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Frankenstein educatore, Dispense di Scienze dell'educazione

sintesi Frankenstein educatore parte 3

Tipologia: Dispense

2022/2023

Caricato il 03/04/2023

Meredith_
Meredith_ 🇮🇹

4.3

(4)

18 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Frankenstein educatore e più Dispense in PDF di Scienze dell'educazione solo su Docsity! 7. LA PEDAGOGIA CONTRO FRANKENSTEIN, OVVERO I PARADOSSI DI UN’AZIONE SENZA OGGETTO: FARE PERCHÉ L’ALTRO FACCIA” “Fare tutto non facendo niente” (J. J. Rousseau) Il principio basilare della pedagogia è “Fare tutto non facendo niente” cioè organizzare l’ambiente di vita affinché il bambino sia stimolato il più possibile, tanto dal punto di vista sensoriale che da quello intellettuale. Si tratta il bambino come un soggetto che apprende “liberamente”, attivando la sua volontà in situazioni costruite e controllate dall’educatore. Questo principio non implica quindi l’astensione pedagogica. Il bambino non sa niente ed è alla mercè dell’educatore. Senza dubbio non deve fare ciò che vuole, ma deve volere solo quello che voi volete che faccia. Questo principio, ideato da Rousseau venne criticato indicandolo come manipolatorio. Però dicendo così ci si scorda che Rousseau era il primo a parlare di “rispetto per il bambino”. Infatti, aveva capito perfettamente che per rispetto non si intendeva assecondare tutti i capricci del bambino, bensì che, il bambino, non educato, non può scegliere cosa imparare e decidere ciò che è importante per lui. Fare tutte non facendo niente non significa rinunciare a fissare gli obbiettivi dell’apprendimento e nemmeno rinunciare a intervenire sull’educazione dei bambini. Significa esercitare pienamente la propria autorità di educatori, non per agire direttamente sulla volontà del bambino, ma utilizzando delle mediazioni che gli permettono di diventare un “artefice della propria educazione” Questo progetto serve da principio organizzatore di quelle che noi chiamiamo “situazioni- problemi”: l’allievo deve svolgere un compito nel quale investe il proprio desiderio, ma deve inserirsi in un sistema di limitazione e risorse che gli permettono di conquistare nuove competenze. Qui si tratta di rinunciare a chiedere semplicemente di “elaborare”. Bisognerebbe formulare un compito preciso da svolgere e assicurarsi che ciascuno abbia una rappresentazione mentale sufficiente di questo compito per poterlo intraprendere e per sapere quando lo ha portato a termine. Facciamo un esempio di attività in cui questo principio si applica: Una maestra propone ai bambini di scegliere un animale, informarsi su dove vive, come si sposta, cosa mangia ecc... Gli dice dove possono trovare queste informazioni e gli dice che quando il lavoro di raccolta sarà terminato si distribuirà l’aula come uno zoo. Questo zoo sarà diviso in zone in cui vivranno più di un animale, quindi bisognerà capire quali animali dovranno stare insieme e quali si dovranno dividere. Durante il periodo di raccolta i bambini discutevano con molta serietà per capire quali animali fossero un pericolo per altri e quali mettere insieme per ciò che mangiavano, il clima ecc. La maestra in questo caso aveva “fatto tutto”, definendo obbiettivi, dando istruzione e preparando il materiale, e poi li aveva lasciati “fare tutto”, intervenendo solo in momenti critici. Aveva fatto in modo che “facessero da se” e che ognuno potesse impegnarsi senza lasciarsi risucchiare da fenomeni di gruppo. Questo tipo di lavoro si può attuare anche con ragazzi più grandi e con adulti, non solo con bambini piccoli. La cosiddetta “condizione umana” è qualcosa che si dà senza imporre né pretendere ringraziamenti. Un dono del quale non si conosce né il contenuto né l’uso. Un dono che l’educatore propone e per il quale, come la sera di Natale, organizza in tutta segretezza, non per costringere qualcuno ad accettarlo, ma per prepararlo a riceverlo. La creatura del dottor Frankenstein non ha mai avuto un Natale. “Fare con”, ovvero della necessità di prendere l’altro in considerazione. Dal soggetto concreto alla pedagogia differenziata Si criticheranno gli esempi fatti da Rousseau poiché si dirà che nella realtà le cose sono più complicate e gli allievi meno docili. Rousseau sostenendo il “fare tutto senza fare niente” vuole dire che l’educatore, il pedagogista, fa tutto per l’educazione del bambino, ma senza agire direttamente su di lui. Spera che il bambino faccia ciò che lui considera giusto ma vuole che lo faccia da solo, perché se non lo facesse da solo non avrebbe alcuna influenza duratura. A dispetto delle sue convinzioni l’educatore non riesce sempre a far fare all’altro quello che lui considera il suo bene. Accade che l’allievo disponga di limitazioni e risorse sapientemente disposte intorno a lui da un maestro e che sia tuttavia restio a rispettare le regole. dell’insegnante e della situazione formativa stessa, permette la reale emancipazione del soggetto. Non esiste una capacità generale di valutazione che potremmo vestire e svestire a piacere con contenuti diversi a seconda dei contesti. L’importanza del trasferimento è nella necessità che esso costituisce. Può sembrare singolare attribuire più importanza alla necessità che all’esistenza, ma la pedagogia si interessa per prima cosa, di quello che deve far accadere. È per questo che la pedagogia si differenzia dalla psicologia. Lo psicologo cerca di sapere se il trasferimento esiste, il pedagogista afferma che è necessario che esiste e che bisogna farlo esistere affinché l’attività di insegnamento sia emancipatrice. Per liberarsi dal paradigma dell’”educazione come fabbricazione” dobbiamo riuscire a collocare la preoccupazione della trasmissione nel cuore stesso dell’apprendimento. L’esigenza del trasferimento contraddice la “pedagogia del cammello”, quella che consiste nell’accumulare saperi senza preoccuparsi del loro uso e supponendo semplicemente “che un giorno o l’altro serviranno pure a qualcosa”. Preoccuparsi del trasferimento significa innanzitutto restituire i saperi come risposte a domande che gli uomini si sono posti e che colui che impara può chiamare in causa per rispondere egli stesso alle domande che si pone o si porrà. Significa portare il discente a proiettarsi mentalmente nel mondo del lavoro e ricordarsi delle situazioni che ha vissuto. Una tale esigenza richiede la costante preoccupazione di “creare dei ponti” tra quello che viene appreso in classe e la realtà psicologica, sociale, tecnica e culturale nella quale il giovane vive. Vuol dire identificare le rive come universi distinti, senza rassegnarsi ad abitare solo su una di esse. A scuola le difficoltà sono presentate in ordine di complessità crescente e le informazioni sono caratterizzate dalla preoccupazione per l’obbiettività e l’esaustività. Nella vita le cose si presentano sempre in modo disordinato e noi siamo incalzati dall’urgenza. Gombrowicz diceva, se la vita è un “caos”, la scuola deve essere un “cosmos” organizzato dall’intelligenza dell’uomo. Ma il cosmos ordina il caos e non si costituisce come un “mondo altro” accanto al primo. Il compito della scuola non è abolire tra i muri dell’alula “il caos della vita” per sostituirvi “il cosmos della cultura scolastica” che sarà esso stesso abolito quando si tornerà nella “vita”. Quello che si deve fare è trasformare il caos in cosmos, lavorare per ordinare il disordine, per capirlo e averne il controllo all’esterno della scuola. Sfortunatamente succede il contrario, la scuola costruisce un cosmos che giustappone al caos e l’allievo vive tra due culture. È questo il motivo per il quale quelli e quelle che esigono che vengano impediti tutti gli sforzi per “costruire ponti” tra saperi scolastici e il mondo in cui vivono gli allievi sono gli affossatori della cultura scolastica. Bisogna non fossilizzarsi sulla cultura dei “profitti scolastici” destinati solo alla riuscita nella scuola e incapaci di mettere in discussione la vita di colui che apprende. Tutto questo è difficile. Tutte le questioni fondatrici di cui abbiamo parlato per gli allievi sono più interessanti. È fondamentale permettere loro di accedere al significato propriamente umano dei saperi che vengono insegnati. Una volta effettuato questo lavoro è molto più interessante chiedere agli allievi di mettersi alla ricerca da soli, di situazioni nei quali questa conoscenza possa essere utilizzata. Parliamo adesso del ruolo essenziale, nel processo di appropriazione emancipatrice dei saperi, di quella che chiamiamo la metacognizione: questa consiste nel ritornare sul proprio processo di apprendimento e nel mettere in discussione la dinamica stessa del trasferimento di conoscenza. È un modo di lavorare su questo trasferimento senza essere più nel processo, ma di fronte al processo, un modo per dire “ecco quello che ho imparato. Ecco cosa questo mi rimanda.” È l’alunno stesso che può definire la pertinenza di questo rapporto. Non permette a nessuno di tenerlo in suo potere usando le emozioni senza esserne consapevole. Non controlla tutto ovviamente, ma attraverso il suo pensiero si eleva sopra le situazioni scolastiche e le situazioni sociali. Non capisce completamente tutto questo ma capisce il rapporto che c’è tra le sue conoscenze e le sue esperienze, facendosene padrone di questo rapporto. Il ruolo dell’educatore è quello di assecondare questo processo senza controllarlo. “Fare come se...”, ovvero l’educazione come sforzo instancabile per attribuire ad un soggetto i suoi atti Nessuno sa davvero né quando né come un bambino diventi effettivamente responsabile dei propri atti. È sempre possibile ricostruire a posteriori una catena causale e far apparire una nostra piccola azione come la conseguenza di influenze e di determinazioni nel quale non c’è posto alcuno per la volontà di un soggetto. Finché ci si limita a un approccio descrittivo, la liberà e la responsabilità sono metodologicamente negate. Allora esiste un’ipotesi di una “nolontà”, cioè una volontà di sospendere l’influenza delle determinazioni esteriori, fino a quelle che si impongono maggiormente su di me, proprio come “evidenze” o forze alle quali non credo di poter resistere. Però quello che bisogna capire è che nelle situazioni in cui le mie scelte appaiono come imposizioni su di me in modo ineluttabile, mi resta sempre la possibilità di dire NO, di resistere, di sospendere il mio giudizio o di decidere di fare altrimenti. Se non faccio uso di questa possibilità il fatto che avrei potuto farlo conferisce al mio atto la portata di un gesto libero. Qui ancora una volta il pedagogista deve preferire la necessita all’esistenza di questa possibilità. Il pedagogista non sa mai se il bambino è libero né se lo potrà diventare veramente, ma è suo compito far accadere questa libertà che costituisce colui che gli è affidato nella sua umanità. Come si fa a dare a un bambino la possibilità di rifiutarsi di fare quello che i suoi educatori gli chiedono di fare? Finché non disporrà degli strumenti mentali e della cultura necessaria per percepire la posta in gioco di quello che gli accede, con quale diritto si può considerarlo responsabile dei suoi atti? Pinocchio è “libero” di seguire Lucignolo nel “paese dei balocchi” o di resistergli, ma questa libertà è solo un’illusione perché non ha altra scelta se non quella tra la soddisfazione del proprio piacere o di quello dell’altro. D’altronde Pinocchio finché non nasce la libertà nella pancia del pescatore non si assume per niente la responsabilità delle sue azioni. nella barbarie. La convinzione morale non può in nessun caso sostituire la costruzione della Legge e la determinazione etica. Questo fenomeno si manifesta tutti i giorni nelle classi quando vediamo certi alunni, sensibili, che lasciano sfuggire una bestemmia, un insulto o un pugno, che cadono in preda ad attacchi di collera che nessuno è in grado di contenere e in cui lo scontro faccia a faccia diventa un corpo a corpo e si ingaggia la lotta contro un avversario fino alla “morte” di uno dei due contendenti. Alcuni si stupiscono di questi fenomeni. Altri immagino di risolvere magicamente il problema decretando che la scuola deve trasformarsi in un santuario. Però scuola e comportamenti degli alunni non possono trasformarsi per decreto. Un gruppo di bambini o di adolescenti non accede a una socialità rispettosa delle persone che ne fanno parte solo perché un adulto lo chiede o cerca di imporlo con la forza. Se non si costruisce la Legge, la violenza riemerge da un’altra parte che non è la classe, come i corridoi. Un ragazzo che si porta dietro quindici anni di situazione penosa e che non ha padronanza né delle chiavi culturali per comprendere le difficoltà senza vie d’uscita che sta vivendo né delle parole per esprimere il suo smarrimento, non può mutare in modo radicale il suo comportamento. Gli si può chiedere di porre fine alla violenza solo se esistono luoghi per parlare e se gli si danno i mezzi per prendere la parola. Vorremmo che degli educatori regolassero sul campo nell’angolino di un ufficio in cui sono disturbati in ogni momento, e senza particolare educazione, problemi gravi che bambini e adolescenti si trascinano dietro da anni e da cui dipendono il loro avvenire e quello dell’istituzione scolastica nella quale si trovano. Per affrontare tali momenti in cui la carica affettiva è massima servono rituali costruiti per incanalare le pulsioni, consentire di mettere le emozioni del momento ad una certa distanza e instaurare una mediazione tra le relazioni duali. Verrà sottolineato il fatto che i fenomeni di gruppo e quelli tribali che si sviluppano tra i giovani comportano rituali particolarmente pericolosi. Ma qui si tratta di rituali fusionali che impongono alla persona di rinunciare a qualunque identità specifica per fondersi con una massa che restituisce solo l’appartenenza al gruppo e l’adesione alla fantasmatica comune. I rituali pedagogici sono “rituali-quadro”, forme vuote, strutturazioni dello spazio e del tempo abitabili da ciascuno senza dovere rinunciare a essere se stessi. Le regole che impongono sono regole che consentono di mettersi in gioco in modo diverso. I pedagogisti hanno così stabilito dei punti fermi perché un rituale permetta “alla voce di distinguersi dal grido”, perché un “bambino bolide, fuorilegge, si liberi dalla maschera che lo brucia”. 1. L’integrazione nella vita scolastica: la classe quando ci sono dei momenti di crisi diventa una specie di “Consiglio”. Questo non è un luogo in cui si chiacchiera e si parla di cose a caso in funzione della buona volontà, ma è un luogo il cui oggetto è l’apprendimento e lo sviluppo delle persone che vi sono accolte. Uno dei paradossi delle “concertazioni scolastiche” è che si appropriano di questioni del tutto secondarie e senza rapporto diretto con l’organizzazione stessa dell’apprendimento. Il “consiglio” diventa allora un momento in cui ci si sfoga, un’occasione in cui si discute amabilmente. 2. La regolarità: quanti consigli e riunioni di rappresentanti degli studenti hanno luogo 3. La prevedibilità: gli alunni devono sapere quando avranno luogo i “consigli” ed essere certi di poter contare su questo momento e questo luogo perché la sospensione immediata della violenza non si accompagni a una frustrazione irrimediabile. 4. La preparazione: un “consiglio” non si improvvisa, ma deve essere preparato minuziosamente e il suo ordine del giorno deve essere stabilito a partire da una raccolta preliminare di domande. 5. L’organizzazione pratica: deve essere ad ogni costo determinante. All’inizio dell’anno non ci si può parlare se non ci si conosce e se il nome di ognuno non è ben in vista davanti a lui. 6. La definizione delle prerogative del “consiglio”: bisogna conoscere con precisione ciò che può essere oggetto di discussione e ciò che invece deve restare fuori dal “consiglio”. Non si può parlare di una persona che non è presente e che non può spiegarsi. È importante esserne consapevoli ed è importante che le prerogative attribuite siano realmente effettive. Niente è più scoraggiante di parlare di cose delle quali non si ha alcuna padronanza. 7. La definizione dei ruoli: nessun “consiglio può funzionare senza un presidente e un segretario di seduta. 8. Il rispetto della modalità di funzionamento prevista: l’ordine del giorno deve essere rispettato, le modalità di assegnazione della parola devono essere conformi al regolamento elaborato. 9. La presenza di un verbale: ad ogni seduta è necessario ritornare con sistematicità alle conclusioni della seduta precedente e verificare se sono state applicate e hanno avuto effetto, al fine di permettere al gruppo di non ridiscutere sempre di tutto. 10.Il pragmatismo dell’insegnate: il “consiglio” non è un organismo autogestito senza un adulto. Supporlo in gradi di funzionare in questo modo significherebbe negare la necessita dell’educazione. l’adulto presente al “consiglio” non deve esitare a intervenite quando è impellente che lo faccia. L’organizzazione di un “consiglio” non rappresenta il rifiuto del maestro di esercitare il potere, ma significa situare il potere al posto in cui dovrebbe essere, cioè dove garantisce l’espressione, l’apprendimento o lo sviluppo ottimale di ognuno. Il “consiglio” non ha niente della soluzione miracolosa ai problemi della Scuola: permette solo di impegnarsi in una lenta e difficile costruzione della Legge, che consentirà a ognuno di osare la propria parola e di “farsi opera di se stesso”. Una tale opera però non è facile da realizzare. Essa serve come specie di sfogo in quei momenti in cui l’alunno non contiene la sua rabbia; chiedere a un alunno di sospendere un impulso immediato, di aspettare il “consiglio” per riferire un punto di vista che dovrà allora argomentare in un contesto preciso, esige da lui qualcosa di molto difficile. In un certo senso si parla di “congelare il progresso delle conoscenze più preziose”. Invece di inventare nuovi valori che corrispondano a un accrescimento dell’essere, si parlerebbe di demonizzare qualunque prospettiva perché nessuno metta in discussione i dogmi e le sette che li difendono. Frankenstein diventerebbe una fiaba filosofica in grado di scongiurare le pericolore avanzate di una scienza minacciosa. Però, l’accusa contro la conoscenza, quand’anche fosse quella scientifica, non è mai innocente. “scienza senza coscienza significa solo rovina dell’anima” ripetono molti. Ma cosa sarebbe invece la coscienza senza la scienza? Solo un pensiero, qualcosa che si avvicina a un’emozione schiacciata sotto il peso di avvenimenti che non sarebbe in grado di comprendere e dominare. Questo perché la scienza è lo strumento con cui prevediamo e anticipiamo, per non dover rifare sempre gli stessi errori. La scienza è libertà, acquisita a così caro prezzo nel corso dei secoli, per predisporre un territorio in cui vivere senza dipendere da intemperie e di comunicare con i nostri simili capendoci. La scienza è la speranza di non soffrire molto nel fisico e di far arretrare la malattia. Bisogna quindi diffidare del mito di Frankenstein, preoccuparsi per l’oscurantismo di cui potrebbe essere la culla. Bisogna evidenziare i limiti che escono fuori dal racconto per studiare e fare ancora ricerca sull’educazione. Non si fabbrica un soggetto accumulando influenze o condizionamenti; non si fa un allievo aggiungendo conoscenze su conoscenze; non si produce meccanicamente l’intenzione di imparare organizzando dei dispositivi. In più, non si permette neppure che un soggetto si costruisca da solo, restando indifferenti alle influenze che riceve e privandolo di conoscenze. La pedagogia non deve ingannarsi sul suo compito. Deve inventare senza sosta condizioni che rendano possibile la condivisione dei saperi, la gioia di scoprirlo, la felicità di trovarsi nella posizione di accettare l’eredità degli uomini, di prolungarla e di superarla. Essa deve perseguire e intensificare le sue ricerche e i suoi lavori su questioni che restano ampiamente inesplorate. La pedagogia è praxis e deve lavorare per questo incessantemente sulle condizioni per lo sviluppo delle persone e nello stesso tempo circoscrivere il suo potere per lasciare che l’altro occupi il suo posto. Essa è azione precaria e difficile, ostinata e tenace, ma che diffida sempre dalla fretta di concludere.
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