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Frankenstein educatore, Dispense di Didattica Pedagogica

riassunto di Philippe Meirieu

Tipologia: Dispense

2015/2016
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Caricato il 13/09/2016

Francesca.Melegatti
Francesca.Melegatti 🇮🇹

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Scarica Frankenstein educatore e più Dispense in PDF di Didattica Pedagogica solo su Docsity! Philippe Meirieu, Frankenstein educatore, Junior, Bergamo, 2007. (ed. orig.Philippe Meirieu, Frankenstein pédagogue, ESF, Paris, 1996). Uno dei maggiori postulati della pedagogia è quello di educabilità. Il principio suona più o meno così: nessuno può intraprendere un’azione educativa senza partire dall’assunto che l’altro soggetto sia educabile. L’insegnante e l’educatore (così come il medico ed altri professionisti della cura delle persone) non possono limitarsi ad analizzare un problema utilizzando le conoscenze in loro possesso ma devono anche cercare di risolverlo. A scuola ciò non è possibile se non si assume in partenza che tutti gli allievi potranno acquisire le conoscenze. Questa convinzione è stata una grande conquista civile. Essa ci ha permesso di uscire dalla pericolosa “psicologia dei doni” che deresponsabilizzava l’educatore attribuendo all’educando ogni responsabilità del fallimento (“Non è dotato”, si diceva e in qualche caso si dice ancor oggi.). La “psicologia dei doni” giustificava in questo modo l’esistenza di una pericolosa macchina di esclusione. E’ anche vero, d’altra parte, che dietro questa esigenza di educabilità si nascondono subdole minacce. L’educatore, magari inconsapevolemente, può farsi guidare da una sua pulsione profonda, quella che lo spinge a raggiungere l’obiettivo “ad ogni costo”, fino a sottomettere l’altro controllando totalmente il suo destino. E’ la pulsione che attraversa tutta la pedagogia moderna, caratterizzata dall’ “accresciuta consapevolezza del potere da parte dell’educatore”. Essa si cela spesso dietro l’esigenza assoluta di controllo e di razionalizzazione dei processi educativi, trincerandosi dietro la neutralità della scienza. In questo bel volumetto Philippe Meirieu affronta proprio questo tema e lo fa a partire da alcuni miti della fabbricazione dell’uomo da parte di un altro uomo. Egli riprende le metafore letterarie di Pigmalione, di Pinocchio, di Frankestein, del Golem, non dimenticando il cinema (Metropolis di Fritz Lang o Blade Runner di Ridley Scott, Il ragazzo selvaggio di François Truffaut). Inutile dire che la metafora letteraria è molto interessante, perché ci aiuta a comprendere senza veli e ipocrisie l’ambiguità e la fragilità della relazione educativa. L’educabilità, infatti, trova il suo limite naturale nel riconoscimento dell’altro. Il mancato riconoscimento è molto più facile di quanto possa sembrare perché si cela nei meandri del nostro inconscio e si copre spesso di giustificazioni insospettabili (“lo faccio per il tuo bene”, ecc.). Esso si manifesta non solo attraverso l’eccessiva distanza (il rifiuto o l’indifferenza) ma anche con l’eccessiva vicinanza affettiva (di qui l’ambiguità dell’espressione, spesso abusata, di “amore per i bambini”). Così Higgins, il protagonista del Pigmalione di Bernard Shaw, il quale riesce a trasformare una fioraia in una duchessa, ama a tal punto la sua creatura da non sopportare che essa sfugga al suo controllo. Egli continua a considerarla il “risultato di un’esperienza”. Pinocchio, che si ribella al suo costruttore Geppetto, nel corso delle successive avventure viene manipolato da altri personaggi (il giudice, il gatto e la volpe, la fata, Mangiafuoco) proprio in forza della sua debolezza originaria, quella di essere stato “fabbricato”. Lo stato di burattino richiama uno stato di sottomissione, di obbedienza cieca, mentre il desiderio del nuovo nato lo condurrebbe verso la libertà. Nella storia di Collodi il burattino, secondo Meirieu, riesce a compiere un gesto di responsabilità quando aiuta il padre Geppetto ad uscire dal ventre della balena preparando idealmente la sua trasformazione in bambino. Lo fa assumendo una decisone libera, non più guidata dalle proprie pulsioni, dall’istinto di ribellione verso obblighi provenienti dall’esterno. La storia di Frankenstein, che dà il titolo al volume, nella sua tragicità è forse la più emblematica del mito della fabbricazione. Il dottor Frankenstein dopo aver “fabbricato” la sua creatura l’abbandona a se stessa. Il tentativo della nuova creatura di crescere da sola fallisce miseramente fino all’esplosione nella rabbia e nella rivoltà. “Fabbricare un uomo e poi abbandonarlo - commenta Meirieu - significa assumersi il terribile rischio di farne un mostro”. Di qui, fuor di metafora, la grande responsabilità di ogni genitore che, dopo aver fatto nascere una nuova creatura, rinuncia ad accompagnarla nel mondo attraverso le necessarie mediazioni (scompare il padre, si potrebbe dire con il linguaggio della psicoanalisi, ma rimane il maschio). Fusionalità da una parte ed abbandono dall’altra sono i rischi costanti di ogni azione educativa. “Ogni educatore – scrive Meirieu – è sempre un po’ un Pigmalione che vuol dare la vita a ciò che ‘fabbrica’. Non c’è nulla di riprovevole in questo, al contrario: egli cerca di dar vita a un essere che non sia il semplice prodotto passivo delle sue azioni ma che esista da se stesso…”. Le cose si complicano quando l’educatore non solo aspira a “costruire l’altro” ma desidera anche che quest’ultimo sfugga al suo potere solo per poi aderirvi liberamente. Vuole il potere sull’altro e allo stesso tempo la libertà dell’altro di aderire al suo potere. Una doppia costrizione, direbbe Gregory Bateson. Come sfuggire a questa tenaglia infernale? Meirieu non si rassegna alla scelta nichilista di chi conclude con la facile denuncia di ogni educazione come forma soft di manipolazione. E’ la scelta impossibile dell’autoeducazione che, anch’essa, attraversa come tentazione permanente la pedagogia moderna a partire da Rousseau. All’educazione come relazione tra soggetti diversi non è possibile rinunciare, volenti o nolenti, pena una regressione inevitabile dell’umanità. Dunque la sfida va affrontata percorrendo l’unica via possibile, quella di agire per creare le condizioni che permettano all’altro di “farsi opera di se stesso”, come ricorda Meirieu citando Pestalozzi. E’ questa la “rivoluzione copernicana della pedagogia”, una sapere inevitabilmente leggero e precario, spesso guardato con sospetto e scarsa considerazione dalle scienze umane. Ma quali sono le esigenze imprescindibili dell’azione educativa che ci indica questa rivoluzione pedagogica? Il volume ne indica alcune: ogni trasmissione di saperi e conoscenze non può aver luogo in forma meccanica; nessuno può apprendere al posto di qualcun altro; è necessario creare nei luoghi educativi “spazi sicuri” in cui il soggetto abbia la possibilità di provare a fare qualche cosa che non sa ancora fare. Su ciascuno di questi punti Meirieu sviluppa articolate proposte e riflessioni. Di fronte al postulato fondamentale di ogni educazione, la contraddizione tra educabilità e libertà, l’unica scelta possibile è quella di starci dentro, accettandola come strutturale e costitutiva. Così la scuola, ad esempio, non può essere solo il luogo in cui ci si prepara alla vita, ma anche lo spazio in cui si deve cominciare a prefigurare e praticare la vita che verrà dopo. La successione tra un tempo di sottomissione e un tempo di liberazione e di autonomia è un’illusione. Se educo pretendendo la sottomissione formerò individui sottomessi. Può un adulto considerasi individuo autonomo e contemporaneamente, attraverso le proprie pratiche, educare i giovani alla sottomissione? Trovare il giusto equilibrio è dunque la sfida di ogni educatore. A scuola l’autonomia si forma o si distrugge nell’atto stesso della trasmissione delle conoscenze. I saperi scolastici non possono essere solo strumenti di integrazione in un contesto sociale (cedendo così alla funzione di strumenti selettivi). Essi sono soprattutto strumenti per comprendere il mondo, dunque per innalzarsi al di sopra del contesto che viviamo e immaginare il futuro. “Fare perché l’altro faccia” promuovendo l’autonomia è una via che può essere percorsa solo se si riescono a creare situazioni adatte. In primo luogo, ciò significa mettere in atto una pedagogia differenziata capace di moltiplicare le occasioni per ciascuno di esercitare l’intelligenza e di impossessarsi dei saperi. In secondo luogo, è necessaria la dovuta attenzione al transfert delle conoscenze: “Non mettiamo i nostri ragazzi a scuola - ricorda Meirieu - perche semplicemente imparino a riuscire nei compiti scolastici. Ogni educatore ipotizza che, alla fine del percorso, resterà qualcosa che verrà riutilizzato più tardi, in altro luogo, su iniziativa di colui che ha imparato”. Infine, è necessario riconoscere all’educando sempre maggiori responsabilità: “Io ti darò degli strumenti, dei consigli, dei mezzi e dei metodi – dice l’educatore - ma ti ricondurrrò sempre alla tua decisione perché è solo essa che ti può far progredire, è solo essa che può farti crescere”. La presentazione di Pietro Lucisano all’edizione italiana, ricca di spunti critici, suggerisce qualche osservazione conclusiva. La definizione positiva di pedagogia che dà Meirieu non è “debole”, se alla debolezza si vuol implicitamente attribuire un’accezione negativa. E’ noto, infatti, che nel corso della sua lunga esperienza di ricerca Philippe Merieu ha elaborato sia un’ipotesi epistemologica del sapere pedagogico sia articolate proposte di intervento in campo didattico in un costante rapporto con le pratiche degli insegnanti e con le diverse scienze dell’educazione (cfr., ad
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