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Frankenstein educatore, Dispense di Scienze dell'educazione

sintesi Frankenstein educatore parte 2

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 03/04/2023

Meredith_
Meredith_ 🇮🇹

4.3

(4)

18 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Frankenstein educatore e più Dispense in PDF di Scienze dell'educazione solo su Docsity! Mary Shelley, o la creazione di un testo esemplare da parte di una ragazza di 19 anni: Frankenstein ovvero il Prometeo moderno Mary Shelley nasce nel 1797 da due intellettuali inglesi considerati all’avanguardia: William Godwin, che denuncia con forza le ingiustizie sociali della società britannica, e Mary Wollstonecraft, che ha enormemente scandalizzato questa stessa società pubblicando “Difesa dei diritti della donna”. Mary muori dieci giorni dopo il parto per una febbre che i medici non riescono a far abbassare. La giovane Mary viene perciò allevata solo dal padre che si risposa presto. Durante l’infanzia vive delle tensioni con la matrigna che lei considera abbastanza mediocre rispetto alla madre persa e idealizzata. A 15 anni suo padre la invia in Scozia presso un amico “perché sia allevata come un filosofo, anzi come un cinico”. Mary sarà la degna erede di suo padre, ma nel 1814 incontra il poeta Shelley, dalla fama ancora modesta, ma dal fascino senza dubbio forte. Shelley si innamora di Mary e anche lei è affascinata dal personaggio innamorandosi anche lei. Mary e Shelley fuggono nella notte del 28 luglio 1814 e intraprendono un viaggio attraverso la Francia, la Svizzera, la Germania e l’Olanda, prima di tornare a Londra e affrontare Godwin. Nel 1816 sulle rive del lago di Ginevra, iniziò a scrivere Frankenstein come sfida nata da una scommessa tra amici. La pubblicazione sarebbe dovuta essere a Londra nel 1818. L’opera ebbe tante critiche. Solo Walter Scott, credendo che l’autore sia Shelley e non Mary, elogia l’opera sottolineando che gli sembra rivelare “facoltà d’immaginazione poetica poco comuni, capaci di suscitare nuove riflessioni e inedite fonti di emozioni”. In più anche i giudizi sulla qualità letteraria non mancano: Il lettore, infatti, può essere sorpreso quando il personaggio di Justine, accusata dell’omicidio di William, fratello del dottor Frankenstein, viene presentato da una lettera in cui si racconta la sua storia. Questo è dovuto al fatto che Mary ha scoperto dopo la necessità di inserirla nell’intrigo. Oppure non convince la storia della famiglia De Lacey, presso la quale la creatura si formerà come uomo. Questi difetti però sono compensati da un’organizzazione generale del romanzo, che si sviluppa in un sistema di “incastri” e di racconti diversi che strutturano un’organizzazione narrativa molto precisa. Il romanzo si apre con le lettere di un esploratore, Walton, che cerca di raggiungere il Polo Nord e il cui battello rimane incagliato nei Ghiacci. Walton raccoglie il dottor Frankenstein e racconta la tremenda impressione che quest’uomo fa a lui e al suo equipaggio. Poi, attraverso il diario di Walton segue il racconto di Frankenstein e della sua creatura. Il romanzo si chiude nuovamente con una lettera di Walton il quale, dopo aver ascoltato la storia di Frankenstein e aver visto morire il creatore e la sua creatura, rinuncerà alla propria ricerca. Il romanzo si caratterizza, in più e stranamente, per il “realismo” delle intenzioni. Se il lettore è colto da “fremiti” forse è proprio perché lo stile del racconto è relativamente semplice e perché non siamo di fronte a una forma letteraria originale. Mary Shelley dice le cose con l’ingenuità di una ragazza di diciannove anni, senza ricercare la coerenza stilistica e usando le parole che le sembrano d’istinto le più adatte. Queste imperfezioni fanno emergere con più efficacia la forza del mito. Questo spiega perché il successo popolare del romanzo. È per questo che oggi non può essere classificato facilmente in nessun genere letterario. Frankenstein e la sua creatura, ovvero lo stupefacente gioco di specchi del “non sono io, è l’altro” Perché quando si parla di Frankenstein tutti pensano alla creatura? Sappiamo che Frankenstein non è il mostro ma il suo creatore. Jean- Jacques Leclercle ci spiega che lo sappiamo ma non vogliamo saperlo. La confusione non è un semplice lapsus e non è nemmeno solo un effetto degli adattamenti cinematografici. La confusione è inscritta da Mary Shelley sul corpo della creatura che porta nella carne la sua condanna, il suo avvenire. La creatura è opera di Frankenstein, il corpo è Frankenstein, perché il dottore ci ha messo tutto il suo sapere, tutta la sua energia e tutta la sua volontà. Lo ha voluto. immagini e impressioni che si fisserebbero nella sua coscienza. Un uomo che tenderebbe la mano verso l’altro per testimoniare “voltontà buona”. La creatura sarebbe come il buon selvaggio. Abbandonata dal suo creatore, la creatura cercherà di “fare la sua educazione”. Scoprirà il mondo attraverso i sensi. Scoprirà la molteplicità di sensazioni che si impossessano del suo essere, poi scoprirà i vari fenomeni, come il caldo al sole o vicino al fuoco, che si dorme meglio al riparo dalla pioggia ecc... La creatura si “civilizza” e costruisce una sua intelligenza. acquisisce un certo numero di conoscenze essenziali attraverso il “metodo naturale”. Farà poi l’incontro con la famiglia De Lacey; si nasconderà nel loro capanno scoprendo i costumi degli uomini, come per esempio il linguaggio. La creatura impara a parlare con facilità e, per testimoniare la sua gratitudine ai suoi involontari benefattori, di notte rende loro piccoli servizi per aiutarli nei lavori più difficili/pesanti. Senza farsi vedere, in più, segue le lezioni che un ragazzo da alla sua amata e scopre così la storia degli uomini. Scopre i valori morali e sociali ai quali aderisce spontaneamente. Medita sul proprio destino grazie all’opera di Milton, il Paradiso perduto: Come Adamo non era legato a nessuno. Ma la sua situazione era diversa da quella di Adamo. Adamo era uscito dalle mani di Dio come creatura perfetta, era felice e non gli mancava nulla. Era protetto dal suo creatore. La creatura invece era infelice, sola e sperduta. La creatura a questo punto scopre il diario di Frankenstein nelle tasche della giacca rubata durante la fuga dal laboratorio e nel leggerlo l’inquietudine, la collera e la rivolta prendono il possesso di lui. La creatura si chiede perché averlo messo al mondo e aver rinunciato a introdurlo nel mondo, a educarlo. Il dottor Frankenstein non è come il dottor Itard che fa di tutto per aiutare Victor dell’Aveyron, lui fabbrica un uomo senza pensarci veramente e abbandonandolo. Però fabbricare un uomo e abbandonarlo significa assumersi il rischio terribile di farne un “mostro”. Poiché la creatura è un mostro solo per il fatto di essere stata abbandonata da “suo padre”. La creatura impara il mondo da solo, ma nessuno fa la sua educazione, nessun mediatore è la per presentarla agli uomini e presentarle gli uomini. Cerca di farsi adottare dal vecchio cieco della famiglia De Lacey, riesce addirittura a suscitare la sua compassione e, all’arrivo del resto della famiglia che, terrorizzata, le si lancia contro, la creatura si rifiuta reagire. In seguito, la creatura salva un bambino che stava annegando, ma gli uomini, convinti che essa stava tentando di affogarlo, la ringraziano a colpi di fucile. I sentimenti di bontà si trasformano quindi in rabbia diabolica. La creatura si mette alla ricerca del suo creatore e così iniziano i suoi crimini: William, fratello del dottore, viene sgozzato; Justin, accusata dell’omicidio, viene impiccata: Clerval, amico fedele, viene assassinato; La moglie del dottore verrà uccisa la sera delle nozze e il padre morirà poco dopo. Frankenstein, senza sapere quello che faceva, ha innescato questo processo, Ha commesso un errore imperdonabile confondendo “fabbricazione” ed “educazione”. Ha creduto di poter mettere un essere al mondo senza accompagnarlo nel mondo. Frankenstein, ovvero l’educazione tra praxis e poiesis Francis Imberti è quello che meglio ha formalizzato la contrapposizione tra praxis e poiesis nell’educazione. Qualunque impresa educativa è profondamente influenzata da questa opposizione. - LA POIESIS è una fabbricazione che termina una volta raggiunto il suo scopo. L’oggetto che si fabbrica, alla fine dell’azione, si stacca dal suo autore e non gli riguarda più. La poiesis è un’attività - LA PRAXIS si caratterizza per il fatto che si tratta di un’azione senza altro fine che se stessa. È un’azione che perdura nel tempo. Non ci sono oggetti da fabbricare, ma bensì è un atto da compiere nella sua continuità, un atto mai veramente concluso, perché non comporta alcun fine esteriore a se stesso e stabilito a priori. L’educazione non può mai essere poiesis, anche se comporta inevitabilmente aspetti di “costruzione” che rinviano a un’immagine sociale stabilita in anticipo. Ridurre l’educazione a una poiesis significherebbe trattare un soggetto educato come una “cosa” di cui si potrebbe dire, prima di intraprendere il percorso educativo, cosa debba essere in base al nostro progetto. In questa visione per essere “riuscito” l’educato deve assomigliare all’educatore, ma questa somiglianza implica che esso disponga di una libertà come il suo educatore, che gli consente proprio di essere diverso da quello che si ha in progetto per lui. È proprio in questo l’errore dell’impresa del dottor Frankenstein: quando scopre che la sua creatura è stata involontariamente dotata, da lui stesso, di volontà e del potere di commettere atti orribili. Frankenstein non è un educatore. Nella praxis l’autonomia degli altri non è un fine, ma è un inizio. Non si lascia definire da uno stato o da caratteristiche qualsiasi. Frankenstein riduce l’educazione a una poiesis. Per lui l’azione si conclude con la fabbricazione. Il corpo non è che un insieme di organi, la formazione una combinazione efficace di sensazioni e conoscenze, il soggetto il semplice risultato di procedure tecniche che è sufficiente attuare a partire dai principi elementari della “filosofia naturale”. Frankenstein non è nemmeno una vittima. Sa che non è così che funziona e che un soggetto e tutt’altra cosa rispetto a un collage di elementi fisici e psichici, ma questo lo spaventa, perché se accettasse questa realtà dovrebbe riconsiderare le sue convinzioni fondatrici. Nel suo intimo Frankenstein condivide la convinzione tecnocratica che si divide in cinque postulati: 1. La tecnica può risolvere tutti i problemi 2. Un controllo totale della nostra azione annulla tutti gli imprevisti 3. È reale solo quello che è scientificamente individuabile e misurabile 4. Le scelte tecniche si impongono per motivi puramente tecnici e non sono discutibili 5. L’efficacia tecnica è il valore supremo. Frankenstein scopre durante la sua avventura quanto questi postulati siano “pericolosi” tanto che non parlerà della sua creazione neanche al suo più caro amico Walton e al punto che non smetterà di rimpiangere le sue azioni e la sua irresponsabilità. Però non prova mai a rimediare ai suoi errori, spostandosi da poiesis a praxis. L’educazione è sempre piena di calamità. I bambini possono essere maleducati e fare la linguaccia invece di dire buongiorno. Gli alunni 1985). Accettare il bambino come un dono, rinunciare al nostro desiderio di dominio senza rinnegare la nostra influenza o tentare di cancellare una paternità è molto difficile. Questa è la prima esigenza della rivoluzione copernicana in pedagogia: rinunciare a fare del rapporto di paternità un rapporto di casualità o di possesso. Non si tratta di fabbricare una creatura, ma di accogliere il nuovo arrivato come un soggetto che appartiene a una storia e rappresenta la promessa di un superamento radicale. “Un essere ci resiste”, ovvero della necessità di distinguere tra la fabbricazione di un oggetto e la formazione di una persona I bambini non sono affatto docili e quando accade, il più delle volte lo fanno per fare di testa loro. Non desiderano mai quello che sarebbe opportuno al momento giusto: Anche se ci sforziamo di fargli capire che le materie umanistiche e la scienza apporteranno molte soddisfazioni nel loro futuro rispetto a una serie tv che stanno guardando, non abbiamo tante probabilità di convincerli facilmente. Quando alla fine si decideranno a fare quello che consideriamo utile per loro, non lo fanno mai come dovrebbero. Se tentiamo di spiegargli come fare diventano o dei saputelli o si trincerano nel silenzio, protestando che non vuol dire niente o che non gli interessa. Questo esempio per dire che nell’educazione la “normalità” è che l’altro resiste, si sottrae o si ribella. La “normalità” è che la persona che si costruisce di fronte a noi non si lascia “fare” e cerca di opporsi, solo per ricordarci che non è un oggetto che viene costruito. Quando gli insegnanti si trovano davanti a comportamenti del genere sono costretti a scegliere: rinunciare o impelagarsi in un rapporto di forza? In casi del genere la tentazione all’estromissione è forte, sperando di poter continuare a esercitare il proprio mestiere di insegnante con tranquillità. Però gli insegnanti sanno bene che l’estromissione è un segno di sconfitta e conferma un abbandono: nessun educatore degno di questo nome può accettare l’allontanamento come soluzione alle difficoltà che incontra. Così l’insegnante per evitare l’esclusione si impegna in uno scontro; Però, arriva un giorno in cui l’alunno vorrà sapere fino a che punto l’insegnante può essere messo alla prova e quali sono i suoi limiti e così il conflitto si intensifica. Qualche volta l’insegnante ne esce vittorioso, ma spesso succede il contrario: il problema è che se l’alunno non sa tradurre la sua rabbia in parole, probabilmente ha imparato a difendersi con altri mezzi, tipo sfruttare le debolezze dell’avversario. La domanda che si fa quindi l’insegnante è come poter trasmettere le conoscenze senza allontanare quelli che gli resistono. La seconda esigenza consiste nel riconoscere il nuovo arrivato come una persona che non posso plasmare a mio piacimento. È inevitabile che qualcuno resista a chi lo vuole “fabbricare”. L’ostinazione dell’educatore nel sottometterlo al suo potere suscita dei fenomeni di rifiuto. Educare significa rifiutare di entrare in una logica di scontro o allontanamento. “Ogni insegnamento è chimera”, ovvero come uscire dalla magica illusione della trasmissione È necessario mettere in discussione la possibilità della “trasmissione”? se il maestro vuole che l’alunno impari, deve astenersi dall’insegnare. A parte l’aspetto provocatorio della formula, essa dice che l’attività del maestro deve essere subordinata al lavoro e ai progressi dell’alunno. Non è la qualità dello spettacolo che determina il progresso intellettuale dello spettatore, ma il modo in cui esso viene presentato e cosa provoca in lui. La logica che presiede all’insegnamento è del tutto diversa da quella che presiede l’apprendimento: un insegnamento ricevuto è un empirismo. Un insegnamento impartito è un razionalismo. (vi ascolto, son tutto orecchi; vi parlo, son tutta testa). Insegnare significa esporre in maniera ordinata ciò che si è scoperto in modo più o meno fortuito. Quando ci sono delle incoerenze mi metto alla ricerca di articolazioni soddisfacenti e così costruisco il mio pensiero e il mio discorso. Se ci si sforza di seguire un ragionamento in modo lineare dal principio alla fine ci saranno delle cose che colpiranno gli alunni più di altre, perché ci rinvieranno a domande che gli stanno a cuore. Esistono delle condizioni di insegnamento che funzionano meglio e in cui gli studenti apprendono in modo completo. Queste situazioni dipendono da una combinazione di condizioni in cui i discenti hanno rimodellato il loro modo di apprendere nel sistema del metodo d’insegnamento. Capiscono il corso perché hanno imparato ad aspettare gli esempi al momento in cui arrivano e ricordano le formule di sintesi. Da parte di altri invece c’è resistenza e la trasmissione è difficile e si ritorna al discorso dell’allontanamento e dello scontro. La terza esigenza consiste nell’accettare il fatto che la trasmissione dei saperi e delle conoscenze non avviene mai in modo meccanico e non può essere concepita sotto forma di duplicazione. Essa suppone una ricostruzione di quei saperi e di quelle conoscenza che il soggetto stesso deve inserire nel suo progetto e du cui deve cogliere gli aspetti che contribuiscono al suo sviluppo. “Solo il soggetto può decidere di imparare”, ovvero il riconoscimento dell’impotenza dell’educatore Anche se a volte è necessario rinunciare a insegnare, non bisogna mai rinunciare a “far imparare”. Significherebbe decidere di tenere un essere deliberatamente fuori della cerchia umana, condannandolo alla violenza. È il motivo per cui è così grave rinunciare ad educare qualcuno. La sola maniera per uscire dal dilemma dell’esclusione e dello scontro è riconoscere una volta per tutte che nessuno può decidere di apprendere qualcosa al posto di qualcun altro. Apprendere, imparare, significa “fare qualcosa che non si sa fare per imparare a farla”, ed è difficile. È una cosa che si fa da soli, come imparare a nuotare, nessuno ci ha insegnato a farlo, lo abbiamo fatto da soli. Certo, ci possono spingere, ma ci sarà un momento in cui, sott’acqua, l’allievo sceglie o di lasciarsi andare o di risalire, e lo fa da solo. Cos’ avviene sempre quando si impara qualcosa. Bisogna quindi, rinunciare a imparare al posto dell’altro, bisogna accettare il fatto che l’apprendimento è il risultato di una decisione che solo l’altro può prendere e che è completamente imprevedibile. La decisione di imparare si prende in prima persona e per ragioni che non appartengono a colui che la prende. Si prende per “distaccarsi” da quello che si “è”, per “liberarsi” da qullo che si dice e si sa di noi. C’è sempre nella vita qualcuno che preferirebbe vedervi rinchiusi nel vostro “carattere” o nella vostra “personalità” piuttosto che lasciarvi Se la pedagogia in nessun caso può determinare un apprendimento, è suo compito creare degli “spazi di sicurezza” nei quali un soggetto possa prender il coraggio di “fare qualche cosa che non sa fare per imparare a farla” Verso la conquista dell’autonomia Bisogna diffidare del concetto di autonomia. Nessuno è contrario all’autonomia, infatti la formazione di essa la troviamo esaltata in tutti i progetti d’istituto, ma senza che sia chiaro in cosa prenda forma e come si concretizzi Partiamo col dire che nessuno è mai del tutto autonomo, per esempio, quando decido di fare dei lavori idraulici nella mia stanza da bagno non sono completamente autonomo e dipendo dall’aiuto, dai consigli e dal sostegno di un amico competente. Un essere completamente autonomo sarebbe un essere “sufficiente”, insopportabile per i propri simili. Un essere invece completamente eteronomo, incapace di bastare a se stesso, sarebbe in pericolo continuo di morte. Se si vuole quindi parlare di autonomia conviene precisare la sfera di autonomia che si cerca di sviluppare, il livello di autonomia che si vuole raggiungere e gli strumenti che si decide di usare. LA SFERA DI AUTONOMIA rinvia alla specificità dell’istituzione nella quale ci troviamo e le competenze particolari degli educatori che vi lavorano. La scuola deve porsi come obiettivo l’autonomia degli alunni nella gestione dei loro processi di apprendimento. IL LIVELLO DI AUTONOMIA rappresenta un livello superiore e tuttavia accessibile rispetto al livello già raggiunto dagli alunni. Non bisogna pretendere di portare una persona a un livello di autonomia troppo superiore rispetto a quello a cui si trova, poiché si richià di condannarsi a una dconfitta e condannare l’altro alla regressione. Lo sviluppo richiede MEZZI SPECIFICI e un sistema di aiuto e di guida che sarà alleggerito gradualmente. L’autonomia è un approccio che permette a ciascuno, secondo la formula di Pestalozzi, di “farsi opera di se stessi”. È per questo che sarebbe più corretto parlare di “processo di autonomizzazione”, solo per combattere l’illusione di un’autonomia che sarebbe una condizione definita e globale nella quale collocare la persona una volta per tutte. L’autonomizzazione è intesa come “principio regolatore” dell’azione pedagogica. questo principio serve da guida e per l’azione e l’orientano in modo opportuno. L’educatore deve sforzarsi di rendere il soggetto autonomo. Non deve supporlo già autonomo, ma organizzare un sistema di aiuti che gli permetta di raggiungere gli obiettivi che si fissa prima di portarlo a fare progressivamente a meno di questi aiuti e ad applicare per conto suo quello che ha acquisito. Questo processo non è mai realmente concluso e in cui la rottura persegue lungo l’intero corso dell’esistenza di ognuno. L’intento di rendere autonomi è il contrario di ciò che guida l’attività di dottor Frankenstein nei confronti della sua creatura: quando bisognerebbe aiutarlo a costruirsi, Frankenstein pretende di realizzare e compiere questa costruzione da solo e quando bisognerebbe creare nuovi legami tra il nuovo arrivato e il mondo, Frankenstein lo abbandona in un universo ostile. La sesta esigenza consiste nell’inserire nel cuore di qualunque attività educativa la questione dell’autonomia del soggetto. È durante tutto il corso dell’educazione che si guadagna l’autonomia, ogni volta che una persona si appropria di un sapere, che lo fa suo, lo riutilizza in modo indipendente e lo reinveste altrove. Questa operazione di appropriazione/riutilizzazione è ciò che deve presiedere all’organizzazione di ogni impresa educativa. Del soggetto in educazione, ovvero del perché la pedagogia è incessantemente punita nell’ambito delle scienze umane per osare affermare il carattere non scientifico dell’opera educativa Nel 1967 ci fu la creazione ufficiale delle “scienze dell’educazione”, che però ha creato numerosi dibattiti e polemiche. Per il grande pubblico queste scienze sono la stessa cosa della pedagogia, ma, per andare all’essenziale, le scienze dell’educazione riuniscono insegnanti, ricercatori e studenti, il cui obbiettivo è un approccio interdisciplinare alle questioni educative. All’interno delle scienze dell’educazione coesistono più tipi di lavoro: esistono più ricerche di sociologia, psicologia clinica, ricerche storiche ed economiche su un fenomeno come il fallimento scolastico. In materia educativa esistono talmente tante variabili da prendere in considerazione che è difficile arrivare alla certezza scientifica. Per questo molti ricercatori tentano di verificare approcci derivanti da diverse discipline di supporto. La ricerca pedagogica non può aderire completamente al paradigma della prova e della predicibilità. Il suo approccio deve far propria l’imprevedibilità della praxis pedagogica, il fatto che si tratta di un’attività che pone la libertà dell’altro al centro delle sue preoccupazioni e non può avere la pretesa di predire niente con certezza scientifica. Si possono produrre invece, dei discorsi che aiutino gli esperti ad accedere alla comprensione della partica. Questi discorsi sono ibridi: a volte usano lo stile epico, altre volte il discorso è mediocre e non riesce a competere con quelle delle “discipline nobili”. Però è un discorso che l’esperto dell’educazione riconosce come proprio, perché vi si ritrova e perché vi si riflette la difficoltà del suo compito. La settima esigenza consiste nell’accettare “l’insostenibile leggerezza della pedagogia”. L’uomo vi riconosce la sua impotenza sull’altro, dal momento che ogni incontro educativo è inevitabilmente singolare e che il pedagogista non può costruire il suo operato in un campo teorico di certezze scientifiche. Oggi si vorrebbe ridurre la pedagogia a un assemblaggio di conoscenze derivate dalle scienze umane, però, queste scienze, non costituiscono la pedagogia più di quanto i brandelli strappati da Frankenstein ai cadaveri nel cimitero permettano l’emergere di un uomo. La pedagogia è progetto, essa è speranza attiva dell’uomo che verrà. Bisogna sempre ricordarsi che gli uomini ci hanno tramandato più piani di mondi immaginari che di città concrete. Tutti ci consegnano lo stesso mito fondatore della città che prolunga nello spazio collettivo il progetto infernale di Frankenstein: il controllo dei suoi abitanti in uno spazio in cui ogni uomo occupa il posto che gli è destinato. C’è una certa fascinazione per la simmetria e l’organizzazione. Razionalità ed efficacia nella distribuzione dei compiti. Trionfo assoluto della geometria che si impone sugli uomini dimenticando che sono “pietre vive” e nutrendo la speranza segreta che si irrigidiranno nella disposizione perfetta delle proiezioni dello spirito.
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