futuristi continuavano a vedere il quadro come unico e immutabile strumento espressivo. In quegli stessi anni anche i fotografi con il Pittorialismo sviluppano una riflessione analoga, che identifica l'avvicinamento al quadro, unica strada per essere riconosciuti come artisti. 1.4 Prove di Body Art e complicità della fotografia Nella produzione dei Bragaglia possiamo inoltre ritrovare un'importanza fondamentale per lo sviluppo della fotografia negli anni '70 > la Body Art: l'artista anziché stare dietro all'obiettivo si pone davanti ad esso. Si tratta di una produzione etichettata da Giovanni Lista, il quale, evidentemente non capace di considerarle a suo tempo in modo adeguato, le aveva viste come laterali rispetto alla ricerca di un'effettiva artisticità fotografica. Solo nel 2001, due anni dopo la prima edizione del presente libro, Lista mostrava di aver cambiato improvvisamente opinione a proposito di queste opere, usò per identificarle l'espressione di “foto-performance”. L'espressione utilizzata da Lista fa pensare all'esistenza di un genere particolare di fotografia che inizia e finisce nell’oggettualità di immagine. Una fotografia non si limitava a documentare emblematicamente i comportamenti, non esiste una “foto-performance” autonoma, ovvero una foto che di per sé è performance. Le possibilità offerte dalla fotografia sembrano proporsi come occasione privilegiata per concretizzare l'utopia, dando esplicitamente corpo a quei desideri che solo così potevano essere direttamente rappresentati. Un esempio estremo è quello di Thayaht che nell’interpretazione fotografica del dandy riuscì a manifestare la propria condizione di omosessuale, da lui mai nascosta, ma difficile da travasare in arte senza tortuosi rimandi metaforici, se non grazie alla fotografia. La fotografia mantiene il gesto, lo prolunga, lo strappa all’evanescenza della quotidianità. Il più attivo e originale tra i futuristi impegnati in esperienza performative con complicità fotografica è stato: Fortunato Depero (1892 — 1960). Già nel 1915 Depero è autore di una serie di gustosi autoritratti nei quali riesce a dar corpo e concretezza ad alcuni aspetti della poetica futurista che altrimenti sarebbero rimasti pura utopia. Ancora una volta il proposito è quello di espandere direttamente l’arte nella vita. La fotografia consente al giovane Depero di essere futurista, nel pensiero e nel corpo, senza bisogno di affidare le proprie pulsioni alla “finzione” dell’opera. Assistiamo così all’esibizione di un irriverente Riso cinico e di una sguaiata Smorfia che materializzano al meglio il disprezzo dei giovani futuristi nei confronti di quel perbenismo borghese che sosteneva l’arte accademica e passatista. Riuscitissimo anche con l’Autoritratto con pugno (1915), nel quale Depero sembra effettivamente scagliarsi con grande slancio e foga aggressiva verso la vita, pronto ad abbattere tutti gli ostacoli frapposti all’interruzione del nuovo. Ancora più interessanti sembrano un paio di microperformance orchestrate sul tema dell'artista fanciullino trasgressivo. In Autoritratto su un albero all’Acqua Acetosa (1915), Depero è un monello sorridente avvinghiato al tronco di un alberello, mentre in Autoritratto a nascondino (1916), pur vestito elegante con tanto d farfallina al collo e bombetta in mano, si diverte a fare capolino con aria circospetta dietro l'angolo di un muro. Depero interveniva anche con scritte sulle immagini, secondo un gusto e un'intenzione ancora una volta assai vicini a quanto ritroveremo negli anni Settanta dagli artisti della Narrative Art. A volte questi interventi si limitano al semplice inserimento del nome e della data, ma appaiono sempre tracciati in modo non accessorio, ampi, invadenti, così da risultare esplicitamente connessi e integrati all'opera. Un altro importante protagonista del movimento futurista è Giacomo Balla (1871 — 1958). In una delle sue foto egli appare impegnato nell’atto di dipingere; Balla fronteggia con espressione aggressiva una tela posta su un cavalletto, quasi a sottolineare come l’opera futurista, per quanto poi identificabile con la tradizionale oggettualità del quadro, risulti in realtà costituita da una sorta di azione coinvolgente l’intera corporeità dell'artista. Le operazioni che abbiamo considerato non possono essere collocate sotto la categoria dell’emblematicità ma neppure catalogate come autonome foto-performance. Non siamo di fronte a un particolare genere fra i tanti possibili generi fotografici, quanto piuttosto a una pratica artistica globale nella quale la fotografia entra in modo nuovo, a fianco del concetto e del gesto, in stretta connessione con essi, per garantirne la stessa possibilità di esistenza. 2. RIVOLUZIONE DADAISTA 2.1 Dadaisticità intrinseca della fotografia <<[...] preferisco mille volte di più la fotografia alla pittura e la lettura del “Matin” alla lettura di Racine>>, citazione di Arthur Caravan che riassume il progetto dadaista di contaminazione tra arte e vita. Nella scrittura, un quotidiano come il “Matin” sta all'opera di Racine così come, nel linguaggio delle immagini, la fotografia sta alla pittura. La fotografia può rappresentare nel visivo quello stesso principio di antiartisticità che, per la scrittura, il “Matin” interpreta nei confronti di una classica opera letteraria. Un confronto tra poetica generale del fotografico e poetica complessiva del Dadaismo: a) la fotografia è estranea al sistema tradizionale delle belle arti; b) la fotografia non è uno sviluppo della pittura ma ad essa si contrappone in modo assai netto; c) la fotografia riesce a interpretare quella tipica ansia dadaista tesa a sostituire l’arte con la vita — riesce a rendere arte la vita stessa; d) la fotografia come sistema globale è già implicitamente dadaista. Nelle intenzioni dadaiste, la vita, pur restando il serbatoio della complessità fenomenica, andava artisticizzata, recuperata e vivacizzata esteticamente, tanto da farla divenire un continuo e sorprendente spettacolo. Duchamp, esponente del dadaismo e colui che creò la modalità dei: Collages e degli Assemblages. Esplorò i rapporti tra tecnologia e arte, fra mondo delle macchine e creatività estetica. La polemica nei confronti dei fotografi pittorialisti era feroce: <<Questi fotografi hanno cercato di fare della fotografia un'ancella delle arti maggiori, anziché aprire una nuova strada attraverso lo sviluppo delle qualità intrinseche del mezzo fotografico». Haviland (uno dei più stretti collaboratori di Stieglitz) scriveva nel 1915: <<Viviamo nell'età della macchina. L'uomo ha creato la macchina a sua immagine. La macchina ha membra che agiscono, polmoni che respirano, un cuore che batte, un sistema nervoso dove corre l'elettricità. Il fonografo è l’immagine della sua voce; la macchina fotografica è l’immagine del suo occhio». Duchamp e Picabia, soggiornando a New York, pongono entrambi la macchina e la sua filosofia al centro dei propri interessi di ricerca. Dalla macchina, i cubo-futuristi avevano ricavato una sorta di simbolico principio plasmante che li guidava in una metaforica ricostruzione plastica del reale. y” La “macchinicità” assunta da Duchamp e Picabia finiva per condizionare il loro stesso atteggiamento operativo, facendogli assumere uno sguardo diretto e oggettivo come quello di una macchina. Mentre cubisti e futuristi avevano simbolicamente affidato alle Rrose Sélavy è l'impareggiabile alter ego al femminile dell'artista. Voleva sostenere l'esistenza di questo personaggio attraverso la fotografia, voleva renderla credibile perché la fotografia è vista come impareggiabile e indiscutibile certificazione dell'esistenza di qualcuno o di qualcosa. Nel 1923, Duchamp chiuderà il cerchio su questo vertiginoso intrico di identità con il lavoro intitolato Wanted S 2000 Reward, perfetto rifacimento di una classica locandina poliziesca da ricercati. Sotto il ritratto fronte-profilo troviamo un testo dove è ripresentata la figura del suo alter ego. <<George W. Welch, alias Bull, alias Pickens [...] sia pure conosciuto come Rrose Sélavy>>. Questo lavoro sottolinea il fascino particolare espresso dal ritratto fotografico-meccanico in stile poliziesco-giudiziario. L'artista riteneva che <<Il ritratto fotografico segnaletico è il migliore di tutti i ritratti fotografici possibili [...]}>>, perché espressione di quell'automaticità che caratterizza in profondità il processo fotografico. Stereoscopia: due immagini di una figura geometrica accostate nell'apposito visore producono un effetto di tridimensionalità. Altro lavoro di Duchamp, Allevamento di polvere (1920) ha le caratteristiche del vero e proprio ready-made perché egli si appropria di un'immagine autonomamente prodotta da Man Ray e la trasforma in altra cosa. Rosalind Krauss ha fatto notare come in realtà quella polvere che Duchamp stesso si era preoccupato di fissare sulla superficie del Grande Vetro costituisse già una sorta di traccia, cioè di segno indice e dunque di fotografia. <<un altro tipo di traccia diversa dalle precedenti, quella del tempo che si deposita come un precipitato dell’aria su una superficie>>. Polvere, traccia, indice, fotografia: una catena di nozioni che si intrecciano in modo suggestivo. Va notato come questa possibilità di fermare e dare sostanza al tempo abbia qualcosa di simile a quanto può svolgere la fotografia nei confronti del gesto e dell'azione. Francis Picabia (1879 — 1953) era un fotografo di buon livello, amico di Nadar e die fratelli Lumière. Picabia utilizzava pittoricamente la mano secondo i moduli secchi, diretti e impersonali della macchina. La prima opera orientata in questa definizione fu La fille née sans mère, pubblicata nel 1915 su “Camera Work”, la rivista di Stieglitz. Per il ritratto dello stesso Stieglitz, /ci, c'est ici Stieglitz, sempre nel 1915, Picabia utilizzò invece l’immagine pubblicitaria della Kodak che appariva su tutti i numeri della rivista, aggiungendovi un cambio di automobile per aumentarne il potere di evocazione meccanica già espresso dalla tecnica a stampa dell'immagine. Tutto questo ciclo di lavori implicitamente richiama lo spirito del processo fotografico, essendo costruito sugli stessi parametri di meccanicità, oggettività e antimanualità. Altro lavoro di Picabia è La veuve joyeuse del 1921 che pone a confronto, semplicemente accostandoli, un ritratto fotografico dello stesso autore, colto sorridente al volante di un'automobile e un disegno di taglio fumettistico riproducente la stessa foto. Sotto ciascuna delle due immagini compaiono le didascalie-nominazioni (rispettivamente <<fotografia>> e <<disegno>>) tracciate a mano con caratteri a stampatello. Così come Duchamp si era dimostrato interessato alle potenzialità concettuali del mezzo fotografico, ugualmente Picabia indirizza le proprie attenzioni verso le sue capacità di nominazione linguistica, poste a confronto con quelle dell'immagine manuale. Fotografia e disegno si fronteggiano e si oppongono per logica di funzionamento, si dimostrano pratiche differenti e alternative. Se Duchamp e Picabia utilizzarono poco il mezzo in modo diretto, non si può dire altrettanto per Man Ray, pseudonimo di Emmanuel Radnitzsky (1890 — 1976), che invece fu fotografo nel senso pieno del termine. Il grosso della produzione fotografica di Man Ray sarebbe da collocare cronologicamente in area surrealista. Egli dichiara la sua indifferenza nei confronti delle varie tecniche adottate: pittura, aerografo, ready-made, fotografia erano per lui mezzi interscambiabili, senza alcuni privilegio o preferenza, perché comunque il senso profondo dell’opera restava legato all’idea e non alla tecnicità dei mezzi che l'avevano generata. <<Non si chiede mai ad un pittore quali pennelli usa o a uno scrittore che macchina per scrivere usa [...] Quel che conta è l’idea non la macchina fotografica>>. Comunque, Man Ray si presentò nelle sue opere come impeccabile e sapiente utilizzatore dell'obbiettivo e come audace sperimentatore di novità, capace di rinunciare alla macchina e alla sua stessa manualità in favore in una “casualità”. <<Nonostante i suoi aspetti meccanici, la fotografia mi aveva sempre affascinato in quanto modo di dipingere con la luce e le sostanze chimiche». <<La sua duttilità (della macchina fotografica) equivale a quella del pennello, esattamente. La fotografia sta alla pittura come l'automobile sta al cavallo>>: cavallo e automobile sono due mezzi di trasporto, dove la seconda, rispetto al primo, ha semplicemente rappresentato un miglioramento ma non un cambiamento. Un’accelerazione ma non altro, come appunto sembrerebbe aver fatto la fotografia nei confronti della pittura: <<Per dipingere quel quadro al Duco mi ci sono voluti sei mesi; con una fotografia diretta l'avrei realizzato subito>>. O ancora: <<Sebbene dipingessi rapidamente era sempre un lavoro faticoso rispetto all'atto istantaneo della fotografia>>. Anche la sua sfrenata pulsione allo sperimentalismo (le fotografie senza macchina, da lui ribattezzate Rayograph, e il ricorso alla tecnica della solarizzazione), non paiono sufficienti ad accreditare l'immagine di un Man Ray consapevolmente orientato su una linea antipittorica. Christian Schad e Moholy-Nagy si sforzano per poter distinguere i Rayograph da altri lavori puramente pittorici ma i dubbi rimangono in quanto lo stesso Man Ray ne riconosce una parentela: <<In pittura non si usano più propri occhi perciò voilà, ha soppresso anche l'occhio della mia macchina fotografica, il suo obiettivo>>. In soccorso di Man Ray viene per la sua ambiguità, da un lato sembra potersi fare strada una diversa prospettiva, ricca di stimolanti e preziose suggestioni. Ci riferiamo alla consapevolezza, più volte espressa, di come il senso della fotografia non possa essere ristretto all'opera materiale intesa, ma vada invece recuperato su un piano più generale. Man Ray afferma: <<Fotografo per mantenere il contatto con gli altri>>, oppure: <<Per me la pittura è una questione molto intima e personale mentre la fotografia è un fatto pubblico>>, sta evidentemente tracciando un’identità non più riconducibile a quella della pittura, ma anzi opposta a essa. La fotografia è tecnicamente mondana. La traccia necessita della matrice. Non la si può concepire fuori da una relazione. La pittura, al contrario, può essere praticata in assenza e non richiede di essere per forza in faccia al soggetto. In Oggetti di affezione, chiarissima appare l'intenzione di segnalare qualcosa di assai più complesso della semplice riproduzione a fini pratici. Ad emergere è ancora una volta la relazione tra soggetto e oggetto. Oggetti mentali prima ancora che fisici, quindi bisognosi di concretizzare la dimensione concettuale del loro esistere. L'aiuto portato dalla fotografia contribuisce a rinforzare concettualmente l'oggetto. Lo preleva, lo isola e lo sposta, affiancandosi in ciò all'operazione già messa in atto dall'artista. 2.3 La strada ambigua del fotomontaggio Un originale intreccio è quello che si sviluppa tra Dadaismo e fotografia attorno alla pratica del fotomontaggio, esso ha finito per fondare la propria identità attorno a dei principi che inizialmente voleva contestare. Indicato già nel 1869 da Henry Peach Robinson come un delle modalità per avvicinare il lavoro del fotografo a quello del pittore, il fotomontaggio tenta di sanare quanto emerso dal famoso discorso di Baudelaire che aveva individuato nell’eccessiva realisticità della fotografia e nell’essenza di una vera difficoltà di esecuzione i massimi ostacoli a una sua accettazione come arte. Svincolandosi dagli obblighi di registrazione speculare imposti dalla macchina e dimostrando di poter ricostruire liberamente la realtà, il fotografo pensava di equiparare il proprio lavoro a quello del pittore, aggiungendo anche il fatto che il fotomontaggio dava l'occasione di esibire quella maestria che si riteneva indispensabile per essere considerati artisti. Il fotomontaggio trova piena e diffusa applicazione attorno al 1920 negli ambienti del Dada berlinese, e si mostra criticamente assai vicino alla cosiddetta “ala moderata” del Dadaismo. 3. AUSTERITÀ METAFISICA 3.1 Impossibilità di una fotografia metafisica? La fotografia è un mezzo considerato ormai, a inizio secolo, quale una delle massime espressioni del modernismo tecnologico, mentre la Metafisica come un movimento che al contrario fondava orgogliosamente tutta la sua poetica su un esplicito e dichiarato recupero di valori legati al passato, alla tradizione e alla storia. Mentre tutti gli altri movimenti erano caratterizzati da un’identica spinta verso il nuovo, la Metafisica era l’unica corrente che in quegli anni di generale entusiasmo per la modernità proponesse un convinto recupero del passato e della tradizione. La “fotografia diretta” si diffuse negli Stati Uniti per merito di Alfred Stieglitz: l'ipotesi sostenuta era che esistesse una specificità linguistica della fotografia, la straight photography, sostanzialmente opposta a quella del pittorialismo, considerato un vero e proprio tradimento della “verità” in fotografia. <<la fotografia diretta indicava un maggior rispetto per i limiti e le potenzialità intrinseche del mezzo>». La lettera inviata da Carlo Carrà ad Ardengo Soffici nel 1917 dice: <<Ammetto che una ricerca profonda nel senso della più violenta modernità, possa condurre a qualcosa che sia strettamente imparentato con l’antico>». La fotografia può sicuramente essere considerata la madre di tutta una generazione di strumenti che ha profondamente modificato il nostro rapporto con la temporalità e dunque con ciò che consideriamo “passato”, fino alle odierne prospettive di un eterno presente consentito dallo straordinario sviluppo di sempre più sofisticate tecnologie audio- video. Se fino all'invenzione di Daguerre, sistemi di conservazione quali il disegno o la stessa scrittura pagavano necessariamente un forte debito di simbolicità nei confronti del reale, con la fotografia si passa a un mantenimento diretto e fisico. Una volta catturata, l'impronta fotografica entra subito a far parte di un grande e smisurato repertorio, un immenso e affollato archivio dove le cose si accumulano una sull’altra, stabilendo legami e connessioni altrimenti imprevisti. Un’analoga logica dell'accumulo sembra aver animato secondo Fagiolo dell’Arco, la pittura di de Chirico: <<La sua mente accavalla Italia e Francia con un metodo fotografico oltre che immaginativo. La ciminiera che un giorno lo sorprende alle soglie di Montparnasse, le insegne sagomate delle vetrine, le ombre cinesi, si accavallano ai monumenti equestri di Torino e ai portici sabaudi>>. Un ulteriore ostacolo all'incontro tra Metafisica e fotografia potrebbe nascere da una troppo fiscale interpretazione del termine stesso che designa il movimento. L’ipotesi di una “metafisica” intesa come dimensione superiore, e comunque estranea, alla fisicità delle cose mal si adatterebbe al confronto con uno strumento che al contrario pare indissolubilmente legato alla materialità dell'esistente. Ma è ancora una volta lo stesso Chirico a proporre un’interpretazione del termine “metafisica” che coincide alla perfezione con quella che uno straordinario e anomalo teorico del fotografo quale Marcel Proust attribuisce a questa pratica. Scrive de Chirico in un articolo apparso nel 1919 su “Valori Plastici”: <<lo entro in una stanza, vedo un uomo seduto sopra una seggiola, dal soffitto vedo pendere una gabbia con dentro un canarino, sul muro scorgo dei quadri, in una biblioteca dei libri; tutto ciò mi colpisce, non mi stupisce poiché la collana dei ricordi che si allacciano l’un l’altro mi spiega la logica di ciò che vedo; ma ammettiamo che per un momento e per cause inspiegabili ed indipendenti della mia volontà si spezzi il filo di tale collana, chissà come vedrei l’uomo seduto, la gabbia, i quadri, la biblioteca; chissà quale stupore quale terrore e forse anche quale dolcezza e quale consolazione proverei io mirando quella scena. La scena però non sarebbe cambiata, sono io che la vedrei sotto un altro angolo. Eccoci all'aspetto metafisico delle cose>>. Scrive dal canto suo Proust, praticamente negli stessi anni, nelle pagine de / Guermantes: <<Ahimé fu proprio quel fantasma ch'io vidi, quando, entrando in salotto senza che la nonna fosse avvertita del mio ritorno, la scorsi in atto di leggere. lo ero là, o piuttosto non c'ero ancora, poiché essa non lo sapeva e, come una donna sorpresa mentre è intenta a un lavoretto femminile che nasconderà se vien gente, si era abbandonata a pensieri che non aveva mai dimostrato davanti a me. Di me stesso (in virtù di quel privilegio effimero per cui abbiamo in quell’attimo del ritorno la facoltà di assistere di colpo alla nostra propria assenza) non c'era ancora là se non il testimone, l’osservatore, in cappello e spolverina da viaggio, l’estraneo che non appartiene alla famiglia, il fotografo che viene a prendere un’istantanea di luogo che non rivedrà più. E ciò che, meccanicamente, si disegnò in quell'attimo nei miei occhi quando scorsi mia nonna, fu proprio una fotografia>>. Due brani estremamente paralleli, in pratica coincidenti, che arrivano a descrivere nello stesso modo lo spirito della Metafisica e quello della fotografia. Nel primo brano de Chirico propone una sua personale versione della teoria dello straniamento, diffusa e sistematicamente descritta in quegli stessi anni da Viktor Sklovskij e da tutto il gruppo dei Formalisti russi. Nulla di nuovo in quanto lo straniamento, il processo che porta a vedere le cose in maniera differente da come, per abitudine, succede di fare. De Chirico ne interpreta però i caratteri in maniera del tutto originale: la visione nuova, l'aspetto metafisico delle cose, passerebbe nel suo caso attraverso il rifiuto della cosiddetta “memoria abitudinaria”, la memoria di riconoscimento, quella che ci permette di ordinare gli anelli della catena cognitiva nella loro giusta sequenza. Per accedere alla dimensione metafisica delle cose è invece necessario distruggere questo ordine codificato e anestetizzante, così che gli anelli possano sciogliersi e poi ricomporsi in maniera del tutto nuova e sorprendente. Secondo Proust l'atteggiamento che dovrebbe caratterizzare l'operatore fotografico non è più “creativo” ma “impassibile”, non più invadente ma rispettoso della meccanicità apparentemente ottusa espressa dal suo strumento. De Chirico ha poi segnalato come questa chiusura dell'immagine dentro uno spazio rigido e definito costituisse uno dei punti qualificanti della sua poetica, anche nel passaggio dall’inquadratura generale della tela a ulteriori inquadrature interne: <<Il paesaggio, chiuso nell’arcata del portico, come nel quadrato o nel rettangolo della finestra, acquista maggior valore metafisico, poiché si solidifica e viene isolato dallo spazio che lo circonda>>. La gabbia prospettica inquadrando e delimitando il paesaggio assumono un valore straniante. La solidificazione e l'isolamento da esse determinati divengono due situazioni emblematiche di metafisicità. Inquadrare il mondo nel classico mirino della macchina è il primo e più qualificante intervento linguistico che il fotografo ha a disposizione: <<Senza un ausilio determinare l'inquadratura non è possibile realizzare una composizione fotografica: ecco perché è importante il mirino. Traguardando il soggetto, il fotografo lo vede svincolato dal suo ambiente, proprio come apparirà in foto>>. Svincolato, isolato, concetti del tutto identici che intrecciano tra un fonte e l’altro. Per de Chirico il riferimento prospettico si tratta di una scelta sostanzialmente citazionista, cioè spostata e dunque rimodulata rispetto all'originale. <<L’opera d’arte metafisica è quanto all'aspetto serena; dà però l'impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità e che altri segni, oltre quelli già palesi, debbano entrare sul quadrato della tela. Tale è il sintomo rivelatore della profondità abitata>>. A poco più di dieci anni di distanza da queste parole di de Chirico, Walter Benjamin scriveva che il grande fascino della fotografia consiste proprio nel suo invitarci ad andare oltre la superficie dell'immagine, nel farci intendere come quel piccolo frammento sia solo una parte di qualcosa che però non è svanito, ma anzi si è addensato, pur se in veste di fantasma, nel rettangolo di carta che teniamo fra le mani. Come ulteriore coincidenza di modello va ricordata l’interpretazione che di questi temi ci ha fornito nel 1966 Michelangelo Antonioni con il suo Blow Up. Un occasionale e all'apparenza tranquilla fotografia di reportage scattata dal protagonista in un parco, una volta stampate attentamente esaminata, si mostra densa custode di altre enigmatiche e sconvolgenti storie, perfetta incarnazione di ciò che de Chirico appunto definiva <<profondità abitata>>. 3.2 Tra citazionismo e congelamento gusto alchemico e fondato sul principio della copia unica. Lo scopo di questa sua reazionarietà ricalca un analogo atteggiamento presente nell'esperienza della Metafisica: si trattava di richiamare un clima di grande e solenne auraticità, il solo in grado di restituire quel senso dell’assoluto e della distanza della quotidianità che rappresenta il cuore di queste poetiche d'inizio secolo. La sua impostazione stilistica risulta straordinariamente innovativa, tanto che sarà un riferimento per molti autori del Novecento. La formula linguistica da lui adottata ribalta completamente i classici parametri pittorici. Esalta i principi tipici della macchina e dell’automaticità. Sostituisce la personalità della camera e quella dell’autore, che si pone come interprete delle forme concettuali suggerite dal mezzo. Il “Realismo magico” è un’etichetta lanciata da Franz Roh nel 1925. Autori come Dix, Schrimpf, Beckmann sono sicuramente vicini allo spirito della nostra Metafisica, il loro fare “magico” è un equivalente perfetto del clima di sospensione ricercato dagli italiani, vale come richiamo di un principio di straniamento e non certo di superamento del reale. <<Acuto nei dettagli come un obiettivo, l’occhio di questi pittori registrava esattamente l’uomo in primo piano e gli oggetti in secondo piano, nonché la profondità di entrambi>>. Fotografo e pittore concorrono dunque insieme alla delineazione di una poetica che non li vede antagonisti ma piuttosto alleati. 4. EPOPEA SURREALISTA 4.1 La vocazione surrealista della fotografia Il movimento surrealista pare impegnato a ridar fiato e sistemazione a tutta una serie di soluzioni già elaborate in precedenza da Dadaismo e Metafisica. Il Surrealismo va considerato come un’avanguardia letteralmente ambigua, ambi- posizionata, capace di ospitare al proprio interno importanti spinte verso il nuovo, verso l’antiaccademico e altrettanto decisi recuperi della tradizione. C'è una questione centrale nei rapporti complessivi tra fotografia e Surrealismo, troviamo il ribaltamento d’identità estetica che coinvolge la fotografia a seguito del micidiale terremoto che investe l’arte nei primi decenni del Novecento. La fotografia si trova a beneficiare di una situazione di ricerca che non solo aveva completamente ridimensionato il ruolo della manualità e delle tradizioni tecniche a essa connesse, ma che addirittura aveva fatto della casualità (Dadaismo) e dell’automatismo produttivo (Surrealismo) il proprio cavallo di battaglia. L'influenza della fotografia sullo sviluppo dei temi caratterizzanti la poetica dadaista- surrealista c'è stata, anche se difficile da misurare perché esercitata a livello ideale, cioè attraverso un'adesione implicita e indiretta al principio fotografico. È a seguito della revisione del concetto generale di arte elaborato dalle Avanguardie storiche che la fotografia può finalmente cominciare a essere fino in fondo se stessa: una macchina capace di partecipare all'esperienza estetica in quanto macchina, senza necessariamente doversi truccare da pratica manuale, senza trasformarsi in pittura. Nelle parole con le quali Breton, nel manifesto del 1924, abbozza il profilo dell'artista surrealista, è già perfettamente delineato quel pieno riscatto degli automatismi produttivi della macchina: <<Noi che nelle nostre opere ci siamo fatti sordi ricettacoli di tanti echi, modesti apparecchi di registrazione non disposti a ipnotizzarsi sul disegno che tracciamo, serviamo forse una causa ancora più nobile>>. L'espressione “apparecchi di registrazione” fa pensare proprio a una macchina fotografica, strumento di per sé ideale nel produrre quell’accorciamento di spazio, tra immagini mentali e opera, che tanto stava a cuore a Breton e compagni. Freud indica, nella Interpretazione dei sogni, come la pratica fotografica fosse qualcosa di molto vicino, per modello di funzionamento, ai meccanismi che regolano la nostra vita psichica: <<Potremmo rappresentarci con lo strumento che esegue le nostre funzioni mentali come qualcosa che rassomigli a un microscopio composito o a un apparecchio fotografico, o simili>>. Per Freud la macchina fotografica vale come pieno riconoscimento di uno strumento capace di esemplificare perfettamente come l’attività psichica si manifesti, attraverso una produzione di immagini svincolata dal controllo della coscienza e prima dell'apporto di una qualsiasi componente motorio-manuale (cioè senza autorialità). La stessa definizione di Surrealismo, avanzata da Breton nel manifesto di fondazione del movimento, riprende a pieno questo concetto, gettando così un ponte di affinità con la cultura del fotografico: <<SURREALISMO, n.m. Automatismo psichico puro col quale ci si propone si esprimere, sia verbalmente, sia per iscritto, sia in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero>>. L'automatismo diviene il centro e il fulcro della poetica surrealista. La fotografia diviene ora la forma più idonea per la costruzione dell’arte surrealista e dell'avanguardia in genere. Le principali strade indicate da Breton per raggiungere in surrealismo risultano meno spontanee, meno proprie, sicuramente meno facili, rispetto a quanto permesso dall’apparecchio fotografico. La fotografia pare naturalmente predisposta all’automatismo. È questo che ha portato la Sontag a pensare <<che la fotografia sia la sola arte naturalmente surreale>>. È stato Breton stesso che più volte ha esplicitamente segnalato questo legame empatico tra l’automatismo surrealista e l’automaticità del processo fotografico. In un testo scritto nel 1920, arrivò a definire la scrittura automatica <<un’autentica fotografia del pensiero>>. Nel saggio del 1933 a titolo // messaggio automatico aveva invece appuntato: <<Tutto è scritto sulla pagina bianca e quanto sono inutili tutte quelle cerimonie che gli scrittori fanno per qualcosa che è solo una rivelazione e uno sviluppo fotografici>>. Insomma, la fotografia, la sua tecnica, i suoi modi di funzionamento si confermano un punto di paragone imprescindibile per la riflessione di Breton sui caratteri del Surrealismo. Tornando alla definizione di fotografia come <<unica arte che sia riuscita ad attuare la grande secolare minaccia di una conquista surrealista della sensibilità moderna>> avanzata da Susan Sontag, e fondata sull'idea che «il surrealismo è al centro della disciplina fotografica: nella creazione stessa di un mondo duplicato, di una realtà di secondo grado, più limitata ma più drammatica di quella percepita dalla visione naturale>>. Quando la Sontag arriva adire che <<è la fotografia che ha mostrato nel modo migliore come accostare la macchina da cucire e l’ombrello»>>, si riferisce alla famosa immagine di Lautréamont (<<Bello come l’incontro fortuito, su un tavolo anatomico, di una macchina per cucire e di un ombrello>>), che di fatto richiama lo spirito e la pratica dell’object trouvé. L'object trouvé surrealista è da considerarsi una ripresa del ready-made duchampiano. Poniamo in evidenza i suoi motivi che nella pratica surrealista giungono ad ampliare il ready-made dadaista: il primo è quello dell’’aiuto” allo straniamento dell'oggetto ottenuto con l'aggiunta di particolari incongrui, come fa Man Ray nel 1921 quando applica die chiodi sulla piastra di un ferro da stiro. Man Ray è stato un vero maestro di questa pratica dell’aiuto, progettata e sviluppata solo in funzione di una successiva vidimazione Anche la quasi totale assenza dell’elemento umano ha contribuito a sottolineare questi caratteri di estraneità e di distanza. Secondo una lettura critica, è stato James Joyce a intuire e valorizzare la forza straniante dell’epifania, cioè di una modalità di scrittura capace di far sì che <<la cosa insignificante prenda rilievo>> e si imponga all'attenzione. Procedimenti quali l’epifania joyciana o il ready-made duchampiano ugualmente prevedono che a monte non ci sia alcuna preselezione motivata del soggetto, qualsiasi cosa può diventare oggetto di epifania perché ciò che conta non sono le sue eventuali qualità intrinseche, bensì lo stesso processo di evidenziazione che lo fa emergere: <<Il fatto — ha scritto Eco a proposito di Joyce — mai si epifanizza perché degno di epifanizzarsi, ma al contrario appare degno di essersi epifanizzato perché di fatto si è epifanizzato>»>. Allo stesso modo, è stato notato che nel repertorio di Atget trovano spazio soggetti che nessun turista avrebbe mai fotografato, perché privi di un originario motivo d'interesse. Soggetti fra loro diversissimi e apparentemente non connessi da nessuna logica di aggregazione se non quella della collezione svagata, dell'accumulo purificatore. Per i surrealisti questo recupero della realtà all'apparenza insignificante richiamava con grande facilità le teorie freudiane di accesso all’inconscio attraverso i meccanismi del lapsus e del sogno. Man Ray dimostra una ripetuta ambiguità sulla questione fotografia-pittura in una dichiarazione del 1935: <<Solo il Surrealismo è stato sin qui la forza che ha saputo estrarre dalla camera oscura le vere forme luminose, grandiose>>. Pensare che il merito del Surrealismo in relazione alla fotografia sia stato solo quello di aver saputo estrarre <<le vere forme luminose>> suona certo riduttivo. Nel // Surrealismo e la pittura, dopo avere brevemente tratteggiato il percorso creativo di Man Ray, sottolineandone giustamente l’indifferenza tra uso del pennello e della macchina fotografica, Breton affermava: <<Per chi sappia guidare con perizia la barca fotografica nel quasi incomprensibile vortice delle immagini, c’è la vita da riafferrare>>. Dichiarazione certamente rilevante e significativa rispetto a quanto fin qui detto circa l'identità che la fotografia andava assumendo nel complessivo sviluppo dell’arte contemporanea, significativa anche a prescindere dalla singola figura di Man Ray lei che appunto non risulta del tutto immune da taluni ritorni di pittoricismo. Nelle parole di Breton va sottolineata l’identificazione mondana-comportamentista della pratica fotografica, identificazione che presuppone, quali fondamentali postulati, quello del rapporto privilegiato con la realtà e quello di un esercizio estetico orientato più all'essere (il comportamento) che all’avere (l’opera). Tristan Tzara intitolerà “La fotografia alla rovescia” la sua prefazione al volume di Man Ray Les Champs delicieux, pubblicato nel 1922, arrivano a scrivere nel testo: <<Quando tutto quello che si chiama arte fu pieno di reumatismi, il fotografo accese le mille candele della sua lampada, e la carta sensibile assorbì a poco a poco il nero ritagliato da qualche oggetto di uso comune». L'accostamento tra scrittura automatica e rayographs fa venire in mente un analogo parallelismo per quanto riguarda la tecnica del frottage (ricavare immagini passando meccanicamente una matita su un foglio posto su una superficie a rilievo), la cui applicazione alla pratica artistica fu rivendicata da Max Ernst. Per Ernst la caratterista prima del frottage consisteva proprio nella riduzione <<al limite estremo>> della <<parte attiva di chi era chiamato fino allora l’autore>>, ora trasformato in una sorta di <<spettatore che assiste, con indifferenza o con passione, alla nascita della sua opera e ne osserva le fasi di sviluppo>>. La coincidenza col caso rayographs è talmente evidente che pure Ernst, sulla falsariga di quanto raccontato da Man Ray in merito all’’invenzione” delle immagini off camera, si sentì in dovere di indicare un giorno preciso nel quale “causalmente” s’accorse delle potenzialità estetiche racchiuse nella tecnica del frottage. Fotografia e frottage richiamavano il principio dell'impronta, della traccia generata automaticamente dal soggetto, dell’indice, alleandosi in questo col fronte del ready-made, che opponeva alla logica “rappresentativa” della pittura quella della “presentazione” diretta del reale. Brassai (Gyula Halàsz, 1899 — 1984) è stato poliedrico per scelta, tanto da dichiarare: <<La mia sola scusa, per il fatto di dedicarmi ad espressioni così diverse, sta nella mia profonda avversione per ogni specializzazione, che considero una delle tante tare della nostra epoca>>. Un po' scrittura automatica nell'origine, un po' object trouvé nel procedimento, e un po' pittura non figurativa nell’effetto finale, le immagini delle incisioni murarie raccolte da Brassai hanno il medito d'aver individuato l’esistenza di uno di quei territori intermedi sui quali tanto insisterà l’arte dei decenni seguenti. L'altro ciclo di lavoro lo ha reso famoso ha per soggetto la pittoresca vita notturna parigina degli anni trenta. In questi vagabondaggi “al termine della notte” tra case di prostituzione, fumerie d’oppio, ritrovi per omosessuali e bistrot popolari, Brassai, più che atteggiarsi a reporter distaccato, cercava di utilizzare la fotografia come una sorta di intensificatore di vita, di modo integrato “per esserci”, per partecipare. Brassai arriva a incarnare, per via fotografica, la figura del flaneur baudelairiano, proprio perché esercitata nelle inutili ore notturne, quelle normalmente esclude dal principio diurno di prestazione, esplorando quella sorta di inconscio esistenziale, di parte buia della nostra vita, che è la notte. Fotografando nelle strade e nei parchi con tempi di pausa necessariamente lunghi per via della scarsa illuminazione disponibile, Brassai finì per dare vita ad accattivanti atmosfere nelle quali i suoi personaggi paiono quasi emergere solo per un istante, con aria allo stesso tempo tenera e minacciosa, dal buio che altrimenti li proteggeva. Si creò uno stile visivo particolarissimo, quello stesso stile che sarà poi ripreso dai registi nel cosiddetto “realismo poetico” francese. Walker Evans (1903 — 1975) subisce fortemente l’influenza di Atget, già a partire dall’omaggio riservatogli in un breve saggio di poetica del 1931: <<In molte delle due fotografie [Atget] offre dei punti di aggancio che dovevano essere afferrati dai surrealisti più ortodossi. Le sue caratteristiche generali consistono nella comprensione lirica della strada, una capacità d'osservazione allenata, un’inclinazione particolare per i segni del tempo sulle cose>>. L’afferenza più o meno implicita di Evans allo spirito del Surrealismo è emblematicamente confermata dalle scelte e dall’atteggiamento assunti in due episodi chiave della sua carriera: nel primo caso, il rifiuto di aderire alla linea neopittorialista emersa nel cenacolo di Stieglitz e poi rilanciata da Edward Weston col Gruppo f/64. Rispetto a un’estetica che privilegiava un’autorialità astrattiva, cioè etimologicamente orientata a estrarre le forme strutturali della realtà trasformandole in composizioni sintatticamente modellate sui principi rigorosi del modernismo, Evans opponeva il principio della registrazione oggettiva e impersonale. Mentre Stieglitz e discepoli erano impegnati a violentare la natura meccanica della fotocamera in modo da trasformarla in una sorta di un nuovo pennello, Evans di quella meccanicità faceva il suo cavallo di battaglia, ribaltando completamente il principio adottato dai colleghi: non era l'apparecchio fotografico che doveva piegarsi docilmente alla mano dell’autore, alla sua sensibilità, ma esattamente il contrario, era cioè costui che doveva assumere i caratteri di sguardo, di stile, propri della macchina. Altro episodio chiave della carriera di Evans è stato quello riguardante i rapporti con Stryker ai tempi del suo impegno con la FSA, tra il 1935 e il 1938. Questo organismo, voluto dal presidente Roosvelt dopo la crisi del 1929 con l’obiettivo di ottenere ingenti finanziamenti governativi per l'agricoltura, aveva promosso un imponente progetto di documentazione della vita nelle zone rurali statunitensi affidato a importanti fotografi sotto il coordinamento di Roy Stryker. Questi, per smuovere la sensibilità dell'opinione pubblica in vista della richiesta di finanziamenti, premeva affinché gli autori enfatizzassero gli aspetti più drammatici della vita nelle campagne. Per temi e modi, Evans si conferma un perfetto surrealista “a distanza”, geograficamente lontano dal clima parigino ma pienamente in sintonia con esso. A questo punto si può ben comprendere come i suoi rapporti con Stryker, che aveva in mente tutt'altro genere di fotografia, fossero alquanto complicati tanto da giungere a un allontanamento anticipato di Evans dal progetto FSA. è sempre allusione ad uno stile fotografico antecedente, oppure a tradizioni pittoriche antiche, insomma è “teatro”>>. La vocazione fotografica che egli dimostra, per il trasformismo sofisticato, per la citazione fantasiosa ed eclettica, per la messa in scena complessa e spesso sontuosa, è più facilmente comprensibile se si considera la molteplicità d'interessi che lo fece essere stilista di moda, coreografo, scenografo, pittore e fotografo. Fu solo verso 1930 che a seguito delle insistenze dell'editore di “Vogue”, Condé Nast, si convinse ad abbandonare la piccola macchinetta Kodak per passare a una più professionale camera a lastra. La preferenza per un apparecchio sostanzialmente automatico e che non richiedeva particolari abilità nell’suo conferma subito la vicinanza di Breaton alla poetica del Surrealismo, che predicava una sostanziale indifferenza per gli strumenti operativi e le loro caratteristiche. Per altro, più che tecnico dell'obiettivo, Beaton voleva apparire un inventore di atmosfere, un costruttore di sogni capace di mischiare con grande credibilità riferimenti non immediatamente omogenei fra loro. Il Surrealismo più vicino a Breaton fu senza dubbio quello di Salvator Dalì, tanto che è possibile rintracciare nel suo lavoro alcuni elementi teorizzati dall'artista sotto l'etichetta di “paranoia critica”. Se Dalì aveva definito questa pratica come <<fotografia a mano e a colori dell’irrazionalità concreta e del mondo dell’immaginazione»>>, le autentiche fotografie di Beaton esprimono assai bene quello spirito di esaltazione e di plasmatura del desiderio che stavano alla base della teoria “paranoica”. Dal 1937, Beaton, era stato nominato fotografo ufficiale della casa reale inglese, e a metà degli anni cinquanta finì a Hollywood, dove disegnò i costumi e le sceneggiature per due famosi musical. Nel tempo del cinema e del divismo Beaton ebbe anche modo di sviluppare al meglio la sua idea di ritratto fotografico, complici le maggiori star hollywoodiane e un contesto naturalmente disponibile a quella poetica dell'illusione e della fuga nel fantastico. Suonano allora come emblematico testamento culturale le parole da lui pronunciate in un’intervista del 1974 <<Avevo in mente di fare qualcosa di completamente differente dalle solite fotografie, qualcosa di nuovo, di molto pregnante. Ecco volevo che la gente non assomigliasse a se stessa>>. Il principio del trasformismo identitario per via fotografica, giocosamente utilizzato da Breaton nella moda e nella ritrattistica, ritorna prepotentemente nelle opere di Claude Cahun (1894 — 1954), nome d’arte della francese Lucy Schwob, protagonista fra le più interessanti e complesse della stagione surrealista in ambito visivo. Claude Cahun aveva come obiettivo la questione del genere dell’identità sessuale, trovandosi essa pure a rifiutare l'obbligo di appartenenza, per natura, alle forme di identità imposte dalla cultura dominante. Caso emblematico di un privato che si fa pubblico, di una condizione esistenziale che sfocia nell’estetico, proponendo in modo non retorico, e anti- ideologico, l’indissolubilità del legame arte-vita. Davanti all'obiettivo, Cahun pare mettere in atto gli atteggiamenti con i quali in genere ci si rivolge allo specchio: il controllo, la presa di coscienza e poi la fuga, l’attraversamento verso l'immaginario. In questo modo si trova ad anticipare i due filoni sui quali si disporrà fotograficamente la Body Art fra gli anni sessanta e settanta: verifica del corpo e del comportamento o sua trasformazione fantastica. Autore davanti all'obiettivo e indifferenza per l'aspetto formale della fotografia. Formalità (tecnica) contro concettualità. Il conflitto fra due modelli di arte che paradossalmente convivono nella fotografia sono da una parte il formale, il visivo, lo pseudopittorico, dall'altra il concettuale con l’aura del ready-made. Di fronte a questa biforcazione Cahun sceglie evidentemente la seconda strada, dal momento che alla fotografia chiedeva innanzi tutto la certezza di oggettivare il proprio corpo e al tempo stesso la possibilità di proiettarlo nell'immaginario. 5. L’ASTRATTISMO IN VERSIONE FOTOGRAFICA 5.1 Da Strand a Weston: sviluppi di un neopittorialismo inconscio Dichiarare la pittoricità di un autore non significa ridimensionarne il valore, ma solo esplicitarne una determinata collocazione nello scontro dell’arte del Novecento. Il pittorialismo fotografico non è un fenomeno limitabile a un determinato periodo storico e a una particolare scuola. Il pittorialismo si ripete ogni volta che la fotografia segue la logica complessiva della pittura, cioè i suoi caratteri generali e trasversali, evidentemente riferibili a più indirizzi stilistici e non solo all’Impressionismo. È a partire dal secondo decennio del 900 che si fa strada e si impone in tutte le arti la questione della specificità, cioè la necessità di individuare ciò che in una determinata opera risulta fondamentale e costitutivo per il suo riconoscimento come opera d'arte. Nel secondo e terzo decennio del Novecento la fotografia ricerca una specificità, di un linguaggio che la caratterizzi rispetto alla pittura, ma finisce paradossalmente per essere risucchiata in quell'identità della quale intendeva allontanarsi. La fotografia scivola senza accorgersene verso un'identità pittorica e si pone saldamente nella logica del quadro. È assolutamente trasversale il fronte neopittorialista che prende corpo e si espande nella storia della fotografia tra gli anni dieci e gli anni trenta. Trasversale perché coinvolge allo stesso tempo America ed Europa e perché riguarda fotografi-puri e artisti-fotografi. Alfred Stieglitz (1864 — 1946) fondò la rivista “Camera Work” e la galleria “291”, ed è grazie a lui che nel Novecento prende corpo in America una linea neopittorialista. Emergono le figure di Paul Strand (1890 — 1976) ed Edward Steichen (1879 — 1973), per loro il vero nemico da combattere è il pittorialismo storico, fatto di soggetti presi brutalmente a prestito dell’accademismo più bieco e di manipolazioni tecniche complesse e laboriose. Il loro obiettivo era la straight photography, che doveva indicare, per l’autore, la necessità di star dentro alla fotografia, presupponeva l'obbligo di individuarne lo specifico. Strand: <<L'ottusità dei fotografi d'oggi, cioè dei cosiddetti fotopittori, si vede dal fatto che non hanno scoperto le qualità fondamentali del loro mezzo», però allo stesso tempo ammetteva l'esistenza di una pittura buona e una cattiva: a suo dire, gli strumenti tipici della fotografia, <<sebbene siano differenti per stile di capacità espressiva, da quelli di ogni altra forma plastica, sono, non di meno, imparentati con la strumentazione del pittore e dell'incisore autentico>>. L'opposizione risulta verso la pittura globalmente intesa ma verso una sua interpretazione del tutto parziale. <<Al giorno d'oggi il fotografo non deve necessariamente far sembrare la sua fotografia un acquerello, perché sia considerata arte, ma deve conformarsi alle regole di composizione>>. Il termine “composizione” era diventato in pittura una sorta di parola d'ordine. La poetica di Ansel Adams (1902 — 1984) è facilmente individuabile nella prima edizione di Camera and Lens (1948): <<Il termine visualizzazione si riferisce all'intero processo emotivo-mentale che concorre a creare un’immagine fotografica e, come tale, è uno die più importanti concetti della fotografia. Questo processo comprende la capacità di prevedere quale sarà il risultato prima ancora di effettuare l'esposizione, così da scegliere quelle procedure che contribuiranno al raggiungimento dell’effetto cercato>>. Adams considera l’atto fotografico un’esperienza di organizzazione del caos naturale. <<shapes and forms>>, cioè le forme naturali e le forme culturali dove è facile distinguere tra qualcosa che esiste a prescindere dall'azione dell’uomo (natura) e qualcosa che di tale azione è la logica conseguenza (cultura). <<L’occhio del pittore o del fotografo porta la forma (form) nelle forme (shapes) circostanti>>. Per Adams, dunque, l’arte è l'elaborazione di un manufatto dall’ineccepibile strutturazione formale. La fotografia in questo è del tutto simile alla pittura, cambiano cioè gli strumenti ma non le intenzioni e gli obiettivi del processo estetico. 5.2 Neopittorialismo all’europea Tra i multimediali va ricordato il nome di Làszl6 Moholy-Nagy (1895 — 1946) la cui capacità è di cimentarsi in diversi campi della ricerca estetica. Si occupò di fotografia, pittura, scultura, design, grafica, cinema e scenografia. Spesso, nello sviluppo della sua poetica, ci si trova di fronte a questioni in forte contrasto fra loro. L'impianto base del suo pensiero parrebbe sbilanciato verso un’ipotesi di postartisticità: <<Poco importa se la fotografia produca o meno una forma d’arte. L'unica vera misura del suo valore futuro verrà data dalle sue regole di base e non dalle opinioni dei critici d’arte>>. Le regole di base alle quali allude Moholy-Nagy sarebbero dettate da quelle strutture profonde del mezzo capaci di plasmare globalmente la nostra sensorialità, secondo un modello di pensiero che sarà sviluppato a fondo da Marshall McLuhan negli anni Sessanta: <<le macchine hanno preso il posto dello spiritualismo trascendentale». Moholy-Nagy individuava nel mezzo fotografico la possibilità per accedere in modo diretto e immediato a quell’alfabeto visivo di base costituito da linee, forme e colori che i pittori suprematisti-costruttivisti avevano conquistato con fatica. La “supremazia assoluta” della pura forma rispetto al tema figurativo derivava dalla possibilità di fare a meno della <<nostra esperienza intellettuale e associativa>> che la fotografia poteva offrire rispetto alla rappresentazione manuale-pittorica. Moholy-Nagy ha esplicitamente dato preferenza alla produzione dei fotogrammi (fotografie senza macchina): <<Visione astratta mediante registrazione diretta delle forme prodotte dalla luce>>. La pratica del fotogramma tenta di ridurre <<il linguaggio fotografico a elementi di base di numero definito e privi il più possibile di significati denotativi, trasformando così il mezzo da strumento di registrazione del reale in una tecnica di investigazione linguistica di natura analitica e autoriflessiva>>. Questa riduzione, mettendo in massimo risalto la superficie, la linea, la luce, finisce per tradurre l’oggetto <<in un motivo luminoso non figurativo e quindi crea una relazione ottica elementare, assimilabile alla pittura costruttivista>>. Se il pittorialismo dell'artista trova la massima espressione nella pratica del fotogramma, è però rintracciabile anche nelle immagini prodotte con la macchina fotografica. Emblematica risulta la seguente dichiarazione: <<Abbiamo acquisito una nuova sensibilità nei confronti della qualità del chiaro scuro, del bianco luminoso, del passaggio dal nero al grigio pieno di liquida luce, della precisa magia della “texture” più delicata: sia che si tratti dello scheletro di una costruzione in acciaio o della schiuma del mare, e tutto questo viene fissato in un centesimo o in un millesimo di secondo». Il mezzo cambia e si rinnova, ma l’obiettivo al quale tendere rimane identico: <<La scoperta di fonti di illuminazione artificiale, la possibilità di orientare sull’oggetto fasci di luce artificiale, l’alta sensibilità della lastra fotografica, furono tutti dei ponti verso il quadro realizzato direttamente con la luce>>. Albert Renger-Patzsch (1897 — 1966) contribuì insieme a Moholy-Nagy. Si mostrava anch'egli desideroso di valorizzare una specificità fotografica decisamente antipittorica: <<Lasciamo l’arte agli artisti e cerchiamo di creare la fotografia che durerà nel tempo grazie al suo valore fotografico, poiché la sua caratteristica esclusivamente fotografica non è stata mutata da un’altra parte>>. Egli si impegnò in una raccolta di immagini e in un lavoro di semplificazione delle forme naturali con lo scopo di dimostrare una sorta di coincidenza tra queste e le strutture degli oggetti prodotti dall'uomo, così da confermare la sensatezza di un modello culturale che si proponeva di riplasmare il mondo sui modelli suggeriti dalla macchina. André Kertész (1894 — 1985), vicino al gruppo surrealista, tanto da essere maestro di Brassai. Nel suo lavoro confluiscono il gusto per il prelievo a ready-made dell'oggetto comune e banale, e al tempo stesso un rigore formalista che rimanda giocoforza alla logica della pittura: La forchetta (1928), tutta la sorpresa per la spiazzante attenzione attribuita a un oggetto normalmente considerato non degno di essere fotografato viene riassorbita da un’impeccabile ripresa capace di esaltare il rapporto speculare che si stabilisce tra la linea della forchetta e del piatto e le rispettive ombre. La stimolante presenza di Moholy-Nagy contribuì a diffondere l’uso della fotografia all’interno del Bauhaus, la celebre scuola tedesca di architettura, arte e design fondata da Water Gropius nel 1919. Peterhans (1897 — 1960) proponeva ai propri allievi una fotografia formale e compositiva dichiaratamente debitrice verso la tradizione pittorica: <<Tramite il chiaro scuro, l'ordine spaziale, la distribuzione della profondità di campo, un'immagine appare un'immagine che una precisa tecnica fa derivare dall’analisi dell’oggetto>>. Gyòrgy Kepes, anch'egli esploratore di angolature e prospettive particolari attraverso le quali la fotografia potesse portare un proprio contributo alla costruzione di una new vision, inoltre svolse anche un'intensa attività di ricerca teorica e di divulgazione didattica. Florence Henri (1893 — 1982), costantemente in bilico tra fotografia e pittura, alla quale finì per dedicarsi in modo esclusivo dopo la Seconda guerra mondiale. Specializzata in ritrattistica e fotografia pubblicitaria, è in questo secondo genere, fatto sostanzialmente di still life, che meglio si possono cogliere le sue doti. Ricordiamo i suoi lavori concepiti per il marchio di profumi Jeanne Lanvin (1929) e per l'etichetta discografica Columbia (1931). Le immagini sono di pura ricerca e non finalizzate al mercato, già il titolo “Composizione”, suona come dichiarazione di poetica: <<Troverete senza dubbio che la parola composizione ritorna spesso sulle mie labbra. Dipende dal fatto che questa idea è tutto per me>>. Abbandonata ogni ambizione referenziale, la fotografia, vuole chiaramente rimandare solo a se stessa. La fotografia può tentare di avvicinarsi alla perfezione a patto che tenga sempre presente quel modello e metta a tacere ogni eventuale vocazione mondano-narrativa: <<Vorrei far capire che ciò che io voglio innanzi tutto con la fotografia è comporre l’immagine come faccio con i quadri. Bisogna che i volumi, le linee, le ombre e la luce obbediscano alla mia volontà e dicano ciò che io voglio far dire loro. E questo nel controllo strettissimo della composizione perché io non cerco né di raccontare il mondo né di raccontare i miei pensieri. Tutto quello che io conosco e il modo in cui lo conosco è fatto anzitutto di elementi astratti: sfere, piani, griglie le cui linee parallele mi offrono grandi risorse>>. Ella introduce nelle sue immagini degli specchi, complicando al massimo la riconoscibilità e la presenza degli oggetti. George Hoyningen-Huene (1900 — 1968) divenne fotografo per “Vogue” dalla seconda metà degli anni Venti. Egli trasferisce con grande abilità i parametri del pittoricismo fotografico di stampo modernista nel campo della moda. È possibile azzardare l'ipotesi che gli stessi parametri ideali perseguiti dai pittori di quel movimento possano ritrovarsi nelle intenzioni generali dei fotografi di reportage, quella spinta all'immersione intensa e appassionata nel flusso impetuoso del reale. Henri-Cartier Bresson (1908 — 2004) ha aspetti assolutamente vicini al clima dell’Informale: <<È vivendo che noi ci scopriamo, nello stesso tempo in cui scopriamo il mondo esteriore, esso ci forma ma noi possiamo anche agire su di lui>>. Prosegue Cartier-Bresson: <<Attraverso il nostro apparecchio noi accettiamo la vita in tutta la sua complessità>>, e ancora: <<La realtà ci offre una tale abbondanza che la si deve ritagliare sul vivo>>, tutte affermazioni che sembrano voler sottolineare l'assoluta primarietà del gesto fotografico, dell'atto rispetto all'opera, alla fotografia materialmente intesa. Una posizione ribadita da Ferdinando Scianna: <<Per strada vedo delle cose e dico: ecco là c'è una foto, ma per nulla al mondo prenderei una macchina fotografica. Sam Szafran che è un amico intimo quanto te, dice sempre: rompono le scatole ad Henri con questa storia che non fa più le fotografie. Ma è una sciocchezza! Lui fotografa sempre, tutta la sua vita, fino alla morte, ma senza macchina fotografica>>. In questa prospettiva non è che l'opera non conti, è che piuttosto sembra funzionare come traccia di quella fondamentale relazione col mondo che è l'atto fotografico nel suo complesso. Siamo vicini alle posizioni teoriche diffuse fra gli anni ottanta e novanta da Philippe Dubois: <<Se nella fotografia c'è una forza irresistibile, se in essa c'è qualcosa che sembra essere di una gravità assoluta, allora dobbiamo dire che con la fotografia non ci è più possibile pensare all'immagine al di fuori dell’atto che l’ha creata>>. Harold Rosenberg: <<La pittura non è più deposito di pigmenti su una superficie, ma <<atto>> a conclusione del quale resta una traccia, l'opera, il cui valore non va tanto misurato in sé, quanto con ciò che è stato il processo che l'ha portata a compimento [...] L'opera è quel che rimane al termine dell'azione, ma ciò che conta è proprio l’azione». Questa visione comportamentista della fotografia è stata poi ribadita da Cartier-Bresson in altre occasioni: <<Il maneggiamento dell'apparecchio, il diaframma, la velocità ecc., devono diventare un riflesso come il cambio di velocità in automobile>>, e ancora: <<Ho scoperto la Leica; essa è diventata il prolungamento del mio occhio>». Cartier-Bresson ci suggerisce come la referenzialità della sua fotografia vada considerata come apertura evocativa nei confronti del mondo: <<L’apparecchio fotografico non è uno strumento adatto a rispondere al perché delle cose, esso è piuttosto fatto per evocarle, e nei casi migliori, nella sua propria maniera intuitiva, esso domanda e risponde insieme». 14 Mentre in pittura la non-forma propone una referenzialità del “come se”, la fotografia, che alla referenzialità diretta è obbligata dalla propria struttura tecnica, opera nella consapevolezza che il riferimento al mondo è tanto più efficace se giocato sui toni dell’analogia e dell’evocazione. Cartier-Bresson, pur praticando una fotografia veloce e di rapina, è sempre stato considerato dalla critica un elegante formalista, capace di conferire equilibrio e ordine alla caoticità del mondo: <<Una fotografia di Cartier-Bresson la si riconosce in mezzo ad altre che riportano lo stesso avvenimento, perché vi regna un ordine così perfetto nel disordine». Per Cartier-Bresson la questione formale non viene mai risolta in termini di sovrapposizione di schemi, ma come registrazione di un qualcosa che già appartiene al reale: <<Gli elementi del soggetto che fanno scaturire la scintilla sono spesso sparsi; non si ha il diritto di riassemblarli con la forza, metterli in scena sarebbe una truffa>> e ancora: <<è l'avvenimento, per sua stessa natura, che provoca il ritmo organico delle forme>». Per spiegare l'atteggiamento del fotografo davanti al soggetto, Bresson ha richiamato l'immagine del cacciatore: <<Occorre avvicinare il soggetto in punta di piedi, anche se si tratta di una natura morta>>, dopo di che <<la soluzione a volte la si trova nella frazione di un secondo, a volte essa richiede delle ore o dei giorni>>, infine <<qualcuno passa, si segue il suo camminare attraverso il perimetro del visore, si attende, attende [...] si tira e si va via con la sensazione di avere qualcosa nel proprio sacco>>. La prospettiva è quella dell'attesa di qualcosa di straordinario e unico, del famoso “momento decisivo”. Questo atteggiamento ha chiaramente molto in comune con l'atteggiamento di azione di Pollock. Ma a risultare inaccettabile è l'idea stessa che la realtà sia fatta di momenti decisivi che è necessario individuare, per la poetica dell'informale il riferimento al reale vale proprio come tensione indistinta e globale, come azione che risulterebbe snaturata se costretta a scegliere tra ciò che conta e ciò che invece deve essere tralasciato. Nel dibattito fotografico tra “momento decisivo” e “sguardo indistinto” partecipò anche Italo Calvino, in un articolo a titolo Le follie del mirino (1955). Pur se in conclusione schierato sulla necessità “politica” della scelta, in quello scritto Calvino si interrogava sul perché, una volta imboccata una certa strada, non si abbia il coraggio di percorrerla fino in fondo: <<Se fotografiamo Pierino mentre fa il castello di sabbia, non c'è nessuna ragione di non fotografarlo mentre piange perché il castello è crollato, e poi mentre la bambina lo consola facendogli trovare in mezzo alla sabbia un guscio di conchiglia>>. Sempre negli stessi anni, un convinto ed entusiastico contributo alla poetica mediale dello “sguardo indistinto” veniva da Cesare Zavattini con la sua riflessione sui possibili sviluppi del cinema. Zavattini si mostrava profondamente convinto della particolare vocazione del mezzo cine-fotografico a incontrare la realtà nel suo globale manifestarsi, senza concedere alcun privilegio a ipotetici momenti forti, più carichi di senso rispetto al flusso della “normale quotidianità”: <<Nessun altro mezzo espressivo, infatti, ha come il cinema questa originaria e congenita capacità di fotografare le cose che, secondo noi meritano di essere mostrare nella loro <<quotidianità>>, che vuol dire nella loro più lunga, più vera durata; la macchina ha infatti <<tutto davanti>>, e vede le cose e non il concetto delle cose>>. Altri autori calati in pieno nel clima dell’Informale sono Robert Frank e William Klein. Le fotografie on the road di Frank, fondate sull’<<indistinto di cui consta il tessuto reale del nostro modo di guardare», rifuggono clamorosamente dalla pretesa di <<cogliere il bell’ordine del mondo in uno di quei fuggevoli istanti in cui sembra cristallizzarsi. Non più momenti “decisivi”, ma momenti in “between”>». Per Frank: <<l <<fatti>> non hanno più significato, e d'altronde non vi sono <<fatti>>. Oppure, ed è lo stesso, i significati possibili sono talmente numerosi che è inutile scegliere. Alle fotografie <<chiuse>> (per usare un'espressione di Robert Doisneau) succedono fotografie <<aperte>>, aperte a tutti i significati possibili, compreso quello di non averne>>. Il reportagismo vagabondo di Frank dimostra ancora una volta profonde e innegabili analogie con quello snodo della pittura informale nel quale <<l’effimero, il precario, [...] il brandello, la tranche de vie, il nucleo informe si oppongono all'immagine compiuta>>. William Klein (1928 - ), profondamente influenzato dalla cultura pittorica si sente in dovere di sottolineare formalmente ciò che invece Frank credeva potesse essere rivelato a “grado zero” dalla macchina. Le immagini di Klein appaiono cariche di sfocature , di evidenziazioni della grana, di forzature grandangolari, complessivamente segnate da una serie di interventi a rischio di logica parapittorica, in quanto generati dal bisogno di integrare manualmente alcune carenze della macchina. A controbilanciare questo possibile equivoco resta la sensazione che il tecnicismo di Klein sia sempre orientato su immagini “scorrette”, di sapore sbadato e impulsivo, o comunque non condizionate da alcuna ansia compositiva. Lo stesso ripetuto uso che Klein fa del grandangolo, obiettivo che permette di aprire lo sguardo fino al limite della deformazione suggerendo un contatto ancora più ravvicinato col soggetto, che sembra valere come richiamo della celebre avvertenza lanciata da Robert Capa: <<Se le vostre foto non sono sufficientemente buone, vuole dire che non siete andati abbastanza vicino>>. Vicino, a contatto, immersi nel mondo, esattamente quanto predicato dalla poetica complessiva dell’Informale. Weegee (pseudonimo di Arthur Fellig, 1899 -1968), era un reporter d'assalto nella New York cruda e violenta degli anni quaranta. La sua fotografia è assolutamente impulsiva e antiformale, intensa e non ragionata, <<le sue immagini sono scattate più che progettate in senso compositivo>>, e danno sempre la sensazione che l’esserci e la partecipazione 7. LA SVOLTA DEGLI ANNI SESSANTA 7.1 La fotograficità implicita della Pop Art È a partire dai primi anni sessanta che i rapporti tra fotografia e pittura iniziano a cambiare senso di marcia rispetto al passato. L’opera-manufatto continuava a essere protagonista assoluto della scena. La fotografia rivendicava implicitamente un ruolo ben più rilevante di quello nel quale pareva essere stata collocata. L'artista pop finiva ugualmente per inserire nelle proprie opere le immagini fotografiche, ormai considerate oggetti fra gli oggetti, presenze ossessive, continue e più che mai coinvolgenti della civiltà contemporanea. Una visione del problema limitata sulla quale si è però allineata buona parte della critica, come per esempio il caso di Gillo Dorfles: <<L’uso della resa fotografica varia da artista ad artista: più netto e cronachistico in. Warhol, più pittorico e compositivo in Rauschenberg, denuncia comunque l’importanza di valersi di queste immagini prefabbricate, già captate e già divenute patrimonio comune>». Nella stessa direzione si è mossa pure Daniela Palazzoli: <<La fotografia è per l'artista pop materiale bruto che entra a far parte della tela, prima sotto forma di collage e poi sotto forma di serigrafia e di riporto fotografico su tela>>. Il saggio di Marshall McLuhan Gli strumenti della comunicazione (1964) che diffuse lo slogan <<Il medium è il messaggio>>, imponeva di spostare l’attenzione e l’analisi sui significati strutturali espressi dai mezzi stessi, anziché limitarsi ai puri contenuti comunicativi. La riflessione di McLuhan spingeva a interrogarsi sul ruolo giocato da un mezzo di massa quale la fotografia all’interno della produzione artistica . Lucy Lippard, tra i primi del fenomeno pop, scrive che <<più estroversa che introversa l’arte pop arriva al dunque istantaneamente». Nella Pop Art, situazioni, oggetti, merci, cibi: tutto pare raccontato in modo ricognitivo e distaccato, senza alcuna pretesa di approfondimento psicologico; nell’opera pop l’estroversione prevale decisamente sull’introspezione. Una condizione indicata da Roy Lichtenstein quando ribadiva che <<l’arte pop guarda fuori, al mondo>». Bisogna riconoscere che la fotografia è strutturalmente estroversa: per generarsi ha bisogno di stare alla faccia delle cose. vr Un altro punto su cui riflettere riguarda l'isolamento” degli oggetti nelle opere pop: gli oggetti risultano separati dal proprio contesto, l'artista taglia intenzionalmente tutti i possibili riferimenti di situazione. L’isolamento può essere visto in due sensi: nella prima interpretazione come modalità “uno-a-uno”, per quel rapporto col mondo che costituisce il fondamento filosofico della poetica pop, e come espediente per sottrarre gli oggetti al cortocircuito della praticità nel quale risultano immersi. Rapportarsi col mondo “uno-a-uno”, facendo cioè il vuoto sul singolo oggetto, evidenzia una chiara volontà di sospensione del giudizio. Nella seconda interpretazione come concetto di “isolamento” che si identifica con la nozione di straniamento: <<Il modo più evidente di operare il riscatto dell'oggetto resta quello di rivolgersi frontalmente ad esso e di fargli il vuoto attorno [...] L’estrazione da un contesto indifferenziato è un atto che di per sé stesso vale ad estraniare un oggetto da tutti gli altri, a conferirgli un rilievo eccezionale [...] La Pop Art [...] lo sospende accuratamente da tutte le finalità pratiche, si propone di darcene una sorta di percezione assoluta, cioè, alla lettera, “sciolta da” intenti di fruizione immediata>>. Questo giudizio sospeso è analogo ai processi che caratterizzano la fotografia, già il significato etimologico della parola “esporre” (ex-porre) ci suggerisce l'idea del porre fuori, dell’isolare, evidenziando una vocazione straniante della fotografia a prescindere dall'intervento dell'autore. Un'altra questione interessante è quella dell’ingrandimento di proporzioni che quasi sempre caratterizza gli oggetti coinvolti nelle opere. Michelangelo Antonioni suggerisce un’idea di mistero a partire da una situazione di normalità quotidiana, è ricorso al fascino inquietante del blow-up (“ingrandimento”) fotografico, con lo splendido film omonimo del 1966. Roland Barthes: <<Ciò che la Pop Art vuole è desimbolizzare l'oggetto, dargli l’opacità e l’ottusa caparbietà d’un fatto>>. La funzione prima della fotografia riguarda proprio la separazione del contesto. Peter Sager ha calcato ancora di più su questa interpretazione affermando che <<un principio essenziale della Pop è quello della reciproca oggettivazione di valori formali astratti e della formalizzazione di oggetti reali>>. In effetti, quello che Warhol si trova a oggettivare con i suoi ritratti ripetuti non è tanto la persona fisica, quanto il valore formale di icona precostituita che nella persona incarna. Allo stesso tempo nulla vieta che si possa avanzare anche l’ipotesi contraria, e cioè che si tratti di una formalizzazione di effettive presenze di vita. Importante citare Maya Deren che dice: <<In quanto realtà, l’immagine fotografica ci mette a confronto con l'arroganza innocente di un fatto oggettivo: un fatto che esiste come presenza indipendente, indifferente alla nostra reazione>>. Va aggiunto che il contributo più originale della Deren è venuta dalla sua proposta di identificazione tra camera e operatore (la cinepresa in spalla, l'inquadratura ondeggiante...) che, rifacendosi all’idea di un uomo trasformato in macchina fotografica, richiama quel principio di oggettivazione dello sguardo così fondamentale nella poetica pop. È ancora di Barthes un'ulteriore osservazione: <<La Pop è un’Arte dell'assenza delle cose, è un’arte ontologica>>. Fuori dalla logica dell’estraneità e della sorpresa, il soggetto era portato a fornire un'immagine idealizzata di sé, quasi un'immagine interiore. Un grande teorico di cinema come André Bazin ha scritto che <<l’obiettivo solo ci dà dell'oggetto un'immagine capace di “smuovere”, dal fondo del nostro inconscio, questo bisogno di sostituire all'oggetto più che un calco approssimativo: l'oggetto stesso, ma liberato dalle conseguenze temporali>>. E ancora: <<L’immagine può essere sfuocata, deformata, scolorita, senza valore documentario, ma essa proviene, attraverso la sua genesi, dall’ontologia del modello; essa è il modello>>. Maurizio Calvesi parlando della Pop Art come arte di reportage, ne aveva indicato le esplicite risonanze fotografiche. La scelta metodologica è stata quella di superare lo scontato rilievo della presenza fotografica nell'opera pop, per tentare di dare rilievo al patrimonio di idee e suggestioni che lega i due campi. Da qui il riferimento al termine “reportage” che vuole indicare i termini di un incontro fisico-percettivo, diretto, frontale, col mondo, con l’ambiente. A differenza dell’Informale, il reportagismo della Pop non è più un dato virtuale, metaforico, ma assume direttamente tutti i caratteri dell’effettiva relazione con le cose, ance se poi l’immagine dell'oggetto, più che rappresentarlo specularmente, lo <<spiega [...] nel nostro rapporto attivo con esso>>. Il reportagismo fotografico evocato da Calvesi per far luce sulla poetica della Pop è un reportagismo attento al messaggio del medium più che al messaggio contenutisticamente inteso. 7.2 Icone pop: Arbus, Ruscha, Warhol All’inizio degli anni sessanta a situazione inizia a cambiare: forte dall'esperienza New Dada che aveva rilanciato le aperture ancora troppo elitarie delle Avanguardie storiche, l’arte si dimostra disposta ad allargare i propri confini. In questo nuovo contesto bisogna considerare pop un “fotografo puro” come Diane Arbus (1923 -1971). Il dato che occorre subito mettere in risalto per chiarire l'appartenenza della Arbus a una rinnovata consapevolezza estetica, è il suo considerare la fotografia un atto globale di vr”, relazione col mondo più che semplice mezzo per produrre l’’opera”. Le sue dichiarazioni in questo senso sono stata continue ed esplicite: <<Il procedimento stesso ha una sorta di perfezione, una sorta di penetrazione, alla quale noi non siamo più, generalmente, sottomessi; alla quale non sottoponiamo più il nostro prossimo. Noi siamo più indulgenti verso gli altri rispetto all’apparecchio fotografico. L'apparecchio è un po' freddo, un po' duro>>. La Arbus, <<anziché cercare di convincere i suoi soggetti ad assumere una posizione “naturale” o “tipica”, li incoraggia a essere goffi, cioè a posare [...] Il fatto che, seduti o in piedi, se ne siano impettiti, li fa sembrare immagini di sé stessi>>, come immagini di se stessi sono le Marilyn o gli Elvis di Worhol. In epoca pop l’unica esistenza consentita pare essere quella iconica, la pelle si trova sempre più a coincidere con la pellicola, la posa lunga, la messa in scena, l’artificio si sostituiscono all’illusione della verità colta in modo istantaneo e naturale. La Arbus afferma: <<Sapete, è veramente fantastico che noi si rassomigli a ciò cui rassomigliamo, ed è questo che emerge a volte molto chiaramente in una fotografia». David Bailey (1938 - ) lega indissolubilmente la sua carriera alla moda. Egli è anche stato mitizzato dal famoso film di Michelangelo Antonioni, Blow up. <<Allo stesso modo in cui l'istanza anticlassista, antipaternalista degli artisti pop mandava in pezzi il carattere elitario della scena artistica inglese, l'approccio nuovo di Bailey alla foto di moda contribuiva a sradicare l’idea che la moda fosse un passatempo da ricchi, decadente e irraggiungibile in quanto elitaria>>. Egli considerava la moda come merce tra le merci, tanto da caricarla di richiami erotici e sessuali, tutti elementi ancora estranei alle austere messe in scena delle modelle di quell'epoca. Ciò che Antonioni ha celebrato nel suo film attraverso il protagonista Thomas, ispirato alla figura di Bailey, è uno stile di vita più che un effettivo stile di immagine, un comportamento esistenziale più che un risultato oggettuale. Il miglior contributo linguistico di Bailey alla cultura pop è avvenuto fuori dal sistema della moda, con la pubblicazione della “scatola”, David Bailey's Box of Pin-Ups (1965), un contenitore all’interno del quale trovavano posto, su singole stampe, trentasette grandi ritratti di personaggi-icone dell'Inghilterra anni sessanta. Come richiedeva e imponeva la nuova cultura dei media, le singole individualità dovevano livellarsi fra loro, senza più alcuna distinzione d'ordine psicologico o sociale, e a questo Bailey aveva provveduto ritraendo i vari protagonisti in modo frontale, con lo stesso sfondo neutro alle spalle. All’inizio degli anni sessanta un contributo decisivo su questa linea giunge dall’opera di Edward Ruscha (1937 - ). Nel 1963 pubblica Twentysix Gasoline Station, libro autoprodotto che divenne poi un vero e proprio oggetto di culto. Nel fare regolarmente visita alla madre, residente a Oklahoma City, Ruscha aveva modo di percorrere quattro o cinque volte l’anno la Route 66, strada ribollente di echi letterari e cinematografici legati al mito della frontiera e della vita on the road. L'esperienza del viaggio viene da lui tradotta e riproposta non fotografando i maestosi e spettacolari paesaggi attraversati, ma allineando in modo ripetitivo e visivamente anonimo le stazioni di servizio incontrate lungo quel percorso. L'intenzione espressa dallo stesso Ruscha ci riporta alla coincidenza concettuale tra ready- made e fotografia: <<Invece di chiamare arte una gas station, ho chiamato arte la sua fotografia>>. La fotografia, nella sua identità basic (“grado zero”), funziona come perfetto sostituto concettuale della realtà. Le stazioni di servizio vengono da lui assunte come vere e proprie icone architettoniche della cultura di massa: tutte uguali, ripetitive, strutturalmente codificate. Allineate lungo la strada come le bottiglie di Coca-Cola, stanno affiancate sullo scaffale di un supermercato. Ruscha le preleva con atteggiamento impassibile e ricognitivo, estraneo a qualsiasi spiegazione d'ordine psicologico (semplicemente <<perché erano là, le vidi mentre viaggiavo>>) con una fotografia altrettanto impassibile, oggettiva, meccanizzata. Andy Warhol (1928 — 1987) rappresenta sicuramente il caso più limpido ed emblematico di artista pop alle prese con la fotografia. Intervistato nel 1963 da Gene Swenson, alla domanda <<Che cosa è la Pop Art?>>, Warhol rispondeva che la Pop è <<Amare le cose>> e aggiungeva che amare le cose implica il fatto di <<essere come una macchina [...] perché solo così si può continuamente fare la stessa cosa>>. Ancora intervistato, parecchi anni più tardi da David Shapiro, alla domanda se le sue <<ripetizioni fotografiche>> di Monna Lisa (Thirty Are Better Than One del 1963) non finissero per abbassare il tono del dipinto, privandolo di quell’aura dalla quale era circondato, Warhol, rispondeva che in realtà il suo gesto voleva essere un gesto d'amore, perché una cosa <<più la si rappresenta più piace>>. Pur concedendo un buon tasso di autoironia nelle sue parole, occorre evidenziare in queste dichiarazioni l'intenzione di riscattare la fotografia dalle tante accuse di meccanicità e di ripetitività antiauratica che una critica sbadata e superficiale le ha sistematicamente rivolto. Secondo Warhol è tutto il sistema mediale a farsi responsabile di una nuova estetica della massificazione, fino al coinvolgimento di ogni protesi utilizzata nella relazione con l’ambiente: <<Ora gli occhiali hanno standardizzato le visioni di tutti a dieci diottrie. Questo è un esempio di come si possa diventare più simili. Ognuno di noi potrebbe vedere a diversi livelli se non ci fossero gli occhiali>>. Intuizioni e paradossi, quelli di Warhol, intrecciati da Calvesi con la riflessione sistematica sui media che Marshall McLuhan stava diffondendo in quegli stessi anni: <<per nessun altro come Warhol può valere il noto slogan di McLuhan che il medium è il messaggio>>. È allora corretto ipotizzare che l’arte di Warhol <<in larga misura avesse per soggetto i propri mezzi e metodi>>, poiché tutto il suo lavoro può essere letto come una sottile ed esauriente teorizzazione sul passaggio da un’arte fondata sul mito della creatività manuale a un’arte governata dal sistema mediale. Ogni passaggio dell’opera di Warhol può trovare efficace collocazione e puntale verifica. Partendo dalla straripante varietà di soggetti affrontati lungo tutto l’arco della sua carriera, <<se nulla dovesse rimanere degli anni dal 1962 al 1987, salvo una retrospettiva di Andy Warhol, i futuristi storici e archeologici si troverebbero ad avere a disposizione un riassunto temporale più apio di quello offerto da ogni altro artista del periodo>>. O ancora, come ha notato Robert Rosenblum, <<l’arte di Warhol è, di per sé, una sorta di cinegiornale, una sintetica antologia visiva dei più clamorosi titoli di testa, personalità, creature mitiche, generi alimentari, tragedie, opere d’arte e persino problemi ecologici in questi decenni>>. Più che una tecnica, la fotografia è stata per Warhol un atteggiamento mentale, un modo di essere, una filosofia assorbita in profondità che andrebbe recuperata in episodi all'apparenza estranei all'identità fotografica come per esempio il tentativo di farsi sostituire da un sosia in occasione di conferenze o inaugurazioni di mostre: <<Nel 1967 manda all’Università dell'Oregon il suo sosia, Allen Midgette. Ma dopo alcuni giorni i funzionari si insospettiscono e rifiutano di pagare il compenso di 1000 dollari [...] Nel 1968 Warhol si presenta al Museo d’arte moderna di Stoccolma per la sua mostra e dice: “Volevo mandare qualcuno che mi assomigliasse. Ha già funzionato una volta”>>. Il suo slogan più celebre <<Voglio essere una macchina>> con una dichiarazione dalla quale è facile ricavare un'estensione polisensoriale della formatività fotografica: <<Vorrei tanto avere una memoria fotografica , darei qualunque cosa per averla>>. Come dire che, se gli effetti più evidenti della plasmatura prodotta dalla fotografia riguardano l'organo delle conseguenze d'ordine puramente concettuale, come quelle legate all'esercizio dell’accumulo e della memoria. Se c'è qualcuno cui spetta il merito di avere definitivamente liberato la fotografia da tutti gli equivoci connessi al persistere di un'identità pittorica, questi è proprio Warhol. | precedenti c'erano anche stati ma l’immaturità dei tempi aveva giocoforza prodotto azioni troppo isolate e occasionali, nessuno aveva effettivamente “normalizzato” l’antipittoricità della fotografia. Fondamentalmente legata all'esperienza duchampiana del ready-made, la pratica artistica di Warhol, <<con la crescente importanza attribuita alla mera immagine fotografica e alla sua grossolana e infinita riproducibilità, favoriva l'erosione del retaggio pittoriale della Scuola di New York ed eliminava ogni traccia dei compromessi cui Rauschenberg aveva dovuto scendere con quel retaggio>>. La pittoricità manifestata da Robert Rauschenberg, protagonista della scena pre-pop New Dada, derivava da un utilizzo della fotografia che finiva poi per ricadere nei modi di una compositività pittorica che sintatticamente utilizzava il frammento fotografico come elemento fra gli elementi. Warhol invece, adottando <<l’immagine ready-made centralizzata, elimina la composizione relazionale che aveva svolto la funzione di matrice spaziale della struttura pittoriale e della narrazione relativamente tradizionali di Rauschenberg>>. Se Warhol ha definitivamente de-pittoricizzato l’uso della fotografia 8. LA GRANDE ARMATA DELLE NEOAVANGUARDIE 8.1 L’arte come fotografia: ricerche degli anni sessanta Negli anni sessanta si assiste al ribaltamento della vecchia formula della “fotografia come arte” in quella di “arte come fotografia”. Rimane però una questione dibattuta: il ruolo assunto dal mezzo fotografico nei confronti delle varie ricerche raccolte in quegli anni sotto le etichette di Body Art, Narrative Art e Conceptual Art. Ci si interrogava sul fatto se questo ruolo risultasse determinante per la stessa esistenza delle ricerche. A schierarsi in modo decisamente polemico era in quegli anni Daniela Palazzoli, per la quale l’impiego della fotografia da parte degli artisti operanti tra Body, Narrative e Concettuale avveniva nel più totale disprezzo del linguaggio fotografico. Drastico e avvilente risultava per esempio il giudizio espresso per l’area del Concettuale: <<le modalità di apparizione dell'immagine debbono essere quanto più vili possibili affinché non offuschino l'atteggiamento mentale di cui sono una registrazione che solo conta. Come si vede, dunque, questo tipo di fotografia non differisce affatto dall’atteggiamento aristocratico dei pittori romantici che consideravano la fotografia un sottoprodotto dell’immagine»». Non andavano certo meglio le cose per la Body Art, dove, sempre secondo la Palazzoli, la <<fotografia che rimane è presentata come reportage dell’avvenimento [...] che non è certo riconoscibile nelle immagini banali, e talvolta addirittura squallide, in cui esso è stato fissato>>. Carico di disprezzo appariva infine anche il giudizio espresso a proposito della Narrative Art: <<Ma dove la fotografia diventa francamente ricordo da album di famiglia, souvenir amatoriale in senso letterale, è nell'arte narrativa. Qui il legame fra immagine e parola è di una labilità molto vicina all’indecifrabilità; indecifrabilità per altro ribadita spesso dai testi scritti a mano, quasi illeggibili>>. Totalmente assente dal ragionamento della Palazzoli appare la vaga ipotesi che l'identità della fotografia possa darsi fuori dal principio della formalità, e dunque dei parametri che per tradizione contraddistinguono la pittura. Se si ragionasse in termini di pura pittoricità le accuse avanzate dalla Palazzoli sarebbero anche comprensibili, ma i tanti “difetti” delle fotografie legate alle operazioni body, narrative e conceptual risultavano in perfetta sintonia con un generale quadro di poetica che intenzionalmente rifiutava tutti i principi più tipici della pittoricità. Negli anni ottanta, il riconoscimento del ruolo fondamentale e non accessorio per il mezzo fotografico nelle operazioni body, narrative e conceptual giungerà da un critico non certo tenero nei confronti delle pratiche extrapittoriche: Jean Clair, nella sua Critica della modernità, a riconoscere l'assoluta rilevanza dell’intervento fotografico rispetto allo svolgimento e alla stessa esistenza di certe esperienze: <<Il gesto di per sé idiota dell’artista della Body Art o lo scritto di per sé insignificante dell’artista “concettuale” una volta fotografati acquistano una specie di esistenza irreale o di finta identità, un modo illusorio di durata che, per così dire, forzano l’attenzione>>. Va sottolineato il ruolo costitutivo riconosciuto da Jean Clair alla fotografia, ruolo a suo dire derivante da caratteristiche concettuali e non certo formali del mezzo. Per quanto riguarda le ricerche fondate sull'utilizzo del corpo, occorre riconoscere come, per lunghi secoli, le arti visive abbiano sempre affrontato la questione della fisicità in modo indiretto e traslato. Da questo punto di vista il quadro e la scultura sono interpretabili come una trasposizione-traduzione del corpo nella quale la presenza diretta della carne subiva una sorta di censura fondata sull’inganno ottico. Una censura sicuramente riferibile agli svolgimenti della nostra cultura occidentale e anche imputabile alla mancanza di strumenti capaci di mantenere “direttamente” questa presenza. Che tali condizioni abbiano avuto un riflesso nelle arti visive è facile comprenderlo: <<Ciò che non si può conservare, vuol dire che appartiene agli strati inferiori e degradanti dell’uomo; il colore è meno nobile del disegno, il dato acustico è superfluo-irrilevante rispetto a quello plastico; la mobilità è meno valida dell’immobilità statuaria>>. Le cose sono iniziate a cambiare dal momento in cui abbiamo avuto a disposizione <<strumenti che allargano i poteri della registrazione, spalancandoli alle zone del contingente, del fenomenico, del precario, e quindi ponendo le basi per il loro riscatto [...] Il corpo e tutte le sue manifestazioni oggi vengono riscattati, risalgono nella scala dei valori perché, congiuntamente si dà la possibilità tecnica di fissarli, di farli restare>>. La fotografia ha indiscutibilmente aperto quella che poi si è definita come “realtà virtuale”. La Body Art è l'assoluta rilevanza della nozione di “fotografia implicita”. Il mezzo fotografico, anche quando non direttamente utilizzato nelle varie operazioni dei body- artisti, rimane una fondamentale condizione per il loro svolgimento. Molti body-artisti, come ha notato Filiberto Menna, hanno utilizzato la fotografia per ampliare e meglio svolgere talune ricognizioni legate alle loro performance: <<La Body Art si presenta, nella sua declinazione più <<fredda>>, come un’analitica del corpo assunto come mezzo di espressione estetica: l’azione sottolinea le funzioni del corpo e delle sue parti, servendosi anche di mezzi di riproduzione meccanica (fotografia, video, film) non solo per finalità di documentazione, ma anche per condurre una indagine più penetrante, più attenta a fermare i movimenti dell’azione>>. Walter Benjamin nel suo saggio del 1936, considerava in termini qualitativi la questione dell’integrazione visiva offerta dall'obiettivo: <<Si capisce come la natura che parla alla cinepresa sia diversa da quella che parla all'occhio. Diversa specialmente per il fatto che al posto di uno spazio elaborato della coscienza dell’uomo interviene uno spazio elaborato inconsciamente». Le immagini utilizzate nella Narrative Art avevano tutto il sapore della classica foto da album di famiglia, compreso quel tanto di incertezza tecnica che poteva far pensare a una mancanza di dimestichezza con macchine, obiettivi e procedimenti vari da parte dei loro autori. Una povertà linguistica che non si poteva poi nemmeno dire bilanciata da un recupero di fascino a livello di temi e soggetti, perché anche questi pescavano abbondantemente in quel repertorio di banalità che il più delle volte domina nelle immagini a carattere familiare. Il grande merito dell’esperienza Narrative è stato quello di comprendere fino in fondo come il contributo originale che la fotografia poteva portare alla causa dell’arte fosse da individuare in gran parte nel suo valore concettuale prima che formale. Le immagini della Narrative Art intendevano funzionale come detonatori di esperienze e per far questo dovevano necessariamente azzerare ogni possibile lettura formale. Si aggiunge poi la questione della scrittura che, in uno spazio a parte, quasi una sorta di didascalia, accompagna spesso il racconto delle immagini. Una scrittura anch'essa banale, tanto nei significanti (grafie incerte, infantili) quanto nei significati (osservazioni poco informative), una scrittura incapace di spiegare fino in fondo quanto presentato dalle fotografie. L'obiettivo della Narrative Art è quello di gettare un ponte verso il mondo, verso il piano dell'esperienza concreta. Quando, all’inizio degli anni sessanta, Barthes parlava dell'immagine fotografica come di un <<messaggio senza codice>>, non codificabile, perché troppo analogico rispetto al reale, tentava di definire ciò che la Narrative Art avrebbe poi confermato nella pratica artistica: il paradosso di essere messaggio ma senza codice. Dopo Body e Narrative, il terzo momento di forte presenza della fotografia delle ricerche artistiche degli anni settanta va registrato a proposito del controverso orizzonte del Concettuale. Controverso perché è difficile non riconoscere che la tendenza alla smaterializzazione dell’opera, con conseguente espansione del piano mentale, costituisca una sorta di denominatore comune fra tutte le ricerche di questi anni. Lucy Lippard e John Chandler, pur indicando nell’arte contemporanea la presenza di un’unica forte biforcazione tra comportamentismo e concettualità, hanno poi finito per ammettere che <<l’arte come idea e l’arte come azione>> risultano alla lunga essere un <<modo diverso per arrivare allo stesso punto». Ulteriore biforcazione interna tra il Concettuale “mondano” e quello “analitico”. La critica ha definito “mondano” quel Concettuale che non ha rinunciato all'ipotesi che lo sviluppo mentale dell’opera si configurasse quale intervento di relazione con l'esterno, mentre è Per la coppia Gilbert & George (Gilbert Prousch, 1943 - , e George Passmore, 1942 - ), la presa di coscienza della propria corporeità è avvenuta aderendo a una sorta di stereotipia di comportamenti volutamente bassi e banali. Autoproclamatisi “statue viventi”, i due si sono fatti riprendere fotograficamente in situazioni e atti assolutamente normali, così da incarnare il prototipo del perfetto inglese. Per Gilbert & George la fotografia ha così assunto non solo la funzione di rendere concreti e tangibili una serie di atti che altrimenti non avrebbero avuto possibilità di manifestarsi, ma anche soprattutto quella di fondare lo stereotipo, il modello collettivo della visività di massa. Il decisivo ruolo giocato dalla fotografia come mantenimento-prolungamento delle azioni proposte nella Body Art è rilevabile anche nell’opera di Gina Pane (1939 — 1990) alla quale si devono tutta una serie di rituali interventi autolesionistici tesi ad aprire piccole ferire sul proprio corpo. È stata l'artista a sottolineare il “logico” approdo delle proprie performance in fotografia: <<Il corpo che è, al tempo stesso, progetto/materiale/esecutore di una pratica artistica, trova il suo supporto logico nell'immagine, attraverso il mezzo fotografico>>. La Pane utilizzava la fotografia come <<”oggetto sociologico”, capace di “cogliere sul vivo” quella dialettica per cui un comportamento diventa significativo>>. Nel suo caso, a concentrarsi fotograficamente è l’idea stessa del dolore e della ferita, assunta come forma di coscienza e di recupero estetico, cioè sensoriale, del corpo. Proprio all’inizio degli anni settanta si assiste alla contemporanea affermazione dei due più significativi interpreti di questa tendenza: Urs Luthi (1947 - ) e Luigi Ontani (1943 -). Per entrambi l’obiettivo era quello di proiettarsi, in carne e ossa, in quello spazio dell’illusone che fino ad allora si pensava appannaggio del solo esercizio pittorico. Recuperando in pieno il suo iniziale statuto di credibilità scientifica la fotografia riesce a rendere credibile ogni espansione nell'immaginario, trasformando anche la messa in scena più esasperata in qualcosa di concettualmente credibile. Mossi da un identico istinto di opposizione alla cruda e asfissiante condizione del “dover essere” cui il sociale costringe il nostro corpo, Lithi e Ontani imboccano però due strade di lavoro ben differenziate. Mentre il primo, con buona dose di provocazione considerati gli anni, si impegna in una coinvolgente riflessione sull’identità sessuale, l’altro approfitta del mezzo fotografico per dare corso a straordinarie fughe nel mondo fantastico delle favole, del mito e della stessa iconografia artistica. Con elegante riferimento alla Rrose Sélavy duchampiana, Lùthi appare per la prima volta al femminile in Selfportrait del 1970, un’opera che, intenzionalmente orientata a creare dubbi sull’appartenenza all’uno o all’altro dei due sessi, sembra metaforicamente riprendere la stessa ambiguità della fotografia: <<Lùthi [...] visualizza l’intrinseca ambivalenza del mezzo, come si è detto, realistico e illusorio, fantastico e documentario, fedele e infedele>>. Assai intrigante per la filosofia del fotografico è l’autoritratto del 1972 all’interno del quale compare la scritta /’// Be Your Mirror, che appunto invita lo spettatore a specchiarsi nella fotografia di un provocante Lithi in bilico fra maschile e femminile. Verificata la possibilità di assecondare fotograficamente ogni pulsione dell'immaginario, del 1973, con The Numbergirl, Lithi giunge poi a offrirci una vertiginosa giostra di scambi e sostituzioni, in una sequenza di venti immagini nelle quali dà corpo ad altrettante mutazioni tenendo in mano fotografie di trasformazioni precedenti. | suoi cambi di identità non sono però fughe, la vita che si realizza nello spazio fotografico è anzi una necessaria e indispensabile integrazione di quella normalmente condotta nel quotidiano: <<La vita in sé è piuttosto monotona e noiosa e banale. Nell'arte io posso articolarmi e formulare me stesso come nella vita non potrei mai [...] questa assenza di compromessi che io posso vivere nell'arte ti dà una libertà, nella testa e nell’anima, così incredibile che in qualche modo riesci a sopportare anche la vita>>. Gli alter ego fotografici proposti da Luigi Ontani pescano invece a piene mani nello sconfinato repertorio del fantastico, muovendosi senza limiti di spazio e di tempo tra favola, mito e iconografia artistica. La caratteristica comune di queste vere e proprie transustanziazioni è quella di prendere corpo da precedenti modelli, suggeriti magari dalla tradizione popolare, oppure da quella letteraria o pittorica. L'eterogeneità pare come animata dall’intenzione di verificare oltre ogni limite l’esperienza dell’esotismo, etimologicamente inteso come esperienza della diversità , come <<conoscenza che esiste qualcosa che non siamo noi>>. Un'esperienza che per Ontani si trasforma in una totale immersione nel corpo altrui dal quale con la fotografia fa <<scivolar via la pelle>> di cui poi si riveste. Un tentativo di sintesi tra i due filoni di Body Art è offerto dall'opera di William Wegman (1942 - ), artefice e gran maestro di quella che lui stesso ha definito “Dog Art”. Arte da cani in duplice accezione, perché da un lato volutamente kitsch e grottesca, ma dall’altro effettivamente sviluppata con la partecipazione del proprio cane Man Ray. Un nome che funge da provocante dichiarazione di poetica, considerata l'esplicita ironia su una figura importante, protagonista dell'avanguardia dada-surrealista. Wegman finisce per realizzare una esilarante serie di irresistibili performance che, considerata la partecipazione dell'animale, hanno necessariamente bisogno di essere stabilizzate in fotografia e video. Le etichette critiche rischiano di restare mute di fronte alla particolare ambiguità di alcune ricerche: è il caso del lavoro di Francesca Woodman (1958 — 1981), certamente difficile da inserire in modo univoco in uno dei due filoni di Body Art (“corpo fisico” e “corpo immaginario”). Nel giro di pochi anni, prima di togliersi tragicamente la vita all’inizio del 1981, la Woodman ha offerto il proprio corpo all'obiettivo, in una serrata sequenza di performance fotografiche costantemente in bilico tra verifica e fuga, tra ricerca di un’identità e dispersione consapevole dell’lo. Ciò che più emerge chiaramente dalla sua ricerca è la convinzione che l'immaginario non sia un’altra dimensione, diversa e separata, che affianca in parallelo la realtà, quando piuttosto una sua particolare declinazione. L'immaginario della Woodman è tremendamente fisico, carnale, tattile, scivola sul corpo come il corpo scivola nell'ambiente, si adatta ai muri, si adagia sui pavimenti, cerca di mimetizzarsi con i pochi oggetti presenti sulla scena. <<Vorrei che le mie fotografie potessero ricondensare l’esperienza in piccole immagini complete nelle quali tutto il mistero della paura, o comunque ciò che rimane latente agli occhi dell'osservatore, uscisse, come se derivasse dalla sua propria esperienza>>. Accade così che l’ordinario si trasformi in mistero che appare improvvisamente inquietante, pur scaturendo da ciò che è più familiare. Il suo lavoro pare la perfetta trasposizione nel fotografico del principio dechirichiano del quadro come “profondità abitata”, con l'aggiunta dell’azione, del gesto, della frammentazione ancora più labile dell’ordinario. Esplicitamente connessa alle intenzioni e agli svolgimenti della ricerca letteraria, la Narrative Art ne ha ripreso i due più autorevoli assi di poetica manifestazione nel corso del Novecento: quello proustiano, fondato su un uso destrutturante della memoria, e quello joyciano, teso invece a una meticolosa epifanizzazione del quotidiano. Sul primo versante la figura più rappresentativa è sicuramente quella di Christian Boltanski (1944 — 2021), che già in un lavoro del 1969 dichiarava umilmente tutto il proprio debito verso il suo immenso connazionale riprendendone diligentemente l’insuperata lezione: due fotografie, scattate nel 1946 e nel 1969, mostrano, la prima, lo stesso Boltanski bambino intento a giocare con dei cubetti di legno, la seconda, gli stessi cubetti ritrovati nel 1969. Un’applicazione fin troppo scolastica della poetica prussiana, ma comunque sufficiente a mettere in risalto le possibilità della |” fotografia di recuperare il "tempo perduto”. Del resto se è vero, come ha scritto Herbert Marcuse, che <<dal Mito di Orfeo al romanzo di Proust, felicità e libertà sono sempre state collegate con l’idea della riconquista del tempo: il temps retrouvé>>, allora è facilmente comprensibile come la fotografia, insuperabile strumento di memoria e di recupero del passato, possa assumere un posto di assoluto primo piano. Decisamente proustiano appare anche L’appartement de la rue Vaugirard, del 1973, per il quale sembra quasi di respirare un’aria da “ritorno a Combray”. Con nove banali fotografie delle varie stanze, accompagnate da altrettanti scarni testi, Boltanski ci guida nell’affettuosa ricognizione di un appartamento che le immagini mostrano vuoto e disadorno, ma le parole ci suggeriscono invece ancora animato di presenza familiari. che poi accompagnerà con una progressione numerica la maggior parte dei suoi interventi negli anni a seguire. L'espressione si riferisce al carattere di work in progress di queste operazioni, tutte costruite in contemporanea all'esposizione stessa e dunque in qualche modo bisognose di un intervento attivo da parte del pubblico, chiamato a <<distruggere lo spazio della contemplazione per aprire quello dell’azione>>. Oltre che a livello di poetica implicita, il contributo di Vaccari è stato molto forte anche sul piano degli interventi diretti culminati, nel 1979, con la pubblicazione del volume Fotografia e inconscio tecnologico. Tutti questi aspetti, secondo Vaccari, risultano funzionali alla necessità di operare su <<zone di frontiera linguistica>>, quelle di <<germinazione del senso>>, facendo ricorso a immagini volutamente divaganti e frammentarie. Ma esemplari contributi teorici alla definizione della fotografia emergono anche da altri lavori di Vaccari, come per esempio 700 Km di esposizione, del 11972, oppure Omaggio all’Ariosto del 1974. Il primo, concepito per una mostra, propone una monotona serie di fotografie di mezzi che trasportano merci ripresi da dietro sul percorso fatto dall'artista per recarsi nella città della mostra. L'intenzione di Vaccari era quella di usare la fotografia come intervento di attenzione spazio-temporale su un'esperienza, quella del percorso, altrimenti facilmente deperibile in senso anestetico, come accade quando, concentrandoci sulla meta da raggiungere, non ci accorgiamo del tragitto che stiamo compiendo. Qualcosa di analogo si potrebbe dire per il secondo lavoro citato nel quale ancora un percorso, un viaggio, viene esteticamente riscattato da Vaccari applicando un’immagine in Polaroid, scattata al momento, sulle cartoline illustrate acquistate nei vari luoghi incontrati, cartoline poi spedite nella località meta del viaggio e della mostra. Ma il lavoro più noto e significativo di Vaccari rimane l’allestimento posto in atto alla Biennale di Venezia nel 1972 con il titolo Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio. Una cabina per fotografie automatiche, l'assenza dell’artista-autore, una scritta alle pareti che riassume fiumi di riflessioni svolte sullo statuto indicale, da “traccia”, dell'immagine fotografica. Joseph Kosuth (1945 - ), nei lavori delle serie “Uno e tre...”, tre elementi vengono posti dall’artista in cortocircuito logico-linguistico fra loro: un oggetto comune materialmente presente, la sua definizione linguistica tratta da un vocabolario e stampata su un pannello e infine una foto, a grandezza naturale, dell'oggetto stesso. La fotografia dimostrerebbe tutta la sua condizione di artificialità dovendo essere compresa come linguaggio fra i linguaggi. L'ingegnoso meccanismo approntato da Kosuth non riesce però a contestare l'identità indicale della fotografia che continua a manifestare la sua naturale e necessaria mondanità. Va ricordata l'installazione One and Three Photographs del 1966, lavoro decisamente funambolico dal momento che il triangolo pone in relazione due fotografie (una dovrebbe essere l’’oggetto” e l’altra la sua rappresentazione) perfettamente identiche più la solita definizione ligustica da vocabolario. Volendo esasperare la linguisticità della fotografia, Kosuth finisce per dimostrare esattamente il contrario, e cioè la perfetta interscambiabilità che nella fruizione si ha tra fotografia e reale. Un concettualismo analitico ancora più spinto è quello proposto nell'opera di Kenneth Josephson (1932 - ), per il quale la messa in discussione dell’indicalità fotografica passa attraverso il ricorso al classico e collaudato stratagemma pittorico del quadro dentro il quadro. La foto dentro la foto dovrebbe smascherare l'inganno e ricordare che ci si trova in presenza di un'immagine. All’inizio degli anni settanta anche Mario Cresci (1942 - ) si è trovato a sfruttare lo stratagemma della foto dentro la foto. In una serie di ritratti realizzati fra gli abitanti di Tricarico in Basilicata, Cresci ha fatto impugnare ai propri soggetti i ritratti di parenti e defunti affettuosamente conservati fra le mura domestiche. Il suo concettualismo risulta più mondano che analitico, perché legato a un suggestivo rimando di memoria fra chi c'è e chi c'era, ma continua a essere presente la fotografia. Anche il lavoro svolto da Ugo Mulas (1928 — 1973) attorno al 1970 con il titolo complessivo di Verifiche è stato considerato dalla critica vicino alla linea della concettualità analitica. L'intenzione di partenza, anche per ammissione dello stesso Mulas, era tale: <<Nel 1970 ho cominciato a fare delle foto che hanno per tema la fotografia stessa, una specie di analisi dell’operazione fotografica per individuarne gli elementi costitutivi e il loro valore in sé>>. Il risultato finale sembra ancora una volta confermare per la fotografia la necessità di un rapporto con l'esterno, con il mondo. Tra la metà degli anni sessanta e buona parte del decennio successivo sono certamente tanti gli artisti che hanno dato vita a operazioni etichettabili come concettuali. 10 Lo spirito che anima tutte queste operazioni è riconducibile alla teoria del “medium come protesi”. All’inizio degli anni settanta, Emilio Isgrò (1937 - ) propone degli ingrandimenti di ritratti di celebrità varie. Annulla ogni concreta possibilità di riconoscimento della persona, è evidente che il lavoro gioca anche su questa divertente provocazione. Sul finire degli anni sessanta Douglas Huebler (1924 — 1997) avvia una serie di rilevamenti spazio-temporali indicati come: Duration Pieces, quando a venire presa in considerazione era la dimensione temporale, Variation Pieces, quando l’attenzione era rivolta alla mutazione casuale delle cose, e infine Location Pieces, quando l'intervento riguardava una relazione con lo spazio. La caratteristica comune di tutte le immagini utilizzate in queste operazioni era quella di apparire come foto assolutamente an-artistiche, non giustificante cioè da particolari e sofisticati effetti di luce, né da una composizione accurata ed equilibrata. Le foto di Huebler sono volutamente foto “qualsiasi”, il loro ruolo è quello di funzionare come supporto minimo per l'ampio lavoro mentale poi richiesto al fruitore. In Veduta di Parigi del 1970, le immagini, scattate casualmente a intervalli regolari di tempo l’uno dall’altra, non documentano luoghi in sé significativi. Segnano invece lo spazio temporale della passeggiata stessa, mentalmente poi recuperabile a partire da quella sequenza di segnali-tracce inseriti nel percorso. Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio del decennio successivo David Lamelas (1946 - ) con un apparecchio fotografico collocato stabilmente all'angolo di una trafficata strada cittadina scatta in modo meccanico immagini a distanza di tempo regolare l’uno dall’altra. Il risultato è una serie di fotografie fenomenicamente tutte identiche ma noumenicamente diverse, perché tempo e spazio sono cambiati. Un'azione simile è stata riproposta nel film Smoke del 1995 dal tabaccaio che ogni mattina pone la macchina fotografica sul cavalletto davanti al proprio negozio e scatta ripetitive immagini di quanti transitano in quel pezzo di strada. Luca Patella (1934 - ), era già attivo dalla metà degli anni sessanta con lavori orientati sulla misurazione fotografica di spazi e comportamenti, dal 1970 circa, era in diversi modi immerso nel tentativo di trasformare la fotografia in una sorta di autocoscienza esterna costantemente vigile su ogni atto della propria vita. La serie di lavori in questo senso più interessante è quella a titolo Autofoto Camminanti Sbadate nelle quali, macchina in mano e con l’ausilio di obiettivi ad ampio angolo di ripresa, Patella si autoriprende nelle situazioni più disparate, come lavori, viaggi, incontri... Patella aveva esplicitamente dichiarato che il suo interesse della fotografia non era scaturito da un’ansia di produzione iconografica, ma semplicemente dal bisogno di <<impicciarsi del mondo>». Un significativo contributo alla delineazione del fotografico in ambito concettuale è giunto anche dall'opera di Giulio Paolini (1940 - ). Lavori come Autoritratto, del 1970 o, Giovane che guarda Lorenzo Lotto, del 1967, insistono sulla possibilità di concepire la macchina come protesi e prolungamento degli apparati psicofisici dell'operatore e come “entità” dotata di un’effettiva autonomia che la pone in grado di fare cose “per conto proprio”. L’autoritratto è stato prodotto non dall'autore, ma “autonomamente” dalla fotografia, attraverso un abile ribaltamento dell'immagine in fase di stampa. A trionfare è il principio di autonomia e di autosufficienza della macchina, peraltro esplicitamente dichiarato dallo stesso Paolini: <<La fotografia dà modo allo stesso autore di assistere a un quadro: la visione è la cosa già vista dall’obiettivo>>. La summa di questo processo di autonomia è rappresentata da Giovane che guarda Lorenzo Lotto, opera composta da una riproduzione che il <<kitsch è un rapporto dell’uomo con le cose piuttosto che una cosa, un aggettivo piuttosto che un nome». Risulta difficile circoscrivere la figura di Robert Mapplethorpe (1946 — 1989) che, partito come artista interessato all'immagine fotografica, con lavori che si potrebbero definire di gusto new dada, approda a un profilo da fotografo puro imponendosi anche per l’altissima qualità tecnica della sua opera. È nel 1963, anno in cui con il titolo The Popular Image si assiste alla prima mostra collettiva di tutta la squadra pop. È con l’incontro con Patti Smith che Mapplethorpe ritrarrà in enigmatiche immagini spesso poi utilizzate per le copertine dei dischi di lei: <<Tutto mi viene da Patti, che voleva dire i Beatles, Paul McCartney e John Lennon, un mondo estremamente convincente e affascinante. Inoltre Patti era un soggetto incredibile, c'erano tanti lati di lei, tanti aspetti che hanno mutato la mia visione del mondo». Pare sia stata proprio la Smith a indirizzare il lavoro di Mapplethorpe sui temi del corpo della sessualità, per altro legati alla questione dell’identità omosessuale sulla quale egli si stava misurando da tempo. È solo di qualche mese antecedente la fine (1989), uno sconvolgente autoritratto nel quale il volto di Mapplethorpe, ormai impietosamente scavato dalla malattia, emerge da un fondo completamente nero, mentre in primo piano la mano destra, anch'essa scontornata e dunque senza più un corpo al quale legarsi, regge un bastone che ha per pomolo un piccolo teschio. Lo sguardo di Mapplethorpe va dritto all'obiettivo, senza timore, quasi con spavalderia, nello stesso modo in cui, esattamente dieci anni prima (1978), egli si rivolgeva con atto di sfida alla fotocamera mentre esibiva il proprio corpo sottoposto a una pratica estrema di masochismo sessuale. Oltre all’intreccio con una dimensione effettiva di vita, l'essere costantemente partecipe e non spettatore dell’opera si estende anche all’accattivante dimensione dell'immaginario, tanto che in altri autoritratti lo troviamo cinematograficamente calato negli stereotipati panni del teppista metropolitano, con tanto di coltello a serramanico tra le mani, oppure in quelli di un cupo terrorista ripreso davanti a una stella a cinque punte mentre imbraccia un mitra a tamburo. Mapplethorpe ha il merito di depurare quella tensione da ogni componente didattico - ideologica così tipica del clima degli anni settanta. Il suo modo di coniugare arte e vita è esteso senza censure anche agli aspetti solitamente considerati più scabrosi della sessualità. Riflettendo su una dimensione sociale dei comportamenti egli pone in gioco se stesso: o come diretto protagonista dell’opera, o come evidente complice di tutti i soggetti che passano davanti al suo obiettivo. Durante la formazione l'interesse di Mapplethorpe per la fotografia era di gusto sostanzialmente new dada. Intervenendo sulle immagini a posteriori, utilizzava fotografie già fatte che prelevava da riviste pornografiche: <<Le avevo assunte nel mio lavoro perché il loro impatto visivo e il loro contenuto presentavano una carica dirompente, mai trovata nell’arte [...] Strappavo le immagini dalle riviste, le ritagliavo e rielaboravo i particolari per ottenere qualcosa d’altro>>. Il passaggio successivo vede Mapplethorpe impegnato a usare una macchina Polaroid per registrare proprie performance nelle quali ripropone un immaginario scabroso ispirato alle immagini pornografiche utilizzate in precedenza. Inaspettatamente la Polaroid diventa, per lui, il modo di avvinarsi alla fotografia-fotografia. Per Mapplethorpe il principio di mescolamento sembra fluire liberamente fra arte e vita, vale per la questione dell’identità sessuale: <<Alla fine non sono sicuro di capire come sono arrivato a essere omosessuale o quale sia la mia vera sessualità>>. Ritorna nell’idea che chi lo conosceva bene si era fatto di lui: <<Robert viveva al centro di una contraddizione: aveva l’aria di un ragazzo di chiesa ma frequentava locali malfamati>>. Nell’opinione comune la pornografia dovrebbe stare con la pornografia e l’arte con l’arte. Se però i piani si mescolano salta ogni sicurezza e scatta l'imbarazzo dello spettatore. Mapplethorpe appartiene a una generazione di artisti che pensa di poter far convivere tranquillamente i due aspetti, ma proprio in virtù del fatto che la concettualità fotografia, fondata sul principio dell'esibizione frontale, è ormai un elemento acquisito dal quale non si potrà più prescindere. Che le cose stessero effettivamente in questo modo lo si ricava anche da ciò che Mapplethorpe ha detto su quanto precedeva e accompagnava il suo lavoro, in particolare sul rapporto che si stabiliva con i protagonisti delle fotografie: <<Se qualcuno nella foto beve urina di un altro, di fatto stava bevendo urina. Non lo faceva per essere fotografato, ma perché gli piaceva. Tutto avveniva spontaneamente, con voluta partecipazione>>. E ancora: <<Le persone da me fotografate cercavano nelle loro azioni un orgasmo e per me questo era giustificabile [...] Sia agiva insieme per ottenere un reciproco orgasmo, anche se non sembra facile crederlo nelle fotografie>>. Nei titoli delle immagini a soggetto sadomasochista, troviamo solo i nomi, senza i cognomi, dei vari protagonisti delle foto, e tutto ciò non per motivi di censura e privacy ma per sottolineare il carattere “familiare”, e dunque esperienziale del lavoro. Ha detto in proposito Mapplethorpe: <<Conoscevo tutte queste persone. Le avevo incontrare prima, durante una reciproca esperienza sessuale, e fuori dalla ripresa fotografica. Erano miei amici. Non c'era alcun problema [...] Le immagini documentano quindi un’esperienza e una sensibilità comune>>. E ancora: <<Considero queste fotografie parte di un diario. Queste sono persone, alcune le conosco molto bene, che hanno incrociato la mia vita negli ultimi anni». Mapplethorpe si è sentito in dovere di mantenere aperta l’idea della relazione, del rapporto con un soggetto che non è solo un pretesto per l'esibizione di puri valori formali, ma in qualche modo si umanizza fino a poter vantare una sorta di imprevedibile richiamo erotico: <<l fiori hanno un aspetto misterioso e oscuro. Non so dove, come, perché, ma, in un certo senso, hanno qualcosa di veramente sexy, cosa che di solito non è loro attribuita [...] Se fotografo un fiore o un pene non faccio niente di diverso>». L'impianto della poetica di Mapplethorpe rimane solidamente ancorato a un'identità concettuale della fotografia, grazie alla quale egli riesce a conciliare i diritti della concettualità esperienziale con quelli della formalità oggettuale. Non esiste forse figura più emblematica dell’ibridazione che negli anni ottanta si sviluppa tra arte e industria culturale di quella di Helmut Newton (1920 — 2004). La dimensione preferita e desiderata da Newton è quella dei tempi lunghi, delle pose studiate, quella che porta inevitabilmente nel regno dell’adorata finzione, così tanto più gratificante della grigia e modesta quotidianità. È dunque nel campo della fotografia di moda che Newton trova il suo ambiente ideale, costruendo una solida fama tra la fine degli anni cinquanta e i primi anni settanta. La svolta di identità avviene per lui nel 1975 con la prima mostra in una galleria parigina e con la pubblicazione del suo libro White Women (1978). | motivi di questo improvviso cambiamento di rotta che porta Newton a misurarsi con una nuova dimensione di vita nella quale arte e mercato si accavalleranno in modo sempre più convulso, sono duplici. Da un lato, occorre considerare quel mescolamento tra arte e industria culturale, dall'altro la personale capacità di Newton d’interpretare anticipatamente quel gusto e quell’atteggiamento di vita. Un clima d’epoca, una prospettiva ampia nella quale convergono l'ossessione sessuale, l’ostentazione del lusso e della ricchezza, un'immagine di donna postfemminista aggressiva e dominante (interpretata secondo i codici di un immaginario erotico maschile). Esagerazione nella scelta delle modelle, prototipi di donna bionica, algide e artificiali come si conviene a un desiderio costruito in laboratorio. Esagerazione nella scelta dei luoghi e delle ambientazioni. E esagerazione nel modo stesso di interpretare la finzione fotografica . la presenza dell’esagerazione porta al tema del kitsch, un kitsch vissuto da Newton in modo gioioso e consapevole: <<Sono un buon fotografo di categoria B [...] la categoria B è fantastica. Non c'è niente che dia un piacere peccaminoso come andare al cinema il pomeriggio a vedere un buon B-movie>>. Il kitsch, la categoria B, sono per Newton modi per liberarsi dall’ingombro della questione arte - <<arte è una parolaccia in fotografia>>. Ciò che si potrebbe imputare a Newton è l'incapacità di solidarizzare con quei particolari modelli di arte che ugualmente poco o nulla hanno a che spartire con la logica della pittoricità. | due motivi del suo atteggiamento sono: la svalutazione del tecnicismo e l'esaltazione totale della concettualità. Una vocazione al trasformismo che veniva da lontano e che troverà nel fotografico la giusta dimensione operativa: <<Quando non lavoravo ero così ossessionata dal cambiare identità, che lo facevo comunque, anche senza avere una macchina fotografica pronta, senza che ci fosse qualcuno a guardarmi, senza dover andare da nessuna parte>>. Per la Sherman stare davanti all'obiettivo ha valenza di concettualità non solo perché così facendo ella dichiara apertamente il proprio disinteresse per la costruzione manuale dell’opera, ma anche perché in questo riesce a proporre una sorta di performance virtuali interamente affidate alla meditazione del medium. Nelle immagini della Sherman domina l'illusione, ma se si tiene conto della forte “personalizzazione” che il lavoro comporta viene da pensare che queste azioni nascondano un desiderio altrettanto profondo di incidere sul reale, sul proprio essere al mondo ed eventualmente anche su quello di altri che si possono specchiare nella problematica dell'identità. Con l’accavallamento tra realtà e finzione proposto dalla Sherman comincia a farsi strada una visione culturale che non fa distinzione tra reale di primo grado e virtualità. Il confine tra i due livelli appare sempre più labile e fluttuante e si può stare tranquillamente dentro o fuori l’immagine senza per questo dover distinguere tra finzione e realtà. Una conferma esplicita di questa voluta ambiguità si ha con i lavori del 1980 intitolati Backscreen Projections, nei quali l'artista, sempre calata in altre identità, si fa ritrarre dinnanzi a proiezioni di fondali precedentemente fotografati, così da creare lo stesso effetto già visto in certi vecchi film. Lo scambio fra arte e industria culturale porta la Sherman a collaborare con testate come “Vogue France” e “Vanity fair”. Per la verità le immagini da lei proposte non riscuotono un grande successo. Ben disposta verso le “stranezze” dell’arte e i trucchi disgustosi con i quali la Sherman si autoriprende risultano troppo imbarazzanti per le esigenze commerciali di quelle testate: <<Ho incominciato a prendere in giro non i vestiti ma la moda in genere. Mi sono disegnata delle cicatrici sul viso per apparire veramente brutta. E ho usato quella sostanza che si applica sui denti per farli sembrare marci. Mi piaceva molto l’idea che questo sarebbe apparso su “Vogue France”, in mezzo a tutte quelle bellissime donne>>. In History Portraits, la Sherman dà vita ad un aberrante rifacimento di immagini saccheggiate in quattro secoli di produzione pittorica. La sensazione è che in queste immagini non sia il passato ad arricchire il presente ma il presente a perturbare il passato. Calata in panni maschili e femminili a seconda dei casi, la Sherman, anziché tentare di assomigliare all'originale, forza al limite del mostruoso la serenità iniziale dei ritratti. All’inizio degli anni novanta la Sherman affronta a modo suo la discussione sulla natura fondamentale polimorfa e non omologabile dei nostri comportamenti sessuali. Protagonista di questa foto non è più l'artista in carne e ossa ma tutta una serie di suoi alter ego artificiali come bambole, manichini per esercitazioni anatomiche e volti di gomma, ai quali vengono affidati scenari ancora una volta disgustosi e ripugnanti. Ancora sulla dialettica realtà-finzione un altro nome da ricordare è quello di Sandy Skoglund (1946 - ), curioso ibrido tra la figura della scultrice e quella della fotografa. Le immagini della Skoglund sono affollate di inquietanti figurine (Radioactive Cats del 1980 0 Maybe babies del 1983) modellate e dipinte da lei stessa. Il risultato rimane a metà tra l'incanto della favola e l'incubo da film horror, secondo la Skoglund, l’immagine può vantare rispetto alle altre forme di linguaggio: <<Sotto vari aspetti, la produzione dell’arte americana degli anni ottanta, è il risultato del conflitto fra immagine e segno. Di segni ce ne sono fin troppi sulle autostrade, negli aeroporti, nei supermercati. Invadono i nostri salotti attraverso la televisione, comandano i nostri pensieri, le nostre sensazioni, le nostre azioni. Le immagini sono molto meno autoritarie. Sono sempre aperte all’interpretazione>>. La totale liberalizzazione dell’identità artistica prodottasi negli anni ottanta ha permesso lo sviluppo e l’affermazione di pratiche fotografiche anche molto diverse fra loro. Uguale liberalità ha investito la figura degli autori come operatori dell'industria culturale o come fotografi puri. È questo il caso dei coniugi Bernhard (1931 — 2007) e Hilla (1934 - ) Becher. Troppo fotografi puri, e troppo bravi tecnicamente per avere successo quando prevaleva il “concettualismo povero e monacale”, i Becher trovano ampio riscatto nel momento in cui la ricerca artistica si dimostra più disponibile al recupero di certi comportamenti formali dell'immagine. La definitiva consacrazione ufficiale del loro valore si avrà poi nel 1991, quando, presenteranno uno spettacolare allestimento nel quale le fotografie, ricoprendo da pavimento a soffitto le altissime pareti del padiglione tedesco, costringevano lo spettatore a un atteggiamento di vera e propria immersione nell’opera con conseguente coinvolgimento sensoriale. Autentici e fedeli eredi della poetica di Sander, i Becher hanno sempre riconosciuto il loro debito verso il grande connazionale: <<Noi l’ammiriamo enormemente. Sander, in quanto ritrattista, rispetta i suoi oggetti, rispetta il loro ruolo, non diceva, come altri fotografi, “Voglio fotografarli quali essi sono o quali essi pensano d'essere”; li accettava quali erano nel loro ruolo>>. | Becher hanno dato vita a una fotografia di “accumulazione” e di “schedatura” fatta di gasometri, serbatoi d’acqua, torri estrattive e altre strutture ancora, tutti soggetti appartenenti a quella che si è soliti definire “archeologia industriale”. Per quanto riguarda l’aspetto concettuale, i motivi d'interesse sono: il riconoscimento del potere straniante espresso in proprio dalla macchina e la massima riduzione dell'intervento soggettivo dell'operatore. Richiamano i passaggi salienti del ready-made duchampiano: isolamento, decontestualizzazione, frontalità del reale. Il tutto accompagnato da quel senso di rinuncia all’autorialità che rimane il tratto più imbarazzante di tutta l’arte contemporanea. AI prelievo fotografico del singolo oggetto si aggiunge poi il fondamentale motivo della serie: <<La nostra idea è di creare delle famiglie di oggetti>>, motivo che risulta gratificante in quanto ci permette di constatare la continuità di una forma nella sequenza temporale. La consapevolezza che l'applicazione della modalità “schedativa” debba necessariamente poggiare sulla serie, è ricavabile dall’accuratezza e dall’attenzione che i Becher hanno sempre dedicato alla fase espositiva del loro lavoro. Lunghe sequenze lineari o ampi blocchi modulari di foto hanno costantemente sostenuto e rafforzato l’idea dell’archivio. 9.3 La new wave italiana e la fotografia del “pensiero debole” In Italia le stesse ragioni di riavvicinamento tra pratica artistica e fotografia sono state messe in atto da Luigi Ghirri (1943 — 1992), Gabriele Basilico (1943 — 2013), Mimmo Jodice (1934 - ), Guido Guidi (1941 - ), ai quali si aggiungono Giovanni Chiaramonte (1948 - ) e i più giovani Olivo Barbieri (1953 - ), Vincenzo Castella (1952 - ) e Vittore Fossati (1954 - ). Attorno a costoro prende corpo quella che potremmo definire una vera e propria new wave della fotografia italiana, un'onda lunga, capace di attrarre e stimolare molti altri interessanti autori, ma anche di innescare un eccesso di epigonismo. Gli aspetti caratterizzanti di questa situazione sono tre. Come prima cosa ha sicuramente giocato un ruolo determinante l'individuazione di un terreno operativo decisamente nuovo per la fotografia italiana quale quello del paesaggio che aveva sempre privilegiato una produzione di gusto aneddotico e bozzettistico con protagonista il soggetto umano. Come secondo elemento caratterizzante occorre segnalare la particolare modalità linguistica adottata da tutti questi autori, una formula espressiva decisamente a tono basso, più descrittiva che interpretativa. Infine non va trascurata la particolare sintonia che si stabilì con un altrettanto rinnovato ambito letterario, esso pure segnato in quegli anni da una svolta di gusto minimalista-descrittivo. Per quanto riguarda il primo punto, pare abbia acquistato particolare incidenza per la specifica tipologia dei luoghi affrontati: ambienti marginali, di frontiera, di passaggio fra l’urbano e il rurale, fra tecnologia e natura, fra il pensato e il casuale, fra la storia e l'attualità. Un paesaggio instabile, privo di riferimenti precisi e assoluti, scenario adeguato per quella condizione di abbandono delle ideologie. Attraversare il paesaggio diveniva così per questi autori il modo di addentrarsi in una forma di riflessione che nella totale instabilità dei luoghi fotografati trovata metaforica conferma alla mobilità e alla variabilità del proprio incedere. Nel secondo punto, la scelta di linguaggio è attivata dai nostri autori in favore del tono basso, discreto, antitrionfalistico. Quando poi parla di “mediazione della fotografia” nei confronti dell’architettura, intende riferirsi alla classica interpretazione mcluhaniana di medium come estensione della nostra sensorialità per cui, dicendo mediazione, Basilico fa riferimento a quell’esercizio sensoriale che noi costantemente poniamo in atto nei riguardi del mondo. Un esercizio sensoriale che sembra condurre a una nostra totale amalgamazione con l’ambiente: <<lo cerco, se possibile, di essere dentro le cose che fotografo, cerco di appartenere, vorrei in qualche modo sparire ed essere assorbito da queste cose che chiamo contesti, luoghi>>. <<Prioritaria è la comprensione svincolata dagli elementi di giudizio: bello o brutto diventano così categorie di giudizio che nell'operazione fotografica devono forzatamente scomparire in funzione di una sospensione di giudizio>>. La new wave fotografica italiana ha coltivato questa visione comportamentista e non pittorico-formalista della fotografia, ci può in conclusione venire da una perfetta definizione avanzata da Guido Guidi: <<Per me fotografare è soprattutto un rituale: io potrei al limite fregarmene del risultato anche se mi interessa, però alla base ci sta questo gesto che io ogni volta ripropongo nel fare una fotografia, nel mettere a fuoco una macchina di grande formato, ripropongo a me stesso una specie di performance»>>. 10. SCENARI DI FINE SECOLO 10.1 Fotografia come partecipazione e come presenza Negli anni novanta a venire recuperati non sono più i valori della pittoricità, bensì quelli di una rinnovata concettualità, piena e totale. La novità segnalata dalla critica già all’inizio del decennio: <<La contemporaneità ci riserva la dimensione del confronto. Ed è ciò che molti artisti sentono di poter verificare nel dirigere la loro attenzione all’interno di una valutazione di presenza; dove non sussiste l'ambiguità di un <<ruolo>> riconosciuto ma piuttosto la febbrile partecipazione diretta>>. I concetti chiave per gli artisti degli anni novanta sono la “partecipazione” e la “presenza”. Partecipare significa far si che la pratica artistica scaturisca da una dimensione di esperienza diretta. Questo senso di partecipazione ripropone una nuova formula, quella tensione all’intreccio arte-vita già inseguita da Avanguardie storiche e neoavanguardie, chiudendo così una linea di poetica fondamentale per tutto il secolo. La centralità delle categorie di partecipazione e presenza ci consente di motivare la presenza di fotografia nell'arte di fine secolo. <<L’apparecchio fotografico è mezzo agile e leggero, quello che meglio consente di catturare subito immagini neutre e reali>>. È molto frequente il corso al mezzo fotografico da parte degli artisti targati novanta, perché nulla, come la fotografia, permette di assecondare il loro bisogno di produrre un’arte in presenza e in partecipazione diretta. L'incipit proposto da Barthes nella Camera chiara: <<Un giorno, molto tempo fa, mi capitò sottomano una fotografia dell'ultimo fratello di Napoleone, Girolamo (1852). In quel momento, con uno stupore che da allora non ho più potuto ridurre, mi dissi: “Sto vedendo gli occhi che hanno visto l’Imperatore”>>. Pare doppia la capacità di presenza attribuita da Barthes alla fotografia, perché oltre a quella immediata che si stabilisce tra spettatore e realtà esibita dall'immagine, c'è pure la possibilità di recuperare la presenza originaria del soggetto nel mondo. Rispetto all’individuazione di una matrice presenzialista, possono rivelarsi più efficaci le acute analisi svolte da Rosalind Krauss a proposito della componente fotografica che a suo parere è possibile individuare in tutta la poetica di Duchamp. L’avvicinamento di Duchamp alla fotografia, o meglio alla filosofia della fotografia, trova ragione nell’atteggiamento antipittorico che l'adozione della fotografia in qualche modo impone: <<Duchamp non credeva semplicemente che la fotografia stesse diventando onnipresente nella cultura di massa del XX secolo, la sua analisi della fotografia era interamente condizionata dal fatto che le proprietà strutturali dell’indice erano completamente diverse da quelle delle altre forme di rappresentazione. Le catene di sostituzione simbolica che erano diventate l’obiettivo della tradizione pittorica e iconica, questi codici che non soltanto potevano rendere esplicito il senso del quadro ma poteva anche interiorizzarlo nell’opera stessa, queste operazioni di simbolizzazione o di sostituzione erano, nell’analisi di Duchamp, estranee all’azione dell’indice>>. Sono tre gli snodi fondamentali dell'intervento della Krauss: a) L'interesse per la fotografia non va ricercato nel suo essere strumento alla moda, di grande diffusione e magari di facile usabilità. b) La categoria propria della fotografia è quella dell’indicalità. c) L’indicalità è l'alternativa più forte ed evidente alla procedura di simbolizzazione proposta dalla pittura. <<Se si può dipingere un quadro a memoria o grazie alle risorse dell’immaginazione, la fotografia, in quanto traccia fotochimica può esser condotta a buon fine solo in virtù di un legame iniziale con un referente materiale. È di questo asse fisico, sul quale si produce il processo della referenza, che parla Charles S. Peirce quando si volge alla fotografia come esempio di quella categoria di segni che chiama indicali>>. L'indice è quel tipo di segno che secondo Peirce si caratterizza per il particolare modo di produzione che stabilisce una connessione diretta tra segno e referente. La produzione di un quadro, al contrario, avviene secondo quelle modalità che Peirce attribuisce al segno iconico, e cioè per selezione di talune caratteristiche del referente stesso. Per quanto riguarda il rapporto con il reale, fotografia e pittura propongono due logiche differenti di produzione artistica: una logica di connessione e di relazione diretta per la fotografia e una logica di traduzione simbolica per la pittura. Il vero e profondo sconvolgimento portato dalla fotografia nell’arte contemporanea riguarda un senso di partecipazione e di presenza nei confronti del reale che deriva dalla struttura, altempo stesso materiale e concettuale, del mezzo. L'idea di partecipazione e di presenza offerta dall’artista dall’uso del mezzo fotografico non è da intendersi in termini strettamente fiscali: il coinvolgimento, l’esserci, il partecipare possono divenire anche condizioni di effettiva presenza fisica, ma prima corrispondono a una condizione mentale. Il desiderio psicologico generazionale di partecipazione e di presenza espresso dagli artisti e la condizione di tecnologia di partecipazione e di presenza offerta dalla fotografia si intrecciano alla perfezione facendo sistema fra loro. L'uno trova nell'altra la forma ideale per manifestarsi. Partecipazione come impulso del soggetto e partecipazione come condizione operativa del medium si mescolano in profondità, generando due forme di “io”: “lo psicologico” e “lo tecnologico”). Uno più emozionale, l’altro più oggettivo, entrambi capaci di segnare quel senso di partecipazione e presenza che emerge nella generazione degli anni novanta. A dominare nelle sue immagini è un senso di distacco oggettivo, di distanza fisica e psicologica dalle cose che si delineano precise e dettagliate ma come al di là di un vetro. A metà degli anni novanta l’idea di uno sguardo impassibile e distaccato sui grandi riti di massa viene adottata anche da Massimo Vitali (1944 - ), impegnato a descrivere i sempre più affollati spazi del divertimento e del tempo libero: spiagge, parchi, discoteche, piscine. Ad accentuale l’idea del distacco interviene nel suo caso la scelta di spostare decisamente in alto il punto di vista, sfruttando un’apposita piattaforma che in ripresa lo porta a circa sei metri rispetto al piano del soggetto. Difficile, di fronte al lavoro di Vitali, non pensare alla scena più coinvolgente de L'attimo fuggente, film del 1989 di Peter Weir nel quale un appassionato professore di letteratura, per spiegare ai propri allievi il senso profondo della poesia, invita tutti a salire in piedi sui banchi e guardare le cose dall'alto. È solo a partire da questa idea che si può comprendere una battuta dello stesso Vitali all'apparenza totalmente ossimorica: <<Penso che il mio sguardo sia molto distaccato, ma partecipe>>. Il distacco, l’impassibilità, si trasformano nel proprio esatto contrario, la forma massima di partecipazione, quella rispettosa delle cose, che fa parlare le cose stesse. A inizio decennio Rineke Dijkstra (1959 - ) che il corpo impeccabile e levigato forgiato da acrobatici lifting e massacranti sedute di palestra, un corpo pronto a lanciare irresistibili richiami erotici, affronta invece, con la solita ripresa frontale-centrale in stile Sander- Becher-Ruff, i corpi incerti e antierotici di adolescenti colti sul bagnasciuga, appena usciti dall’acqua. Corpi in bilico tra il mare e la terra, tra infanzia e maturità, tra realtà dell’essere e finzione dell’apparire, decisamente distanti dai modelli perfetti diffusi e imposti in quegli anni dall'industria culturale. 10.3 Diari privati Passando all’ipotesi dell’’lo psicologico” vediamo altri personaggi della scena anni novanta: Nan Goldin (1953 - ), Wolfgang Tillmans (1968 - ) e Nobuyoshi Araki (1940 - ). AI lavoro di tutti e tre sembra adattarsi alla perfezione il giudizio di fotografia da album di famiglia. Sull’album di famiglia si trovano i parenti, gli amici e naturalmente noi stessi, seguiti con affetto e partecipazione nei diversi momenti dell’esistenza. L’apparente particolarità dei soggetti raccontati da questi autori si ridimensiona di fronte a un atteggiamento che si fa traccia di valori sentimentali derivanti dall’appartenenza stessa del fotografo a ciò che sta fotografando. Se la Arbus aveva interpretato la macchina fotografica come un diaframma di distanza fra sé e il mondo, al contrario Nan Goldin ha detto: <<Se fosse possibile vorrei non avere alcuno strumento tra me e il momento di fotografare>>. Pur entrambe riconducibili a un’idea di fotografia comportamentista, fra le due artiste c'è tutta la distanza che separa gli anni sessanta dagli anni novanta. | soggetti della Arbus rimanevano relegati nella categoria dei “diversi” mentre per la Goldin prevale semplicemente l’esserci, la presenza, il segno di un coinvolgimento affettivo testimoniato dall'esercizio stesso del gesto fotografico. Dire che la fotografia è un medium comportamentale più che visivo rinforza l’ossatura portante di tutto il lavoro, ricordando la sua alterità rispetto alla pittura. È questo il modo per comprendere al meglio ciò che è stato detto del lavoro di Tillmans che ovviamente si adatta benissimo anche alla Goldin e ad Araki: <<Il fotografo è per lo più una componente della situazione divenuta immagine, senza essere necessariamente nella foto>>. La camera non è un pennello che si impugna per dar corpo all'opera, ma un'effettiva estensione di sé con la quale toccare, sentire, accarezzare il soggetto, così come espresso dalla Goldin: <<Fare una fotografia è un modo di toccare qualcuno, è una carezza, è accettazione»». Già nei primissimi anni novanta è evidente come per molti artisti la poetica della presenza assuma la forma della presenza a se stessi, di una ricognizione sulla propria identità come unico e significativo modo per esercitare una partecipazione al sociale. Nan Goldin giunge a piena fama solo nella seconda metà degli anni ottanta, dopo l’uscita del suo libro The Ballad of Sexual Dependency (1986). Ma ancora più dirompente sarà la pubblicazione nel 1992 di /’// Be Your Mirror. Le immagini del libro raccontano, come un diario, le tragiche conseguenze della diffusione in quegli anni del virus dell’HIV. Raccontano di effetti e di morte, di sentimenti e di perdite. | protagonisti sono gli amici della stessa Nan, che non ha certo il cinismo e l'aggressività del fotografo reporter, ma tutta l'incertezza propria di chi scatta fotografie per sentire meglio la vita e non perderla: <<Pensavo che non avrei perso nessuno se lo avessi fotografato. Le mie foto mi ricordano quanti amici ho perduto». Lo “stile Goldin” rappresenta uno dei più interessanti esiti del concettualismo di fine secolo e la conferma che in fotografia il concettualismo stesso trova forse la sua espressione migliore nel recupero consapevole di quelle categorie che caratterizzano la pratica comune del mezzo. Non esiste oggetto più concettuale dell’album di famiglia, nel quale le immagini valgono per ciò che esprimono come memoria, come mantenimento, come manipolazione temporale. Il merito fondamentale di Nan Goldin consiste nell’aver praticato una fotografia bassa, comune, familiare, in modo alto, cioè con piena consapevolezza della ricchezza concettuale in essa contenuta. La voglia di pensare la fotografia come un oggetto innovativo per il quale le modalità espositive non possono banalmente ricalcare quelle della pittura è stata poi confermata in modo più radicale da Wolfgang Tillmans. Differenti per dimensione, per tecnica e per provenienza, anche nel suo caso le immagini vengono accumulate sulle pareti con le installazioni spettacolari. Le fotografie di amici scattate nel corso di rave parties, nelle case e nei locali, in stile “istantanea causale-diaristica”, vengono accostate a immagini con maggiori ambizioni estetiche oppure con altre assolutamente generiche. | montaggi sono all'apparenza disordinati, sfuggono ai classici principi di equilibrio compositivo, e fanno venire in mente le pareti delle camere giovanili, spesso trasformate in una sorta di stravagante album pubblico. Il problema di come esporre le fotografie investe tutti i più sensibili autori di questa generazione. È proprio nel rifiuto di un’identificazione con il quadro che inizia a diffondersi in questi anni la scelta di rinunciare alla cornice e all'eventuale passepartout di accompagnamento. Si afferma il cosiddetto montaggio “a filo”, cioè senza margine, con l’immagine montata su lastra di alluminio o di plexiglass, poi leggermente distanziata dalla parete. Tutte soluzioni utili a rimarcare come appunto la fotografia non sia un quadro. Nobuyoshi Araki si afferma tardi come artista, dopo un passato fotografo più tradizionale, a importo sulla scena internazionale sono le centinaia di scatti realizzati tra il 1983 e il 1985 nei locali di prostituzione di Shinjuku, un quartiere di Tokyo, e poi diffusi negli anni novanta con la pubblicazione del libro Tokyo Lucky Hole. Un progetto mette in pubblico un lungo sincero diario delle proprie pulsioni erotiche e dei propri comportamenti sessuali. Naturalmente le immagini sono stilistiche di tono basso, rinunciano agli effetti spettacolari che i classici scatti da reportage in genere propongono, ma sono emotivamente efficaci proprio perché finiscono per trattare un tema scabroso e imbarazzante nei modi stilisticamente familiari. Va detto che Araki aveva cominciato a lavorare su questa poetica già a partire dagli anni settanta, documentando in maniera minuziosa il proprio rapporto con la moglie Yoko. Prima con la serie Sentimental Journey e poi con quella intitolata Winter Journey, aveva tradotto fotograficamente il proprio privato in maniera quasi ossessiva, dal giorno delle nozze fino allo struggente addio a Yoko, morta di tumore nel 1990. 10.4 Varianti neo-Body e neo-Narrative Anche se svolto in maniera non diaristica, un originale contributo alle poetiche dell’intimità e dell'incrocio arte-vita giunge a metà anni novanta da Shirin Neshat (1957 - ). Nel suo caso la pratica fotografica è stata un mezzo per confrontarsi con la complessità dell’identità femminile nel proprio paese di origine. Shirin aveva lasciato l'Iran per gli Stati Uniti nel 1974, cioè cinque anni prima che la rivoluzione degli ayatollah cancellasse la monarchia dello scià instaurando il regime islamico. Ritornando per la prima volta in patria nel 1990 era rimasta colpita dal nuovo stile di vita imposto, soprattutto alle donne, dal nuovo governo teocratico. Nelle sue stesse parole: <<Donne bellissime. Avvolte nei chador territorio intermedio nel quale la realtà naturale non è subita ma controllata: <<Nel ricostruire il virtuale, la libertà di dare corpo alle proprie visioni ideali, di scegliere una propria immagine dell’ambiente, dà all’artefice la possibilità di controllare la realtà. Di farla essere o non essere in un certo modo». Nel complessivo quadro di recupero della concettualità proposto dagli anni novanta un’altra interessante ripresa della sperimentazione svolta negli anni settanta è quella che si può raccogliere sotto l'etichetta di neo-Narrative Art: un nuovo utilizzo della fotografia in forma narrativa, rimodellato sulle sollecitazioni proposte dalla cultura di fine secolo. La struttura linguistica che più sembra attrarre in questo senso diversi autori è quella della candid camera, una ripresa nascosta della realtà al fine di svelarne aspetti imprevedibili e sorprendenti. L'espressione “candid camera”, utilizzata per la prima volta negli anni trenta da un editore per descrivere le fotografie di Erich Salomon, scattate di nascosto nei tribunali o in occasione di importanti riunioni politiche, è poi divenuta il titolo di una celebre trasmissione televisiva, proposta nel 1948 negli Stati Uniti e poi diffusa in molti altri paesi. Un'idea apparentemente banale, il cui attuale utilizzo televisivo ci porta a considerarne solo le conseguenze comiche, ma in effetti fondata su un'affascinante e al tempo stesso inquietante principio della cultura mediale, sull'idea cioè di un’invadente autonomia dell'occhio fotografico, capace di narrare la realtà senza controlli e censure. Nel 1998, con il film di Peter Weir The Truman Show, splendida e struggente metafora della cultura del reality televisivo, // Grande Fratello ne ha rappresentato il celebrato prototipo. L'arte ha avuto il merito di captare in anticipo l'impatto culturale che tale fenomeno avrebbe avuto, diversi autori hanno cominciato a lavorare su forme e modalità del reality. Perfetta risulta per esempio la serie del 1995 di Anne Zahalka (1957 - ), emblematicamente intitolata Open House. Una serie di fotografie di soggetto domestico singolarmente corredate da una nota che indica con precisione giorno, ora e minuti della ripresa. Ai nostri occhi si presenta una sequenza di immagini i cui protagonisti, completamente ignari di essere ripresi, fanno colazione, leggono il giornale, guardano la televisione. la ripresa è totalmente candid, ma l'impressione è quella della partecipazione, seppur inconsapevole, dei vari personaggi ha una sorta di telenovela della vita. più sottile e più complessa concettualmente appare la serie Five Revolutionary Seconds, prodotta fra il 1995 e il 1997 da Sam Taylor-Wood (1967 - ). Utilizzando una particolare fotocamera, capace di realizzare una ripresa a 360°, la Taylor-Wood compone un grande affresco, lungo fino a cinque metri, di un interno the loft nel quale diverse persone, pur vivendo nello stesso spazio, paiono rapportarsi fra loro da estranei, ognuna isolata nei propri pensieri o al massimo impegnata in un difficile rapporto con chi le sta immediatamente accanto. Punto di forza di questi lavori e ovviamente l'audace combinazione tra fotografia ed effetto cinematografico, intreccio linguistico che mentre rinforza la dimensione temporale dell’accadere permette anche di sfruttare le capacità rivelative della fotografia, che trasforma un'anonima situazione d’interno in un evento di tono sacrale. Nel clima neo-narrative che caratterizza la ricerca artistica di fine secolo, i migliori eredi della sperimentazione svolta negli anni settanta sono Jeff Wall (1946 - ) e Sophie Calle (1953 - ), autori il cui impegno parte già negli anni ottanta. | due risultano contrapposti e complementari nel riconoscimento del debito che la loro scelta in favore della narratività comporta: il cinema per Wall e la letteratura per la Calle. Il primo è addirittura arrivato a ribaltare la direzione del rapporto che in genere si attribuisce ai due mezzi: <<Penso anche che, da un punto di vista artistico, la fotografia fondi se stessa sulla base del cinema e non viceversa>>. Questo perché la più diffusa estetica fotografica, <<quella che per esempio si identifica con Cartier-Bresson>>, attribuendo eccessiva fiducia alla <<spontaneità immediata>> dell'immagine, ha finito per impoverire <<la fondamentale dialettica tra realtà e finzione>> che invece caratterizzerebbe il mezzo. Nella poetica di Wall la fotografia deve assumerne la filosofia narrativa, adottando i principi della costruzione e della messa in scena, opportunamente incrociati con quello della credibilità fotografica. Ciò che la Wall però non ha mai ben chiarito nelle interviste, ma che invece emerge dal suo lavoro, è il fatto di lavorare su un fotogramma singolo, di evocare il cinema ma di rinunciare alla catena narrativa e dunque all'intreccio, alla storia, alla possibilità di concludere la narrazione stessa. Le opere più convincenti di Wall sono quelle con soggetti meno clamorosi, come per esempio è il caso di Housekeeping (1996). L'immagine propone una donna delle pulizie in divisa che sta uscendo da una camera da letto perfettamente rassettata. La scena è in sé insignificante e banale, ma c'è come la sensazione che qualcosa stia per accadere, che qualcosa stia sopraggiungendo a infrangere quella quiete così ovattata e rassicurante. L'enfasi del singolo scatto nel lavoro di Wall è stata spesso esaltata dall'uso dei light boxes, le cassette retroilluminate del cui impiego egli è stato un pioniere. Una scelta dettata dall’intenzione di <<rendere drammatica l'immagine fotografica>. L’afferenza letteraria di Sophie Calle è talmente evidente nella sua poetica, che il miglior profilo dell'artista è stato tracciato dallo scrittore Paul Auster che in un romanzo del 1992, Leviatano, ne ha praticamente clonato l'identità attribuendola, nella finzione della scrittura, alla protagonista Maria: <<Maria era un'artista, ma la sua attività non aveva nulla a che vedere con la creazione di oggetti comunemente definiti artistici. Secondo alcuni era una fotografa, secondo altri una concettualista, mentre altri ancora la consideravano una scrittrice, ma nessuna di queste definizioni era esatta, e alla fin fine non credo che si presti a essere etichettata in alcuna maniera». Altro tassello decisivo per ricostruire l'identità della Calle è il titolo per la grande antologica dedicatale dal Centre Pompidou nel novembre del 2003: M”as-tu vue, espressioni in genere completata da un punto interrogativo e utilizzata dagli attori per richiedere un giudizio sulla propria performance. Il cuore della poetica di Sophie Calle sta nel ricercato intreccio tra realtà e finzione. negli anni ottanta le sue opere appaiono ancora troppo debitrici verso la Narrative storica. È per esempio così per Suite Vénitienne del 1980, voyeuristico pedinamento di uno sconosciuto nelle calli veneziane, riportato minuziosamente in fotografie e scrittura. Oppure L'Hotel, del 1981, suggestivo resoconto di ricognizioni condotte in incognito, dopo essersi fatta realmente assumere come cameriera, nelle stanze da riordinare dei clienti di un albergo. Ma è a partire dagli anni novanta che la narratività della Calle, manifesta un sempre più marcato intreccio fra realtà e finzione. l'esempio migliore è rappresentato da Gotham Handbook. New York, istruzioni per l’uso, del 1994, Progetto sviluppato in collaborazione proprio con Auster, dopo che lo scrittore, aveva mescolato alla vera identità di Sophie con quelle immaginarie di Maria, la protagonista del suo romanzo. in pratica la Calle chiede a Auster di proseguire il romanzo e dunque la sua vita. Gli chiede di scrivere come avrebbe vissuto nei giorni a venire e così Auster le fornisce un manuale intitolato /struzioni personali per Sophie Calle al fine di migliorare la vita a New York (perché lei me l'ha domandato). Da quelle indicazioni nasce una performance di relazione con i passanti, condotta per una settimana occupando una cabina telefonica a Manhattan. In Gotham Handbook la fotografia continua a essere il mezzo privilegiato per raccontare fedelmente la vita, ma appare più incerto e sfumato, perché quella vita è stata scritta, è fiction, e allo stesso modo la fotografia non è più verità ma finzione. 11.2 Modello Random Il riferimento ai casi di Goldin, Araki, Tillmans e Calle ci permette di confermare una continuità tra gli anni novanta e duemila. Quello che cambia è magari l'intensità, la temperatura di certe scelte. Dalla forma del “diario pubblico”, sviluppata ad altissima temperatura da Terry Richardson (1965 - ). Tutto il lavoro di questo figlio d’arte è caratterizzato da un inestricabile intreccio fra vita privata, impegno nella moda e ricerca personale. Fra i tre piani è praticamente impossibile stabilire differenze, lo stile è assolutamente identico, e in qualche modo anche i soggetti lo sono, così che il tutto assume la forma di un unico continuo blog, un lungo diario in rete che racconta l'arte attraverso la vita e viceversa. La sensazione dominante è che raccontare, rendere partecipi sia per Richardson l'unica cosa che in effetti conta, tanto da porre decisamente in secondo piano ogni preoccupazione di carattere formale. | suoi scatti sembrano realizzati con macchinetta da pochi soldi che esibiscono i tipici difetti delle foto familiari. Se nel corso del Novecento il rifiuto dell'abilità tecnica aveva assunto un carattere fortemente ideologico, per Richardson, c'è la sensazione che tale scelta voglia soprattutto evidenziare la necessità dell’esserci. Le sue foto paiono voler alludere alla cultura della fotocamera da telefono cellulare, che privilegia l'impulso della testimonianza e della registrazione a tappeto, rispetto alla preoccupazione dei pixel. Da questo punto di vista Richardson ha dato il massimo, fino a ritrarsi insieme ai suoi amici e le sue modelle in amplessi e giochi sessuali assolutamente espliciti. Kibosh, Il libro scandalo pubblicato nel 2004, in realtà pare sviluppato in totale e assoluto candore. È una gioiosa reinvenzione della fotografia pornografica che grazie allo stile “familiare” e antiformalista di Richardson, trasforma in un'allegra festicciola fra amici quella che altrimenti potrebbe apparire solo una torbida e opprimente performance di gruppo. Più che il risultato delle singole immagini, nel caso di Richardson vale soprattutto l'idea del blog che il suo lavoro suggerisce, un'idea alla fine effettivamente confluita nella sua forma più logica, cioè quella di un autentico diario in rete, per essere precisi un photolog avviato nel gennaio del 2010. Il Terry Richardson’s Diary, È organizzato in diversi capitoli (“Terry”, “Diary”, “People”, “Models”) che in qualche modo tentano di fare ordine in questo fiume impetuoso di fotografie; inoltre, con le voci “Twitter”, “Facebook” e “Viewer Submissions”, il blog si fa effettivamente interattivo, con la possibilità per tutti di partecipare. Gli aspetti più coinvolgenti del progetto riguardano l'enorme quantità di fotografie che entrano quotidianamente nel diario e la loro sostanziale omogeneità di stile. Lo stile è unico, la cosa migliore è forse quella di ricorrere alla denominazione di uno dei capitoli: “Random”. Richardson pare fotografare in modo assolutamente casuale: amici, modelle, oggetti, situazioni, se stesso, tutto si mescola e si accavalla in un unico grande flusso indistinto di immagini che alla fine è il solo effettivo senso dell'intero progetto. Un senso non c'è, è semplicemente il quotidiano che si duplica e si sposta nell'esistenza virtuale della rete. 11.3 Le finte verità Nessuno ha posto così chiaramente lo scontro artificio-natura al centro dei propri interessi quanto David LaChapelle (1963 - ), lanciato sulla scena internazionale dalla pubblicazione di due libri: LaChapelle Land nel 1996 e Hotel LaChapelle nel 1998. Un tratto generazionale comune avvicina LaChapelle ad altri protagonisti di questo periodo: anche per lui non si tratta di raccontare una condizione dall'esterno, quella della progressiva artificializzazione della nostra vita, quanto piuttosto di esprimerla dall'interno, assumendola come forma stessa del proprio lavoro. Operare dall'interno significa, nel suo caso, procedere in forma quasi tautologica, autoriflessiva, affidare cioè al linguaggio stesso il senso primario del lavoro. La sua fotografia è pura esaltazione dell’artificio e della messa in scena, è finzione che però non tende a mascherarsi, ma anzi vuole apertamente dichiararsi in quanto tale: <<Quel che distingue LaChapelle è la coscienza di sé: ogni suo scatto sembra rispecchiare gli artifici stessi da cui nasce>>. Per LaChapelle la poetica dell’artificio non si esprime tanto a livello di soggetti, quanto piuttosto sul piano del linguaggio, della fotografia stessa, tesa continuamente a negare quella condizione di naturalità cui la sua origine tecnica parrebbe costringerla. Ciò che alla fine emerge nell'opera di LaChapelle è un modo di guardare il mondo con un linguaggio fondato su continue sproporzioni compositive, con l'uso di colori freddi e acidi, di luci aggressive e scintillanti, con un linguaggio che è il vero protagonista della scena. Se per la fotografia di LaChapelle è giusto parlare di spirito neo-pop, è perché in effetti il suo sguardo risulta profondamente mediale e dunque artificiale. | pop storici si erano fatti plasmare da alcune forme della medialità; LaChapelle, sensibile all'incremento di temperatura che la nostra cultura ha prodotto su questo versante, ne ha in pratica assunto lo spirito globale e risulta profondamente artificiale proprio perché totalmente mediale. Stessa cosa vale per l'altro riferimento che in genere si fa a proposito della sua opera, quello al Surrealismo, la cui influenza va nuovamente ricondotta sul piano dei linguaggi, sul modo di raccontare stravolgendo i consueti codici narrativi, procedendo per accostamenti e combinazioni spiazzanti, riprendendo le classiche forme dello “spostamento” (ritrovare elementi là dove non te li aspetteresti) e della “condensazione” (l'accumulo incomprensibile di significati) a suo tempo utilizzate dai surrealisti parafrasando la grande lezione freudiana. Una conferma per la centralità autoriflessiva della questione linguaggio in LaChapelle si può ricavare dalla sostanziale continuità di stile che il suo lavoro manifesta rispetto al brusco mutamento di temi che interviene nei primi anni del nuovo millennio. Fino a quel momento i soggetti del suo lavoro potevano anche giustificare quella sorta di iper-realismo neo-pop che stilisticamente li caratterizzava: eccessi di moda, dive e divini, alluvione di oggetti e merci, stereotipi erotici, tutti i soggetti che potevano spiegare l'assoluta artificialità dello stile LaChapelle. Nei primi anni del Duemila interviene però la novità di temi che affianca alla stralunata ricognizione dei miti in corso forti componenti citazioniste e simboliche. Significativa per esempio la ripresa, quasi in stile reality show, di iconografie cinematografiche ormai museizzate, come appare in Taxi Driver Series e Scarfaces Series, entrambe del 2002. Ma ancora più sorprendente e ritrovare lo stile LaChapelle impegnato a narrare le gesta di un odierno Cristo in terra (le serie Jesus is My Homeboy del 2003), oppure a ricomporre una gigantesca scena del diluvio universale di chiara ispirazione michelangiolesca (Deluge del 2006). La forte e precisa simbologia di distruzione che domina in questi lavori può essere ricavata per via tematica, ma ancora più forte è la sensazione di totale rovina che è metaforicamente si ricava dal linguaggio, dalla profanazione oltraggiosa della sacra finzione pittorica attraverso un esasperato realismo fotografico, reso ancora più provocante dall'assoluta artificialità di sguardo esibita da LaChapelle. Proprio all'inizio del Duemila un significativo contributo alla dialettica artificio-natura e venuto dal progetto Head di Philip-Lorca diCorcia (1951 - ), già avviato sulla stessa poetica nel decennio precedente con le serie Strangers (1990 — 1992), e la successiva Streetwork (1997). Considerato fra gli ultimi grandi interpreti della street photography, diCorcia, ha profondamente riplasmato i parametri stilistici storicamente attribuiti a questo genere. Nel suo lavoro tutto sembrerebbe essere rimasto identico ai precedenti storici: il contesto operativo, il tentativo di fotografare nella maniera più candid possibile e la stessa finalità tipica del modulo street, cioè ottenere una rivelazione sincera autentica della realtà, colta in flagrante nel suo stesso svolgersi, al di fuori di ogni possibile manomissione. DiCorcia Interviene pesantemente su un elemento che nella tradizione iconografica ha sempre funzionato da garante della naturalità rappresentativa, la luce. Nelle riprese candid realizzate a distanza con teleobiettivo da diCorcia sui marciapiedi di New York, è determinante l'intervento della luce artificiale ottenuta con lo scatto di flash attivati inconsapevolmente dai passanti. Oltre che riproporre la storica questione della naturalità fotografica, le sue immagini finiscono per alludere all'imprescindibile dialettica tra artificio e natura che ormai caratterizza in generale la nostra cultura, segnalando
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