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G. Geraci – A. Marcone, Storia romana, Le Monnier Università, Firenze 2016 (RIASSUNTO), Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto completo. 1- I popoli dell'Italia antica e le origini di Roma; 2 - La Repubblica di Roma dalle origini ai Gracchi; 3 - La crisi della Repubblica e le guerre civili (dai Gracchi ad Azio); 4 - L'impero da Augusto alla crisi del III secolo; 5 - Crisi e rinnovamento (III-IV secolo d.C.); 6 - La fine dell'Impero romano d'Occidente e Bisanzio.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

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Scarica G. Geraci – A. Marcone, Storia romana, Le Monnier Università, Firenze 2016 (RIASSUNTO) e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! STORIA ROMANA – Riassunto QUALCHE NOZIONE INTRODUTTIVA  Datazione e cronologia Il modo di indicare le date in riferimento alla nascita di Cristo non è mai stato utilizzato nel mondo antico. L’era “cristiana” o “volgare” fu introdotta da Dionigi Esiguo, un monaco nativo della Scizia e vissuto tra la fine del V e l'inizio del VI secolo d.C. Il sistema cronologico di Dionigi il Piccolo riportava alla nascita di Cristo soltanto gli avvenimenti accaduti dopo tale data; quelli che la precedevano erano computati a partire dalla creazione del mondo. Adottato inizialmente in Italia, dalle tavole dei cicli pasquali e dalle cronache tale sistema passò nei documenti pubblici e privati a partire dal VII secolo. Negli atti dei sovrani franchi e inglesi lo si trova già nell'VIII secolo e, dopo il X, esso è conosciuto in tutta l'Europa occidentale. La consuetudine di contare gli anni prima di Cristo venne invece introdotta soltanto nel corso del XVIII secolo, per unificare il punto di riferimento in base al quale le date potevano essere conteggiate. A Roma, a partire dall'età repubblicana, ciascun anno fu indicato mediante i magistrati eponimi (= “che davano il nome” all'anno), in genere tramite la menzione dei due consoli. Gli autori greci che si occuparono della storia della città costruirono anche un'intelaiatura cronologica parallela che utilizzava il confronto tra l'era delle Olimpiadi e la serie degli arconti ateniesi, da un lato, e la serie degli eponimi romani, dall'altro. L'uso di esprimere talora la data partendo dalla fondazione di Roma prese piede negli ambienti dotti antichi (non nell'uso comune) soltanto tra la fine dell'epoca repubblicana e la prima età imperiale. La stessa datazione della fondazione della città (754-753 a.C.) venne fissata solo in epoca cesariana dall'erudito Marco Terenzio Varrone. Essa fu ricavata partendo da sincronismi che fissavano al 509 a.C. il primo anno della Repubblica e attribuendo al periodo regio una durata di 35 anni per ciascuno dei sette re della tradizione. In epoca imperiale, mentre negli autori continuò a essere normale l'abitudine di indicare la coppia consolare in carica, nei testi epigrafici prevalse l'uso di annotare il numero progressivo dei rinnovi (annuali) dei poteri tribunizi di ciascun imperatore. Il calendario romano repubblicano, che rimase in vigore fino alla riforma di Cesare (46 a.C.), era basato su un anno di 355 giorni, suddiviso in dodici mesi (quattro di 31 giorni, sette di 29, uno di 28) e cominciava con il primo di marzo (solo dal 153 a.C. l'inizio dell'anno civile fu anticipato al 1° gennaio). Ad anni alterni venivano aggiunti da 22 a 23 giorni in febbraio e i rimanenti 5 giorni di febbraio venivano uniti alla fine del periodo aggiuntivo. Si trattava di un artificio che aveva lo scopo di uguagliare l’anno civile a quello solare e al ciclo delle stagioni, e che non sempre fu applicato senza trascuratezze o manipolazioni. Un’importanza notevole ebbero i giorni di mercato (nundinae), durante i quali la popolazione rurale confluiva nella città per i propri commerci e aveva occasione di partecipare personalmente alla vita civica e sociale. I mercati avevano luogo regolarmente ogni otto giorni. Sui calendari ciascun giorno di tali periodi era contrassegnato con una lettera dalla A alla H: con la lettera A si identificavano i giorni delle nundinae.  Onomastica romana La denominazione dei cittadini romani si fondava, nell'età più antica, su un unico nome. Con l'andar del tempo a questo se ne aggiunse un secondo e poi un terzo (che poteva anche essere composto di più parti). A evoluzione terminata, il nome completo del cittadino romano di condizione libera comportò tre elementi (tria nomina). Il primo era il prenome (praenomen), l'originario nome personale. I prenomi si ridussero presto a un numero assai limitato, tanto da poter essere normalmente abbreviati senza nuocere alla loro comprensione ( es. L per Lucius o M per Marcus). Il secondo era il gentilizio (nomen): designava il gruppo familiare (gens) di appartenenza dell'individuo e veniva trasmesso di padre in figlio. Il terzo era il cognomen, spesso derivato da un soprannome individuale, tratto talora da caratteristiche fisiche (es. Rufus > rosso di capelli; Barbatus > barbuto), talora da cariche o attività di esponenti della famiglia (es. Agricola > agricoltore), talora da precisazioni geografiche, spesso legate alla provenienza. Esso tese poi a divenire ereditario tra gli aristocratici, per distinguere le varie famiglie appartenenti a una stessa gens. A volte poteva essere aggiunto un secondo cognomen. Ciò non toglie che molti romani famosi non abbiano mai avuto un cognomen (es. Caio Mario o Marco Antonio). In caso di adozione l'adottato assumeva i tria nomina del padre adottivo, a cui faceva seguire un secondo cognomen tratto dal gentilizio della sua famiglia d'origine. Le cittadine romane di nascita libera ricevevano come nome il solo gentilizio paterno, al femminile e continuavano a portarlo anche da sposate. Di regola non avevano prenome (es. Cornelia, Livia). Gli schiavi erano abitualmente denominati con un unico nome personale. I liberti assumevano il prenome e il gentilizio dell'ex padrone e portavano come cognome il loro antico nome di schiavo.  Il mondo di Roma Il mondo di Roma è stato definito a un tempo “uno, duplice, molteplice”. “Uno”, perché ne furono elementi unificanti l'amministrazione, la cittadinanza, l'esercito, il diritto. “Duplice”, perché questo mondo fu si romano, ma di certo non esclusivamente latino. “Molteplice”, perché in questo mondo Roma talvolta compose in unità, ma più spesso lasciò convivere e sopravvivere un mosaico molto vario di cittadinanze, di particolarità locali, di condizioni politiche, sociali e personali, che per la maggior parte si limitò a classificare secondo i propri schemi giuridici e concettuali e che transitarono oltre la fine del dominio di Roma. I POPOLI DELL’ITALIA ANTICA E LE ORIGINI DI ROMA L’ITALIA PREROMANA  L’Italia dall’età del bronzo all’età del ferro Nella penisola italiana si assiste, dal III al I millennio a.C., a un notevole sviluppo. Tra l'età del bronzo medio e la prima età del ferro si passa da una situazione caratterizzata dalla presenza di una miriade di gruppi umani di piccole dimensioni al sorgere di forme complesse di organizzazione protostatale. Si venne così colmando il distacco che aveva caratterizzato la cultura dell'Europa continentale rispetto a quella che nel Vicino Oriente e in Egitto si era realizzata già da tempo. È peraltro probabile che questo sviluppo abbia conosciuto una cesura importante tra l'ultima età del bronzo (1200-900 a.C.) e la prima età del ferro (secoli IX-VIII a.C.). La cultura materiale dell'Italia differisce in misura radicale. L'Italia nell'età del bronzo si contraddistingue per la sua uniformità. I siti risultano dislocati prevalentemente lungo la dorsale montuosa che la percorre da nord a sud (> cultura “appenninica”). Un fenomeno importante che si realizza in quest'età è l’incremento demografico. Il numero degli insediamenti si riduce, mentre quelli che sopravvivono si estendono in misura notevole, cosa che implica uno sfruttamento più intensivo delle risorse disponibili. Questo fenomeno è evidente nella cultura “terramaricola”, che si sviluppò nella pianura emiliana a sud del Po tra il XVIII e il XII secolo a.C. e che diede vita a insediamenti di capanne che poggiavano su delle impalcature di legno, che avevano lo scopo di creare una sorta di difesa naturale dagli attacchi di animali selvatici e di isolarle dal terreno acquitrinoso circostante (“terramare” = è il termine col quale si definiscono i grossi tumuli di terra grassa e scura formati dai depositi dei primitivi insediamenti). Tali villaggi avevano una forma trapezoidale, erano circondati da un argine e da un fossato ed erano attraversati da due strade perpendicolari tra loro. Nel corso dell'età del bronzo recente è documentata un'intensa circolazione di prodotti e di persone. I rinvenimenti di merci provenienti dall'area micenea sono attestati un po' ovunque lungo le coste dell’Italia meridionale e delle isole. Tali contatti favorirono il formarsi di aggregazioni più consistenti, con differenziazioni al loro interno e poteri politici più forti. Con l'inizio dell'età del ferro l’Italia presenta un quadro differenziato di culture locali. Un primo criterio di differenziazione concerne le modalità di sepoltura. Nell'età del ferro in Italia esistono due gruppi di popolazioni che praticano riti diversi: uno ricorre alla cremazione, mentre l'altro all’inumazione. La cremazione era praticata nell’Italia settentrionale e lungo la costa tirrenica sino alla Campania e l'inumazione nelle restanti regioni. Tra le culture che assumono caratteri distintivi si segnalano quella compresa tra i laghi del Piemonte e della Lombardia (“Golasecca”) e quella sviluppatasi nelle vicinanze di Padova (“Cultura di Este”.) In Etruria e in Emilia emerge poi una cultura (“Villanoviana”) nettamente distinta da quella precedente. Molti insediamenti estesi sorgono in zone prima disabitate, mentre ne vengono abbandonati altri in precedenza abitati. Molti importanti siti si svilupperanno più tardi nelle città-stato etrusche. Gli uomini villanoviani erano capaci di fabbricare utensili e armi in ferro e abitavano in insediamenti che avevano assunto la forma di villaggi; le loro sepolture consistevano in urne destinate al raccoglimento delle ceneri dei defunti e in tombe a pozzo. Il fatto che l'irradiazione di tale cultura coincida con l'area di diffusione della civiltà etrusca ha indotto taluni studiosi a considerare i Villanoviani come i diretti antenati degli Etruschi. La diversità delle culture presenti in Italia all'inizio del primo millennio a.C. ha un riscontro in un quadro linguistico variegato, riconducibile all'arrivo nella penisola di gruppi etnici di varia provenienza. Queste lingue si possono ricondurre a due grandi famiglie, quelle indoeuropee e quelle non indoeuropee. Indoeuropee sono il latino e il falisco (Lazio). All'interno poi di un gruppo genericamente designato come parlante una lingua italica si distinguono tre sottogruppi: uno umbro- sabino nel centro-nord, uno osco nel centro-sud e un terzo riferibile agli Enotri e ai Siculi. La principale lingua non indoeuropea parlata in Italia è l’Etrusco. Non indoeuropee sono anche il ligure, il retico e il sardo. Un posto di rilievo tra le culture dell'Italia preromana è rivestito dalle colonie della Magna Grecia. In Sicilia giocavano un ruolo importante anche le colonie fenicie. Un posto a parte nel quadro delle culture italiche ha la civiltà dei Sardi, che si sviluppò in Sardegna tra l’età del bronzo e quella del ferro = civiltà nuragica, da “nuraghe”, cioè una torre a forma di tronco di cono con una funzione difensiva. Nel corso del tempo, però, i nuraghi dovettero svolgere un ruolo più complesso di organizzazione e di controllo sulle attività economiche del territorio circostante. La civiltà nuragica fu influenzata dagli insediamenti fenici lungo le coste.  I primi frequentatori dell'Italia meridionale Le notizie che abbiamo sulle origini dei popoli italici, che contengono elementi leggendari, si devono soprattutto a storici greci che però iniziano a scrivere dell'Italia (meridionale) solo nel V secolo a.C. Allo storico greco quanto riguarda le attività economiche, gli Etruschi praticarono con successo l'agricoltura, la metallurgia e l'artigianato artistico. Gli oggetti in bronzo e dell'oreficeria, insieme ai cereali e alle anfore Vinarie, raggiunsero ampie aree del Mediterraneo attraverso il commercio. Il ritrovamento di una varia strumentazione agricola che comprendeva anche l'aratro, ha dimostrato la conoscenza di tecniche relative alla coltura dei cereali, alla arboricoltura, alla tenuta dei vigneti. Gli Etruschi furono abili nell'estrazione dei minerali dalle colline metallifere costiere o dal sottosuolo dell'isola d'Elba e nel trattamento dei metalli grezzi in apposite fornaci. La lavorazione dell'oro e dei metalli nobili ci è testimoniata dalla ricchezza dei corredi funebri con reperti d'oro e d'argento. ROMA  Le origini di Roma Il progresso scientifico liberò le ricostruzioni su Roma arcaica dalle implicazioni di carattere religioso e politico. Con l'opera dello storico danese Niebuhr (inizio XIX secolo), si pose in evidenza il problema di una possibile ricostruzione della storia romana arcaica condotta attraverso la critica delle fonti con un uso esteso dell'analogia storica. A partire dalla fine dell'Ottocento, a rivoluzionare prospettive e metodi di ricerca contribuì soprattutto l'archeologia con nuove scoperte che, in molti casi, sembrarono confermare la veridicità del racconto tradizionale su Roma arcaica. A questo punto la negazione radicale della tradizione letteraria non parve più accettabile. La risposta più alta a tale questione è costituita dal I volume della Storia dei Romani di Gaetano De Sanctis (1907). De Sanctis si propose una riconsiderazione meditata alle fonti letterarie più attendibili, contro gli eccessi dell'ipercritica, alla luce delle nuove conoscenze archeologiche. Ci sono dei casi in cui i dati archeologici devono essere apprezzati per le informazioni che recano direttamente, senza cercare un confronto nelle fonti letterarie. L'archeologia ha accertato la precocità e l’importanza dell'influenza greca e orientale su Roma e sul Lazio. Essa si manifesta a partire dall'VIII secolo a.C. Quest'influenza raggiunge il Lazio in modo diretto, senza un ruolo significativo di mediazione da parte degli Etruschi. Roma sembra ricevere dei prodotti di importazione greca ancora prima di quelli etruschi. La tradizione letteraria in proposito è muta: non ha conservato un ricordo delle importanti rotte commerciali che univano il Lazio alla Grecia e al Vicino Oriente in età monarchica. Sul piano metodologico, si può dire che il dibattito successivo sia rimasto grosso modo in questi termini.  Le fonti letterarie Le fonti letterarie ci offrono un chiaro quadro narrativo, una cronologia ben fondata e una notevole quantità di informazioni di sostanza. Tuttavia, si tratta di opere che risalgono a epoche molto posteriori agli eventi narrati e nelle quali largo spazio hanno elementi leggendari. I primi storici a occuparsi dell'Italia meridionale furono i Greci e in greco scrissero i primi storici romani, Fabio Pittore e Cincio Alimento (fine III secolo a.C.), dunque a più di cinque secoli di distanza dalle origini di Roma. La comparsa della scrittura a Roma verso la fine del VII secolo a.C. non determinò cambiamenti fondamentali. Per quel che riguarda Roma in quanto tale, le poche iscrizioni non ci danno grandi informazioni. Non si può parlare né di storiografia né di archivi di famiglia. Tanto per la seconda che per la prima parte del periodo regio, dunque, la tradizione orale deve aver giocato un ruolo di rilievo nella trasmissione dei ricordi storici. La situazione non muta radicalmente neppure per la prima parte dell'età repubblicana. L'esistenza di documenti scritti è sicura ma ci si deve interrogare sulle modalità della loro utilizzazione da parte di chi ha elaborato la più antica storiografia. I primi storici dei quali possiamo tuttora leggere le narrazioni su Roma arcaica vissero nel I secolo a.C.. Tito Livio (59 a.C.-forse 17 d.C.) scrisse una grande storia di Roma dalla sua fondazione, in 142 libri. Il primo libro è dedicato alla Roma monarchica. Livio stesso si rendeva conto della fragilità delle basi su cui poggiava la sua ricostruzione della storia di Roma almeno fino all'incendio della città da parte dei Galli nel 390 a.C. Importante è anche Dionigi di Alicarnasso. Le sue Antichità romane, in 20 libri, coprivano il periodo che andava dalla fondazione di Roma allo scoppio della prima guerra punica (204 a.C.). Roma non aveva suscitato, almeno sino alla metà del IV secolo a.C., nessun interesse da parte della storiografia greca. Solo a partire da quest'epoca, a fronte dell'emergere della potenza romana, ci si preoccupò di organizzare le informazioni disponibili. Lo scopo principale di Dionigi nell'esposizione della storia romana arcaica è quello di dimostrare che i Romani erano una popolazione di origine ellenica. A tale dimostrazione è dedicato quasi per intero il primo libro delle Antichità romane. La versione più nota e diffusa della leggenda delle origini di Roma inserisce la fondazione di Alba Longa e la dinastia dei re albani tra l'arrivo di Enea nel Lazio e il regno di Romolo. Nel primo libro dell'Eneide, Virgilio (I secolo a.C.) si ispira a questa tradizione: Alba Longa è fondata dal figlio di Enea, Ascanio/Iulo, trent'anni dopo la fondazione di Lavinium, la città cui il padre dà il nome della moglie Lavinia. Virgilio mette anche in relazione il nome di Alba Longa con il prodigio della scrofa bianca (alba) che, dando alla luce trenta porcellini, indica ai Troiani il numero di anni che devono trascorrere per la fondazione della nuova città. Secondo la leggenda il fondatore e primo re della città di Roma, Romolo, è figlio addirittura di Marte, il dio della guerra, e di Rea Silvia, figlia di Numitore, l'ultimo re di Alba Longa, che era stato privato del trono dal fratello Amulio. Nella tradizione trovava posto anche l'antefatto del conflitto tra Cartagine e Roma. Enea, infatti, durante le sue peregrinazioni dopo la caduta di Troia, era giunto fino a Cartagine, dove aveva conosciuto la regina Didone: quando Enea aveva deciso di ripartire, Didone, che si era innamorata di lui, non riuscendo a trattenerlo presso di sé, giurò che un odio eterno avrebbe contrapposto Cartagine a quella città che Enea e i suoi discendenti si preparavano a fondare nel Lazio. Il territorio di Alba Longa era dominato dall'alta vetta del monte Cavo su cui sorgeva il santuario di Iuppiter Latiaris, sede di una delle più antiche e famose leghe politico-religiose del Latium Vetus (il “Lazio Antico”, regione compresa tra il Tevere, gli Appennini e il Tirreno), quella dei Populi Albenses, riuniti sotto la guida di Alba Longa, a cui si sostituirà Roma dopo la distruzione della città. Il sito di Alba però non è stato identificato con sicurezza. Tra le numerose ipotesi che sono state formulate, quella che gode più credito localizza il sito dell'antica Alba sulla dorsale dominante il lago di Albano su cui sorge il moderno paese di Castel Gandolfo.  I sette re di Roma La tradizione fissa il periodo monarchico della storia di Roma dal 754 al 509 a.C., anno dell'instaurazione della Repubblica. In questo periodo su Roma avrebbero regnato sette re: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. A Romolo viene attribuita la creazione delle prime istituzioni politiche, tra cui un senato di cento membri; a Numa Pompilo si assegnano i primi istituti religiosi; Tullo Ostilio le campagne militari di conquista; ad Anco Marcio la fondazione della colonia di Ostia. Nella tradizione, il regno di Tarquinio Prisco segna una seconda fase della monarchia romana, nella quale gioca un ruolo importante la componente etrusca. A Prisco sono attribuite importanti opere pubbliche, mentre a Servio Tullio si fa risalire la costruzione delle prime mura della città e l'istituzione della più importante assemblea elettorale romana, i comizi centuriati. Tarquinio il Superbo assume infine i tratti tipici del tiranno che infligge ai cittadini ogni tipo di vessazione. Il problema che ci si pone rispetto a un racconto di questo genere riguarda la sua attendibilità di fondo, dal momento che esso risale a una fase successiva ed evoluta della storia di Roma e molti degli eventi narrati hanno una coloritura leggendaria. Ma quali erano le fonti sulle quali gli storici romani si basavano per i loro racconti? 1) Altre opere storiche per noi perdute. Livio e Dionigi sono venuti alla fine di una lunga serie di storici, ciascuno dei quali ha trattato la storia di Roma a partire dalla sua fondazione. Questi storici sono noti per lo più con il nome di “annalisti” (hanno organizzato il materiale in ordine cronologico, secondo una successione anno per anno). Il primo romano a narrare la storia di Roma è stato Fabio Pittore (fine III secolo a.C.), che scrisse in greco, mentre il primo storico romano a scrivere in latino fu Marco Porcio Catone, detto il Censore (234-148 a.C.). 2) La tradizione familiare. La struttura della società romana in età repubblicana era dominata dalla competizione tra le principali famiglie dell'aristocrazia di governo. Ciascuna di esse cercava di accreditare il proprio titolo di superiorità sulle altre celebrando le glorie degli antenati. Poiché i primi storici erano membri dell'aristocrazia senatoria è probabile che attingessero come fonte anche alle tradizioni preservate all'interno delle varie famiglie. 3) La tradizione orale. La struttura di parecchie leggende legate all'origine di Roma ha caratteristiche tali da rendere credibile che si siano tramandate oralmente di generazione in generazione. Il problema è che una tradizione orale è soggetta a forti distorsioni. Come canale possibile di trasmissione sono stati indicati i canti celebrativi delle imprese dei personaggi illustri, che si recitavano durante i banchetti o le rappresentazioni che avevano luogo durante le feste. 4) Documenti d'archivio. I primi storici di Roma hanno in comune una struttura narrativa che consiste nel menzionare per ogni anno i nomi dei magistrati principali e degli eventi ritenuti degni di nota. Tra queste fonti quella che gode di maggior credito sono gli Annali dei pontefici, ovvero la registrazione sommaria degli avvenimenti fondamentali, tenuta dal pontefice massimo. La modalità di tale registrazione ne lascia intendere la sommarietà: gli eventi salienti di interesse pubblico erano riportati su di una tavoletta di legno, che veniva poi sbiancata con la calce, che il pontefice esponeva di fronte all'ingresso della propria abitazione. Sappiamo che, attorno al 130 a.C. questi Annali furono pubblicati in 80 libri dal pontefice Mucio Scevola con il nome di Annales Maximi. Ma neppure questi Annales risalgono sino all'età regia. Per la nostra ricostruzione della storia di Roma arcaica, oltre alle fonti annalistiche, sono importanti le informazioni forniteci dai cosiddetti “antiquari”, vale a dire quegli studiosi che, a partire dal II secolo a.C., si dedicarono a dotte ricerche su vari aspetti del passato romano.  La storiografia moderna Il compito degli storici moderni è consistito nel sottoporre a un esame critico e a un confronto tra loro i dati della tradizione, molti dei quali difficilmente accettabili. Sembra oggi accertato che nel racconto tradizionale devono essere state fuse due versioni di diverso tipo sulle origini di Roma: una greca, che ricollegava la fondazione della città alla leggenda di Enea, e una indigena, nella quale Romolo rappresentava un mitico re fondatore autoctono. Il racconto, però, per quanto fondamentalmente leggendario, recepisce alcuni elementi che si possono definire sicuramente storici: in particolare, la compresenza di popolazioni diverse, Latini e i Sabini, all'origine della storia di Roma e la fase di predominio etrusco nel periodo finale della monarchia.  La fondazione di Roma I dati più problematici della tradizione riguardano l'episodio leggendario della fondazione della città e la figura del fondatore. La nascita della città dovette essere il risultato di un processo formativo lento e graduale, per il quale si deve presupporre una sorta di federazione di comunità separate che già vivevano sparse sui singoli colli. Alcuni villaggi situati sullo stesso colle Palatino possono essere considerati come il nucleo originario della futura Roma, la cui storia in senso stretto iniziò attorno all'VIII secolo a.C. Il Palatino (altitudine: poco più di 50 metri sul livello del mare) era originariamente articolato in tre alture separate tra loro da avvallamenti, già appianati in età imperiale: la vetta principale, il Palatium, prospicente il futuro Circo Massimo; il Germalo, che guarda il Foro e il Campidoglio; e, infine, la Velia che guarda verso la valle del Colosseo. Le vicende delle origini di Roma si comprendono meglio se si tiene conto che essa sorgeva a ridosso del basso corso del Tevere, in una posizione di confine tra due aree etnicamente differenti, che erano separate dal corso di quel fiume: la zona etrusca e il Lazio antico. Nel periodo in cui si colloca la formazione di Roma come città, la differenza etnica, culturale e linguistica dei popoli abitanti tali aree, cioè gli Etruschi e i Latini, era già nettamente definita. Sembra improbabile che Roma abbia preso nome da un fondatore Romolo: se mai è più probabile il contrario, cioè che l'esistenza di una città chiamata Roma fece immaginare che fosse stata fondata da Romolo, l’eroe eponimo, come era accaduto per le città della storia greca. In realtà, non siamo in grado di stabilire con sicurezza quale sia l'origine del nome. Una possibilità è che derivi dalla parola ruma (“mammella”, nel senso di collina), oppure da Rumon, il termine latino arcaico che designava il fiume Tevere.  Il “muro di Romolo” Ogni ricostruzione relativa alle origini di Roma deve essere sempre considerata provvisoria. Negli ultimi anni, gli scavi condotti sulle pendici meridionali del Palatino hanno portato alla luce i resti di una palizzata e, più a valle, di un muro databile all'VIII secolo a.C. Secondo l’ipotesi dell'archeologo italiano Andrea Carandini, nella palizzata si deve vedere la linea dell'originario solco di confine, detto pomerio, e nel muro arcaico in scaglie di tufo, largo circa 1 metro e 20, il “muro di Romolo”. Il racconto tradizionale risulterebbe allora confermato: verso la metà dell'VII secolo a.C. un re sacerdote eponimo avrebbe celebrato un rito di fondazione tracciando con l'aratro i limiti della città. Esso diede origine a una realtà insediativa diversa dai primi villaggi.  Il pomerio e i riti di fondazione Il rito di fondazione di una città italica viene descritto da Marco Terenzio Varrone, un antiquario latino attivo nel I secolo a.C.. Nella fondazione della città, un’importanza fondamentale dal punto di vista religioso era rivestita dal pomerio. Il pomerio era in origine la linea sacra che ne delimitava il perimetro in corrispondenza con le mura. In un secondo tempo il nome servì a designare anche una zona di rispetto che separava le case dalle mura stesse dove non era permesso fabbricare né seppellire, né piantare alberi. Il pomerio però non sempre coincideva con le mura, in quanto esso era tracciato secondo la procedura religiosa, cioè secondo gli auspici che avevano preso gli àuguri. Le mura invece rispondevano a esigenze di difesa in rapporto al territorio. Poteva così capitare che fra le due linee ci fosse una notevole distanza. Questo spiega perché l'ampliamento del pomerio potesse avvenire solo in circostanze particolari. La coincidenza tra mura e pomerio in realtà non sembra sussistere neppure nella primitiva città edificata sul Palatino. Le mura, infatti, giravano a mezza costa della collina mentre il pomerio girava attorno alla sua base con un perimetro più esteso. L'area del pomerio era limitata da cippi infissi nel terreno a seguito di una cerimonia religiosa presieduta dal pontefice massimo. In caso di ampliamento di tale area, i vecchi cippi venivano conservati. Un'antica disposizione prevedeva che, per estendere l'area del pomerio, fosse necessario aumentare la superficie dello Stato romano con un nuovo territorio tolto al nemico. Il pomerio in realtà non fu accresciuto sino a Silla (I secolo a.C.). In età imperiale conobbe ulteriori accrescimenti. L'ultimo imperatore che lo ampliò fu Aureliano (III secolo d.C.).  Lo stato romano arcaico Alla base dell'organizzazione sociale dei Latini ci fu una struttura in famiglie, alla cui testa stava il pater, la figura depositaria di un potere assoluto su tutti i suoi componenti, compresi gli schiavi e i clienti, cioè quanti si trovavano in una condizione di inferiorità e avevano quindi bisogno del sostegno di un capo autorevole. Tutte le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano la gens, un gruppo organizzato politicamente e religiosamente. La popolazione dello Stato romano arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari, detti “curie”: le curie comprendevano tutti gli abitanti del territorio, a esclusione degli schiavi. Molto incerta risulta l’origine delle curie: si sa che praticavano riti religiosi e che rappresentarono il fondamento della più antica assemblea politica cittadina quella dei comizi curiati. Non conosciamo la loro funzione in età arcaica e neppure sappiamo se fossero organizzate su base territoriale o su base gentilizia. In epoca più tarda ai comizi curiati rimasero attribuite determinate funzioni inerenti al diritto civile, per esempio in relazione ad adozioni e a testamenti; ai comizi spettava inoltre il compito di votare la cosiddetta lex de imperio, che conferiva il potere al sulle origini e sulla natura della loro comunità. Le fonti scritte non possono fornire elementi di prova per una cultura preletteraria, ma non per questo siamo condannati a un'ignoranza totale. Per quanto problematica sia la cosa, la natura dell’oralità in Roma arcaica non è del tutto al di fuori dell'ambito della congettura razionale. Il fondatore della moderna storiografia su Roma arcaica, Niebuhr, all'inizio del XIX secolo elaborò una nota teoria secondo la quale le leggende e le tradizioni di Roma arcaica erano state create nei canti recitati ai banchetti, i carmina convivalia. È ipotizzabile l'esistenza di una sorta di corpus di poesia eroica tradizionale che successivamente sarebbe andato perduto. La teoria di Niebuhr è stata in verità per lo più respinta. Noi ora sappiamo che nel VII e nell'VIII secolo a.C. l’uso del sympósion aristocratico era stato adottato dalle élite locali del Lazio e dell'Etruria. Appare quindi possibile che i canti, le storie ripetute in questi banchetti maschili possano aver contribuito a creare la memoria comune del gruppo, basata sulla celebrazione dei grandi fatti dei suoi membri passati e presenti. La valorizzazione del passato rafforzava la coesione sociale del presente. Questo non significa riproporre la teoria di Niebuhr, non foss'altro perché questi canti difficilmente potevano essere così elaborati e soprattutto perché essi riguardavano solo una ristretta élite di aristocratici. Il problema che si è imposto negli ultimi tempi sembra riguardare l’“anello di congiunzione” mancante tra la fase favolistica, mitologica del pensiero romano e quella storiografica. Secondo Peter Wiseman, nel formarsi di una tradizione, all'atto degno di memoria di un personaggio seguiva la celebrazione del suo successo attraverso pubblici onori e nel trionfo. Quindi, quest’episodio veniva recepito e tramandato su due piani distinti: per il pubblico colto attraverso la rielaborazione nei carmina e, per la massa degli illetterati, tramite le ballate di cantastorie itineranti.  Un esempio di elaborazione storiografica: Servio Tullio Servio Tullio opera tali trasformazioni nella città, sia a livello monumentale sia a livello politico-istituzionale, da poter essere considerato quasi un rifondatore. La tradizione storico-letteraria rispecchia in modo esemplare i problemi di fondo che attendono chi si confronti con la storiografia su Roma arcaica. Da una parte abbiamo un racconto che appare contenere una base folklorica, vicino a una sorta di saga. Le origini di Servio Tullio sono avvolte nell’incertezza, ma è bene osservare che nella tradizione non si nasconde l'illegalità che è alla base della sua presa del potere. Un evento prodigioso lo segnala come predestinato a una sorte fuori del comune: delle fiamme, sprigionate intorno al suo capo mentre dormiva, non gli causarono alcun male. Da allora godette particolare protezione a corte. Divenuto il più stretto collaboratore di Tarquinio, ne sposa la figlia. Il modo in cui Servio si impossessa del potere è quanto meno rocambolesco. Due sicari al soldo dei figli di Anco Marcio feriscono mortalmente Tarquinio. Questi viene ricoverato a palazzo dalla moglie che, nascondendo la sua morte, annuncia al popolo che il re si sta riprendendo, ma che ha disposto che Servio regnasse in sua vece. Dopo pochi giorni, quando il popolo si era assuefatto a vedere Servio detenere i segni della regalità, Tanaquilla annuncia la morte del marito e Servio inizia il suo periodo di regno presiedendo i funerali del suo predecessore. Su questa base favolistica si innesta l'azione politica di Servio Tullio, con le sue riforme istituzionali. Ma questa doveva avere poco rilievo nella tradizione originaria. Una serie di associazioni di idee, di automatismi contribuirono a valorizzare, nella memoria collettiva, quello che nella figura e nell'opera di questo sovrano fosse funzionale a far riconoscere in lui un re votato a esigenze di giustizia sociale e impegnato nella difesa della gente modesta. Quanto alle riforme istituzionali di Servio, va ricordato che, quel che per noi è ovvio, e cioè che l'organizzazione politico-istituzionale romana si è andata formando e strutturando nel tempo, non lo era nella prospettiva delle nostre fonti. La ricostruzione del passato istituzionale va quindi letta alla luce degli interessi politici contingenti, cosa che implica una selezione e un filtro nella ricostruzione storica. Nella tradizione si realizza un meccanismo di amplificazione rispetto a un nucleo primitivo. L'organizzazione centuriata, che implicava la valutazione economica e numerica della popolazione, poneva Servio in stretto rapporto con la moneta che di tale valutazione era alla base. Questa operazione è descritta con abbondanza di particolari nella storiografia perché era decisiva per introdurre quella diversità tra i cittadini e distinguerli così “secondo gli ordini” (dignità e ricchezza). Essa segnava la fine della parità caratteristica dei comizi curiati voluta da Romolo. Non si tratta però solo di amplificazioni narrative. Possiamo rintracciarne ancora altre di tipo eziologico che facevano di Servio l'ideatore di molteplici usi collegati con la moneta. Questo meccanismo di amplificazione opera anche in altri ambiti. A Servio una tradizione unanime attribuisce una serie di misure relative all'assetto territoriale e amministrativo di Roma. Secondo tale tradizione Servio creò le tribù territoriali in cui i cittadini venivano iscritti sulla base del loro effettivo domicilio. Quest'istituzione serve per giustificare una serie di ulteriori innovazioni di tipo cultuale e istituzionale che avevano a che fare con l'organizzazione del territorio.  La famiglia La nozione di “famiglia romana” comprendeva un raggruppamento sociale più ampio di quello che siamo abituati a intendere oggi. A Roma facevano parte di una medesima familia tutti coloro che ricadevano sotto l'autorità di uno stesso capofamiglia, il paterfamilias, al quale spettava anche il controllo sui beni. Il vincolo di fondo della famiglia romana non era rappresentato dai legami contratti col matrimonio, ma piuttosto dal potere (potestas) esercitato dal pater sulle persone che rispettavano la sua autorità. Di una stessa famiglia facevano parte non solo i figli generati dal matrimonio del capofamiglia, ma anche tutti quelli che, adottati, sceglievano di sottoporsi alla sua potestas. Nella sua forma più antica la famiglia romana presentava i caratteri tipici di una società prestatale: era infatti un'unità economica, religiosa e politica. Il fine principale di questa struttura era quello della propria perpetuazione. Questi aspetti originari ebbero dei riflessi anche sull'evoluzione delle norme giuridiche: certe caratteristiche del diritto romano si possono spiegare solo per la necessità di adottare, in un contesto statale evoluto, gli elementi del primitivo diritto della famiglia. In età arcaica il primo diritto di un padre rispetto ai figli era quello di rifiutarli al momento della nascita. Persino i figli legittimi entravano a far parte della famiglia solo mediante un atto formale. Il loro accoglimento, o il loro rifiuto, veniva palesato dal padre con dei gesti pubblici, come il prendere i maschi tra le braccia o il dare ordine alla moglie di allattare le femmine. Tra i vincoli fondamentali della famiglia romana primitiva c'era quello religioso. I riti familiari si trasmettevano originariamente di padre in figlio e la loro osservanza era ritenuta doverosa. Gli antenati del ramo paterno, oggetto di culto, furono i primi manes (le anime dei defunti). Il capofamiglia si preoccupava che le cerimonie prescritte venissero eseguite in modo corretto da parte di quanti erano sottoposti alla sua potestà. Un aspetto particolare del diritto prevedeva che un figlio rimanesse sotto l'autorità del padre sino a quando questi era in vita. Tra i diritti che competevano al pater c’era anche quello di diseredare i figli. In alcuni casi, per tutelare i figli legittimi, era possibile annullare il testamento. La procedura da seguire era quella di dimostrare l’insanità mentale del defunto nel momento in cui lo aveva redatto. Il vincolo giuridico cui era sottoposto un uomo adulto che, con il padre in vita, non poteva disporre neppure del proprio patrimonio era molto pesante. Gli eccessi erano resi improbabili dalle convenienze sociali: la vita quotidiana esigeva che un genitore provvedesse al mantenimento economico del figlio in proporzione al suo patrimonio e alle sue aspettative. I giovani che non riuscivano a vivere con quanto era loro assegnato dai genitori diventavano vittime degli usurai.  La donna Il ruolo della donna aristocratica, che riceveva un’educazione intellettuale che poteva spaziare dalla letteratura alle arti della musica e della danza, non si esauriva nella sola vita domestica, con la sorveglianza del lavoro delle schiave e lo svolgimento di lavori più fini, quali il ricamo o la tessitura. La moglie accompagnava il marito nella vita pubblica e condivideva con lui il compito dell'educazione dei figli. L’autorità nella casa e nella società rimase però sempre e soltanto quella del marito. Il potere del marito sulla moglie non conosce limiti: la può punire se ha commesso qualche mancanza (es. se ha bevuto vino durante un convito) e ucciderla impunemente in caso di flagrante adulterio. La rigida tutela della castità femminile spiega anche la severità con la quale venivano giudicati i comportamenti poco consoni a quel costume di riservatezza e di sobrietà che una donna bene educata doveva osservare. Lo scopo di norme così austere è legato a un concetto di matrimonio finalizzato al solo scopo di avere dei figli legittimi. I Romani si sposavano presto, ma la legge proibiva che le ragazze prendessero marito prima di aver raggiunto i dodici anni. Toccava al padre cercare uno sposo per le figlie che spesso venivano promesse in matrimonio ancora bambine: questo avveniva con un'apposita cerimonia di fidanzamento, detta sponsalia, accompagnata da una serie di riti. La felicità di una sposa era subordinata alla sua capacità di avere figli: per le donne sterili il destino era quasi sempre il ripudio, con il conseguente ritorno alla casa paterna. Si deve aggiungere che erano molte quelle che morivano prematuramente di parto. Un istituto alternativo fu rappresentato dall'adozione, che serviva per garantirsi una discendenza ma anche per realizzare precise scelte patrimoniali o per concretizzare delle strategie politiche. Poteva valer la pena, per esempio, adottare un orfano, se erede di un ricco patrimonio, e promettergli in cambio l'appoggio per la carriera politica. Il matrimonio, almeno in età arcaica, era un'istituzione privata, per certi aspetti una situazione di fatto più che di diritto, anche se aveva delle importanti conseguenze giuridiche. Esistevano forme diverse per contrarre un matrimonio: in origine era diffusa la cosiddetta confarreatio (la divisione di una focaccia di farro tra i due sposi), oppure la mancipatio (una sorta di atto di compravendita). Il sistema più comune per sposarsi a Roma era però quello chiamato usus, cioè l'ininterrotta convivenza dei coniugi per un anno. In mancanza di un atto che sancisse formalmente la nuova unione, il problema era di stabilire quando una convivenza fosse di tipo matrimoniale. Proprio per questo il ruolo dei testimoni era fondamentale in caso di contestazioni. Il divorzio era un atto altrettanto informale. Il ripudio, invece, era un atto che consisteva nella separazione di fatto dei coniugi; di norma avveniva a seguito di una decisione unilaterale dell'uomo. Al divorzio consensuale si arrivò più tardi.  Agricoltura e alimentazione La riorganizzazione dell'economia pastorale è uno dei caratteri fondamentali delle trasformazioni dell'Italia nella prima età del ferro. Questo processo implica il passaggio da un regime di seminomadismo a uno di regolare trasferimento del bestiame in altura con modalità e in spazi meglio definiti. La cosa vale in particolare per i popoli dell'Italia centrale. Nell'istituto della “primavera sacra”, vivo presso gli italici ancora in epoca tarda, si conservava memoria della trasmigrazione verso i pascoli estivi divenuta, in età storica, un trasferimento permanente di popolazioni impossibilitate ad avere uno sviluppo idoneo nei luoghi di origine. Si deve ricordare la ragione del sorgere di Roma su di un'area di frontiera: il Tevere costituiva nell'antichità la linea di demarcazione tra due aree con caratteristiche diverse, quella etrusca a nord del fiume e quella laziale a sud. L’agricoltura di Roma arcaica era limitata dalle condizioni poco favorevoli del terreno, cui si aggiungeva negativamente la bassa qualità delle tecniche agricole. Nel Lazio arcaico, in particolare, è attestata la situazione tipica di economie povere o di sussistenza. Varie specie di cereali, soprattutto farro e orzo, erano associate tra loro anche con leguminose, come la farrago, che assicurava un minimo di sopravvivenza rispetto a eventuali calamità atmosferiche che potevano colpire un raccolto; in un’età più evoluta cessò di interessare l’alimentazione umana per essere riservata alla sola alimentazione animale. Il cereale maggiormente coltivato in età arcaica era il farro. Non abbiamo testimonianze dirette per quel che riguarda la resa del seme. Tuttavia, sappiamo che il farro si seminava in quantità superiore al grano ma la sua resa era inferiore: il prodotto in farina era più basso di quello del grano. Se si tiene conto di come alla scarsa produttività si accompagnasse la modesta estensione di terreno coltivabile, si può capire come per Roma arcaica il soddisfacimento delle necessità alimentari di base rappresentasse un serio problema. Il farro veniva macinato solo dopo che era stato abbrustolito e battuto. La farina di farro non sembra essere stata impiegata per la panificazione, ma era alla base della mola salsa (farina di grano tostato e salato) e della puls (piatto liquido o semiliquido che può considerarsi l’antenato diretto della nostra polenta). Per Roma arcaica si può parlare di un contesto economico nel quale allevamento e agricoltura sono compresenti. Le due attività dovevano essere complementari: il bestiame serviva a produrre il concime indispensabile per i terreni nel periodo in cui essi non erano lavorati e gli animali da tiro servivano per aiutare l'uomo nel lavoro. Le difficoltà conosciute da Roma nel V secolo a.C., offrono un riscontro importante della povertà di risorse agricole dell'area prossima alla città. Il primo secolo della Repubblica è l'unico periodo in cui lo Stato romano non si trovò nella condizione di trarre vantaggio dalle sue conquiste a favore dei consumi alimentari dei cittadini. Una circostanza negativa per Roma nella prima età repubblicana è rappresentata dall’arrivo dei Volsci nel Lazio meridionale. L'agro pontino tornerà sotto il controllo di Roma solo dopo circa un secolo. La calata dei Volsci nell'unico territorio che potesse fornire rifornimenti alimentari adeguati è all'origine di una serie di episodi di carestia e di tensione sociale.  La proprietà della terra in Roma arcaica Controversa è la questione della prima forma di proprietà agraria a Roma. Rispetto a un'originaria proprietà collettiva della terra, la tradizione relativa alla prima assegnazione di lotti in proprietà privata, se accettata, implica una ricostruzione delle vicende della proprietà terriera in Roma arcaica di questo tipo: rispetto a un'originaria proprietà collettiva, la prima forma di proprietà era limitala solo alla casa e all'orto circostante (heredium), mentre da essa era esclusa la terra arabile e quella a pascolo. Nelle fonti compare anche il termine sors, che si applica altrettanto bene alla nozione di proprietà trasmissibile per via ereditaria che a quella di lotto assegnato per sorteggio. La complementarità tra piccola proprietà individuale e appropriazione collettiva della terra risale, in origine, alle condizioni ambientali delle aree appenniniche e subappenniniche, in contesti silvo- pastorali. I primi due secoli della Repubblica romana (V-IV a.C.) sono un assestamento interno che fu progressivamente modificato quando iniziarono le assegnazioni di terreno conquistato mentre si sviluppavano le attività commerciali e artigianali.  L’ideologia “indoeuropea” nei racconti sulle origini di Roma “Indoeuropei” è una denominazione convenzionale di una popolazione vissuta in un'epoca remota (III, IV o VI millennio a.C.) in una regione che in genere si colloca nella grande pianura russa. Tra il III e il II millennio a.C., questi Indoeuropei si spostarono in varie direzioni. In genere imposero la loro lingua ai popoli conquistati, ma ne adottarono la scrittura. Sono così almeno in parte ricostruibili i rapporti di dipendenza tra le varie lingue e quella madre. Uno studioso francese, Georges Dumézil, ha cercato di ricostruire anche il pensiero degli Indoeuropei. L'idea che informa la concezione del mondo propria degli Indoeuropei è quella che Dumézil chiama “ideologia trifunzionale”. Il presupposto è che dagli Indoeuropei le cose, il mondo, la società venissero colti, compresi, analizzati, classificati con riferimento costante a tre ambiti: la potenza del sovrano, che si manifesta secondo due aspetti, uno magico e l'altro giuridico; la forza fisica, in particolare quella del guerriero; la fecondità degli uomini, degli animali e della natura, vale a dire la funzione della prosperità materiale. Nel caso della storia di Roma arcaica, Dumézil ha creduto di potervi rintracciare un'importante eredità indoeuropea in una notevole serie di episodi. Per esempio, ha accertato che la vicenda del ratto delle Sabine, che secondo la tradizione sarebbe avvenuto all'epoca di Romolo quando Roma rischiava l'estinzione per mancanza di donne, è costruita secondo uno schema di origine indoeuropea, come prova un racconto della mitologia scandinava. Anche nella teologia romana si è mantenuta traccia dell'originario sistema indoeuropeo: così si spiega l’associazione, nella tradizione su Roma arcaica, del dio della prima funzione (Giove) a due divinità minori (Terminus, divinità tutelare dei confini e Iuventus, dio della giovinezza), associazione per la quale in età tarda si vicende della più celebre polis greca non è illegittimo. Così, diversi studiosi hanno proposto di collocare la nascita della Repubblica qualche decennio più tardi, notando come intorno al 470-450 a.C. la documentazione archeologica proveniente da Roma dimostri un'interruzione dei contatti culturali con l'Etruria. Alcuni elementi, tuttavia, inducono a ritenere che la datazione della creazione della Repubblica non sia lontana dalla verità. Un primo argomento a sostegno della datazione tradizionale è desumibile da una cerimonia ricordata da Livio: una legge prescriveva che il massimo magistrato della Repubblica infiggesse un chiodo nel tempio di Giove Capitolino, ogni anno alle idi di settembre, anniversario della consacrazione del tempio. Lo scopo dello strano rituale doveva essere scongiurare il pericolo di pestilenze e carestie. Ma la notizia interessa soprattutto per il fatto che il tempio di Giove, sebbene progettato e costruito sotto i re etruschi, era stato inaugurato nel primo anno della Repubblica: il numero di chiodi conficcati nel tempio potrebbe avere costituito un riferimento di cronologia assoluta per datare gli eventi della Repubblica. Un secondo elemento ci viene dalla documentazione archeologica: l’edificio della Regia, nel Foro romano, presenta verso la fine del VI secolo a.C. una pianta caratteristica di un edificio templare e non di una residenza reale: in questo periodo la Regia sarebbe divenuta la sede del rex sacrorum, il sacerdote che aveva ereditato alcune delle competenze religiose del monarca.  I supremi magistrati della Repubblica, i loro poteri e i loro limiti I poteri un tempo propri del re sono passati immediatamente e in blocco a due consules (o praetores, come si sarebbero inizialmente chiamati i massimi magistrati della Repubblica). Eletti dai comizi centuriati, ai consoli spettava il comando dell'esercito, il mantenimento dell'ordine all'interno della città, l'esercizio della giurisdizione civile e criminale, il potere di convocare il senato e le assemblee popolari, la cura del censimento e della compilazione delle liste dei senatori. Il consolato aveva anche la funzione eponima. Solo alcune delle competenze religiose dei precedenti monarchi non sarebbero state trasferite ai consoli, ma a un sacerdote di nuova istituzione, il rex sacrorum; la valenza esclusivamente religiosa del nuovo sacerdozio venne sottolineata dal fatto che il rex sacrorum non poteva rivestire cariche di natura politica. Al rex sacrorum vennero presto affiancati altri sacerdozi di maggior peso politico, come i pontefici e gli àuguri. Nella sfera religiosa rimase comunque sempre di competenza dei consoli il controllo sugli auspici (il potere di interpretare la volontà degli dèi riguardo le decisioni più importanti della vita pubblica). I poteri autocratici di cui erano dotati i due consoli erano tuttavia sottoposti ad alcuni limiti: la durata della loro carica, limitata a un anno, e il fatto che ciascuno dei magistrati aveva eguali poteri e poteva dunque opporsi all'azione del collega qualora la giudicasse dannosa per lo Stato (collegialità). Un'ulteriore restrizione all'arbitrio dei consoli era costituita dalla possibilità per ogni cittadino di appellarsi al giudizio dell'assemblea popolare contro le condanne capitali inflitte dal console (provocato au populum). Tale diritto non ebbe valore, fino all'età tardo-repubblicana, contro i poteri dei consoli al di fuori del limite della città costituito dal pomerio, né contro l’autorità di una magistratura straordinaria, la dittatura. La versione tradizionale sulla massima magistratura repubblicana è stata messa in dubbio da parte di alcuni studiosi, i quali ritengono che, almeno in una prima fase, i poteri del re siano stati trasferiti a un solo magistrato; solamente all'indomani del Decemvirato del 450 a.C. o delle leggi Licinie Sestie del 367 a.C. sarebbe stata creata la magistratura collegiale del consolato con due magistrati dotati di pari poteri. Il più serio argomento a favore di questa teoria è la già citata cerimonia dell’infissione del chiodo nel tempio di Giove Capitolino a opera del praetor maximus. Questa espressione implica l'esistenza di almeno tre praetores, di cui uno dotato di supremi poteri. È tuttavia possibile che, in questa formulazione, il singolare sia stato usato al posto del plurale, un uso che del resto è attestato nella lingua giuridica romana, e che dunque l'espressione possa indicare uno dei due magistrati superiori dotati di eguali poteri.  Le altre magistrature Le crescenti esigenze dello Stato indussero alla progressiva creazione di nuove magistrature che sollevassero i consoli da alcune delle loro competenze. Anche queste cariche furono caratterizzate dai principi dell'annualità e della collegialità. Al periodo regio o al primo anno della Repubblica risalirebbero i questori: originariamente in numero di due, assistevano i consoli nella sfera delle attività finanziarie. In un primo tempo è probabile che i questori fossero designati a discrezione dai consoli stessi: in seguito, la carica divenne elettiva. In un qualche rapporto con i questori finanziari dovevano essere i quaestores parricidii, che le leggi delle XII Tavole ricordano incaricati di istruire i processi per i delitti di sangue che coinvolgessero parenti. Il reato di alto tradimento era invece competenza dell'apposito collegio dei duoviri perduellionis. Nel 443 a.C. il compito di tenere il censimento sarebbe stato sottratto alle competenze dei consoli e affidato a due nuovi magistrati, i censori. Solo in seguito (tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C.) si affidò ai censori anche la redazione delle liste dei membri del senato. Da questa competenza si sviluppò probabilmente una generale supervisione sulla condotta morale dei cittadini, la cura morum, che conferiva ai censori ampi poteri di intervento su diversi aspetti della vita pubblica e privata. Di regola questi magistrati venivano eletti ogni 5 anni e la loro carica durava18 mesi.  La dittatura In caso di necessità, i supremi poteri della Repubblica potevano essere affidati a un dittatore (dictator) che non veniva eletto da un'assemblea popolare, ma nominato a propria discrezione da un console, da un pretore o da un interrex, su istruzione del senato. Il dittatore, inoltre, non era affiancato da colleghi con eguali poteri, ma assistito da un magister equitum (comandante della cavalleria), da lui scelto e a lui subordinato; contro il volere del dictator, infine, non valeva l’appello al popolo o l'opposizione del veto da parte dei tribuni della plebe. Dati i poteri straordinari di questa magistratura, la sua durata venne limitata a un massimo di sei mesi, anche se ci si attendeva che il dittatore deponesse immediatamente la carica una volta che si fosse risolta la situazione di emergenza per fronteggiare la quale era stato nominato. L'originario titolo di magister populi (comandante dell'esercito) e il fatto che in alcuni dei maggiori scontri della prima fase della Repubblica le truppe romane fossero comandate da un dittatore, dimostrano come questo magistrato venisse nominato soprattutto per fronteggiare crisi militari. L’inappellabilità delle risoluzioni prese dal dictator fece tuttavia della carica anche uno strumento con il quale il patriziato dominante poteva tenere sotto controllo le aspirazioni della plebe.  I sacerdozi e la sfera religiosa A Roma non si può tracciare una distinzione netta tra cariche politiche e massime cariche religiose. La medesima persona poteva rivestire contemporaneamente una magistratura e un sacerdozio. Costituiscono un'eccezione, oltre al rex sacrorum, i flamini, che rappresentavano la personificazione terrena del dio stesso. Le tre supreme divinità della prima Roma repubblicana, Giove, Marte, Quirino, erano rappresentate dai flamines Dialis, Martialis, Quirinalis. Dodici flamini minori erano poi addetti al culto di altrettante divinità. Al flaminato era connessa una serie di tabù religiosi che limitarono il diritto dei flamini a rivestire cariche politiche o ad allontanarsi da Roma. I tre più importanti collegi religiosi, quelli dei e dei pontefici, degli àuguri e dei duoviri sacris faciundis, avevano poteri che la superavano la sfera cultuale e coinvolgevano la politica. Il collegio dei pontefici, guidato da un pontefice massimo, costituiva la massima autorità religiosa dello Stato. Ai pontefici spettava tra l'altro la nomina dei tre flamini maggiori. Inoltre, questo collegio aveva anche il controllo sulla tradizione e l’interpretazione delle norme giuridiche, nonché sul calendario. Per tutta la prima e media età repubblicana si diveniva pontifex per cooptazione (venendo scelto dagli altri membri del collegio) e a vita. Il collegio degli àuguri aveva invece la funzione di assistere i magistrati nel loro compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà degli dèi, affinché un atto pubblico potesse essere considerato valido. L’autorevole parere degli àuguri consentiva al senato o a un magistrato di bloccare immediatamente ogni procedimento. Infine, i duoviri sacris faciundis erano incaricati di custodire i Libri Sibillini, un'antichissima raccolta di oracoli in greco, che nella tradizione della tarda Repubblica erano connessi con la Sibilla di Cuma. Nel caso si verificassero prodigi nefasti, il senato poteva chiedere al collegio di consultare i Libri, per trovarvi un rimedio alla situazione. La denominazione del sacerdozio mutò col crescere del numero dei suoi componenti, che divennero 10 nel 367 a.C. e 15 alla fine dell'età repubblicana. Accanto ai tre collegi sacerdotali maggiori si possono ricordare gli aruspici, anch’essi incaricati di chiarire la volontà divina. Una rilevante funzione in politica estera avevano i feziali, anch'essi riuniti in un collego. La loro funzione meglio nota era quella di dichiarare guerra, attenendosi al complesso cerimoniale previsto e assicurando così a Roma il favore degli dèi nel conflitto che si stava aprendo. I fetiales avevano un ruolo importante anche in altri momenti dell'attività diplomatica, in particolare nel trasmettere una richiesta di riparazioni o un ultimatum e nella conclusione di un trattato.  Il Senato Il vecchio consiglio regio, formato dai capi delle famiglie nobili, divenne il perno della nuova Repubblica a guida patrizia. Nel corso dell'età repubblicana la composizione del consiglio era decisa dai consoli prima, dai censori poi, che ne completavano i ranghi attingendo tra gli ex magistrati. Il principale strumento istituzionale in possesso del senato per influire sulla vita politica della Repubblica era costituito dalla auctoritas patrum (un diritto di sanzione). Ma le vere ragioni della potenza del senato vanno cercate altrove. A fronte di magistrati la cui carica durava un solo anno, quella di senatore era vitalizia. Essi avevano dunque la possibilità di dispiegare la loro politica con continuità d'azione. Dal momento poi che il senato era composto da ex magistrati, questi non avevano alcun interesse ad agire in contrasto con l'assemblea di cui stavano per entrare a far parte. Nel senato, insomma, si concentrò l'esperienza politica della Repubblica e trovò espressione continuativa e compiuta la leadership politica dell'élite sociale ed economica di Roma.  La cittadinanza e le assemblee popolari Non tutta la popolazione dello Stato romano poteva partecipare alle assemblee popolari, che erano riservate ai maschi adulti di libera condizione e in possesso del diritto di cittadinanza. Si diveniva cittadini romani per diritto di nascita, in quanto figli legittimi di padre in possesso della piena cittadinanza. Sulla questione dei diritti civici Roma, tuttavia, manifestò una notevole apertura. L'accoglienza nel corpo civico di elementi provenienti dalle città latine o da altre comunità dell’Italia centrale non doveva essere eccezionale. Significativo, ad esempio, il fatto che i liberti ricevevano la pienezza dei diritti civici. Durante l'età repubblicana, i comitia curiata persero progressivamente di significato. La loro funzione più importante, quella di conferire ufficialmente i poteri ai nuovi magistrati, si ridusse a una mera formalità: la lex curiata de imperio non venne più votata dalle 30 curie, ma dai 30 littori che le rappresentavano. Nella prima età repubblicana l'assemblea più importante di Roma è costituita dai comizi centuriati, fondati su una ripartizione della cittadinanza in classi di censo e, all'interno di queste, in centurie. Il meccanismo dei comizi centuriati prevede che le risoluzioni siano prese non a maggioranza dei voti individuali, ma a maggioranza delle unità di voto costituite dalle centurie, assicurando così un consistente vantaggio all'elemento più facoltoso e più anziano (> più conservatore) della cittadinanza. Le centurie, infatti, non avevano tutte un eguale numero di componenti, dal momento che le persone dotate del censo più alto e iscritte nelle classi di età dai 46 ai 60 anni (seniores) erano molte di meno rispetto ai cittadini meno ricchi e iscritti nelle classi di età tra i 17 e 45 anni (iuniores). Se le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della I classe avessero votato compatte avrebbero potuto raggiungere da sole la maggioranza assoluta nei comizi: 98 unità di voto su di un totale di 193 o 194. La funzione più importante dell'assemblea centuriata era quella elettorale: spettava ai comitia centuriata l'elezione dei consoli e degli altri magistrati superiori. Abbiamo inoltre testimonianza di una attività legislativa del popolo riunito in centurie, anche se limitata a materie di diritto internazionale. Ultimi per data di creazione tra le assemblee sono i comizi tributi. Le testimonianze in proposito si fanno più sicure intorno alla metà del IV secolo a.C. In questa assemblea il popolo votava per tribù, cioè a seconda dell'iscrizione in una di quelle tribù territoriali istituite da Servio Tullio. A un primo sguardo il meccanismo di voto dell'assemblea tributa potrebbe apparire più democratico rispetto a quello vigente nei comizi centuriati, ma anche nei comitia tributa venne creandosi una forma di disuguaglianza: il numero delle tribù urbane, nonostante il forte aumento della popolazione della città di Roma, rimase sempre fissato al numero di 4, mentre il numero delle tribù rustiche si accrebbe dalle 16 di età regia fino a raggiungere le 31 nel 241 a.C. In tal modo la popolazione delle campagne si trovò ad avere nei comizi tributi un peso maggiore rispetto alla popolazione urbana. Anche l'assemblea tributa aveva funzione elettorale, scegliendo i magistrati minori, e soprattutto legislativa, tranne per quelle poche materie che erano competenza dei comizi centuriati. I poteri delle assemblee popolari a Roma soggiacevano a diverse limitazioni. Non potevano auto-convocarsi né assumere alcuna iniziativa autonoma e spettava ai magistrati che le presiedevano indire l'adunanza, stabilire l'ordine del giorno e sottoporre al voto le proposte di legge, che l'assemblea poteva accettare o respingere ma non modificare. La comparsa di un qualche presagio infausto consentiva poi ai consoli di interrompere i lavori delle assemblee popolari. IL CONFLITTO TRA PATRIZI E PLEBEI Il periodo tra la nascita della Repubblica e il 287 a.C. è dominato, oltre dalle numerose guerre, anche dai contrasti civili che opposero patriziato e plebe. Per motivi di chiarezza è opportuno seguire prima gli sviluppi interni dello Stato romano fino agli inizi del III secolo a.C. Va tenuto presente che vicende interne ed esterne furono strettamente interconnesse ed ebbero una profonda e reciproca influenza tra di loro.  Il problema economico La caduta dei Tarquini e i mutamenti nel quadro internazionale della prima metà del V secolo a.C. ebbero pesanti ripercussioni nella situazione economica di Roma. La sconfitta subita dagli Etruschi a opera di Ierone di Siracusa nella battaglia navale combattuta nelle acque davanti a Cuma, nel 474 a.C., portò al definitivo crollo del dominio etrusco in Campania, causando un grave danno per la stessa Roma. La vendita del sale raccolto nelle saline di Ostia soffrì probabilmente per il protrarsi delle ostilità con i Sabini. Lo stato quasi permanente di guerra tra Roma e i suoi vicini provocò continue razzie e devastazioni dei campi. Al mutato quadro esterno fanno riscontro crescenti difficoltà interne: in particolare, le annate di cattivo raccolto che si successero numerose nel corso del V secolo a.C., provocando gravi carestie. La popolazione, indebolita dalla fame, venne colpita da epidemie. La crisi economica è dimostrata da prove archeologiche: ad esempio, il numero delle ceramiche greche di importazione sembra crollare nel corso della prima metà del V secolo a.C.; ma il problema economico è soprattutto evidente nella tradizione letteraria, nella quale la crisi provocata dal progressivo indebitamento di ampi strati della popolazione ha un ruolo centrale nella lotta tra patrizi e plebei. Gli effetti dei cattivi raccolti e delle malattie colpivano soprattutto piccoli agricoltori, che avevano minori possibilità di fronteggiare le temporanee difficoltà e spesso si trovavano costretti a indebitarsi nei confronti dei più ricchi proprietari terrieri. Accadeva di frequente che il debitore, incapace di estinguere il proprio debito, fosse costretto a porsi al servizio del creditore per ripagarlo del prestito e dei forti interessi maturati (nexum). Il debitore poteva anche essere venduto in terra straniera o addirittura messo a morte. stirpi patrizie: diveniva pertanto difficile escludere un plebeo dagli auspicia e dal consolato. Secondo la tradizione storiografica il patriziato ricorre a un espediente: a partire dal 444 a.C. il senato decide se alla testa dello Stato vi debbano essere due consoli, con il diritto di prendere gli auspici e provenienti dal patriziato, oppure un certo numero di tribuni militari con poteri consolari, inizialmente tre, poi sempre più spesso quattro o sei, che possono anche essere plebei, ma non hanno il potere di trarre gli auspici. Il nuovo ordinamento istituzionale rimane in vigore fino al 367 a.C. Il quadro delineato dalle fonti antiche appare insoddisfacente: creando il tribunato consolare accessibile alla plebe, i patrizi perdevano il controllo sulla massima magistratura repubblicana, raggiungendo un risultato opposto a quello che la loro riforma si proponeva di conseguire. Inoltre, se l’istituzione della nuova magistratura fosse stata la conseguenza di una forte pressione della plebe per avere accesso alla suprema carica dello Stato, difficilmente si riesce a comprendere per quale motivo il primo tribuno militare con poteri consolari di condizione plebea sia stato eletto solamente nel 400 a.C.. quasi mezzo secolo dopo la riforma. Tra le diverse spiegazioni una delle più lineari ritiene che, nel periodo 444-367 a.C., i consoli non siano stati sostituiti, ma affiancati dai tribuni consolari: i due consoli, in possesso del diritto agli auspicia ed esclusivamente patrizi, sarebbero stati assistiti da alcuni dei tribuni militum, i comandanti dei reparti che componevano le legioni, dotati per l'occasione di poteri equiparati a quelli dei consoli. Il tribunato militare doveva essere, già nel V secolo a.C., accessibile ai plebei: tuttavia, i patrizi, fino al 401 a.C., riuscirono a riservare i poteri consolari unicamente ai tribuni militum provenienti dal loro ordine. Nessuna riforma istituzionale poteva porre rimedio alle difficoltà economiche delle plebe povera, tuttora gravi: per esempio, Spurio Melio, un ricco plebeo, nel 440 a.C. intervenne per rimediare agli effetti di una carestia distribuendo a proprie spese un forte quantitativo di grano ai poveri. Questa misura venne intesa come una mossa demagogica per assumere la tirannide e Melio venne giustiziato.  Le leggi Licinie Sestie Nel 387 a.C. per rispondere alla fame di terra della plebe indigente, il territorio di Veio e di Capena, conquistato pochi anni prima, viene suddiviso in piccoli appezzamenti e distribuito ai cittadini romani, con la creazione di ben quattro nuove tribù territoriali. Pare tuttavia che il provvedimento non sia stato sufficiente ad alleviare la crisi economica: pochi anni dopo, il patrizio M. Manlio Capitolino, propose una riduzione o la cancellazione dei debiti e una nuova legge agraria. Ancora una volta, davanti alla minaccia della tirannide si rinsaldò un fronte patrizio-plebeo, che portò alla rapida liquidazione di Capitolino. Era chiaro che la risposta ai problemi di Roma non sarebbe venuta da un mutamento di regime, ma da una riforma interna all'ordinamento repubblicano. Nel 376 a.C. l'iniziativa ritornò ai riformisti, in particolare ai tribuni della plebe Caio Liicinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, esponenti di due ricche e influenti famiglie plebee. Licinio e Sestio presentarono un ambizioso pacchetto di proposte concernenti il problema dei debiti, la distribuzione delle terre di proprietà statale e l'accesso dei plebei al consolato. I patrizi resistettero, riuscendo a guadagnarsi per più anni l'appoggio di un qualche tribuno della plebe che opponeva il proprio veto alle proposte dei suoi stessi colleghi; d’altra parte, Licinio e Sestio, regolarmente rieletti per diversi anni al tribunato, non mostrarono alcuna intenzione di cedere. Dopo una fase di anarchia politica, nel 367 a.C. Marco Furio Camillo venne chiamato alla dittatura per sciogliere una situazione divenuta ormai insostenibile. Le proposte di Licinio e Sestio assunsero valore di legge. Le leges Liciniae Sextiae prevedevano che gli interessi che i debitori avevano già pagato sulle somme avute in prestito potessero essere detratti dal totale del capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali. Stabilivano la massima estensione di terreno di proprietà statale che poteva essere occupato da un privato. Infine, sancivano l'abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la completa reintegrazione dei consoli, uno dei quali avrebbe dovuto essere sempre plebeo; in realtà, sembra piuttosto che la legge consentisse che uno dei due consoli fosse plebeo, ma non escludesse la possibilità che entrambi i magistrati fossero patrizi. Il compromesso raggiunto fornì anche l'occasione per precisare il quadro delle magistrature repubblicane. Nel 366 a.C. vennero create due nuove cariche, inizialmente riservate ai soli patrizi e considerate quasi come una sorta di compenso alla perdita del monopolio sul consolato: il pretore, che aveva il compito di amministrare la giustizia tra i cittadini romani. Dotato di imperium, il pretore poteva essere messo alla testa di un esercito, anche se i suoi poteri erano subordinati a quelli dei consoli. Nel medesimo anno vennero eletti due edili curuli, ai quali venne inizialmente affidato il compito di organizzare i Ludi maximi.  Verso un nuovo equilibrio Il processo attraverso il quale si raggiunse il nuovo equilibrio interno che contraddistingue l'età delle grandi conquiste di Roma in Italia e nel Mediterraneo fu ancora lungo e faticoso. Spesso entrambi i consoli furono patrizi. Nel 342 a.C. un plebiscito ammise la possibilità che ambedue fossero plebei. Da quell'anno vediamo però comparire regolarmente nei Fasti un console patrizio e uno plebeo; l'obbligo di scegliere uno dei due massimi magistrati dalla plebe risale solo al plebiscito del 342 a.C. La prima coppia di consoli entrambi plebei compare nelle liste dei magistrati solo nel 172 a.C. Nei decenni successivi i plebei ebbero accesso a tutte le altre cariche dello Stato. Già nel 366 a.C. si decise che gli edili curuli sarebbero stati scelti ad anni alterni tra i patrizi e i plebei; nel 356 a.C. venne nominato il primo dittatore plebeo, Caio Marcio Rutilo; nel 351 a.C. Rutilo divenne il primo plebeo a rivestire la censura; nel 339 a.C. il dittatore plebeo Quinto Publilio Filone fece passare una legge in base alla quale il senato doveva ratificare un provvedimento legislativo prima che questo venisse votato, togliendo in pratica al senato il suo diritto di veto. Tre anni più tardi Filone fu il primo pretore appartenente alla plebe; nel 300 a.C., infine, un plebiscito Ogulnio consentì ai plebei l'ingresso nei due collegi sacerdotali dei pontefici e degli àuguri. Il diritto di accesso alle magistrature da parte dei plebei comportò anche il loro progressivo ingresso nel senato, reclutato tra gli ex magistrati. Nel 326 a.C. o nel 313 a.C. una legge Petelia aboliva la servitù per debiti. La risposta ai problemi economici della plebe venne dalle conquiste, che misero a disposizione vaste estensioni di terre assegnate individualmente o sfruttate per la creazione di colonie.  La censura di Appio Claudio Cieco Appio Claudio Cieco, nel 312-311 a.C., nel compilare la lista dei senatori, vi include persone abbienti che, tuttavia, non avevano ancora rivestito alcuna magistratura. Una seconda misura riguardò la composizione delle tribù, il cui scopo era quello di favorire i membri della plebe urbana che costituivano la maggioranza dei votanti, consentendo loro di iscriversi in una qualsiasi delle unità esistenti mentre in precedenza erano obbligati a registrarsi nelle sole quattro tribù urbane, con la conseguenza che il loro peso nei comizi tributi era minoritario. Entrambe le riforme caddero però nel vuoto. I consoli del 311 a.C. rifiutarono infatti di riconoscere la nuova lista di senatori stilata da Appio Claudio e continuarono a convocare il senato sulla base dei vecchi elenchi. Nel 304 a.C., inoltre, i nuovi censori confinarono ancora una volta la plebe di Roma nelle quattro tribù urbane. Un altro provvedimento importante riguarda il fatto che il censo dei singoli cittadini, fino ad allora calcolato in base ai terreni e ai capi di bestiame posseduti, fu valutato anche in base al capitale mobile, in metallo prezioso, consentendo anche a coloro che non erano impegnati nelle tradizionali attività agricole e dell'allevamento di vedere il proprio peso economico, e quindi politico, riconosciuto nell'ordinamento centuriato. All'edile Cneo Flavio (304 a.C.), che era suo cliente, appartiene anche la decisione di pubblicare formule giuridiche che era necessario impiegare nei processi, in un'opera nota come Ius civile Flavianum. Flavio avrebbe divulgato anche il calendario con i giorni fasti, durante i quali si poteva svolgere l'attività giudiziaria, e quelli nefasti, nei quali ogni attività pubblica era interdetta. Alla censura di Appio Claudio è infine da attribuire la costruzione di due opere pubbliche di importanza epocale per Roma: il primo acquedotto della città e la via che congiungeva Roma a Capua (via Appia) e che si rivelò fondamentale nel corso della seconda guerra sannitica.  La legge Ortensia Il 287 a.C. venne considerato il punto di arrivo della lunga lotta fra patrizi e plebei. In quell'anno, dopo che per l’ultima volta si era fatto ricorso all'arma della secessione, una legge Ortensia stabilì che i plebisciti votati dall'assemblea della plebe avessero valore per tutta la cittadinanza di Roma. Provvedimenti del medesimo tenore sono noti per il 449 a.C. e per il 339 a.C.: gli studiosi sono tuttavia concordi nell'affermare che solo la lex Hortensia equiparò completamente i plebiscita alle leggi votate dai comizi centuriati e dai comizi tributi, respingendo i due provvedimenti anteriori come una totale invenzione, o supponendo che avessero stabilito la validità dei plebisciti solo se questi ottenevano la sanzione del senato oppure una conferma da parte dell'assemblea centuriata. A partire dal 287 a.C. i comizi tributi e l'assemblea della plebe erano accomunati da un uguale sistema di voto per tribù e da uguali poteri. Uguale era anche la loro composizione, sebbene ai comizi tributi prendessero parte anche i patrizi, che erano esclusi dai concilia plebis. Le due assemblee rimasero distinte dai magistrati che avevano il diritto di convocarle e presiederle: i consoli o i pretori per quanto concerne i comizi tributi, i tribuni o gli edili della plebe per quanto riguarda i concili plebei.  La nobilitas patrizio-plebea Le leggi Licinie Sestie e le grandi conquiste della plebe tra la fine del IV e gli inizi del III secolo a.C. chiusero l'età del dominio esclusivo dei patrizi sullo Stato. Al posto del patriziato si venne formando una nuova aristocrazia, costituita dalle famiglie plebee più ricche e influenti e dalle stirpi patrizie che meglio avevano saputo adattarsi alla nuova situazione e unita da vincoli familiari, ideali e interessi comuni. A questa nuova élite si è soliti dare il nome di nobilitas, che venne a designare tutti coloro che avevano raggiunto il consolato o che discendevano in linea diretta da un console (o da un pretore). Si è conservato una sorta di “manifesto” degli ideali della nobilitas nell'elogio funebre di Lucio Cecilio Metello, grande uomo politico della metà del III secolo a.C.. La nobiltà patrizio-plebea si rivelò non meno gelosa delle proprie prerogative del vecchio patriziato. L’accesso alle magistrature superiori era riservato ai membri di poche famiglie, anche se questo monopolio non si basava su norme scritte ma sullo stretto controllo dell'opinione pubblica. Per i pochi personaggi che raggiunsero i vertici della carriera politica pur non avendo antenati nobili venne coniata una definizione specifica, quella di homines novi. In effetti, prima di intraprendere la carriera politica, un giovane romano doveva servire per almeno dieci anni nella cavalleria, che era reclutata nelle 18 centurie che costituivano il vertice dell'ordinamento centuriato. Inizialmente il censo minimo per farvi parte era pari a quello richiesto per la I classe, cioè 100.000 assi; in seguito, tale limite venne elevato per gli equites a 1.000.000 di assi: per intraprendere la carriera politica a Roma, dunque, si doveva appartenere necessariamente a una delle famiglie più facoltose. Ma il denaro da solo non era sufficiente: le assemblee elettorali erano controllate dai nobili attraverso i propri clienti: per avere successo nelle elezioni era quindi indispensabile ereditare la rete di clientele paterne o godere del patronato politico di un qualche nobile influente. LA CONQUISTA DELL’ITALIA  La situazione del Lazio alla caduta della monarchia di Roma Alla caduta della monarchia etrusca, Roma controllava nell'antico Lazio un territorio che si estendeva dal Tevere alla regione Pontina. Il dato è confermato dal primo trattato romano-cartaginese. In questo documento i Cartaginesi si impegnavano a non attaccare Ardea, Anzio, Lavinio, Circei e Terracina e ogni altra città del Lazio soggetta a Roma; per quanto concerneva le città latine non soggette a Roma, se un esercito punico le avesse conquistate, avrebbe dovuto consegnarle all'alleato. Tra la fine del VI e l'inizio del V secolo a.C. questa realizzazione rischiò di crollare: buona parte delle città latine approfittarono delle difficoltà interne di Roma per affrancarsi dalla sua egemonia. Le città latine si strinsero in una lega i cui membri condividevano alcuni diritti: lo ius connubi, il diritto di contrarre matrimoni legittimi con cittadini di altre comunità latine, lo ius commercii, il diritto di siglare contratti aventi valore legale fra cittadini appartenenti a comunità diverse, utilizzando strumenti formali propri del diritto cittadino e infine lo ius migrationis, grazie al quale un latino poteva assumere i pieni diritti civici in una comunità diversa da quella in cui era nato semplicemente prendendovi residenza.  La battaglia del lago Regillo e il foedus Cassianum La Lega latina diede buona prova sul campo di battaglia sconfiggendo, insieme ad Aristodemo di Cuma, il figlio di Porsenna, Arrunte, nella battaglia di Aricia. Qualche anno dopo la Lega tentò di affermarsi attaccando Roma. In una leggendaria battaglia combattuta nel 496 a.C. sul lago Regillo i Romani sconfissero le forze congiunte della Lega. Tra gli esiti dello scontro si ebbe l'uscita di scena di Tarquinio il Superbo, che finì i suoi giorni a Cuma, presso Aristodemo, ma soprattutto la conclusione di un trattato che avrebbe regolato i rapporti tra Roma e i Latini per i successivi 150 anni. Il trattato, siglato nel 493 a.C. (trattato Cassiano), prevedeva un accordo bilaterale tra Roma e la Lega latina: le due parti si impegnavano non solo a mantenere tra di loro la pace e a comporre amichevolmente eventuali dispute commerciali, ma anche a prestarsi aiuto nel caso una delle due parti fosse stata attaccata: l'eventuale bottino delle campagne di guerra comuni sarebbe stato equamente suddiviso. Tra gli strumenti più efficaci grazie ai quali gli alleati riuscirono a consolidare le proprie vittorie militari e a distribuire equamente i frutti della conquista, è da ricordare la fondazione di colonie sul territorio strappato ai nemici. I cittadini dei nuovi centri provenivano sia da Roma, sia dalle altre comunità latine; spesso vi venivano inglobati anche gli abitanti originari della località colonizzata che non erano caduti in guerra o non erano stati scacciati dalle loro sedi. Le fonti pervenute, tuttavia, sopravvalutano il ruolo avuto da Roma in queste fondazioni, definendole spesso come colonie romane. Si deve più correttamente parlare di colonie latine, dal momento che le nuove città entravano a far parte della Lega latina e godevano dei diritti corrispondenti. Nel 486 a.C. Roma completò il suo sistema di alleanze stringendo un accordo con gli Ernici. I termini dell'all'alleanza con gli Ernici sono gli stessi del trattato Cassiano.  I conflitti con Sabini, Equi e Volsci L'alleanza stretta da Roma con la Lega latina e gli Ernici si rivelò preziosa per fronteggiare la minaccia proveniente da popolazioni che dagli Appennini premevano verso occidente verso la piana costiera del Lazio: i Sabini, gli Equi e i Volsci. Questo movimento faceva parte di un moto più generale che coinvolse quasi tutta l'Italia centro-meridionale tra la fine del VI secolo a.C. e gli inizi del secolo seguente e di cui furono protagoniste le popolazioni osco-sabelliche. Le loro sedi originarie non erano in grado di assicurare la sopravvivenza di una popolazione con un forte indice di crescita demografica: l’unica soluzione risiedeva nella migrazione verso terre più fertili > “primavera sacra”. In anni di carestia tutti i prodotti dell'anno venivano consacrati alla divinità: in particolare i bambini nati in quell'anno, una volta raggiunta la maturità, avrebbero dovuto migrare in un'altra regione seguendo le indicazioni di un animale. Tra le altre popolazioni osco-sabelliche possiamo ricordare gli Apuli, che si diressero verso la Puglia, i Lucani e i Bruzi, che occuparono rispettivamente le odierne regioni della Basilicata e della Calabria, e soprattutto i Sanniti, una parte dei quali riuscì a occupare quasi tutte le vecchie città etrusche e greche della costa campana. Le fonti riportano per il V secolo a.C. una serie di conflitti tra Roma e le popolazioni montanare, in particolare gli Equi ei Volsci. Spesso l'esito fu favorevole a Roma e ai suoi alleati, ma mai si giunse a una svolta definitiva. È lecito pensare che si sia trattato di razzie o di scaramucce finanziario relativamente limitato senza essere costretta a richiedere un tributo diretto che le avrebbe indubbiamente attirato l'odio degli alleati. Al di fuori dell'antico Lazio, Roma attuò la concessione di una forma parziale di cittadinanza romana, la civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, ma non avevano diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma, né potevano essere eletti alle magistrature dello Stato romano; per il resto potevano conservare un'ampia autonomia interna. Ad Anzio, infine, venne creata una piccola colonia i cui abitanti conservarono la piena cittadinanza romana. Nei decenni seguenti verranno fondate altre colonie romane. Alla conclusione della grande guerra latina Roma aveva dunque legato a sé tutte le regioni che andavano dalla sponda sinistra del Tevere a nord, al golfo di Napoli a sud, dal Tirreno a ovest, ai contrafforti degli Appennini a est.  La seconda guerra sannitica La fondazione di colonie di diritto latino a Cales, nel territorio strappato qualche anno prima agli Aurunci, e soprattutto a Fregelle, sulla sponda orientale del fiume Sacco, che i Sanniti consideravano di propria pertinenza, provocò una nuova crisi nei rapporti tra le due potenze. La causa concreta della seconda guerra sannitica (326- 304 a.C.) è da ricercare nelle divisioni interne di Napoli, l'ultima città greca della Campania rimasta indipendente, dove si fronteggiavano le masse popolari, favorevoli ai Sanniti, e le classi più agiate, di sentimenti filoromani. I Romani riuscirono a sconfiggere la guarnigione che i Sanniti avevano installato a Napoli e a conquistare la città, ma il tentativo di penetrare a fondo nel Sannio si risolse in un fallimento: nel 321 a.C. gli eserciti romani vennero circondati al passo delle Forche Caudine e costretti alla resa. Per qualche anno vi fu un’interruzione nelle operazioni militari e i romani ne approfittarono per compensare la perdita di Cales e Fregelle rinforzando le proprie posizioni in Campania, dove vennero create due nuove tribù, e allacciando una serie di rapporti con le comunità dell'Apulia della Lucania, nella speranza di isolare e circondare la Lega sannitica. Le ostilità si riaccesero nel 316 a.C. per responsabilità dei Romani, che attaccarono la località di Saticula, al confine tra la Campania e il Sannio: le prime operazioni furono favorevoli ai Sanniti. Negli anni successivi, tuttavia, Roma iniziò a recuperare il terreno perduto. Saticula fu conquistata nel 315 a.C., Fregelle venne ripresa, le comunicazioni con la Campania ristabilite e migliorate grazie alla costruzione del primo tratto della via Appia; una serie di colonie latine iniziò a cingere il Sannio in una sorta di assedio. Roma procedette a preparare il suo esercito al confronto finale con i Sanniti. Lo schieramento a falange, irresistibile in una pianura senza ostacoli, si era rivelato incapace di manovrare su di un terreno accidentato come quello del Sannio ed era incorso nel disastro delle Forche Caudine. La legione venne allora suddivisa in 30 reparti, detti manipoli, risultato della riunione di due centurie. La centuria comprendeva circa 60 soldati; ogni manipolo comprendeva dunque intorno ai 120 uomini. La legione veniva schierata su tre linee, ciascuna delle quali era composta da 10 manipoli: i primi ad affrontare il nemico erano i principes, venivano poi gli hastati e infine i triarii. L'ordinamento manipolare era in grado di assicurare una maggiore flessibilità all’esercito romano impegnato nelle regioni montuose dell'Italia centromeridionale. Negli stessi anni cambiò anche l'equipaggiamento dei legionari, che adottarono lo scudo rettangolare e il giavellotto in uso presso gli stessi Sanniti. Le differenze nell'armamento dei soldati appartenenti alle diverse classi censitarie andarono diminuendo. Roma fu così in grado di affrontare una minaccia su due fronti: a sud contro i Sanniti, a nord contro una coalizione di Stati etruschi. Scongiurato per il momento il pericolo etrusco, gli eserciti romani poterono concentrare il proprio sforzo contro il Sannio, coronato dalla conquista di Boviano, uno dei centri maggiori dei Sanniti, e dalla pace del 304 a.C. Il trattato di alleanza tra Roma e i Sanniti del 354 a.C. venne ancora una volta rinnovato e Roma tornò definitivamente in possesso di Fregelle e Cales. Ma i vantaggi territoriali più consistenti si ebbero nella regione degli Appennini centrali, a seguito delle operazioni militari che accompagnarono l'ultima fase della seconda guerra sannitica. Gli Ernici, accusati di ribellione, vennero inglobati nello Stato romano come cittadini senza diritto di voto. Gli Equi furono sterminati e nel loro territorio venne insediata una nuova tribù di cittadini romani. Le popolazioni minori osco-sabelliche furono rapidamente costrette a concludere trattati di alleanza con Roma.  La terza guerra sannitica La sconfitta del 304 a.C. era stata grave, ma non aveva indebolito considerevolmente i Sanniti. Lo scontro decisivo con Roma si riaprì nel 298 a.C. quando i Sanniti attaccarono i Lucani, con i quali confinavano a meridione. I Romani accorsero in aiuto degli aggrediti, ma i destini della guerra si dovevano decidere a nord. Qui il comandante dei Sanniti, Gellio Egnazio, era riuscito a mettere in piedi una potente coalizione antiromana che comprendeva anche gli Etruschi, i Galli e gli Umbri. Lo scontro decisivo avvenne nel 295 a.C. a Sentino, ai confini tra le attuali regioni dell'Umbria e delle Marche. Gli eserciti riuniti dei due consoli romani, Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure, riuscirono a prevalere su Sanniti e Galli, approfittando dell'assenza dal campo di battaglia dei reparti etruschi e umbri e potendo contare su contingenti di alleati superiori al numero stesso dei legionari romani. Tanto grande era stato il pericolo corso da Roma, quanto maggiori furono i frutti della vittoria: i Sanniti, battuti in un'altra battaglia campale ad Aquilonia (293 a.C.), incapaci di reagire alla fondazione della grande colonia latina di Venosa nella zona sud-orientale del loro territorio e costretti ad assistere impotenti alla devastazione del Sannio, si videro obbligati a chiedere la pace nel 290 a.C. A nord si ebbe l'avanzata più spettacolare. L’occasione venne data da un tentativo dei Galli, alleati di alcune città etrusche, di penetrare nuovamente nell'Italia centrale. L'attacco dei Galli e degli Etruschi fu bloccato nel 283 a.C. nella battaglia del lago Vadimone. La controffensiva romana colpì dapprima le città dell’Etruria meridionale, puoi raggiunse anche l’Etruria settentrionale e la vicina Umbria. Nella marcia verso l'Adriatico, già nel 290 a.C. vennero sconfitti i Sabini e i Pretuzzi, una popolazione che abitava nella regione corrispondente all’Abruzzo settentrionale. Parte del loro territorio fu confiscato per dedurvi la colonia latina di Hadria; agli altri abitanti dell’ager Praetuttiorum venne concessa la cittadinanza senza diritto di voto. Nell'Adriatico settentrionale venne annesso il territorio un tempo appartenuto alla tribù dei Senoni. Nella parte settentrionale di questa regione venne fondata nel 268 a.C. la colonia latina di Rimini, che portò Roma ad affacciarsi alla pianura Padana. Vistisi circondati da ogni parte, i Piceni tentarono una disperata guerra contro Roma nel 269 a.C. ma pochi anni dopo furono costretti alla resa. La conquista del Piceno venne consolidata con la creazione di una colonia latina a Fermo. Il risultato di queste operazioni militari fu che in circa 30 anni dalla battaglia di Sentino Roma era riuscita a portare i confini settentrionali del territorio sotto il suo controllo lungo la linea che andava dall'Arno a Rimini.  La guerra contro Taranto e Pirro Nel Mezzogiorno d'Italia la situazione rimaneva più fluida. I Sanniti erano prostrati, ma non definitivamente domati, e alcune popolazioni loro affini conservavano la loro indipendenza, così come Taranto. Secondo un trattato risalente agli ultimi decenni del IV secolo a.C., Roma si era impegnata a non oltrepassare con le sue navi da guerra il capo Lacinio e dunque a non penetrare nelle acque del golfo di Taranto. Nel 282 a.C., tuttavia, la città greca di Turi, minacciata dai Lucani, richiese l'aiuto di Roma. Nelle operazioni in difesa dei Turini i Romani insediarono una guarnigione nella città e inviarono una flotta davanti alle acque di Taranto. Di fronte alla provocazione e alla minaccia rappresentata dalla occupazione romana a Turi, a Taranto prevalse la fazione democratica, ostile a Roma. I Tarantini attaccarono le navi romane, poi marciarono su Turi espellendone la guarnigione romana e gli aristocratici che la sostenevano. Le richieste di soddisfazione da parte di Roma vennero ignorate e la guerra divenne inevitabile. Taranto si vide ben presto ridotta a mal partito e decise di ricorrere al soccorso di un condottiero della madrepatria greca. La scelta di Pirro, re dei Molossi e comandante della Lega epirotica, era del tutto logica: l'Epiro si trovava proprio sulla costa adriatica antistante la Puglia e Pirro aveva fama di generale di eccezionali qualità e di grandi ambizioni. Il re diede alla sua spedizione il carattere di una sorta di crociata in difesa dei Greci d'Occidente, minacciati dai barbari romani e cartaginesi, procurandosi l’appoggio di tutte le potenze ellenistiche. Nella sua azione propagandistica Pirro si richiamò alla sua discendenza da Achille, per giustificare l'attacco contro la “troiana” Roma; ma anche altre parentele richiamavano il re dei Molossi verso l'Italia e la Sicilia: Pirro era imparentato con Alessandro il Grande e poteva rivendicare a ragione la ripresa dei progetti di conquista dell'Occidente che pare avessero animato Alessandro negli ultimi mesi della sua vita. Pirro aveva inoltre sposato nel 295 a.C. Lanassa, figlia del re di Siracusa Agatocle. Con la scomparsa di Agatocle, nel 289 a.C., era crollato anche il sistema di egemonia da lui costruito nella Sicilia orientale e nell’Italia meridionale, lasciando un vuoto di potere che il genero Pirro poteva sperare di colmare. Nel 280 a.C. Pirro sbarcò in Italia con un esercito di circa 22.000 fanti, 3.000 cavalieri e 20 elefanti da guerra, contando anche sulle truppe che potevano fornirgli Taranto e le popolazioni italiche che sperava di poter portare dalla sua parte. Roma si vide costretta ad arruolare per la prima volta i capite censi, i nullatenenti fino ad allora esentati dal servizio militare. I Romani subirono una sanguinosa sconfitta a Eraclea, in Lucania, dovuta tanto all'abilità tattica di Pirro quanto al devastante effetto psicologico che gli elefanti ebbero sui soldati romani: la battaglia costò tuttavia gravissime perdite anche all'esercito epirota. La battaglia di Eraclea mise in pericolo le posizioni romane nell'Italia meridionale: le città greche, i Lucani e i Bruzi si schierarono dalla parte di Pirro, seguiti dai Sanniti. Ciò nonostante, Pirro non seppe cogliere i frutti del suo successo: il suo tentativo di suscitare una ribellione tra gli alleati di Roma nell'Italia centrale e di collegarsi con gli Etruschi fallì. Pirro decise di intavolare trattative di pace, inviando a Roma l'eloquente tessalo Cinea. L'epirota chiedeva libertà e autonomia per le città greche dell'Italia meridionale e la restituzione dei territori strappati a Lucani, Bruzi e Sanniti: richieste durissime che vennero prese in seria considerazione dal senato e furono respinte solamente dopo l'intervento del vecchio Appio Claudio Cieco. In risposta al fallimento delle trattative, Pirro mosse verso l'Apulia settentrionale. Lo scontro con il nuovo esercito romano inviato per bloccare la sua avanzata avvenne ad Ascoli Satriano nel 279 a.C.: la vittoria fu del re del Molossi, ma di nuovo le sue perdite furono gravissime. Pirro aveva vinto due grandi battaglie, ma non riusciva a concludere la guerra. Roma sembrava in grado di poter resistere all'infinito, mentre i rapporti tra l'epirota e i suoi alleati dell'Italia meridionale si andavano deteriorando. Così, Pirro accolse le domande di aiuto che gli venivano da Siracusa: la città, a causa dei dissensi interni, non era più in grado di sostenere da sola la lotta con i Cartaginesi per il dominio della Sicilia. Pirro ritenne che il possesso di quell’isola avrebbe accresciuto la sua potenza. Tra l’altro, se avesse rifiutato di accorrere in aiuto di Siracusa, tutta la sua costruzione propagandistica, fondata sulla difesa della grecità d'Occidente contro i barbari, sarebbe crollata. Decise quindi di recarsi in Sicilia con parte del suo esercito, lasciando una forte guarnigione a Taranto. La posizione del re dei Molossi era tuttavia assai precaria, dal momento che nel 279 a.C. Roma e Cartagine avevano stretto un'alleanza difensiva che prevedeva la mutua collaborazione militare contro il comune nemico. In Sicilia Pirro passò di vittoria in vittoria, costringendo i Cartaginesi a chiudersi a Lilibeo, all'estremità occidentale dell'isola: l'assedio di questa fortezza si rivelò tuttavia infruttuoso, dal momento che Lilibeo poteva essere costantemente rifornita via mare. Pirro immaginò di sbloccare la situazione invadendo l'Africa, ma il progetto fallì perché le continue richieste di uomini e denaro e i suoi modi autoritari gli avevano ormai alienato, anche in Sicilia, le simpatie degli alleati. Anche in Italia la situazione stava precipitando: approfittando dell'assenza del re epirota, i Romani avevano riconquistato posizioni su posizioni. Rispondendo all’appello di Sanniti, Lucani e Bruzi. Pirro decise di lasciare incompiuta la sua impresa siciliana e di ritornare in Italia, subendo gravi perdite nella traversata a opera di una flotta cartaginese. Lo scontro decisivo con le forze romane, al comando del console Manio Curio Dentato, avvenne nel 275 a.C., a Benevento: le truppe di Pirro furono messe in fuga. Il re dei Molossi capi che la partita era perduta: per non dare l’impressione di aver abbandonato gli alleati lasciò una guarnigione a Taranto, ma decise comunque di far ritorno in Epiro con la maggior parte del suo esercito. Lanciatosi in nuove imprese dinastiche e militari in Grecia, Pirro morì nel 272 a.C. In quello stesso anno Taranto si arrese, entrando nel novero dei socii di Roma. LA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO  La prima guerra punica Nel 264 a.C. Roma controllava ormai tutta l'Italia peninsulare, fino allo stretto di Messina. Qui gli interessi di Roma entrarono in collisione con quelli di Cartagine. Lo scontro venne precipitato dalla questione dei Mamertini, mercenari di origine italica, che dopo essere stati congedati dal re di Siracusa, Agatocle, si erano impadroniti con la forza di Messina, dedicandosi all’attività di saccheggiare le vicine città. Questo provocò la reazione dei Siracusani, guidati dal generale Ierone, che inflisse ai Mamertini una severa sconfitta e avanzò verso Messina. I Mamertini accolsero dunque l'offerta di aiuto di una flotta cartaginese che incrociava nelle acque di Messina e che vedeva con preoccupazione la possibilità che i Siracusani si impadronissero della zona dello Stretto: una guarnigione cartaginese si installò in Messina e Ierone fu costretto a far ritorno a Siracusa, dove venne proclamato re a seguito delle sue vittorie. I Mamertini si stancarono ben presto della tutela cartaginese e decisero di fare appello a Roma, dove iniziò un serrato dibattito a favore o contro l'intervento a Messina. Sostenere i Mamertini poteva apparire incongruente con il comportamento tenuto qualche anno prima al di là dello Stretto, a Reggio, dove i Romani erano intervenuti per cacciare una guarnigione di soldati campani che, imitando i Mamertini, aveva cercato di impadronirsi del governo della città. Nessuno poteva inoltre illudersi che l'intervento a Messina non avrebbe causato un grave incidente con Cartagine e con Siracusa. Soprattutto la prima era avversaria da non sottovalutare: Cartagine era al centro di un vasto impero, formato da comunità alleate e da popolazioni soggette, che si estendeva dalle coste dell'Africa settentrionale a quelle della Spagna meridionale, dalla Sardegna alla parte Occidentale della Sicilia. Cartagine poteva mettere in campo grandi eserciti e potenti flotte. Non siamo in grado di valutare se l'intervento in Sicilia abbia potuto costituire una violazione degli accordi che Roma aveva concluso con Cartagine: il dibattito ruota intorno all'autenticità di una clausola che includeva la Sicilia nella sfera dell'egemonia cartaginese. È possibile che tra le due potenze esistesse un accordo per una delimitazione delle rispettive sfere d'interesse. Se molte ragioni, dunque, consigliavano di mantenere la pace, d'altra parte far cadere nel vuoto l'appello dei Mamertini significava lasciare ai Cartaginesi il controllo della zona strategica dello Stretto e perdere l’occasione per mettere piede in Sicilia. Fu questa motivazione economica a indurre l’assemblea popolare a votare l’invio di un esercito in soccorso dei Mamertini. Anche se formalmente Roma non aveva dichiarato guerra a Cartagine, di fatto questa decisione aprì la lunga prima guerra punica (264-241 a.C.). I Romani riuscirono a respingere da Messina Cartaginesi e Siracusani, che avevano deciso di allearsi con i loro vecchi nemici contro la coalizione tra Roma e i Mamertini: già nel 263 a.C. il re Ierone comprese che l’alleanza con Cartagine era pericolosa per Siracusa: decise quindi di concluder una pace che lo lasciò in possesso in un ampio territorio nella Sicilia orientale e di schierarsi dalla parte di Roma. Il sostegno di Ierone si rivelò indispensabile. Dopo un lungo assedio, cadde nelle mani romane la base cartaginese di Agrigento. Grazie alla sua netta superiorità nelle forze navali, Cartagine conservava tuttavia un saldo controllo su molte località costiere della Sicilia: a Roma si decise quindi la creazione di una grande flotta di quinquiremi, contando anche sull'aiuto dei cosiddetti socii navales, in particolare le città greche dell'Italia meridionale. Lo sforzo fu premiato nel 260 a.C. da una clamorosa vittoria del console Caio Duilio sulla flotta cartaginese nelle acque di Milazzo. Roma pensò di poter assestare un colpo mortale a Cartagine attaccandola direttamente nei suoi possedimenti africani: l'invasione iniziò nel 256 a.C. La flotta romana sconfisse quella cartaginese al largo di capo Ecnomo e fece sbarcare l'esercito nella penisola di capo Bon, in Cartagine. I Romani vennero anche a conoscenza di un patto di alleanza tra Annibale e Filippo V di Macedonia, le cui ambizioni nell'Adriatico meridionale trovavano ostacolo nel protettorato romano sulle città greche della costa. Gli alleati dell'Italia centrale, tuttavia, rimasero fedeli a Roma e il ritorno alla strategia attendista di Fabio Massimo consentì a Roma di riguadagnare gradualmente le posizioni perdute nel Mezzogiorno. Nel 212 a.C. anche Taranto si schierò dalla parte dei Cartaginesi, ma un piccolo presidio romano continuò a occupare la cittadella e a sorvegliare il porto. Nel 211 a.C. Capua venne riconquistata dai Romani. Nel frattempo, anche negli altri teatri di guerra le cose volgevano al meglio per Roma. In Sicilia le forze romane, al comando di Marco Claudio Marcello, riuscirono a conquistare e a saccheggiare Siracusa dopo un lungo assedio; un esercito cartaginese, sbarcato ad Agrigento per dar man forte agli insorti siracusani, fu decimato da un'epidemia e non poté opporre resistenza alla controffensiva romana. Nell'Adriatico una flotta di 50 quinquiremi si rivelò sufficiente per impedire un'invasione dell'Italia da parte di Filippo V e un suo congiungimento con le forze di Annibale. Roma riuscì a paralizzare l'azione del re macedone creando una coalizione di Stati greci a lui ostili, tra i quali primeggiava la Lega etolica. Quando apparve chiaro che gli Etoli intendevano rinunciare alla lotta, anche Roma si affrettò a concludere con Filippo una pace che lasciava immutato il quadro territoriale (205 a.C.). La svolta decisiva nella guerra si ebbe in Spagna. Dopo la sconfitta subita al fiume Trebbia, Publio Cornelio Scipione aveva raggiunto nella penisola iberica il fratello Cneo. I due Scipioni riuscirono a impedire che Annibale ricevesse aiuti dalla Spagna. Nel 211 a.C., tuttavia, i due fratelli si trovarono ad affrontare divisi le superiori forze dei Cartaginesi e vennero sconfitti e uccisi. I Romani riuscirono a ritirarsi e a difendere la Spagna settentrionale, fino a quando venne nominato comandante delle truppe in Spagna il figlio omonimo di Publio Cornelio Scipione (noto col cognome di Africano). Il giovane Scipione non aveva titolo per comandare un esercito ma venne scelto in virtù delle sue qualità personali. Nel 209 a.C. si impadronì di Nova Carthago e sconfisse l'anno seguente il fratello di Annibale, Asdrubale. Scipione non riuscì tuttavia a impedire che Asdrubale eludesse la sorveglianza romana e tentasse di portare aiuto al fratello in Italia. La spedizione cartaginese venne tuttavia affrontata dagli eserciti congiunti dei due consoli Marco Livio Salinatore e Caio Claudio Nerone e distrutta sul fiume Metauro nel 207 a.C.; Asdrubale stesso cadde in battaglia. Annibale si vide costretto a ritirarsi nel Bruzio. Scipione, nel frattempo, sconfiggeva in modo decisivo gli eserciti cartaginesi di Spagna nella battaglia di Ilipa nel 206 a.C. Tornato in Italia, Scipione fu eletto console per il 205 a.C. e iniziò i preparativi per l'invasione dell'Africa. Lo sbarco in Africa avvenne nel 204 a.C. e nell'anno seguente Scipione e Massinissa (re della tribù numida dei Massili) colsero un'importante vittoria nella battaglia dei Campi Magni. Le trattative di pace allora avviate fallirono per le dure condizioni dettate da Scipione, che mirava a eliminare per sempre la minaccia punica, e per le speranze suscitate a Cartagine dal ritorno di Annibale. La battaglia che pose fine al conflitto si svolse nel 202 a.C. nei pressi della città di Zama. Il trattato di pace, siglato nel 201 a.C., prevedeva la consegna di tutta la flotta cartaginese, tranne 10 navi, e il pagamento di una forte indennità. Cartagine, inoltre, doveva rinunciare a tutti i suoi possedimenti al di fuori dell'Africa e riconoscere ai suoi confini un potente regno di Numidia governato da Massinissa, una sorta di gendarme di Roma in Africa; per finire, ai Cartaginesi non era concesso dichiarare guerra senza il permesso di Roma.  La seconda guerra macedonica Pochi anni dopo la conclusione della guerra con Cartagine, Roma si impegnò in un altro conflitto di grandi proporzioni contro Filippo V di Macedonia. Causa immediata della guerra fu soprattutto l'attivismo di Filippo V nell'area dell’Egeo e sulle coste dell'Asia Minore, che lo portarono a scontrarsi con le due maggiori potenze dell'arca, il regno di Pergamo e la repubblica di Rodi. Le tensioni sfociarono nel 201 a.C. in guerra aperta: Filippo fu battuto in una battaglia navale da Pergameni e Rodii al largo di Chio, ma poco dopo riuscì a infliggere una severa sconfitta alla flotta rodia. I coalizzati compresero che da soli non sarebbero riusciti ad allontanare la minaccia macedone, né potevano rivolgersi alle altre due grandi potenze ellenistiche: il re di Siria Antioco III aveva stabilito una sorta di intesa con Filippo V, mentre l'Egitto era impegnato nel tentativo di arginare l'ostilità della Siria stessa. Divenne logico rivolgersi a Roma, con la quale il re di Pergamo Attalo I aveva da tempo relazioni di amicizia. A Roma, dopo un acceso dibattito, i comizi centuriati votarono la guerra. Si decise tuttavia di inviare un ultimatum a Filippo, in cui gli si intimava di rifondere i danni di guerra inflitti agli alleati di Roma e di astenersi dall'attaccare gli Stati greci: probabilmente una mossa di carattere puramente propagandistico per presentare Roma come protettrice della Grecia. Il re macedone, comunque, ignorò l'ultimatum, mentre la mossa diplomatica valse a Roma il sostegno di alcuni Stati, tra i quali Atene. Alla fine del 200 a.C. l'esercito romano sbarcò nella città amica di Apollonia. I primi due anni di guerra trascorsero senza che vi fossero azioni decisive: la Lega etolica decise comunque di aggiungersi alla coalizione antimacedone. Una svolta venne impressa nel 198 a.C. dal nuovo comandante delle forze romane, Tito Quinzio Flaminino. Filippo dovette sgombrare le posizioni fortificate nella gola del fiume Aoo che sbarravano la strada per la Macedonia, ma un successo ancora maggiore si ebbe sul piano diplomatico quando Flaminino chiese la liberazione della Tessaglia, una regione che era sotto il dominio della monarchia macedone dai tempi di Filippo II, padre di Alessandro. La richiesta venne respinta, ma destò comunque grande impressione: gli Stati della Grecia si schierarono dalla parte dei “Liberatori”, persino la Lega achea, il principale organismo politico del Peloponneso, che da decenni era alleata della Macedonia. Alla fine del 198 a.C. Filippo decise di intavolare serie trattative di pace, interrotte da Flaminino e dai suoi alleati politici in senato quando il generale romano seppe che il suo comando in Grecia era stato prorogato anche per il 197 a.C. e che dunque nessuno avrebbe potuto cogliere al suo posto il frutto della sua politica. Le speranze di Flaminino si avverarono sul campo di battaglia di Cinocefale, in Tessaglia, dove l'esercito di Filippo V venne annientato. Il re macedone fu dunque costretto ad accettare le condizioni della pace, che prevedevano il ritiro delle guarnigioni macedoni ancora presenti in Grecia, il pagamento di un'indennità e la consegna della flotta tranne cinque navi. Filippo poté tuttavia conservare il suo regno di Macedonia. Quanto alla sorte della Grecia, la posizione di Roma fu resa nota in occasione dei Giochi Istmici del 196 a.C., quando Flaminino proclamò l'autonomia e la libertà degli Stati un tempo soggetti a Filippo V. Roma, dunque, non intendeva assumere una diretta responsabilità di governo in Grecia. In conformità alla dichiarazione dei Giochi Istmici, l'esercito romano evacuò la Grecia nel 194 a.C. Sarebbe tornato di lì a poco.  La guerra siriaca Nei medesimi anni in cui Flaminino regolava gli affari della Grecia erano iniziate trattative diplomatiche con Antioco III. Il re di Siria stava estendendo la sua egemonia sulle città greche della costa occidentale dell'Asia Minore e aveva attraversato con un esercito l'Ellesponto, reclamando i possedimenti della costa della Tracia che il fondatore della monarchia di Siria, Seleuco I, aveva strappato un secolo prima in occasione dei conflitti tra i successori di Alessandro. Le proteste di Roma, che chiedeva la cessazione degli attacchi contro le città autonome dell'Asia Minore e l'immediata evacuazione dell'Europa, furono respinte da Antioco, che da un lato assicurò di non nutrire alcuna intenzione ostile nei confronti di Roma, dall'altro riaffermò con decisione la fondatezza delle sue pretese sull'Asia Minore e la Tracia. Nonostante Scipione Africano consigliasse di lasciare un presidio in Grecia e nonostante in quel periodo alla corte di Siria avesse trovato rifugio il mortale nemico di Roma, Annibale, Flaminino riuscì a imporre il rispetto dell'impegno preso ai Giochi Istmici. L'esercito romano si era trattenuto fin troppo in Grecia, impegnato in una campagna contro Sparta, alimentando così la propaganda ostile della Lega etolica. Gli Etoli, infatti, scontenti di quanto avevano ottenuto in cambio del loro aiuto militare nella lotta contro Filippo, andavano sostenendo che la Grecia aveva cambiato padrone, dalla Macedonia a Roma. La guerra fredda tra Roma e la Siria si trascinò fino al 192 a.C. quando la Lega etolica invitò Antioco III a liberare la Grecia dai suoi falsi liberatori. Antioco decise di passare con un piccolo esercito in Tessaglia, sopravvalutando il sostegno di cui avrebbe potuto godere: in realtà gli unici aiuti concreti gli vennero dagli Etoli. Il re di Siria venne battuto nell'anno seguente alle Termopili dai Romani e dovette fuggire in Asia Minore. La partita non era tuttavia chiusa per Roma, decisa ad allontanare la minaccia siriaca dall'area dell’Egeo e a colpire Antioco nel suo stesso regno. Nel 190 a.C. il console Lucio Cornelio Scipione, accompagnato in qualità di consigliere dal più famoso fratello Publio Cornelio Scipione Africano, si preparò a invadere l'Asia Minore per la via terrestre attraverso Grecia, Macedonia e Tracia, forte del leale sostegno di Filippo V di Macedonia. Nel frattempo, la flotta romana sconfiggeva i Siriaci nell'Egeo, proteggendo la traversata dell'esercito sull'Ellesponto. Lo scontro decisivo si ebbe nei pressi della città di Magnesia al Sipilo: l'esercito di Antioco venne disfatto. La pace, siglata nella città siriaca di Apamea nel 188 a.C., confermò che Roma non aveva intenzione di impegnarsi direttamente nel Mediterraneo orientale. Antioco dovette pagare un'enorme indennità di guerra, affondare tutta la sua flotta, tranne 10 navi, consegnare alcuni nemici di Roma che avevano trovato rifugio alla sua corte e soprattutto sgombrare tutti i territori a ovest e a nord del Tauro. I vasti territori strappati ad Antioco nell’Asia minore occidentale non vennero tuttavia inglobati nello Stato romano come provincia, ma spartiti tra i due più fedeli alleati di Roma, il re di Pergamo Eumene II e la repubblica di Rodi: furono escluse dalla spartizione le città greche della costa che si erano schierate dalla parte di Roma, le quali ottennero l'autonomia.  Le trasformazioni politiche e sociali L’ampliamento degli orizzonti di Roma non poteva che portare a cambiamenti anche nell'assetto politico e sociale interno. Per esempio, la vicenda del “processo degli Scipioni” mostra l'acuirsi del contrasto all'interno della stessa classe dirigente romana e i nuovi scenari di lotta politica che si andavano aprendo. Nel 187 a.C. alcuni tribuni della plebe accusarono L. Cornelio Scipione di essersi impadronito di parte dell'indennità di guerra versata dal re di Sira. Nonostante l'intervento del fratello, il celebre Africano, solo il veto di uno dei tribuni della plebe impedì che Lucio fosse condannato a pagare una pesantissima multa. Nel medesimo anno, tuttavia, l'attacco venne rinnovato, questa volta contro lo stesso Scipione Africano, forse per aver condotto trattative di carattere personale con il re di Siria. Scipione rifiutò di rispondere alle accuse e si ritirò in una sorta di esilio politico nella Campania settentrionale. Qui morì l'anno successivo. Il processo agli Scipioni fu ispirato dalla figura politica emergente di questo periodo, Marco Porcio Catone. Colpendo l'Africano, Catone colpiva soprattutto una spinta verso l'individualismo che rischiava di mettere in pericolo la gestione collettiva della politica da parte della nobilitas. In questa temperie politica trova spiegazione anche la legge Villia (180 a.C.), che introdusse un obbligo di età minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di un biennio tra una carica e l'altra. Nei medesimi anni la diffusione in tutta l'Italia del culto di Bacco è segno di una tensione in primo luogo religiosa e culturale, ma anche sociale, dal momento che i devoti di Bacco provenivano in buona parte dalle classi sociali inferiori. La reazione a questo movimento fu durissima: nel 186 a.C. il senato diede mandato ai consoli di condurre un’inchiesta. I Baccanali dovevano essere stroncati in ogni modo. Negli anni seguenti molti sacerdoti o semplici adepti del culto vennero imprigionati o messi a morte, mentre la devozione a Bacco fu sottoposta a una rigida regolamentazione. L’atteggiamento del governo di Roma nei confronti di un movimento che era primariamente religioso potrebbe apparire sorprendente. Ciò che aveva indotto il senato ad adottare misure drastiche non era tanto la necessità di reprimere le pratiche orgiastiche e i supposti crimini che si attribuivano ai Baccanali. Preoccupava piuttosto il fatto che i devoti di Bacco si fossero dati un'organizzazione interna che poteva configurarsi come una sorta di Stato all'interno dello Stato romano (contro lo Stato romano).  La terza guerra macedonica La pace di Apamea aveva espulso il regno di Siria dallo scacchiere dell'Egeo. Nell'area vi era tuttavia ancora la Macedonia di Filippo V, uno Stato abbastanza potente da coltivare qualche ambizione di riscossa contro Roma. Filippo, per il momento, aveva dovuto cedere, rinunciando alla Tracia e inviando il figlio minore Demetrio, che già godeva di molte amicizie a Roma, a perorare la sua causa. Segretamente, tuttavia, secondo Polibio, avrebbe iniziato a preparare la rivincita. Nei medesimi anni la posizione di Roma in Grecia si faceva delicata: sempre più spesso giungevano in senato ambascerie a sostenere le rispettive ragioni nelle controversie che opponevano le une alle altre le città greche. Anche su suggerimento di un uomo politico della Lega achea, Callicrate, Roma adottò nella soluzione di questi contrasti una linea che privilegiava i gruppi aristocratici, pronti ad accogliere ogni desiderio di Roma, contro il volere delle fazioni democratiche, alienandosi le simpatie delle masse popolari. Nel 179 a.C. la morte aveva messo fine al lunghissimo regno di Filippo V: gli era succeduto il figlio Perseo, che era riuscito a sbarazzarsi del fratello Demetrio. L'elemento democratico e nazionalista all'interno di molte città greche cominciò a volgersi con crescente favore verso Perseo. Agli occhi di Roma questo solo fatto fu sufficiente per fare del re una minaccia per il sistema egemonico da loro creato sul mondo greco. In un crescendo polemico, spesso ingiustificato, ogni mossa diplomatica di Perseo, ogni sua azione militare, vennero interpretate come gesti di sfida. Inoltre, questi sospetti furono alimentati da Eumene di Pergamo, che nel 172 a.C. si presentò a Roma con un lunghissimo elenco di accuse contro Perseo. I preparativi di guerra iniziarono in quello stesso anno, ma le prime operazioni si ebbero solo nel 171 a.C., dopo che le trattative per raggiungere un accordo fallirono. Nei primi anni di guerra i comandanti romani si distinsero per le rapine commesse ai danni di molte città greche. Qualche modesto successo militare di Perseo venne dunque salutato con enorme entusiasmo dai democratici. Il re macedone ottenne un aiuto concreto solo dalla popolazione epirota dei Molossi e dal re d'Illiria Genzio. La svolta si ebbe nel 168 a.C.: Genzio venne sconfitto, mentre Perseo fu costretto dal nuovo comandante romano, il console Lucio Emilio Paolo, ad accettare battaglia campale nella località macedone di Pidna, dove il suo esercito fu distrutto. Il re fu portato prigioniero in Italia e la monarchia abolita in Macedonia. La regione venne suddivisa in quattro repubbliche, che non potevano intrattenere alcun rapporto tra loro. Tre delle repubbliche poterono conservare modeste forze armate per sorvegliare le popolazioni barbariche con le quali confinavano, ma fu loro impedito di sfruttare il legname per la costruzione di navi e di estrarre oro e argento dalla miniere. I quattro Stati dovevano versare un tributo a Roma, pari alla metà di quello un tempo pagato al re. Simile fu la sorte dell'Illiria, divisa in tre Stati. Negli altri Stati greci la moderazione di cui Roma aveva dato prova negli ultimi anni della guerra venne messa da parte. La Lega achea, in particolare, fu costretta a consegnare 1.000 persone di lealtà sospetta, che furono deportate in Italia: tra di loro si trovava anche lo storico Polibio. I Molossi furono puniti con la totale devastazione del loro territorio e la riduzione in schiavitù di decine di migliaia di abitanti. Rodi fu privata della Caria e della Licia per il torto di aver tentato una mediazione tra Roma e Perseo. Rodi venne inoltre colpita nella sua prosperità economica dalla creazione, nell'isola di Delo, di un porto franco (> le merci in entrata e in uscita erano esentate dai dazi). Buona parte delle rotte commerciali vennero così deviate su Delo e Rodi perse buona parte delle sue entrate doganali.  La quarta guerra macedonica e la guerra acaica La sistemazione data da Roma all'area greca era inadeguata. Particolarmente tesi erano i rapporti con la Lega achea. La morte di Callicrate, fedele strumento della politica di Roma, e i tentativi di secessione di Sparta dalla Lega coincisero con una rivolta in Macedonia. Qui Andrisco, facendosi passare per figlio di Perseo, riuscì a prevalere sulle milizie repubblicane e a riunire le forze macedoni sotto la bandiera monarchica. Dopo qualche successo, Andrisco venne eliminato nel 148 a.C. dalle forze del pretore Quinto Cecilio Metello. Il senato si occupò quindi delle questioni concernenti gli Achei, ordinando che fosse staccata dalla Lega non solo Sparta, ma anche altre importanti città, tra le quali Argo e Corinto. Ciò avrebbe significato la fine della Lega achea come  Due fazioni dell'aristocrazia: optimates e populares Cominciarono a delinearsi due fazioni, denominate optimates e populares, entrambe scaturite dalla nobilitas. 1) Gli optimates si richiamavano alla tradizione degli avi e cercavano di ottenere per la propria politica l'approvazione dei benpensanti, ispirata da buoni principi e sollecita del bene dello Stato, sostenitrice dell'autorità e delle prerogative del senato. 2) I populares si consideravano difensori dei diritti del popolo, che gli optimates descrivevano come padrone del mondo ma che in realtà conduceva un'esistenza miserevole, e propugnavano la necessità di ampie riforme in campo politico e sociale. Un esempio di quest’ultima tendenza può riscontrarsi nell’approvazione di tre leggi tabellarie, concernenti cioè l’espressione scritta (certa e verificabile, ma non palese) del voto: la lex Gabinia tabellaria (139 a.C.) la introduceva nei comizi elettorali, la lex Cassia tabellaria (137 a.C.) nei giudizi popolari, esclusi quelli per alto tradimento e attentato all'ordine costituito, la lex Papiria tabellaria (131 a.C.) nei comizi legislativi.  La questione dell’ager publicus e il tentativo di riforma agraria di Caio Lelio Le guerre di conquista avevano fatto crescere a dismisura l’ager publicus, terreno demaniale di proprietà collettiva dello Stato romano. Parti di esso erano concesse in uso a privati a titolo di occupatio: la proprietà restava sempre dello Stato, che si riservava la facoltà di revocare il possesso a sua discrezione. L'utilizzo era garantito ai detentori dietro pagamento di un canone, del tutto irrisorio e che non sempre lo Stato si preoccupava di esigere. La crisi progressiva della piccola proprietà fondiaria tendeva a favorire la concentrazione della maggior parte dell'agro pubblico nelle mani dei proprietari terrieri più ricchi e potenti. Di qui la necessità di una serie di norme che mirassero a restringere l'estensione di agro pubblico che poteva essere legittimamente occupata da ciascuno. L'ultima di tali leggi era stata proposta da Caio Lelio. Il suo progetto aveva però attirato contro di lui l'opposizione dei senatori (quelli che più beneficiavano dell'assenza di limiti nel possesso delle terre demaniali), tanto che egli preferì rinunziarvi e lo ritirò.  Tiberio Gracco Tiberio Gracco volle riprendere nell’anno del suo tribunato della plebe (133 a.C.) il tentativo di operare una riforma agraria tramite norme che limitassero la quantità di agro pubblico posseduto. Il progetto di legge agraria che Tiberio, come tribuno della plebe, riprendendo riforme anteriori, propose ai comizi tributi nel 133 a.C., fissava all’occupazione di agro pubblico un limite di 500 iugeri (125 ettari), con l'aggiunta di 250 iugeri per ogni figlio fino a forse un massimo di 1.000 iugeri (250 ettari) per famiglia. Un collegio di triumviri eletto dal popolo e composto da Tiberio stesso, dal fratello Caio e dal suocero, Appio Claudio Pulcro, che era princeps del senato, avrebbe poi avuto il compito di ripartire i lotti e recuperare i terreni in eccesso. Questi ultimi sarebbero stati distribuiti ai cittadini più poveri in piccoli lotti, forse di 30 iugeri (7.5 ettari) per persona e inalienabili. I fondi necessari all'applicazione della riforma sarebbero infine stati ricavati utilizzando il tesoro del re di Pergamo Attalo III che, morto senza eredi, lo aveva lasciato al popolo romano. Scopo principale della legge pare essere stata l'esigenza di ricostituire e conservare un ceto di piccoli proprietari, che si andava dissolvendo, anche per garantire una base stabile al reclutamento dell'esercito (i nullatenenti non potevano essere arruolati). Sotto il profilo del diritto il progetto era legittimo, perché dettava norme concernenti la proprietà demaniale dello Stato e non le terre dei privati; alcuni aspetti di esso, tuttavia, come la destinazione del tesoro di Attalo II, toccavano prerogative che abitualmente erano del senato. Dal punto di vista pratico, i grandi proprietari terrieri si ritennero espropriati di risorse che per abitudine consideravano proprie. L'oligarchia dominante ritenne dunque di opporsi e, il giorno in cui il progetto doveva essere votato nei comizi tributi, un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, pose il suo veto, impedendone l'approvazione. Tiberio Gracco, dopo aver tentato inutilmente di vincerne le resistenze, propose all'assemblea di destituirlo perché, essendo stato eletto per difendere gli interessi popolari, coll'interporre il veto era venuto meno al mandato che il popolo gli aveva affidato e con questo atto stesso si era escluso da sé dalla carica. Dichiarato decaduto Ottavio, la legge Sempronia agraria fu approvata. Ma l'opposizione conservatrice non si placò e Tiberio, quasi giunto alla fine dell'incarico, nel timore di perdere l'inviolabilità personale e che venisse a interrompersi l'opera di ridistribuzione delle terre, già iniziata, pensò di presentare la sua candidatura al tribunato anche per l'anno successivo. Fu allora facile per gli avversari insinuare che egli intendesse aspirare al potere personale. Nel corso dei comizi elettorali un gruppo di senatori e di avversari guidati da Publio Cornelio Scipione Nasica, lo assalì e lo uccise insieme a molti suoi sostenitori.  Da Tiberio a Caio Gracco: la commissione agraria, Scipione Emiliano egli alleati latini e italici La morte di Tiberio Gracco non pose fine all'attività della commissione triumvirale. Fu però ben presto chiaro il malcontento degli alleati latini e italici, le cui aristocrazie di ricchi proprietari avevano seguito la prassi dei maggiorenti romani di occupare larghe porzioni di agro pubblico e si trovavano ora a doverne restituire le parti in eccesso a beneficio dei soli nullatenenti romani. Interprete delle loro lamentele si fece Scipione Emiliano. Morto improvvisamente l’Emiliano, in circostanze rimaste misteriose (129 a.C.), Fulvio Flacco, membro del triumvirato agrario divenuto console nel 125 a.C., propose che tutti gli alleati che ne avessero fatta richiesta potessero ottenere la cittadinanza romana o almeno il diritto di appellarsi al popolo contro eventuali abusi di magistrati romani. L’opposizione alla proposta fu vastissima, tanto che essa non poté nemmeno essere discussa e Flacco preferì non insistervi. Probabile sintomo dell’irritazione degli alleati furono le rivolte (125 a.C.) di Asculum e della colonia latina di Fregellae. La repressione fu spietata. Fregellae fu rasa al suolo e sul suo territorio, confiscato, fu dedotta nel successivo anno 124 a.C. la colonia di cittadini romani di Fabrateria Nova.  Caio Gracco Nel 123 a.C. fu eletto tribuno della plebe Caio Gracco. Nel corso di due mandati consecutivi, riprese e ampliò l'opera riformatrice del fratello. La legge agraria fu ritoccata e perfezionata e aumentati i poteri della commissione triumvirale. Poiché gran parte delle terre era già stata distribuita, Caio propose l'istituzione di nuove colonie di cittadini romani, sia in Italia sia nel territorio di Cartagine. Una legge frumentaria assicurò a ogni cittadino residente a Roma una quota mensile di grano a prezzo agevolato. Grandi granai dovevano custodire le grandi quantità di cereale necessarie per le distribuzioni. Con una legge giudiziaria Caio volle limitare il potere del senato in questo campo, integrando un cospicuo numero di cavalieri nel corpo da cui attingere per la formazione degli albi dei giudici e comunque riservando in esclusiva ai cavalieri il controllo dei tribunali permanenti cui erano affidati i processi di concussione e che perseguivano le malversazioni e le estorsioni dei magistrati ai danni dei provinciali. Così, i senatori-governatori non sarebbero più stati giudicati esclusivamente da giudici-senatori, ma da rappresentanti di quegli stessi cavalieri che prendevano in appalto le imposte e gestivano le grandi operazioni commerciali nelle province. Allo stretto monopolio dei cavalieri furono affidati anche gli appalti della riscossione delle tasse nella nuova provincia d’Asia. Un provvedimento prevedeva che il senato dovesse decidere prima delle elezioni consolari quali tra le province dovessero essere classificate consolari (dunque da assegnare ai futuri consoli): ciò per impedire che una scelta a posteriori fosse influenzata da ragioni personali o politiche. Al problema degli alleati Caio rispose con una legge che proponeva di concedere ai Latini la cittadinanza romana e la cittadinanza di diritto latino agli Italici. Ma anche questo provvedimento suscitò amplissime ostilità e non poté essere approvato. L’oligarchia senatoria, per contrastarli si servì del tribuno Marco Livio Druso. Approfittando dell'assenza di Caio, partito per l’Africa con Fulvio Flacco, Druso fece proposte di inusitata larghezza. Al suo ritorno a Roma, nel luglio del 122 a.C., Caio si rese conto che la situazione politica era mutata e la sua popolarità in grave declino. Candidatosi ancora al tribunato per il 121, non venne rieletto. Per abbattere ogni suo residuo prestigio, alla fondazione della colonia cartaginese furono collegati presagi funesti e si propose che la deduzione dovesse essere revocata (121 a.C.). Caio Gracco e Fulvio Flacco tentarono di opporsi alla votazione del provvedimento, ma scoppiarono gravi disordini: il console Lucio Opimio ordinò il massacro dei sostenitori di Gracco che avessero osato resistere: Fulvio Flacco perì negli scontri, Caio Gracco si fece uccidere da un suo schiavo.  Smantellamento della riforma agraria Poiché le riforme dei Gracchi rispondevano a problemi reali, gli ottimati non osarono abolirle, ma ne ridussero gli effetti, soprattutto quelli della legge agraria. I lotti attribuiti furono dichiarati alienabili e riprese la loro migrazione nelle mani dei più ricchi. Venne posto fine alle operazioni di recupero e riassegnazione delle terre, lasciando i possessi legittimamente occupati agli attuali detentori e fu abolita la commissione agraria.  Province, espansionismo e nuovi mercati: Asia, Gallia, Baleari, Dalmazia danubiana Prima del 133 a.C. Roma aveva dedotto sei province: Sicilia, Sardegna, Corsica, Spagna Citeriore, Spagna Ulteriore, Macedonia e Africa. La deduzione di una provincia è da considerare come “atto non di annessione, ma di guerra”. Per Roma si trattava di assumere la gestione diretta di un territorio talora solo in piccola parte assoggettato e larghe zone del quale erano ancora al di fuori del suo controllo, spesso perfino di una sua presenza. A ciò si deve aggiungere la natura istituzionalmente composita delle nuove acquisizioni, che comportava una molteplicità di condizioni e implicazioni con le quali era indispensabile confrontarsi. In un lasso di tempo ragionevole il magistrato fissava le linee generali di riferimento: questioni territoriali, statuto delle singole città e comunità, determinazione dell'ager publicus, regolamenti e condizioni fiscali, ecc. Una delle leges più note, la lex Rupilia, relativa alla Sicilia, è del 132 a.C.. L'espressione che indicava l'atto, redactio in formam provinciae, faceva riferimento alla formula provinciae, una sorta di prospetto ufficiale che descriveva gli ambiti geografici, gli statuti e gli obblighi delle singole comunità che si trovavano all'interno della circoscrizione provinciale, nonché la condizione giuridica e fiscale di ognuna di esse. Nel 133 a.C. il re di Pergamo Attalo III aveva lasciato il suo regno ai Romani. Aristonico si pose a capo di una rivolta che tenne testa per tre anni alle rivendicazioni di Roma. Dapprima fece appello allo spirito di indipendenza delle città greche, ma con scarso successo. Si rivolse allora alle popolazioni e alle comunità dell'interno, a cui fece balenare speranze di miglioramento sociale e di affrancamento da ogni sottomissione e schiavitù. Nel 129 a.C. la ribellione venne piegata e il console Manio Aquilio poté organizzare quanto restava del nuovo territorio nella provincia romana d'Asia; compito che fu terminato nel 126 a.C. Il corpo della provincia restò costituito dalle parti più importanti del precedente regno: a nord la Misia e la Troade, al centro la Lidia, poi la parte sud occidentale della Frigia, con anche la porzione della Caria che era stata data, e poi ripresa, ai Rodii. In questo modo Roma poneva piede stabilmente nella Penisola Anatolica ereditando in essa i problemi logistici, politici e confinari che erano stati del regno Attalide. La Gallia meridionale attirò poi l'attenzione e l'impegno romano. Rispondendo a una richiesta d'aiuto dell'alleata Marsiglia contro tribù celto-liguri e galliche, fu inviato prima Fulvio Flacco (125 a.C.), poi Caio Sestio Calvino che fondò il centro di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence). Nel 122-121 a.C. Cneo Domizio Enobarbo e Quinto Fabio Massimo, con le loro vittorie contro Allobrogi e Arverni, posero le basi per la nuova provincia narbonese, che fu organizzata intorno alla colonia romana di Narbo Martius. Consolidato il possesso delle isole verso la Spagna, nel 123 a.C. furono conquistate anche le Baleari. Nella maggiore di esse, Maiorca, furono fondate le due colonie romane di Palma e Pollenzia. Allo stesso tempo, ripetute campagne militari contro le tribù illiriche della Dalmazia avevano portato le armi e i mercanti romani a contatto con i paesi danubiani che si estendevano a nordovest dei confini della Macedonia.  I commercianti italici e l'Africa; Giugurta; Caio Mario Scipione Emiliano aveva regolato le questioni africane tramite la costituzione della provincia romana d'Africa e rapporti di buon vicinato con le città libere e con i figli di Massinissa. Tra essi si era imposto Micipsa che, morti i fratelli, era divenuto unico re di Numidia. La politica filoromana sua e del padre aveva attirato in Africa commercianti e uomini d'affari romani e italici, allettati dalle grandi potenzialità economiche della regione e dalla sua grande produttività soprattutto in grano e in olio. Morto nel 118 a.C. Micipsa, il regno numidico fu conteso tra i suoi tre eredi principali. Giugurta, suo nipote e figlio adottivo, si sbarazzò di uno di essi, Iempsale, assassinandolo. L'altro, Aderbale, fu costretto a rifugiarsi a Roma e a chiedere l'arbitrato del senato che optò per la divisione della Numidia tra i due superstiti: ad Aderbale la parte orientale, più ricca, a Giugurta quella occidentale, più vasta. Ma nel 112 a.C. Giugurta volle impadronirsi della porzione di regno assegnata ad Aderbale e ne assediò la capitale, Cirta. Compiendo un errore fatale, Giugurta, presa la città, fece trucidare non solo il rivale, ma anche i Romani e gli Italici che vi svolgevano la loro attività. Sotto l'impulso dei cavalieri, che vedevano compromessi i loro lauti proventi africani, Roma si vide costretta a scendere in guerra nel 111 a.C. Le operazioni militari furono condotte molto fiaccamente fino al 109 a.C.. tra gravi smacchi per le armi romane, accuse di incapacità e sospetti di corruzione, quando al comando della guerra fu posto il console Quinto Cecilio Metello, del cui seguito faceva parte Caio Mario. Metello riprese le redini del conflitto, sconfisse ripetutamente Giugurta, ma non riuscì a concludere una campagna tutta fatta di agguati, scaramucce, imboscate. Le reazioni degli ambienti commerciali non si fecero attendere: i mercanti del Nordafrica tempestarono i loro agenti e rappresentanti romani di lettere di protesta. In questo clima di forte polemica, Caio Mario venne eletto console nel 107 a.C. e, ignorando la proroga che il senato aveva già concesso a Metello, gli venne affidato il comando della guerra contro Giugurta. Mario non poteva vantare alcun antenato illustre ed era il primo della sua famiglia ad arrivare ai sommi vertici dello Stato. Egli incarnava un nuovo tipo di politico, uscito dall'ambiente dei ricchi possidenti equestri e dalla carriera militare: già agli ordini di Scipione Emiliano a Numanzia, poi creatura dei Metelli, che lo avevano aiutato a diventare tribuno della plebe nel 119 a.C., si era imparentato con una antica, anche se decaduta, famiglia patrizia sposando Giulia, zia del futuro Giulio Cesare.  L'arruolamento dei nullatenenti e la fine della guerra giugurtina Per ovviare al problema del reclutamento legionario si era via via diminuito il censo minimo per l'attribuzione dei cittadini alla quinta classe fino a cifre irrisorie. Mario, bisognoso di nuove truppe a lui fedeli e per far fronte ai gravi vuoti determinati dalla guerra contro Giugurta e dai massacri subiti a opera dei Cimbri e dei Teutoni, aprì l'arruolamento volontario ai capite censi, cioè a coloro che erano iscritti sui registri del censo per la loro sola persona, senza il minimo bene patrimoniale, dunque nullatenenti. Con il suo nuovo esercito, Mario ritornò in Africa, ma gli occorsero quasi tre anni per mantenere l'impegno di porre fine al conflitto e di catturare Giugurta. Piu che alcune vittorie e l'applicazione sistematica di tecniche di guerriglia nel deserto, valsero le trattative diplomatiche, già impostate da Metello, per rompere l'alleanza tra Giugurta e Bocco, re di Mauretania. Grazie soprattutto all'opera di Lucio Cornelio Silla, Bocco tradì Giugurta e lo consegnò ai romani. La Numidia orientale fu assegnata a un nipote di Massinissa, fedele a Roma, la parte rimanente a Bocco. Giugurta fu trascinato prigioniero a Roma. Mario, rieletto console (104 a.C.), celebrò il trionfo su di lui, che venne in seguito giustiziato.  Cimbri e Teutoni; ulteriori trasformazioni nell'esercito Nel frattempo, i Cimbri e i Teutoni avevano iniziato un movimento migratorio verso sud, spinti da problemi di sovrappopolamento o da maree rovinose, che avevano reso inabitabili le loro sedi originarie. Oltrepassato il un primo provvedimento si erano autorizzati i comandanti militari ad accordare la cittadinanza agli alleati che combattevano ai loro ordini. Venne poi approvata una legge che concedeva la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli e alle comunità che avessero deposto o deponessero rapidamente le armi. A questa si aggiunse la lex Plautia Papiria che estendeva la cittadinanza a quanti degli Italici si fossero registrati presso il pretore di Roma entro sessanta giorni. Nel medesimo anno Cneo Pompeo Strabone faceva attribuire il diritto latino agli abitanti dei centri urbani a nord del Po. Ai magistrati di queste comunità veniva così aperto l'accesso alla cittadinanza romana. Tali misure circoscrissero la rivolta, anche se questa si trascinò ancora con una certa virulenza, tanto che vi perdette la vita il console Lucio Porcio Catone. I successi più ragguardevoli furono conseguiti da Cneo Pompeo Strabone, che riuscì a espugnare Ascoli, e da Lucio Cornelio Silla, che riconquistò la maggior parte del Sannio e della Campania spezzando le ultime resistenze dei ribelli italici. Nell'88 a.C., eletto console, ne assediava l'ultima roccaforte, Nola. Con la concessione della cittadinanza a tutta l'Italia fino alla Transpadana si inaugurava sia un processo di unificazione politica dell'Italia sia una nuova fase nella storia delle istituzioni di Roma, con ripercussioni nella costituzione del corpo civico e nella vita stessa della città. Le aristocrazie italiche erano riuscite a fondare i presupposti per un loro accesso alle magistrature e un successivo ingresso in senato. Per esercitare i loro diritti i neocittadini dovevano recarsi a Roma per partecipare alle assemblee. Non tutti avrebbero potuto farlo, ma gli interessi di molti cominciarono a convergere verso la città. I PRIMI GRANDI SCONTRI TRA FAZIONI IN ARMI  Mitridate VI Eupatore Mentre Romani e Italici si affrontavano nella guerra sociale, una situazione sempre più allarmante era venuta a determinarsi in Oriente. I Parti della dinastia degli Arsacidi, avevano sottratto possedimenti orientali al regno seleucide, fino a occupare la Mesopotamia e la Babilonia e facendo dell’Eufrate la frontiera tra essi e la Siria. Nel 95 a.C. avevano imposto come loro vassallo quale re d'Armenia Tigrane. Nella Penisola Anatolica era in atto un forte frazionamento politico e Roma, installatasi sul territorio degli Attalidi con la costruzione della provincia d’Asia, vi aveva favorito la coesistenza di tanti piccoli Stati dinastici, limitandosi a vegliare che nessuno ne realizzasse l'unità. Ma, divenuto re del Ponto nel 112 a.C., Mitridate VI Eupatore era riuscito a stabilire accordi con la Bitinia per dividersi le limitrofe Paflagonia e Galazia e, impadronitosi poi della Colchide, aveva esteso il suo regno a sud, a est e a nord del Ponto Eusino. A partire dal 104 a.C. il senato romano era divenuto attento alle sue mosse e, impossessatosi Mitridate anche della Cappadocia, dopo la morte di Saturnino e Glaucia Mario si era recato presso di lui in una missione diplomatica di osservazione. Nel 92 a.C. era toccato a Silla intervenire per ripristinare sul trono di Cappadocia in re più gradito ai Romani: in questa occasione ebbe luogo anche il primo abboccamento di un governatore romano con un emissario del sovrano partico, che aveva posto piede in Commagene. Approfittando della guerra sociale, Mitridate aveva ripreso la sua politica espansionistica facendo invadere la Cappadocia da Tigrane e spodestando dalla Bitinia il nuovo re Nicomede IV. Roma decise di inviare in Oriente una legazione capeggiata da Manio Aquilio, con l'incarico di rimettere sui loro troni i legittimi sovrani di Bitinia e Cappadocia. Nicomede IV si ritenne autorizzato a condurre scorrerie nel territorio del Ponto. Mitridate ne chiese soddisfazione e, non avendola ottenuta, si decise alla guerra contro i Romani. La sua azione si fondò su un'opera di propaganda rivolta al mondo greco. Dilagato in Cappadocia, travolte le forze romane, fu presto padrone di tutta l'Asia. Per suo ordine più di ottantamila tra Romani e Italici vennero massacrati. Anche l'isola di Delo e Atene fecero causa comune con il nuovo liberatore. La guerra acquistava il carattere di una vera e propria sollevazione di gran parte del mondo greco contro il dominio romano. La sola Rodi rimase fedele a Roma. Verso la fine dell'88 a.C. un esercito pontico invadeva la Grecia centrale, ottenendo l'adesione della Beozia, di Sparta e del Peloponneso, mentre una flotta faceva vela verso l'Attica. Roma decise di reagire e affidò il comando della guerra a Lucio Cornelio Silla.  Il tribunato di Publio Sulpicio Rufo e il ritorno di Mario; Silla marcia su Roma Mentre Silla accelerava le operazioni intorno a Nola per poter marciare al più presto contro Mitridate, a Roma il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo si adoperava per privarlo del comando della guerra e riprendeva il problema dell'inserimento dei nuovi cittadini italici nelle tribù romane. Costretto a trasformare larghe masse di alleati in cittadini romani, il governo nobiliare aveva cercato di evitare che essi potessero sconvolgere i preesistenti equilibri politici. Il fatto che, al pari di tutti gli altri cittadini, essi dovessero venire iscritti nelle tribù poteva produrre mutamenti radicali. Il loro numero era tale che, se fossero stati ripartiti tra tutte e trentacinque le tribù e si fossero recati in massa a Roma per votare, sarebbero stati in maggioranza in ciascuna tribù. Si era perciò ricorsi all’espediente di immetterli in un numero limitato di tribù. In questo modo, poiché nei comizi tributi i cittadini votavano entro la tribù, e si contava un voto per ogni tribù, i neocittadini avrebbero potuto influire soltanto sul voto di poche tribù, mentre i vecchi cittadini avrebbero continuato a mantenere la prevalenza complessiva nell'organismo. Ma la guerra sociale e le azioni di Mitridate avevano avuto come conseguenza anche un impoverimento tanto dello Stato romano che dei singoli. Per far fronte a questi problemi Sulpicio Rufo propose una serie di provvedimenti: il richiamo dall'esilio di quanti erano stati perseguiti per collusioni con gli alleati italici; l'inserimento dei neocittadini in tutte le trentacinque tribù; un limite massimo di indebitamento di duemila denarii per ciascun senatore, oltre al quale ne sarebbe stata decretata l'espulsione dal senato. Fece approvare infine il trasferimento del comando della guerra contro Mitridate da Silla a Mario. Silla non esitò a marciare su Roma alla testa dei suoi soldati. Erano così divenuti palesi i primi esiti della riforma mariana dell'esercito: la truppa si sentiva ormai più legata al proprio comandante, con cui condivideva campagne e bottini, che a uno Stato che reputava dominato da una fazione ostile. Impadronitosi di Roma, Silla fece dichiarare i suoi avversari nemici pubblici: Sulpicio fu subito eliminato, Mario riuscì a stento a fuggire alla volta dell'Africa. Prima di recarsi in Oriente, Silla fece approvare alcune norme: ogni proposta di legge avrebbe dovuto essere approvata dal senato prima di essere sottoposta al voto popolare; i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Ciò ottenuto, partì alla volta dell’Oriente. Non era riuscito tuttavia a impedire che per l'87 a.C. venissero eletti consoli a lui non favorevoli.  Silla e la prima fase della prima guerra mitridatica Sbarcato in Epiro nell’87 a.C. e attraversata la Beozia, Silla cinse d'assedio Atene, che venne presa e saccheggiata. Direttosi nuovamente verso la Grecia centrale, sconfisse le truppe pontiche a Cheronea e successivamente a Orcomeno, in Beozia. Era la fine del predominio delle armate di Mitridate in Grecia.  Lucio Cornelio Cinna e l’ultimo consolato di Mario Il console Lucio Cornelio Cinna aveva ripreso la proposta di iscrivere i neocittadini italici in tutte le trentacinque tribù. Cacciato da Roma, si era rifugiato in Campania dove venne raggiunto da Mario, ritornato dall'Africa. Si ebbe così una nuova marcia su Roma. La città fu presa con la forza e Silla venne dichiarato nemico pubblico. In questo clima Mario fu eletto console insieme a Cinna per l'anno 86 a.C. ma morì poco dopo essere entrato in carica. Nel frattempo, un nuovo corpo di spedizione era stato inviato in Oriente a combattere contro Mitridate, in sostituzione di quello sillano. Cinna fu rieletto console di anno in anno fino all’84 a.C.. Fu risolta la questione della cittadinanza con l'immissione dei neocittadini in tutte le trentacinque tribù. Fu affrontato il problema dei debiti riducendone di tre quarti l'ammontare. Venne fissato un nuovo rapporto tra la moneta di bronzo e quella d'argento che sortì l'effetto di stabilizzarne il reciproco valore ufficiale. Verso la fine dell'84 a.C., alla notizia del ritorno di Silla, Cinna cercò di anticiparlo ammassando forze ad Ancona, in vista di un successivo sbarco in Grecia, ma fu ucciso da una rivolta dei suoi stessi soldati.  Conclusione della prima guerra mitridatica Nell'86 a.C. due armate romane di opposte fazioni si trovarono presenti in Grecia, una capeggiata da Silla e l'altra inviata da Cinna. Esse però non si scontrarono mai, ma agirono parallelamente, ricacciando Mitridate in Asia. La posizione del re pontico si fece via via più precaria: molti dei suoi alleati defezionarono. Silla, d’altronde, attento all'evolversi degli eventi in Roma, aveva fretta di chiudere le ostilità. Si giunse così a trattative di pace, che fu stipulata a Dardano a condizioni relativamente miti. Mitridate conservava il suo regno, ma doveva evacuare il resto dell'Asia: era obbligato a versare una forte indennità di guerra e consegnare la propria flotta. Nicomede IV recuperava il regno paterno di Bitinia e Ariobarzane la Cappadocia. Dopo aver incorporato l'esercito di Cinna e aver restaurato l'ordine in Asia e in Grecia, Silla sbarcò in Italia, a Brindisi, carico di bottino, nell'83 a.C.. La pace di Dardano non pose però fine alle ostilità in Anatolia, dove Lucio Licinio Murena, governatore d'Asia lasciato da Silla a capo dell'esercito nel settore, non cessò di effettuare incursioni in territorio pontico, accusando Mitridate di prepararsi a riprendere le armi. Dopo aver ottenuto ragione dal senato, all'ennesima provocazione Mitridate reagì sconfiggendo Murena e dilagando di nuovo in Cappadocia, finché entrambi i contendenti non furono fermati da Silla. Questo prolungamento del conflitto viene definito “seconda guerra mitridatica” (83-81 a.C.). Nel frattempo, la Siria era entrata nell'orbita di Tigrane, che ne aveva fatto una provincia meridionale del suo regno.  Le proscrizioni; Silla dittatore per la riforma dello Stato A Brindisi raggiunsero Silla il giovane Cneo Pompeo con tre legioni assoldate privatamente nel Piceno tra le vastissime clientele che il padre vi possedeva, e altri suoi fautori in armi. Silla impiegò due anni per trionfare sui suoi avversari. Nel primo anno riuscì a riprendersi l'Apulia, la Campania e il Piceno; l'anno successivo sconfisse Caio Mario il Giovane, si impadronì di Roma e, grazie all'aiuto di Marco Licinio Crasso distrusse le ultime resistenze avversarie nella battaglia di Porta Collina (82 a.C.), cui fece seguito il massacro di tutti i prigionieri. Restavano da eliminare gli oppositori mariani rifugiatisi in Africa e in Sicilia. In queste operazioni si distinse Cneo Pompeo. Per rendere definitiva la sua vittoria, Silla introdusse le liste di proscrizione, elenchi di avversari politici i cui nomi venivano notificati al pubblico: chiunque poteva ucciderli, i loro beni erano confiscati e venduti all'asta, i loro figli e discendenti esclusi da ogni carica. Ciò ebbe conseguenze importanti, perché contribuì a modificare la composizione dell'aristocrazia romana. Un certo numero di famiglie scomparve, altre si arricchirono a loro spese. Le proscrizioni continuarono fino a tutto l’81 a.C. Le comunità italiche che avevano parteggiato per i mariani subirono confische territoriali che furono utilizzate per dedurre colonie a favore dei veterani di Silla; centoventimila soldati vi furono insediati, alterando profondamente la fisionomia etnica, sociale ed economica di quelle regioni. Poiché entrambi i consoli dell'82 a.C. erano morti nel conflitto, il senato nominò un interrex, il princeps senatus Lucio Valerio Flacco, che presentò ai comizi una proposta che nominava Silla dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae (dittatore con l'incarico di redigere leggi e di organizzare lo Stato). Tale dittatura costituente era a tempo illimitato e, inoltre, non era incompatibile col consolato, che Silla rivestì nell’80 a.C. Il vecchio ordinamento non pareva più reggere dinanzi ai mutamenti che si erano succeduti: allargamento del corpo civico e sua estensione a tutta l'Italia, trasformazione delle comunità latine e italiche in municipia dello Stato romano, aumento del numero delle province, professionalizzazione dell'esercito, radicalizzazione della lotta politica e uso spregiudicato delle istituzioni tradizionali. Una parte dell'opera riformatrice di Silla era già stata anticipata da alcune norme da lui fatte approvare nell'88 a.C.: ogni proposta di legge avrebbe dovuto ottenere il consenso del senato prima di essere sottoposta al voto popolare; i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Il senato fu portato da Silla a seicento membri. La sua integrazione annuale venne sottratta ai censori; ne entrarono a far parte ogni anno allo spirare della carica, al pari degli altri magistrati, i questori, che furono aumentati a venti. Fu innalzato a otto il numero dei pretori per poter far fronte alle necessità derivanti dalla moltiplicazione dei tribunali permanenti che essi erano chiamati a presiedere. Questi tribunali vennero riservati in esclusiva al senato. Le loro competenze furono suddivise in modo che a ciascuno di essi spettasse uno solo dei principali reati: estorsione e concussione, alto tradimento, appropriazione di beni pubblici, broglio e corruzione elettorale, assassinio e avvelenamento, frode testamentaria e monetale, lesioni alle persone. Per limitare eccessive ostentazioni di ricchezza da parte dell'aristocrazia, Silla rinnovò la legislazione suntuaria che limitava le spese per banchetti e funerali. Vennero di nuovo regolamentati l'ordine di successione alle magistrature e le età minime per accedervi: questura (30 anni), edilità (36), pretura (39), consolato (42): nessuna carica avrebbe potuto essere iterata prima di un intervallo di dieci anni. Nell'anno successivo alla magistratura pretori e consoli accedevano in genere alle promagistrature, col titolo di propretori o proconsoli, recandosi ad amministrare le province fino ad allora costituite. Furono ridimensionati i poteri dei tribuni della plebe, limitato il loro diritto di veto e annullato quello di proporre leggi. Fu fatto divieto a chi avesse ricoperto il tribunato di poter accedere a qualunque altra carica. Vennero abolite le distribuzioni frumentarie. Il pomoerium (limite sacro del territorio cittadino) fu esteso lungo una linea virtuale tra Arno e Rubicone. Compiuta la riorganizzazione dello Stato, Silla abdicò dalla dittatura. Nel 79 a.C. si ritirò a vita privata nei suoi possedimenti in Campania, dove morì l'anno dopo.  Il tentativo di reazione antisillana di Marco Emilio Lepido Nel 78 a.C. Marco Emilio Lepido tentò di ridimensionare l'ordinamento sillano, proponendo il richiamo dei proscritti in esilio, il ripristino delle distribuzioni frumentarie a prezzo politico e la restituzione agli antichi proprietari delle terre confiscate a favore dei coloni insediati da Silla. L'opposizione scatenò una rivolta in Etruria dove più pesanti erano state le espropriazioni. Lepido, partito per assumere come proconsole il governo della provincia Narbonese, si fermò in Etruria dove fece causa comune con i ribelli e marciò su Roma, reclamando un secondo consolato e la restaurazione dei poteri dei tribuni della plebe. Il senato usò contro di lui l'arma del senatus consultum ultimum. Poiché non si erano ancora tenute le elezioni consolari, venne conferito a Pompeo l'imperium. La rivolta venne rapidamente stroncata. Lepido fuggì in Sardegna dove morì di lì a poco; il suo luogotenente Marco Perperna si trasferì con i resti del suo esercito in Spagna, a ingrossare le fila degli ex mariani capeggiati da Sertorio. Ma il primo strappo all'ordinamento sillano era stato compiuto.  L’ultima resistenza mariana; Sertorio Quinto Sertorio, dopo le prime vittorie di Silla, aveva raggiunto il suo posto di governatore della Spagna Citeriore, dove aveva creato una sorta di Stato mariano in esilio, coagulando altri esuli della sua fazione, Romani e italici residenti in Spagna e gran parte dei notabili delle popolazioni indigene. Tutti i tentativi di abbatterlo si erano rivelati vani. Verso la fine del 77 a.C. si erano congiunte a Sertorio anche le truppe superstiti di Lepido al comando di Marco Perperna. Questa consistente presenza di profughi gli consentì di istituire a Osca un senato di trecento membri e una scuola dove i capi delle tribù spagnole potevano inviare i loro figli perché vi fossero educati alla romana. Corsero a Roma voci di sue alleanze, strette per ampliare la propria sfera d'azione in vista di un attacco alla città stessa, con i pirati che avevano ripreso a infestare il Mediterraneo e con Mitridate che aveva rialzato il capo in Oriente. Il senato decise di ricorrere un'altra volta a Pompeo, affidandogli la Spagna Citeriore con attribuzione di un imperium straordinario. Arrivato in Spagna (76 a.C.), Pompeo si trovò in una posizione difficile, subendo da Sertorio alcune sconfitte solo in parte bilanciate dai progressi di Metello (75 a.C.). XII fu cacciato dall'Egitto da una sollevazione e si rifugiò a Roma. Qualche anno dopo, Aulo Gabinio lo riportò ad Alessandria con la forza. DAL “PRIMO TRIUMVIRATO” ALLE IDI DI MARZO  Il ritorno di Pompeo e il cosiddetto “primo triumvirato” Nel 62 a.C. sbarcò a Brindisi Pompeo e smobilitò subito il suo esercito convinto di ottenere dal senato la ratifica degli assetti territoriali e provinciali da lui decisi in Oriente e le ormai usuali concessioni di terre ai suoi veterani. In senato, però, i suoi avversari politici lo ricambiarono umiliandolo, facendo rimandare di giorno in giorno questi riconoscimenti in pratica dovuti, quando non addirittura opponendosi ad essi. Pompeo si riavvicinò allora a Crasso e al suo emergente alleato Cesare, con i quali strinse un accordo di sostegno reciproco (“primo triumvirato”). Fu invece un accordo privato e segreto, in base al quale Cesare avrebbe dovuto essere eletto console per il 59 a.C. e avrebbe dovuto varare una legge agraria che sistemasse i veterani di Pompeo. Anche Crasso avrebbe ottenuto vantaggi per i cavalieri e le compagnie di appaltatori che gli erano legati. L'accordo fu cementato anche col matrimonio tra Pompeo e la figlia di Cesare, Giulia.  Caio Giulio Cesare console L'accordo diede i suoi frutti e Cesare fu eletto console. Fece votare due leggi agrarie che prevedevano una distribuzione ai veterani di Pompeo di tutto l'agro pubblico rimanente in Italia, a eccezione della Campania, e di altre terre acquistate da privati; per i fondi necessari sarebbero stati utilizzati i bottini di guerra di Pompeo. In un secondo tempo venne incluso nelle assegnazioni l'agro campano. Furono poi fatte ratificare tutte le decisioni assunte da Pompeo in Oriente. Infine, com'era desiderio di Crasso, fu ridotto d'un terzo il canone d'appalto delle imposte della provincia d'Asia. Fu approvata una legge per i procedimenti di concussione, che ampliava e migliorava la precedente legislazione sillana in materia. Un altro provvedimento prevedeva la pubblicazione dei verbali delle sedute senatorie e delle assemblee popolari. Sul finire del consolato, il tribuno della plebe Publio Vatinio fece votare un provvedimento che attribuiva a Cesare per cinque anni il proconsolato della Gallia Cisalpina e dell'Illirico con tre legioni e il diritto di nominare i propri legati e di fondare colonie. Essendosi poco dopo reso vacante il governo della Gallia Narbonese, su proposta di Pompeo il senato dovette aggiungere alle competenze di Cesare anche l'assegnazione di questa provincia, con una quarta legione.  Il tribunato di Publio Clodio Pulcro Partendo per le province attribuitegli, Cesare volle, con Pompeo e Crasso, lasciare una spina nel fianco di quanti in senato gli erano stati ostili. Essi appoggiarono la candidatura al tribunato della plebe di Publio Clodio Pulcro, un ex patrizio che, coinvolto in uno scandalo e senza speranze di poter proseguire la carriera politica riservata al suo rango, l'anno precedente si era fatto adottare una famiglia plebea per potersi presentare al tribunato della plebe. Eletto tribuno, Clodio fece approvare un nutrita serie di leggi. Il potere dei censori di espellere membri dal senato venne limitato dal divieto di procedere nei confronti di chiunque senza un giudizio formale che consentisse agli interessati di difendersi e senza che si fosse raggiunta una concorde sentenza di condanna da parte di entrambi i censori. Nessun magistrato avrebbe più potuto interrompere le assemblee pubbliche adducendo l'osservazione di auspici sfavorevoli. Vennero di nuovo legalizzati i collegia, associazioni private con fini religiosi e di mutuo soccorso, che il senato aveva soppresso nel 64 a.C.. Fu abilità di Clodio sfruttare le funzioni iniziali di queste associazioni, per farne prima dei gruppi di pressione, poi delle bande armate organizzate al suo servizio; pronte alla sommossa o alla riunione politica, divennero un’arma temibile nelle mani degli agitatori. Le distribuzioni frumentarie ai cittadini romani residenti a Roma, fino ad allora a prezzo politico, dovevano divenire completamente gratuite; ciò comportò un progressivo aumento dei beneficiari, moltiplicati dalle immigrazioni verso la città e dall'incremento delle liberazioni di schiavi. Infine, con un provvedimento si comminava l'esilio a chiunque condannasse o avesse condannato a morte un cittadino romano senza concedergli di appellarsi al popolo. Cicerone, che aveva fatto giustiziare i catilinari, ne era il bersaglio evidente, e si allontanò da Roma. Anche Catone fu fatto allontanare con l'incarico di rivendicare il possesso dell'isola di Cipro dal Tolemeo che vi regnava e di effettuare le operazioni necessarie per incamerarne il patrimonio. Tolemeo di Cipro scelse la via del suicidio e l'isola fu infine aggregata alla provincia di Cilicia.  Cesare il Gallia Quando Cesare arrivò nelle sue province era in atto una migrazione di Elvezi verso occidente, che minacciava le terre degli Edui e forse la stessa provincia romana. Cesare attaccò e sconfisse gli Elvezi a Bibracte, costringendoli a ritornare nelle loro sedi. Cominciava così la lunga conquista cesariana della Gallia. Nel frattempo, un gruppo di Svevi condotto da Ariovisto, era passato sulla sinistra del fiume, chiamato in aiuto dai Sequani, confinanti e rivali degli Edui. Battuti ripetutamente gli Edui, Ariovisto aveva lasciato che parte dei suoi uomini si stanziassero in una porzione del territorio dei Sequani. Su richiesta degli Edui, Roma era intervenuta e aveva indotto il capo germanico a ritirare le sue genti al di là del Reno. Come compenso, era stato riconosciuto ad Ariovisto il titolo di re amico e alleato del popolo romano. Poiché le migrazioni verso l'Alsazia erano riprese, Cesare, dopo aver intimato ad Ariovisto di ritirarsi, procedette verso la capitale dei Sequani. Affrontò l’avversario in battaglia e lo sconfisse presso l'odierna Mulhouse, costringendolo a ripassare il Reno (58 a.C.). Conclusa questa campagna, Cesare ritornò in Cisalpina. La presenza romana nella Gallia centrale suscitò però a nord le reazioni delle tribù dei Belgi. Cesare riuscì a impadronirsi delle loro piazzaforti, riducendo alla resa prima i cantoni più meridionali poi le tribù più settentrionali. Nel frattempo, un legato di Cesare, Publio Licinio Crasso, si spingeva verso la Normandia, sottomettendo numerose tribù della Normandia e della Bretagna. I successi di Cesare erano dovuti in massima parte alla completa disunione delle tribù galliche, che quasi mai riuscirono a condurre una azione unitaria o concertata, ma anche alla grande capacità di Cesare di adattare la sua tattica al tipo di combattimento che la situazione di volta in volta esigeva, nonché alla sua abitudine di condividere tutte le fatiche della vita militare e i pericoli della battaglia con i suoi soldati. Alla fine del 57 a.C., forse a causa del precipitare della situazione politica a Roma, comunicò al senato che la Gallia poteva ritenersi pacificata, anche se circa la metà del paese non era stata neppure attraversata dalle armi romane. La notizia fu accolta con manifestazioni di entusiasmo popolare e celebrata con cerimonie di ringraziamento.  Gli accordi di Lucca e la prosecuzione della conquista della Gallia Terminato l'anno del suo tribunato, Clodio non aveva smesso di utilizzare le sue bande come strumento di pressione. Non potendo più opporre il proprio veto, i suoi avversari imposero il ritorno di Cicerone e si intesero con il tribuno della plebe Tito Annio Milone. Uno dei bersagli preferiti di Clodio divenne Pompeo, che aveva appoggiato i fautori del richiamo: nel 57 a.C. Cicerone era così potuto rientrare a Roma. Pompeo si trovò allora in una situazione di grave stallo politico. Venire allo scoperto significava esporsi al pericolo di fallire e di veder diminuita un'autorità che i suoi avversari e concorrenti si auguravano iniziasse a logorarsi. Ma il non far nulla rischiava di usurargli un capitale di prestigio che nessun nuovo incarico veniva ad arricchire, mentre quello di Cesare era in rapida ascesa. Egli fu pertanto ben lieto di accettare l'incarico che gli conferiva poteri straordinari, della durata di cinque anni, per provvedere all'approvvigionamento della città; tale mandato era reso necessario dal fatto che la popolazione di Roma era raddoppiata e le distribuzioni frumentarie gratuite di Clodio avevano contribuito ad aumentare le esigenze di vettovagliamento. Pompeo svolse la sua incombenza con efficienza, procurandosi larga popolarità. Contro Cesare, d'altro canto, veniva chiesto che si revocasse la legge sull'agro campano e uno dei candidati alle elezioni consolari per il 55 a.C., Lucio Domizio Enobarbo, lasciò intendere che, se eletto, avrebbe proposto la revoca del proconsolato di Cesare in Gallia. Cesare, dopo aver incontrato Crasso a Ravenna, si riunì con lui e Pompeo a Lucca, dove i tre si accordarono su questo progetto: il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prorogato per altri cinque anni, con un aumento a dieci del numero delle legioni a sua disposizione; i tre si sarebbero impegnati a far eleggere Pompeo e Crasso consoli per il 55 a.C.; dopo il consolato questi ultimi avrebbero ricevuto come province per cinque anni rispettivamente Pompeo le due Spagne e Crasso la Siria. Tutto si svolse come i tre avevano programmato. Tornato in Gallia, Cesare trovò la Bretagna in aperta rivolta. Cesare fece costruire sulla Loira un'armata di battelli che, grazie all’ingegno del suo legato Decimo Bruto, ebbe la meglio sui vascelli oceanici avversari. Egli poté allora rivolgere la propria attenzione sul fronte del Reno. Qui, due tribù germaniche, Usipeti e Tencteri, avevano attraversato il fiume, spingendo le loro scorrerie nel territorio dei Treveri. Cesare li annientò alla confluenza tra la Mosella e il Reno e, fatto costruire un ponte di barche su questo fiume, compì una breve spedizione sulla sua riva destra (55 a.C.). Nello stesso anno fu compiuta un’incursione esplorativa in Britannia. L'anno successivo ebbe luogo in Britannia una vera campagna militare con un contingente di cinque legioni, che consentì di raggiungere il Tamigi e portò alla sottomissione di parecchie tribù della costa. Il 53 a.C. trascorse nella repressione di rivolte scoppiate nelle regioni settentrionali della Gallia. La grande crisi si verificò nel 52 a.C. nella Gallia centro-occidentale sotto la guida Vercingetorìge, re degli Arverni. Cominciata con lo sterminio di Romani e Italici residenti a Cenabum, la sollevazione si estese a tutto il territorio compreso tra la Loira e la Garonna. Cesare, che si trovava nella Gallia Cisalpina, si precipitò in Arvernia dove pose l'assedio al centro fortificato di Gergovia. Non riuscendo a mantenerne il blocco, tentò di espugnare la città e fu respinto. A questo punto anche gli Edui defezionarono. Cesare fu costretto a dirigersi verso nord per ricongiungersi alle forze del suo legato Tito Labieno, che aveva sconfitto tribù insorte presso Lutetia Parisiorum e insieme inseguirono Vercingetorige che si rinchiuse nella piazzaforte di Alesia in attesa di rinforzi. Cesare fece cingere dai suoi uomini la città con due poderose linee di fortificazione, una interna per bloccare gli assediati, una esterna per sostenere gli assalti dei Galli accorsi in loro aiuto. Dopo un lungo scontro gli assalitori furono respinti e la piazzaforte costretta a capitolare. Vercingetorìge si arrese e fu inviato prigioniero a Roma dove, sei anni dopo, fu fatto sfilare dinanzi al carro trionfale di Cesare e poi decapitare ai piedi del Campidoglio. Frantumati l'uno dopo l'altro gli ultimi centri di resistenza, Cesare provvide per proprio conto a dare un primo ordinamento alla nuova provincia.  Crasso e i Parti Giunto in Siria (54 a.C.), Crasso aveva cercato di inserirsi nella contesa dinastica allora in atto nel regno dei Parti sia per i tradizionali problemi confinari sia per distinguersi in una campagna militare capace di dare anche a lui la fama di cui godevano Cesare e Pompeo. Alla morte del re Fraate III era sorta una lotta per il trono dei Parti tra i due figli di lui, Orode e Mitridate. Divenuto re Orode II, Crasso aveva deciso di appoggiarne il fratello rivale e si era spinto in Mesopotamia senza incontrare grandi resistenze. L'anno successivo si rimise in marcia attraverso le steppe della Mesopotamia, nonostante glielo sconsigliassero il re d'Armenia e i suoi stessi legati. Venuti in contatto con i Parti in una vasta pianura della Mesopotamia nord-occidentale, i Romani furono travolti dalla cavalleria corazzata partica e massacrati dalle frecce scagliate dagli arcieri a cavallo; lo stesso figlio di Crasso cadde sul campo di battaglia. Fu una delle sconfitte più gravi mai patite da Roma: le aquile di sette legioni furono catturate e la stessa provincia di Siria si trovò minacciata. Mentre si ritirava, Crasso fu preso e ucciso; l'accordo a tre perdeva così uno dei suoi protagonisti.  Pompeo console unico; guerra civile tra Cesare e Pompeo Trascorso l'anno del loro consolato comune, mentre Crasso era partito per la Siria, Pompeo era rimasto nei dintorni di Roma. Nel 54-53 a.C. cominciarono a venir meno i vincoli politici e familiari che univano Pompeo a Cesare: nel 54 a.C. era morta di parto Giulia, a cui Pompeo era molto legato (e Pompeo declinò ulteriori alleanze matrimoniali con Cesare, che questi gli offrì; preferì poi sposare Cornelia, divenuta vedova del figlio di Crasso); l'anno seguente era scomparso Crasso. A partire da questo momento, Pompeo iniziò ad accostarsi sempre di più alla fazione anticesariana. Intanto, la violenza e il caos politico dilagavano a Roma. Nel 53 a.C. non si era riusciti a eleggere in tempo i consoli e fu proposto (senza successo) di nominare Pompeo dittatore. All'inizio del 52 a.C. l'anarchia giunse al colmo: si affrontarono sulla via Appia le bande di Clodio, che aspirava alla pretura, e di Milone, candidato al consolato. Clodio rimase ucciso. Per evitare la disgregazione dell'ordine costituito, Pompeo venne nominato console senza collega. Egli fece votare leggi repressive in materia di violenza e di broglio elettorale che consentirono la condanna di Milone e il ristabilimento di un equilibrio precario. Approfittando dell'occasione, però, i nemici di Cesare tentarono di rimuoverlo in anticipo dalla sua carica e farlo tornare a Roma da privato cittadino. Cesare, come proconsole, era stato assente da Roma dal 58 a.C. e il suo mandato sarebbe scaduto secondo Cesare alla fine del 49 a.C., secondo i suoi avversari al più tardi nel 50 a.C. Cesare si trovava nella necessità di rivestire di nuovo il consolato congiungendolo senza interruzioni al proconsolato. Oltre a conservare il suo comando fino al termine stabilito, gli era dunque indispensabile poter presentare la sua candidatura restando assente da Roma, e tale privilegio gli era stato attribuito grazie a una legge che i dieci tribuni della plebe avevano fatto votare nel 52 a.C. Pompeo aveva però proposto un provvedimento che prescriveva che dovesse trascorrere un intervallo di cinque anni per raggiungere la pretura o il consolato. Pompeo si era fatto dispensare da questa regola e prorogare per altri cinque anni il proconsolato di Spagna, con il diritto di restare a Roma. Gli era stato associato allora un collega ed era ripresa la regolare nomina di coppie consolari. Una seconda legge aveva poi fatto obbligo a tutti di presentare le proprie candidature di persona ma, a disposizione approvata, era stato aggiunto un codicillo che riprendeva l'eccezione tribunizia a favore di Cesare. A partire dal 51 a.C. ebbero perciò inizio le discussioni sul termine dei poteri di Cesare. Con la nuova procedura diveniva molto più facile rimpiazzarlo: il successore di Cesare al governo della sua provincia poteva essere scelto in ogni momento fra quelle persone che avessero occupato una magistratura cinque o più anni prima, delle quali vi era ampia disponibilità. Con le vecchie norme, invece, la provincia di Cesare avrebbe dovuto essere dichiarata consolare preventivamente; costui avrebbe poi dovuto esercitare a Roma il suo anno consolare e solo dopo averlo esaurito avrebbe potuto assumere il comando della provincia; nel frattempo Cesare avrebbe conservato per proroga il suo posto. Nel 50 a.C. il tribuno della plebe Caio Scribonio Curione, propose che per uscire dalla crisi si dovessero abolire contemporaneamente tutti i comandi straordinari, sia quello di Cesare, sia quello di Pompeo. Il primo dicembre del 50 a.C. il senato si pronunciò a larghissima maggioranza nel senso che ambedue i proconsoli dovessero deporre le loro cariche. All'inizio del 49 a.C. Cesare inoltrò al senato una lettera nella quale si dichiarava disposto a deporre il comando se anche Pompeo l'avesse fatto, ma i suoi avversari ottennero invece che si ingiungesse a Cesare di porre fine unilateralmente alle sue cariche. Minacciato dal veto di due tribuni, dopo averli cacciati con la violenza, il senato votò il senatus consultum ultimum, affidando ai consoli e a Pompeo il compito di difendere lo Stato. Vennero inoltre nominatii successori di Cesare al governo delle province assegnategli. Appresa questa decisione, Cesare varcò in armi il torrente Rubicone, che segnava il confine tra la Gallia Cisalpina e il territorio civico di Roma, dando così inizio alla guerra civile. Pompeo abbandonò la città diretto a Brindisi per imbarcarsi verso l'Oriente. Cesare percorse l’Italia travolgendo le scarse resistenze, ma non riuscì ad arrivare in tempo per fermare il piano di Pompeo di trasferirsi in Grecia, bloccare con le sue flotte i rifornimenti e affamare l'Italia, per poi tentare la rivalsa con l'appoggio dei governatori e degli eserciti delle province a lui fedeli. Ritornato per breve tempo a Roma a sistemarvi gli affari più urgenti, Cesare cominciò ad affrontare la minaccia occidentale, rivolgendosi contro le coerede Quinto Pedio. Essi fecero revocare tutte le misure di amnistia e istituirono un tribunale speciale per perseguire gli assassini di Cesare. Ottavio fece anche ratificare la sua adozione dai comizi curiati, fregiandosi da allora del nome Caio Giulio Cesare. In Gallia Antonio si era congiunto con Lepido, attirando dalla propria parte altri governatori della Gallia e della Spagna. Decimo Bruto, isolato e abbandonato dai suoi soldati, fu ucciso mentre cercava di passare le Alpi orientali per congiungersi agli altri cesaricidi. Annullato il provvedimento senatorio che aveva dichiarato Antonio nemico pubblico, nell'ottobre del 43 a.C. Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono nei pressi di Bologna, dove stipularono un accordo in base al quale veniva istituito un triumvirato rei publicae constituendae, che diveniva una magistratura ordinaria per la durata di cinque anni fino alla fine del 38 a.C.: essa conferiva il diritto di convocare il senato e il popolo, di promulgare editti e di designare i candidati alle magistrature. Antonio avrebbe conservato il governatorato della Gallia Cisalpina e della Gallia Comata, Lepido avrebbe ottenuto la Gallia Narbonese e le due Spagne, Ottaviano l'Africa, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. A Ottaviano era toccata la parte peggiore: la Sicilia e la Sardegna erano minacciate da Sesto Pompeo, il figlio di Pompeo sopravvissuto alla guerra civile in Spagna, a cui il senato aveva conferito il comando delle forze navali che ormai egli gestiva in proprio, dominando il mare con le sue flotte. Le sue fila si erano infoltite di sbandati, diseredati, fuggitivi ed egli arrecava non pochi intralci ai commerci romani dell'Italia meridionale. I triumviri rivolsero le armi verso l'Oriente, dove i cesaricidi Bruto e Cassio si erano costituiti una solida base di potere, si erano procacciati una ingente quantità di denaro e avevano raccolto un consistente esercito. Ma prima si provvide alla divinizzazione di Cesare e all'istituzione del suo culto, di cui beneficiò soprattutto Ottaviano. Lasciati Lepido e Munazio a Roma come consoli, Antonio e Ottaviano partirono alla volta della Grecia. Lo scontro decisivo ebbe luogo a Filippi, in Macedonia (ottobre 42 a.C.). Ottaviano si trovò subito in difficoltà. Cassio, battuto da Antonio e credendo (a torto) anche Bruto sconfitto, si tolse la vita. Bruto decise di seguirlo sulla via del suicidio. Le proscrizioni, le guerre intestine e Filippi avevano decimato l’opposizione senatoria più conservatrice: molte famiglie della più antica aristocrazia, sopravvissute fino ad allora, furono dissolte. Il loro posto fu preso da una nuova aristocrazia. Un effetto consimile ebbero le epurazioni di ricchi e influenti esponenti delle comunità locali, che furono sostituiti nelle funzioni e nei beni da seguaci dei triumviri, spesso provenienti dai ranghi dell’esercito. Si realizzò così un mutamento radicale nella composizione e nelle mentalità delle élite di governo, più inclini a rapporti di dipendenza politica e personale.  Consolidamento di Ottaviano in Occidente; la guerra di Perugia; Sesto Pompeo; gli accordi di Brindisi, di Miseno e di Taranto; Nauloco Dallo scontro con i cesaricidi usciva rafforzato il prestigio militare di Antonio, che si trovò a trattare con gli altri triumviri da una posizione di forza. Egli si riservò, cumulandolo a quello sulle Gallie, il comando su tutto l’Oriente, da cui intendeva intraprendere un piano di conquista del regno partico come fedele continuatore dell'opera di Cesare. A Lepido fu assegnata l'Africa. Ottaviano ebbe le Spagne, il compito di sistemare in Italia i veterani delle legioni, oltre a quello di vedersela con Sesto Pompeo che dominava la Sicilia e a cui si erano uniti i superstiti delle proscrizioni e di Filippi. L'incarico di procedere all'assegnazione di terre ai veterani era tra i più difficili perché, non essendo rimasto più agro pubblico da assegnare, si trattava di espropriare terreni nei territori delle diciotto città d'Italia che erano state destinate allo scopo. Venivano colpiti soprattutto gli interessi dei piccoli e medi proprietari terrieri. Le proteste sfociarono nel 41 a.C. in aperta rivolta. Ottaviano fu costretto ad affrontare gli insorti, che si chiusero a Perugia; dopo un feroce assedio la città fu espugnata e abbandonata al saccheggio. Molti fuggirono a infoltire le fila di Sesto Pompeo che, impadronitosi anche della Sardegna e della Corsica, batteva i mari e impediva i rifornimenti dell'Italia e di Roma. Ottaviano, intanto, aveva provveduto ad appropriarsi delle Gallie. Profilandosi la possibilità di un'alleanza tra Antonio e Sesto Pompeo, Ottaviano si avvicinò a quest’ultimo sposando Scribonia, sorella di Lucio Scribonio Libone, suocero di Sesto Pompeo. Antonio si mosse dall'Oriente verso l'Italia, ma in un primo momento gli fu persino impedito di sbarcare. Poi, grazie alla mediazione di amici comuni, Ottaviano e Antonio si incontrarono a Brindisi, dove venne sottoscritta un'intesa (accordo di Brindisi: ottobre 40 a.C.), in forza della quale ad Antonio veniva assegnato l'Oriente, a Ottaviano l'Occidente (esclusa l'Africa, riservata a Lepido). Antonio, inoltre, sposava Ottavia, sorella di Ottaviano. La situazione venne però di nuovo complicata dalle rivendicazioni di Sesto Pompeo, che aveva ripreso a bloccare le forniture di grano che venivano a Roma dalle regioni oltremare. Antonio fu costretto a tornare ancora una volta dalla Grecia per presenziare con Ottaviano all'accordo di Miseno (39 a.C.): Sesto Pompeo vedeva riconosciuto da Ottaviano il governo di Sicilia, Sardegna e Corsica, a cui veniva aggiunto da parte di Antonio il Peloponneso: egli era nominato inoltre àugure ed era designato per un futuro consolato. Gli esuli che si erano uniti a lui ottennero l'amnistia. L’equilibrio durò tuttavia assai poco. Sesto Pompeo riprese le azioni di scorreria contro l'Italia (38 a.C.). Ottaviano allora ripudiò Scribonia e l'anno successivo passò a nuove nozze con Livia Drusilla, moglie divorziata di Tiberio Claudio Nerone. Nel frattempo, Sesto aveva perduto la Sardegna e la Corsica, che un suo luogotenente aveva consegnato a Ottaviano. Divampò presto la lotta per il possesso della Sicilia. Ottaviano la iniziò con una sconfitta e fu costretto a chiedere l'appoggio di Antonio e a concludere un accordo con lui a Taranto per ottenere rinforzi. Fu così rinnovato per altri cinque anni il triumvirato, che era scaduto alla fine del 38 a.C., e venne poi convalidato dall'assemblea popolare. Ottaviano, inoltre, avrebbe ricevuto da Antonio 120 navi per la guerra contro Sesto Pompeo, ma avrebbe dovuto fornire ad Antonio 20.000 legionari per la sua campagna partica. Nel frattempo, Marco Vipsanio Agrippa, con una considerevole opera di ingegneria aveva fatto collegare i laghi Averno e Lucrino al mare, costruendo in tal modo un porto militare presso Pozzuoli dove aveva potuto riunire e addestrare una flotta consistente. Con queste navi nel 36 a.C. Agrippa inferse a Sesto una duplice sconfitta a Milazzo e a Nauloco. Sesto Pompeo fuggì in Oriente, dove venne ucciso l'anno dopo. Lepido, che aveva preso parte con Ottaviano alle operazioni, pretese di rivendicare per sé il diritto al possesso dell'isola; ma le sue truppe lo abbandonarono e a Ottaviano fu facile farlo dichiarare decaduto dai poteri di triumviro e impossessarsi dell'Africa. Conservando solo formalmente la funzione di pontefice massimo, Lepido visse in disparte dalla vita politica fino al 12 a.C. Al suo ritorno a Roma, Ottaviano fu ricolmato di onori: tra essi l'inviolabilità propria dei tribuni della plebe che, aggiunta all'imperium che egli deteneva come triumviro, costituì poi la base da lui scelta per fondare il principato. Ormai padrone incontrastato dell’Occidente, a Ottaviano non mancava che la gloria militare. Se la procacciò con due anni di dure campagne contro gli Illiri in Pannonia e in Dalmazia, che da tempo stavano creando problemi (35-34 a.C.).  Antonio in Oriente Negli anni successivi alle battaglie di Filippi, Antonio aveva concentrato tutte le sue attenzioni sull'Oriente. Le sue prime necessità furono finanziarie: pesanti tributi furono imposti alle comunità dell'Asia, accusate di aver sovvenzionato i cesaricidi. Egli si preoccupò poi di procurarsi l'alleanza di re e di principi orientali. Il regno più potente era allora l'Egitto, che costituiva un’immensa riserva di risorse economiche sotto il regno congiunto di Cleopatra VII e del figlio natole da Cesare, Tolemeo Cesare. Convocata a Tarso nel 41 a.C., la regina indusse il triumviro a trascorrere l'inverno del 41- 40 a.C. come suo ospite in Egitto. Dalla loro unione nacquero due gemelli. Nella primavera del 40 a.C. i Parti invasero la Siria e, dopo aver travolto i governatori antoniani, dilagarono in Asia Minore e in Giudea. Antonio non poté reagire a questi primi rovesci perché richiamato in Italia dalle conseguenze della guerra di Perugia. Vi si trattenne, dopo aver stipulato gli accordi di Brindisi e sposato la sorella di Ottaviano, Ottavia, fino alla metà del 39 a.C. Poi partì con lei alla volta di Atene. Poco prima della fine del 39 a.C. il generale antoniano Publio Ventidio Basso riuscì a respingere i Parti dai territori provinciali romani; nel 38 a.C., divenuto governatore di Siria, fronteggiò un loro nuovo tentativo di invasione e li ricacciò al di là dell'Eufrate. Nel 37 a.C. si aprì in Partia una crisi dinastica. Antonio non poté approfittarne perché fu costretto a recarsi a Taranto per il rinnovo del triumvirato. Dopo l'accordo di Taranto, Antonio poté ritornare in Oriente. Nella restante parte del 37 a.C. egli cercò dare un nuovo assetto ai territori d'Oriente in vista dell'inizio dell’impresa partica. Nell'autunno del 37 a.C. ritrovò Cleopatra e riconobbe i gemelli che aveva avuto da lei. L’attribuzione di territori che erano stati romani a principi locali e l'assegnazione all'Egitto di una parte della Cilicia, della Fenicia, della Celesiria, di una porzione dell'Arabia e di Cipro contribuirono a offrire elementi di sdegno alla campagna diffamatoria nei confronti di Antonio che Ottaviano stava montando in Italia. Nella primavera del 36 a.C. Antonio diede inizio alla sua grande spedizione partica. Attraverso l'Armenia, egli invase il regno partico da nord, giungendo ad assediare Fraaspa. Avendo però perduto le macchine d'assedio, distrutte dai Parti durante l'avanzata, non riuscì a prendere la città e dovette ritirarsi. Il 35 a.C. fu trascorso in preparativi per una nuova invasione della Partia e dell'Armenia, che ebbe luogo nel 34 a.C. col solo risultato della conquista dell'Armenia. Nel 35 a.C. si era intanto consumata la definitiva rottura tra Antonio e Ottaviano, in seguito alla beffa giocata da quest'ultimo al collega all'indomani della sua ritirata partica. In luogo dei 20.000 legionari che si era impegnato a fornirgli con gli accordi di Taranto, egli restituì ad Antonio solo 70 delle navi da lui ricevute e gli inviò la sorella Ottavia con 2.000 uomini. Antonio cadde nella provocazione e ingiunse a Ottavia di ritornarsene indietro, dopo averla fatta fermare ad Atene. La trappola era così scattata e la situazione ribaltata: Ottaviano era l'offeso, l'oltraggiata la sorella, una donna romana e moglie legittima scacciata a causa di Cleopatra, un'amante orientale. Per tutta risposta Antonio celebrò la conquista dell'Armenia con una fastosa cerimonia ad Alessandria (34 a.C.), confermando a Cleopatra e a Tolemeo Cesare il trono dell’Egitto, di Cipro e della Celesiria e attribuendo altri territori ai figli da lui avuti con Cleopatra. Ottaviano non poteva gradire di vedere così innalzato il figlio naturale del suo divino padre.  Lo scontro finale; Azio Antonio non ebbe più tempo per intraprendere un'altra impresa partica. Nel 32 a.C. il triumvirato si avviava alla sua scadenza naturale. I due consoli del 32 a.C., Cneo Domizio Enobarbo e Caio Sosio, chiesero la ratifica delle decisioni prese da Antonio in Oriente. Ottaviano ne impedì al senato l'approvazione. Entrambi i consoli e trecento senatori decisero di abbandonare l'Italia per rifugiarsi presso Antonio. Quest'ultimo rispose inviando a Ottavia un formale atto di ripudio. Rivelando ad arte un testamento in cui Antonio disponeva di essere sepolto ad Alessandria accanto a Cleopatra e attribuiva regni ai figli avuti con la regina, Ottaviano ottenne che il triumviro venisse privato di tutti i suoi poteri, anche del consolato del 31 a.C., stabilito già da lungo tempo. Si presentò dunque come il difensore di Roma e dell'Italia contro una regina avida e infida, capace di corrompere e snaturare l'animo di un grande generale romano, fino a trasformarlo in un despota orientale e a portarlo ad agire contro l'interesse della sua stessa patria. Ottenuto un giuramento di concorde fedeltà da tutta l'Italia e dalle province occidentali, poté intraprendere una sorta di guerra santa dell'Occidente contro l'Oriente. Lo scontro determinante avvenne nel Mar Ionio dinanzi ad Azio (settembre 31 a.C.), con una battaglia navale vinta da Agrippa per Ottaviano. Antonio e Cleopatra si rifugiarono in Egitto, preparando un'ultima resistenza. Ma quando Ottaviano, ormai padrone della parte orientale del Mediterraneo, penetrò in Egitto con le sue truppe e prese Alessandria (1 agosto 30 a.C.), prima Antonio e poi Cleopatra si suicidarono. L'Egitto fu dichiarato provincia romana. Nel frattempo, anche Tolemeo Cesare, era stato opportunamente eliminato. L’IMPERO DA AUGUSTO ALLA CRISI DEL III SECOLO AUGUSTO  Azio e la cesura tra storia repubblicana e storia del Principato Nel 31 a.C. Ottaviano si trovò a essere padrone assoluto dello Stato romano. La conclusione delle guerre civili lasciava tuttavia aperta la difficile questione della veste legale da dare al potere personale del vincitore. L'ipotesi di un regime apertamente monarchico, che sostituisse e rinnovasse le istituzioni repubblicane, era forse stata progettata da Cesare, ma il suo assassinio in senato aveva decretato il fallimento di questo disegno. Le soluzioni via via adottate da Ottaviano furono dunque restauratrici nella forma, anche se innovative nella sostanza, e finirono per segnare una cesura nella storia romana. Uno dei più comuni errori di prospettiva è spesso stato o quello di ritenere che il disegno che alla fine emerse dal lungo periodo di preminenza di Ottaviano-Augusto sia stato fin dall'inizio frutto di un suo chiaro e compiuto progetto politico. Non è corretto neanche pensare l'esatto contrario, cioè che il risultato finale sia stato frutto di isolati tentativi non rapportabili a un piano complessivo. In realtà, le forme che scaturirono dalla duratura presenza dell’imperatore sulla scena politica siano state frutto di continui aggiustamenti e ripensamenti pur connessi a una logica di fondo. Ciò che noi chiamiamo “impero” si è definito e consolidato per tappe successive. Convenzionalmente, tuttavia, con il 31 a.C. si suol fare iniziare il Principato, il regime istituzionale incentrato sulla figura di reggitore unico del potere, il princeps. Il problema di una nuova sistemazione dei rapporti tra Roma, l’Italia e il Mediterraneo aveva segnato l'ultimo secolo della Repubblica e spesso l'amministrazione dei territori conquistati aveva costituito la principale fonte di risorse per finanziare la carriera politica dei magistrati del ceto dirigente e le compagnie di appaltatori, trasformate in strumento di potere e oggetto di contrasti all’interno della politica di Roma. La razionalizzazione dell’amministrazione attuata da Augusto e dai suoi successori, la progressiva integrazione in senato delle élite delle diverse regioni dell'Impero e il ruolo politico e sociale degli eserciti dislocati nelle province, faranno sì che la “storia romana”, a partire da Augusto, divenga sempre più “storia dell'Impero”, intesa come storia del rapporto e dell'integrazione di territori e popolazioni rispetto al centro del potere.  Il rapporto con gli organismi repubblicani e il potere del principe: la translatio Dello Stato al volere decisionale del Senato e del popolo romano nel 27 a. C. Il ritorno in Italia di Ottaviano, ad agosto del 29 a.C., fu segnato dalla celebrazione di tre trionfi: per le campagne dalmatiche del 35-33 a.C., per la vittoria di Azio del 31 a.C. e per la vittoria sull'Egitto del 30 a.C.. Dall'anno 31 al 23 a.C. Ottaviano-Augusto venne eletto console, detenendo il consolato per l'intero anno, in posizione di chiara preminenza fino al 28 a.C. e condividendo sempre la carica con membri fidati della sua fazione. Il processo di riconoscimento giuridico della nuova forma istituzionale iniziò nel 27 a.C. All’inizio dell'anno Ottaviano entrò nel suo settimo consolato, avendo come collega Agrippa. In una famosa seduta del senato, il 13 gennaio, Ottaviano rinunciò formalmente a tutti i suoi poteri straordinari, accettando solo un imperium proconsolare per dieci anni sulle province non pacificate: Spagna, Gallia, Siria, Cilicia, Cipro ed Egitto. Qualche giorno dopo il senato lo proclamò “Augusto”, un epiteto che lo sottraeva alla sfera politica per proiettarlo in una dimensione sacrale, religiosa. Si aggiunsero la concessione della corona civica fatta di foglie di quercia, che gli venne assegnata per essersi prodigato per la salvezza dei cittadini, e l'onore di uno scudo d'oro, che fu appeso nell'aula del senato, sul quale erano elencate le virtù di Augusto. L'architettura istituzionale da lui adottata si rivela ispirata alla prudenza e al compromesso con la tradizione senatoriale repubblicana. Non si deve dimenticare però che essa traeva origine dalla drammatica esperienza delle guerre civili e che non era più immaginabile che si ponesse in discussione l'opportunità che il potere venisse detenuto da un solo individuo. La nuova organizzazione dello Stato rappresentava il definitivo superamento delle istituzioni della città-stato. Il principe si poneva come un punto di riferimento e di equilibrio fra le diverse componenti della nuova realtà che, equestre, il praefectus annonae. Alla morte di Agrippa, la cura dell'approvvigionamento idrico, il mantenimento degli edifici pubblici e sacri, la cura delle strade e delle rive del Tevere passò a collegi di senatori. Per la prevenzione degli incendi, Augusto creò un corpo di vigili del fuoco, organizzati in sette coorti di 500-1.000 uomini, ciascuna delle quali doveva proteggere due dei 14 quartieri in cui aveva diviso Roma. Anche a capo dei vigili fu meso un prefetto di ordine equestre. Il governo di Roma era invece attribuito a un praefectus Urbi appartenente all'ordine senatorio. L’Italia non fu interessata da riforme amministrative. Dopo la Guerra Sociale e la legislazione cesariana tutti gli abitanti dell'Italia erano diventati cittadini romani. Le circa 400 città italiche godevano di autonomia interna, erano dotate di un proprio governo municipale e non erano soggette all'imposta fondiaria. Augusto divise l'Italia in 11 regioni, che servivano in primo luogo per il censimento delle persone e delle proprietà, ma non vi erano funzionari amministrativi responsabili di queste suddivisioni. I più importanti provvedimenti riguardarono l’organizzazione di un sistema di strade e di un servizio di comunicazioni, affidato alla responsabilità dei magistrati municipali e organizzato da un praefectus vehiculorum equestre. Vi furono inoltre numerose iniziative di rinnovamento edilizio nelle città dell'Italia: porte, mura, strade, acquedotti. L'amministrazione delle province, invece, vide un cambiamento di natura soprattutto politica, che rifletteva la duplicità di sfere delle competenze che si era determinata nello Stato tra princeps da un lato e popolo e senato dall'altro. Le province che ricadevano sotto la responsabilità diretta di Augusto erano quelle in cui si trovavano una o più legioni. Queste province “non pacificate”, ovvero di frontiera o di recente conquista, crebbero dalle iniziali 5 fino a raggiungere il numero di 13 alla fine del suo principato. Tali province venivano governate da appositi legati, i legati Augusti pro praetore, scelti tra i senatori di rango pretorio o consolare a seconda del numero di legioni assegnate a ciascuna provincia: la qualifica di propretore indica che essi erano subordinati all'imperium di tipo proconsolare detenuto da Augusto. I legati, il cui mandato era di durata variabile a discrezione della volontà del principe, avevano il governo della provincia e il comando delle legioni, ma non il potere di riscuotere le tasse, la cui organizzazione era affidata a procuratori di rango equestre. Nelle altre province, quelle di competenza del popolo romano, in genere prive di legioni al loro interno, i governatori erano sempre senatori, ma in questo caso erano scelti a sorte tra i magistrati che avevano ricoperto la pretura o il consolato. Restavano in carica un solo anno e comandavano le forze militari presenti nella loro provincia assistiti dai questori. Anche nelle province del popolo Augusto poteva intervenire in virtù del suo imperium maius. Un'eccezione a questo ordinamento era costituita dall'Egitto, assegnato a un prefetto di rango equestre. Il prefetto d’Egitto comandava le legioni ivi installate ed era responsabile dell'amministrazione e della giustizia. Vi furono alcune regioni rette da cavalieri, come la Giudea, le Alpi Marittime e Graie e la Rezia e il Norico, ma si trattava spesso di piccoli territori, con caratteristiche particolari o esigenze militari specifiche. Spesso, inoltre, i governatori equestri erano soggetti al comando del governatore di rango senatorio della provincia vicina. A seconda delle necessità, comunque, furono adottate le soluzioni più idonee: una provincia come la Betica passò dalla sfera di competenza di Augusto a quella del popolo; altre province al contrario, al manifestarsi di fermenti di guerra, passarono sotto il controllo del principe. Fu necessario, inoltre, creare un sistema razionale per l'esazione di imposte e tasse, che mitigasse lo sfruttamento brutale delle requisizioni adottate per le guerre civili ed esterne. Augusto stabilì nuovi criteri per determinare l'ammontare dei tributi meglio commisurati alle capacità contributive dei provinciali. Il nuovo sistema aveva come presupposto una misura dei terreni, su cui era imposta la tassa fondiaria, il tributum soli, e il censimento della popolazione, con cui si determinava il numero dei provinciali non cittadini romani, che dovevano pagare la tassa pro capite.  L'esercito, la “pacificazione” e l'espansione All’indomani di Azio, gli uomini impegnati nell'esercito superavano le necessità e i mezzi dell'Impero. La paga dei soldati gravava sulla cassa dello Stato, in cui confluivano le imposte regolari delle province, ma i costi della liquidazione dei veterani rappresentavano un peso molto alto e in un primo tempo furono sostenuti con il bottino di guerra e con il patrimonio personale di Augusto. Si trattava di smobilitare gli antichi combattenti conservandone il favore. In un primo tempo i veterani ricevettero soprattutto terre, mentre in seguito ottennero per lo più del denaro. Infatti, la creazione di una cassa speciale nel 6 d.C., finanziata con i proventi di una tassa apposita sulle eredità, garantì al soldato che avesse ottenuto l’honesta missio (certificato di servizio onorevole) un premio di congedo. Con Augusto il servizio militare nelle legioni fu riservato a volontari, che per lo più erano ancora italici, anche se incominciava a essere apprezzabile il contributo dei provinciali. L'esercito era formato da professionisti, che restavano in servizio per venti e più anni e che ricevevano un soldo di 225 denari l'anno. Si costituì così una forza permanente effettiva composta da 25 legioni, ciascuna delle quali era designata da un numero e da un nome. Un'altra innovazione importante fu l'istituzione di una guardia pretoriana permanente, affidata al comando di un prefetto di rango equestre. Si trattava di un corpo militare d'élite composto da nove coorti che godeva di privilegi quali un soldo più elevato e migliori condizioni di servizio. Augusto costituì inoltre dei contingenti regolari di truppe ausiliarie di fanteria e cavalleria reclutate tra i popoli soggetti all'Impero. Al congedo, chi vi aveva militato otteneva la cittadinanza romana. La flotta stazionava in due porti, a Miseno e a Ravenna, ed era sottoposta al comando di un prefetto equestre. Anche i marinai, una volta congedati, divenivano cittadini romani. Innegabili furono i successi di Augusto anche nella “politica estera”. Ciò non toglie che durante il suo regno le acquisizioni territoriali vere e proprie dell’Impero furono limitate, malgrado guerre lunghe e impegnative su tutti i fronti. È questione controversa se questo sia stato il risultato di una scelta consapevole oppure il prodotto di una somma di circostanze occasionali. Non va dimenticato che Augusto compì in tre occasioni, nel 29 a.C. (dopo la vittoria di Azio), nel 25 a.C. (in seguito alla guerra cantabrica) e nel 10 a.C. (dopo la spedizione in Arabia), un atto di grande valore simbolico: la chiusura del tempio di Giano, una sorta di gesto propagandistico per indicare che iniziava una stagione di pace. Augusto preferì affidare alla diplomazia, piuttosto che alle armi, le questioni orientali. In Egitto furono estesi i confini meridionali grazie all’azione del primo prefetto d’Egitto, C. Cornelio Gallo, che concluse un accordo con gli Etiopi; il secondo prefetto d' Egitto condusse anche una spedizione fino allo Yemen meridionale, per assicurare le vie commerciali con l’Oriente. I confini con il regno partico vennero invece stabilizzati grazie a trattative diplomatiche e grazie ai rapporti politici stretti con gli Stati contigui ai territori provinciali. Con i sovrani di tali regni furono stretti trattati di amicizia che li ponevano in un rapporto di patronato-clientela con l’imperatore, tanto che sono spesso definiti “regni clienti” di Roma. Si creavano in questo modo alcuni Stati cuscinetto nell'ambito dell'egemonia romana, che assolvevano a una funzione di controllo su zone poco urbanizzate al margine del deserto. Al di là dell'Eufrate vi era l’Armenia, dove gli interessi di Roma si scontravano con quelli dello Stato partico. Nelle trattative diplomatiche del 20 a.C., Augusto era riuscito a farsi restituire le insegne delle legioni romane di Crasso e Antonio da parte di Fraate IV, re dei Parti. Nello stesso anno, Tiberio, il figlio di primo letto di sua moglie Livia, riuscì a incoronare re d'Armenia Tigrane II, che divenne re cliente di Roma. Attraverso questa politica di accordi Augusto riduceva l'intervento militare e amministrativo in Oriente per concentrarsi sull'Occidente. Il vero teatro degli scontri militari del principato di Augusto fu infatti in Occidente. Nei primi anni di regno gli interventi militari si concentrarono nella penisola iberica, che fu pacificata, e nell'area alpina occidentale, dove furono sottomessi i Salassi della Val d'Aosta e fu fondata la colonia di Augusta Praetoria. Nel 21-20 a.C. L. Cornelio Balbo estese il controllo romano nell'Africa meridionale e sud occidentale contro le tribù dei Garamanti. Fu l'ultimo generale romano a celebrare un trionfo. Ma fu sul confine renano e danubiano che gli eserciti romani furono impiegati per lungo tempo e i confini furono ampliati stabilmente con l’occupazione di nuovi territori. La conquista dell'arco alpino centrale sino all'alto corso del Danubio fu realizzata nel 16 e nel 15 a.C. dai figliastri di Augusto, Tiberio e Druso. Pochi anni dopo, fu occupata la Pannonia (Ungheria). La successiva acquisizione della Mesia (Bulgaria) segnò il definitivo consolidamento della frontiera danubiana. La propaganda di Augusto non riuscì, tuttavia, a mascherare l’insuccesso della mancata sottomissione della Germania. L'obiettivo da conseguire doveva essere la linea del fiume Elba. All'Elba i Romani arrivarono con Druso nel 9 a.C. e, in seguito, anche con altri generali, ma il territorio germanico a oriente del Reno non fu mai stabilmente sottomesso. Nel 6 d.C. scoppiò una grande rivolta delle tribù germani che riuscirono a far fronte comune contro l'invasore. Nel 9 d.C., nella foresta di Teutoburgo, Quintilio Varo fu sconfitto da Arminio e tre legioni risultarono annientate. Si condussero altre spedizioni in Germania, ma ormai si trattava di operazioni di carattere limitato. La frontiera doveva rimanere il Reno.  La successione I particolari poteri che Augusto aveva via via ricevuto dal senato non costituivano una vera e propria carica a cui dopo la sua morte qualcuno potesse succedere, né tali poteri e tale posizione potevano essere trasmessi con un singolo atto a una persona fidata senza ledere le prerogative dell'ordinamento repubblicano. Augusto, che non aveva figli maschi, ma solo una figlia, Giulia, doveva trovare dunque il modo di far sì che la sua posizione di potere non andasse perduta con la sua morte, ma rimanesse nella sua famiglia, senza tuttavia imporre una svolta monarchica alle istituzioni. La prima preoccupazione di Augusto fu quella di integrare la propria famiglia nel nuovo sistema politico e nella propaganda ideologica, celebrandone l'ascendenza divina. Nella sua veste di pater familias sottolineava inoltre il carattere romano tradizionale della propria gens e la ampliava con i successivi matrimoni della figlia Giulia e le adozioni. Il ruolo di primo piano assunto dalla domus principis gli consentiva di trasferire al proprio erede anche clientele e il prestigio che secondo la tradizione romana appartenevano al patrimonio di una famiglia della nobiltà gentilizia. La posizione del princeps nello Stato veniva rafforzata dai meriti dei suoi figli adottivi e delle persone della sua cerchia. L’erede scelto all'interno della famiglia avrebbe ricevuto il patrimonio privato e anche una sorta di prestigio che gli garantiva un accesso privilegiato alla carriera politico-militare o un ruolo singolare nella res publica. Fu attraverso il matrimonio di Giulia con il nipote Marcello, figlio di sua sorella Ottavia, nel 23 a.C., che Augusto cercò di inserire un discendente maschio nella famiglia, dotandolo inoltre già da giovanissimo di prerogative quali l'ammissione al senato e il consolato prima dell'età prevista, per renderlo il più possibile adatto ad assumere almeno alcune delle proprie competenze visto che si sentiva vicino alla morte. Augusto, però, recuperò la salute e superò la crisi politica, mentre Marcello morì nello stesso 23 a.C. La seconda personalità a cui Augusto fece attribuire gradualmente poteri analoghi a quelli da lui cumulati fu Agrippa, il quale divorziò dalla prima moglie e sposò Giulia, ricevendo l'imperium proconsolare e la potestà tribunizia. Nel 17 a.C., Augusto adottò i due figli di Giulia e Agrippa, Caio e Lucio Cesari. Nel 12 a.C., però, Agrippa morì. Considerato che i due ragazzi erano ancora minorenni, Augusto si rivolse ai figli della terza moglie Livia, nati dal primo matrimonio di questa con Tiberio Claudio Nerone: Tiberio e Druso. Tiberio, che aveva sposato Vipsania, una figlia del primo matrimonio di Agrippa, dovette divorziare e sposare Giulia. Tiberio ricoprì due volte il consolato, celebrò un trionfo per le sue campagne germaniche, ricevette la potestà tribunizia, ma poi si ritirò dalla vita politica e si auto esiliò nell'isola di Rodi. In ogni modo, Caio Cesare e Lucio Cesare non poterono diventare avversari di Tiberio perché la morte li colse giovanissimi. Già nel 2 d.C. Tiberio era tornato a Roma e aveva sciolto il matrimonio con Giulia, colpita da uno scandalo a causa dei suoi amanti e condannata all'esilio dal padre stesso. Augusto pretese allora da Tiberio che adottasse Germanico, il figlio di suo fratello Druso e di Antonia, figlia di M. Antonio e di Ottavia, sorella di Augusto, anche se Tiberio aveva un suo proprio figlio di nome Druso (che chiameremo “minore”). Tiberio adottò Germanico nel 4 d.C. e Augusto adottò Tiberio. Successivamente a Tiberio furono attribuiti la potestà tribunizia e l'imperium proconsolare. Nel 13 d.C. celebrò il trionfo sui Germani e gli venne conferito un imperium pari a quello di Augusto, in modo che potesse intervenire in tutte le province e che l'esercito potesse essere sotto il suo comando.  L'organizzazione della cultura La politica culturale di Augusto non trovò espressione solo nelle arti figurative e nella trasformazione architettonica di Roma. La celebrazione della pace e della figura provvidenziale di Augusto si manifestò anche in pubbliche cerimonie, nella monetazione, nella letteratura e, in generale, nel coinvolgimento degli intellettuali nella promozione del consenso al suo programma di restaurazione morale all'interno dello Stato e di pacificazione all'esterno. Nelle Res Gestae Augusto ripercorre tutte le tappe del proprio operato, illustrando in che modo abbia reso soggetto il mondo al potere del popolo romano e abbia portato pace e prosperità estendendo i confini del potere romano. Anche attraverso le opere di storici come Tito Livio o dei grandi poeti dell'età augustea, tuttavia, possiamo intendere quali fossero i messaggi, le idee e la politica culturale dell'epoca. Virgilio nelle Ecloghe e nelle Georgiche canta la pace che il nuovo regno ha garantito e il ritorno della sicurezza nella tradizionale vita dei campi, nell'Eneide celebra Enea come antenato di Augusto e profetizza il suo dominio universale. Così pure in Orazio, Properzio, Ovidio si riflette la propaganda dell'epoca. L'adesione degli intellettuali al programma del principe si doveva in gran parte a Mecenate. Questi, con un’opera di persuasione e intervenendo per aiutare chi si trovava in situazioni critiche a seguito delle guerre civili, riuscì a legare poeti e artisti agli ideali della politica augustea e a coniugare il fiorire di una raffinata letteratura basata sui modelli della cultura letteraria greca con l'adesione ai tradizionali valori italici e romani. Sappiamo però con certezza dell'esistenza di voci dissidenti; anche un poeta come Ovidio, che fece parte del circolo di Mecenate, verso la fine del principato augusteo fu relegato a Tomi nel Ponto, accusato di aver scritto carmi che non erano in linea con la riforma dei costumi introdotta dalla legislazione moralistica di Augusto. Altri momenti importanti di esaltazione della figura di Augusto e di diffusione a Roma e nelle province dell'ideologia provvidenzialistica furono le celebrazioni di particolari ricorrenze e l'istituzione di un vero e proprio culto della sua persona. Per le prime, possiamo ricordare la celebrazione dei ludi saeculares, tenuti a Roma nel 17 a.C. secondo gli antichi riti, per proclamare la rigenerazione di Roma, o le celebrazioni dei giochi che si tenevano ogni quattro anni a Nicopoli, la città fondata sul luogo dell'accampamento di Ottaviano ad Azio, per ricordare la vittoria del 31 a.C. Per quanto riguarda la celebrazione della persona di Augusto, il suo nome era inserito nelle preghiere del collegio sacerdotale dei Sali e il suo compleanno era celebrato pubblicamente. A ciò si aggiunse l'istituzione di un vero e proprio culto dell'imperatore, che veniva celebrato congiuntamente a quello della dea Roma. In Occidente, invece, il culto di Roma era affiancato a quello di Cesare divinizzato, oppure venivano dedicati altari o templi al Genio di Augusto, ma non direttamente alla sua persona. Fa eccezione la creazione di un altare del culto di Roma e Augusto a Lugdunum (Lione) e di altri altari in Germania, sul Reno e sull'Elba. I GIULIO CLAUDI  Una dinastia? Augusto morì in Campania nel 14 d.C.. Tiberio in senato fece presente come per lui sarebbe stato difficile assumere la somma dei poteri del padre e suggerì piuttosto di affidare la cura dello Stato a più persone. Il senato lo spinse ad accettare i poteri e le prerogative che erano state di Augusto. Tiberio alla fine acconsentì, esprimendo l'augurio che si trattasse di un incarico temporaneo. In questo momento si rivelò l'impossibilità da parte del Senato di concepire un ritorno alla Repubblica, senza la presenza di una parallela autorità di un singolo che ereditasse l’auctoritas e l'iniziativa politica di Augusto. Tra il 14 e il 68 d.C. Il potere rimase all'interno della famiglia Giulio-Claudia, cioè di discendenti della famiglia degli Iulii (Augusto ne faceva parte perché era stato adottato da Giulio Cesare) e di quella dei Claudii (famiglia di Tiberio Claudio Nerone, il primo gruppi della società. Il primo imperatore aveva previsto anche dei meccanismi di promozione sociale. La schiavitù era divenuta un fenomeno caratteristico della società e dell'economia a partire dalla tarda Repubblica. Grandi quantità di schiavi erano impiegate nell'agricoltura dai proprietari di vaste tenute, anche se il fenomeno in età imperiale si andò riducendo in favore dell'impiego di coloni liberi, ma vi era anche una notevole presenza di schiavi domestici, impiegati in attività artigianali e tra gli schiavi di origine greca più istruiti, nell'ambito dei “servizi”. Importanti erano gli schiavi imperiali, impiegati nella gestione finanziaria e amministrativa del patrimonio imperiale e organizzati secondo vere e proprie gerarchie. Gli schiavi a capo di dipartimenti finanziari potevano raggiungere livelli di ricchezza e potere personale anche superiori a quelli di esponenti della nobiltà senatoria. Non bisogna però confondere la ricchezza con lo status giuridico: ricchezza e potere non davano automaticamente accesso a un ceto superiore, anche se costituivano il presupposto per aspirare al miglioramento della propria condizione. Lo schiavo che riusciva ad acquistare la libertà con il patrimonio personale che il padrone gli lasciava acquisire nell’esercizio della sua attività oppure grazie a disposizioni testamentarie rimaneva legato al proprio ex padrone da un rapporto di clientela e spesso anche di prestazioni di lavoro; inoltre, aveva delle limitazioni per quanto riguardava la vita pubblica e l'accesso alle magistrature sia a Roma che nei municipi. I liberti rappresentarono il ceto economicamente più attivo in vari settori dell'economia. Potevano raggiungere forme di promozione sociale ricoprendo cariche all'interno delle associazioni professionali e dei collegi costituiti per il culto imperiale nei municipi. Nella casa imperiale lo spirito di iniziativa dei liberti si espresse ai massimi livelli, dato che le possibilità di avanzamento a corte erano enormi. Un altro gruppo molto rilevante all’interno della società romana era costituito dai provinciali liberti, una categoria molto articolata, che comprendeva gli abitanti delle poleis greche così come quelli dei villaggi dei Britanni o i nomadi del deserto. L’imperatore poteva intervenire nelle questioni interne relative allo status e ai privilegi dei diversi gruppi cittadini e vegliare sulla tutela del corpo civico della polis. Il princeps, inoltre, poteva promuovere i ceti dirigenti cittadini o intere città concedendo la cittadinanza romana a singoli individui, a città o a categorie di persone. In questo modo alcuni gruppi venivano a godere di uno status giuridico privilegiato. I cittadini romani godevano infatti di particolari garanzie personali e dell'immunità da tasse e obblighi che gravavano sui provinciali, anche se tali privilegi materiali vennero via via diminuendo. Una volta ottenuta la cittadinanza, anche per i provinciali il passo successivo di promozione sociale era l'accesso ai due ceti dirigenti, l'ordo senatorius e il ceto equestre. L'intervento dell'imperatore era di norma indispensabile per dare l'avvio all'integrazione nel senato e l'accesso alla carriera equestre. Ma già il servizio svolto nei quadri dell'esercito poteva costituire per i provinciali un motivo di promozione, personale o per i propri figli. L'esercito, accanto al denaro, fu uno dei fattori più importanti di promozione sociale nel corso dell'età imperiale. I veterani delle legioni, una volta tornati nelle loro città di origine, entravano a far parte delle élite municipali e acquisivano prestigio alla propria famiglia, arrivando essi stessi (o i loro figli) a rivestire le magistrature locali.  Nerone (54-68 d.C.) Il principato di Nerone fu impostato su premesse diverse da quelle augustee: il consolidamento dei poteri del princeps e l'istituzionalizzazione della sua figura avevano mostrato la debolezza dei residui della tradizione repubblicana nel governo dello Stato. Caligola aveva inoltre reso manifesti gli elementi di arbitrio e autocrazia insiti nel potere imperiale. L’ideologia augustea, che sottolineava il permanere della responsabilità di governo a popolo e senato, appare superata; da Augusto in poi, infatti, la res publica è nelle mani di una sola personalità, il potere e la ricchezza sono assoluti e dono dagli dèi: implicano per il principe la responsabilità di porre virtus e clementia alla base delle proprie azioni. In un primo tempo Nerone assecondò l'influenza che esercitavano su di lui Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro cercando una forma di collaborazione con il senato, ma se ne distaccò per inclinare verso una idea teocratica e assoluta del potere imperiale. La vena artistica e gli interessi culturali che lo portavano a essere un grande ammiratore della Grecia, dell’Oriente e dell’Egitto gli fornirono gli spunti che trasformarono in senso assolutistico e monarchico il potere imperiale, provocando l’opposizione senatoria dei gruppi tradizionalisti e delle antiche famiglie repubblicane. Nerone fu sempre considerato un imperatore vicino alla plebe che ne apprezzava l'istrionismo e la demagogia. Egli si macchiò comunque di gravi delitti. Dopo aver fatto assassinare il fratellastro Britannico, fece uccidere anche la madre Agrippina. Nel 62 d.C. Nerone divorziò da Ottavia e sposò Poppea. Da quell'anno iniziarono i processi di lesa maestà a carico di alcuni senatori, con cui Nerone cercava di annientare l'opposizione ed eliminare gli ultimi nobili che potevano vantare una lontana forma di parentela con Augusto e minacciare la sua posizione. Il dispotismo di Nerone, che culminò nell'incendio di Roma del 64 d.C., di cui furono incolpati i cristiani e che fece tante vittime anche tra i senatori, propiziò le condizioni per una sua eliminazione. La situazione che dovette affrontare dopo l'incendio fu molto grave, i costi per la ricostruzione furono tanto alti da esacerbare alcune situazioni di tensione sia con il senato e la plebe di Roma sia nelle province e da provocare una forte perdita di consenso. Nerone cercò di rimediare alla crisi finanziaria con una riforma monetale. Al 64 d.C. risale la riduzione di peso e di fino della moneta d'argento, il denario, la moneta principale del mondo romano. Tale provvedimento si spiega forse con la necessità di moneta legata al programma edilizio che Nerone doveva finanziare, a cominciare dalla costruzione della sua stessa residenza, la domus aurea, innalzata nel pieno centro di Roma liberato dagli edifici precedenti dalle devastazioni dell'incendio. Nelle province, già nel 60 d.C. vi era stata una grave ribellione delle popolazioni locali che ebbe tra le varie cause anche il duro comportamento dei procuratori imperiali impegnati nelle esazioni fiscali. In Giudea la requisizione di parte del tesoro del Tempio di Gerusalemme fu uno dei motivi dello scoppio di una ribellione contro i Romani. Per rimpinguare le casse dello Stato Nerone avrebbe inoltre utilizzato lo strumento dei processi e delle confische, rendendosi sempre più inviso alla nobiltà senatoria, tanto che nel 65 d.C. fu minacciato da una grave congiura, nota come “congiura dei Pisoni”. Seneca e Fenio Rufo furono tra le principali vittime, ma anche nell’anno successivo Nerone proseguì nell’eliminazione degli avversari. In politica estera Nerone ottenne qualche successo significativo sul fronte orientale. Qui un suo valoroso generale, Domizio Corbulone, riuscì ad aver la meglio sui Parti e a riportare l'Armenia sotto l'influenza romana. Il re Tiridate fu incoronato da Nerone a Roma nel 66 d.C. Assicurata la situazione a Roma, Nerone partì per la Grecia, dove intendeva compiere una tournée artistica e agonistica partecipando ai festival e ai tradizionali agoni periodici delle poleis greche. Nerone vinse premi in tutti gli agoni e ai giochi di Corinto proclamò la libertà delle città greche. In Giudea era scoppiata una grave ribellione, contro cui Nerone aveva mandato Muciano e Vespasiano; mentre Vespasiano riusciva a riportare sotto controllo la situazione in Palestina, nell'inverno 67/68 d.C. giunse a Roma la notizia della ribellione del legato della Gallia Lugdunensis C. Giulio Vindice. La ribellione fu domata, ma era solo l'inizio di una catena di sollevazioni: del governatore della Spagna Servio Sulpicio Galba, di quello dell'Africa, delle truppe del Reno. Anche i pretoriani abbandonarono Nerone; il senato lo dichiarò “nemico pubblico”, riconoscendo come nuovo princeps Galba. A Nerone non restava altro che il suicidio. La sua fine segna anche quella della dinastia Giulio-Claudia. L’ANNO DEI QUATTRO IMPERATORI E I FLAVI  L’anno dei quattro imperatori: il 68/69 d.C. Si erano così create le condizioni per una nuova guerra civile, che vide contrapposti senatori, governatori di provincia o comandanti militari che, forti del sostegno dei loro eserciti, assunsero il titolo di imperatore. Soprattutto l'esito finale, con la proclamazione a imperatore di Vespasiano, mostrò come il Principato potesse essere rivestito anche da un uomo di origini modeste, entrato solo recentemente nell'ordine senatorio. La crisi del 69 d.C., con quattro imperatori (Galba, Otone, Vitellio e Vespasiano), esponenti il primo dell'aristocrazia senatoria, il secondo dei pretoriani e gli ultimi due dell'esercito, che si combatterono l'uno contro l'altro, mostra come l'asse dell'Impero si fosse spostato lontano da Roma e come le legioni fossero in grado di imporre il loro volere. È chiaro che l'Impero non poteva essere più appannaggio di una sola famiglia, ma soluzioni ispirate al tradizionalismo senatorio come quella tentata da Galba che, adottando L. Calpurnio Pisone all'inizio del 69 d.C., lo candidò alla guida dell'Impero, non si rivelarono realistiche. L'alternativa dell'Impero che si pone tra successione dinastica o successione per adozione è tipica del II secolo d.C.  La dinastia Flavia (69-96 d.C.) Con Vespasiano inizia la dinastia dei Flavi, che comprende il periodo di Impero di Vespasiano stesso e dei suoi due figli Tito e Domiziano. Il fatto di avere due figli e di poter garantire una certa stabilità all'Impero fu uno dei fattori del successo di Vespasiano. L’idea della trasmissione dinastica del potere sarà celebrata attraverso l'esaltazione della aeternitas imperi, ovvero della stabilità dell'istituzione imperiale, idea introdotta già in età tiberiana, quando si era posto il problema della successione. La dinastia durò fino al 96 d.C., quando la politica di Domiziano suscitò una tale opposizione, sia nel senato sia nella sua stessa corte, da portare alla sua uccisione e alla proclamazione di un nuovo princeps, un esponente del senato, che sapesse riconciliare il Principato con il rispetto della libertas senatoria.  Vespasiano (69-79 d.C.) Il principato di Vespasiano rappresenta un sensibile progresso nella razionalizzazione dei poteri dell'imperatore e nel definitivo consolidamento dell'Impero come istituzione. A questo non è estraneo il fatto che Vespasiano si associasse già nel 71 d.C. il figlio Tito con il titolo di Cesare, indicando così il suo orientamento a favore di una trasmissione dell'impero per rigida successione dinastica. L'autorità del nuovo princeps fu definita da un decreto del senato, approvato dai comizi, in cui si elencano tutti i suoi poteri. Probabilmente non si tratta di una nuova definizione istituzionale, ma semplicemente di una ricapitolazione e formalizzazione di tutte le prerogative dell'imperatore che erano state via via acquisite da Augusto e dai Giulio Claudi. Vespasiano dovette fronteggiare il grave deficit nel bilancio provocato dalla politica di Nerone e dalla guerra civile. I provvedimenti presi gli diedero nelle fonti la fama di imperatore tirchio ed esoso, ma in realtà si rivelò un ottimo amministratore, riuscendo a risanare il bilancio dello Stato. Estese ai cavalieri la responsabilità di alcuni uffici della burocrazia, togliendoli ai liberti, fece fronte alla crisi di reclutamento dovuta al peggioramento delle condizioni sociali ed economiche dell'Italia, favorendo l’estensione della cittadinanza ai provinciali e reclutando sempre più spesso i legionari dalle province. La politica di integrazione delle province si manifestò anche con la concessione del diritto latino alle città peregrine della Spagna e con l’immissione in senato di erosi esponenti delle élite delle province occidentali. Il denaro per la ricostruzione del Campidoglio, distrutto da un incendio durante gli scontri con i Vitelliani, e per le nuove opere edilizie a Roma, tra cui la costruzione del Colosseo e del Foro della Pace, venne anche dal bottino di guerra. Nel 70 d.C. Tito si impadronì di Gerusalemme e ne distrusse il Tempio. Gli ultimi focolai di resistenza furono annientati nel 73/74 d.C. con la distruzione delle ultime fortezze. All’inizio del suo regno fu stroncata anche la rivolta di un capo batavo, Giulio Civile, che, nel 70 d.C., aveva dato vita a un impero gallico lungo la valle del Reno. Negli anni del suo impero Vespasiano ristabilì l'ordine nelle zone di confine lasciate sguarnite dalle truppe che avevano partecipato alle guerre civili, così sul Danubio e in Britannia. In quest'ultima provincia riprese una politica di estensione dei confini sia nella zona orientale che settentrionale. Anche in Germania annetté l'area dei cosiddetti agri decumates, lungo il corso superiore dei fiumi Reno e Danubio. In Oriente abbandonò definitivamente la politica dei regni clienti, aggregandone i territori alle province esistenti o creando delle nuove province. Vespasiano riuscì a godere di un certo consenso e abbiamo notizia solo di un episodio di opposizione da parte di alcuni senatori, appartenenti al circolo dei filosofi cinici e stoici, che reclamavano una maggiore considerazione delle prerogative senatorie. Vespasiano reagì a tale dissenso mettendo a morte lo stoico Elvidio Prisco e bandendo alcuni filosofi da Roma.  Tito (79-81 d.C.) Per la successione Vespasiano seguì il sistema avviato da Augusto: Tito, oltre a ricoprire insieme al padre alcune magistrature, tra cui il consolato e la censura, era stato anche prefetto del pretorio, pur non appartenendo all'ordine equestre ma a quello senatorio, e già dal 71 d.C. aveva ricevuto l'imperium proconsolare e la potestà tribunizia, ma anche i titoli di Augusto e di pater patriae. Nel 79 d.C.. alla morte del padre, l'avvicendamento avvenne senza problemi e continuò sulle linee tracciate. Il breve regno di Tito fu funestato da gravi calamità naturali, tra cui la rovinosa eruzione del Vesuvio, nel corso della quale mori Plinio il Vecchio e che provocò la distruzione di Pompei e di Ercolano. Invero la popolarità di Tito era legata a una politica di munificenza, in parte giustificata da questi eventi catastrofici, che si discostava dalla parsimonia del padre.  Domiziano (81-96 d.C.) Domiziano si preoccupò dell'amministrazione delle province, di reprimere gli abusi dei governatori e di promuovere i compiti burocratici del ceto equestre, assegnando loro alcuni degli uffici che Claudio aveva sottoposto a dei liberti. La scelta di rinunciare a ulteriori vaste conquiste militari a favore di operazioni di consolidamento della frontiera, sul Reno, sul Danubio e in Britannia, risultò realistica e lungimirante. Dopo una campagna combattuta nell'83 d.C. in Germania contro i Chatti, il territorio conquistato fu controllato attraverso l’impianto di accampamenti fortificati, collegati tra loro da una rete di strade e con i forti presidiati dai soldati ausiliari sul confine dell'Impero. In questo periodo fu segnata la linea esterna di confine oltre il Reno, lungo la catena dell'Alto Tauno, tra il fiume Lahn e il fiume Meno, attraverso la costruzione di imponenti opere difensive costituite da torri di guardia di legno e terrapieni che collegavano tra loro gli accampamenti degli auxiliarii. La linea avanzata aveva alle spalle la serie dei castra (accampamenti fortificati) in cui stazionavano i legionari. In questo modo Domiziano provvedeva anche alla sicurezza di tutta la zona a sud della linea del limes, in cui si insediò una popolazione mista di Celti e Germani. Si inaugurò così un sistema di difesa dei confini che fu adattato e impiegato in tutto l'Impero. La parola limes passò ad assumere il significato di frontiera artificiale, in cui le strade limitanee servivano a collegare tra loro gli accampamenti e a disegnare la linea di separazione tra l'Impero e i territori esterni. In alcune zone l'articolazione delle strade militari e dei forti che costituivano il limes fu tracciata a rete, a sorveglianza delle vie carovaniere, delle piste della transumanza, delle oasi del deserto, così da includere le zone in cui erano ancora possibili le coltivazioni agricole ma da consentire, allo stesso tempo, il controllo delle popolazioni nomadi e dedite alla pastorizia. In altri casi, il limes fu costituito da una linea di castra fortificati, collegati tra loro e difesi a nord da un muro di pietra, costeggiato da un fossato, che delimitava il territorio provinciale. Nell'85 d.C. si andò profilando il problema della Dacia (Romania), nella quale il re Decebalo era riuscito a unificare le varie tribù e a guidarle in varie incursioni contro il territorio romano. Una prima campagna non ebbe successo. La seconda, guidata da Domiziano in persona, non poté portare a risultati definitivi a causa dalla rivolta di L. Antonio Saturnino, governatore della Germania Superiore, proclamato imperator dalle sue legioni, sollevazione che costrinse Domiziano a stipulare una pace provvisoria. Decebalo non dovette cedere alcuna parte del suo territorio ma concludere un trattato in cui accettava di dipendere dall'Impero romano, ricevendo in cambio una corresponsione in denaro. Si trattava di una sistemazione provvisoria che non poneva termine alle ambizioni di Decebalo. La rivolta di Saturnino fu domata dal legato della Germania Inferiore, ma Domiziano, prima di procedere contro gli Iazigi che minacciavano la Pannonia, si morte, Traiano gli succedette come imperatore. La sua nomina fu ratificata dal senato e gli eserciti gli giurarono fedeltà. Il prefetto del pretorio fu invece rimosso e giustiziato.  Il governo dell’Impero affidato al migliore: Traiano (98-117 d.C.) Traiano si recò a Roma nel 99 d.C., preferendo completare il lavoro di consolidamento del confine renano. Egli unì nella sua persona le caratteristiche di esperienza militare e il senso di appartenenza al senato che erano state proprie della tradizione repubblicana ed erano state incarnate da Augusto. Queste due prerogative lo resero agli occhi dell’opinione pubblica l’optimus princeps. Le fonti letterarie su Traiano sono in gran parte frutto di un ambiente a lui favorevole. Il Panegirico, l'orazione che Plinio pronunciò in senato nel 100 d.C., in occasione della propria elezione a console, è un manifesto che illustra le aspettative del senato riguardo al nuovo Principato, che auspicava lontano dalla dominatio inaugurata da Domiziano. Plinio cerca di delineare, attraverso le lodi di Traiano, il modello di comportamento del buon princeps: egli avrebbe dovuto stabilire un clima di concordia con l'aristocrazia e il ceto equestre e doveva dimostrare quelle qualità personali civili e militari che giustificavano la sua preminenza all'interno dello Stato. Traiano è stato a ragione paragonato a un generale della Repubblica: tra i suoi programmi un posto di rilievo ha l'espansione territoriale. Le campagne daciche (101-102 e 105-106 d.C.) sembrano godere in particolare del sostegno del senato. Non abbiamo la certezza che le imprese militari di Traiano nella Dacia e sul confine orientale contro i Parti e in Arabia siano state determinate dalla volontà di impostare una soluzione militare dei problemi finanziari. Decebalo, contro cui Domiziano non aveva potuto intraprendere una campagna risolutiva, costituiva infatti una minaccia per il confine danubiano e dunque le ragioni strategiche ebbero certo un grande peso nella scelta di espandere il dominio provinciale romano. La Dacia fu ridotta a provincia, la popolazione fu in parte deportata o costretta a lasciare i propri territori, vi furono numerosi morti e prigionieri e nel territorio di nuova conquista si ebbe una forte immigrazione di coloni da tutto l'Impero. Una notevole importanza per l’Impero ebbe l'enorme bottino ricavato dalla conquista e l'oro che arrivava a Roma dallo sfruttamento delle miniere daciche: esso servì a finanziare imprese militari e le spese per opere pubbliche e sociali varate da Traiano a Roma, in Italia e nelle province. L'enorme quantità di metallo prezioso immessa sul mercato contribuì inoltre ad avvicinare il valore reale del denario d'argento al suo valore nominale in rapporto con l’oro e, dunque, a favorire la stabilità di questa moneta. L’imperatore mostrò grande interesse anche per la frontiera orientale: alla fine delle operazioni daciche si ebbe l'annessione del territorio dei Nabatei, che determinò l’istituzione della provincia di Arabia. Grazie a tale provincia, Roma acquisiva anche il controllo della via commerciale di mare per l’India. Infine, nel 114 d.C., Traiano organizzò una grande campagna contro i Parti durante la quale furono occupate l'Armenia, l'Assira e la Mesopotamia. Fu presa la stessa capitale partica, Ctesifonte. Nessuna di queste conquiste, a eccezione della Dacia, ebbe fortuna. Traiano, richiamato a fronteggiare una rivolta degli Ebrei scoppiata in Mesopotamia ed estesasi a Cirene e altre province orientali, decise di abbandonare le nuove conquiste. Morì in Cilicia dopo essersi ammalato sulla via del ritorno verso Roma. Le truppe acclamarono imperatore il governatore della Siria P. Elio Adriano. Secondo alcune fonti Traiano lo adottò come suo successore sul letto di morte, ma altri autori sostengono che l'atto di adozione sarebbe stato completato dalla moglie di Traiano. Il regno traianeo è caratterizzato anche da un marcato interesse per i bisogni dell'Impero e della stessa Italia. La piena attuazione del programma di sussidi alimentari ideato forse già da Nerva, documenta la liberalità dell'imperatore che si prendeva cura dei ragazzi bisognosi, ma anche le difficoltà che l'agricoltura stava incontrando. L'epistolario pliniano ci offre un riscontro: da un lato, a livello locale, lo spirito di beneficenza nei confronti della propria città e, dall'altro, i problemi di gestione delle sue proprietà.  Adriano (117-138 d.C.) La famiglia di Adriano, discendente da italici emigrati in Spagna all'epoca degli Scipioni, si era affermata nell'aristocrazia di Italica, una città della Betica. Aveva percorso la carriera senatoriale a Roma, probabilmente grazie all’aiuto di Traiano, che lo aveva voluto al suo fianco già nella prima guerra dacica come questore e, in seguito, come fedele collaboratore nella guerra partica, assegnandogli l'incarico di governare la provincia di Siria e il comando dell'esercito per fronteggiare la grande rivolta degli Ebrei in Mesopotamia e Cirenaica. Adriano, subito dopo la proclamazione da parte delle truppe e il riconoscimento da parte del senato, decise di abbandonare la politica di controllo diretto delle nuove province orientali create da Traiano e preferì affidarle a sovrani clienti, inaugurando in tal modo una politica di consolidamento interno e mettendo fine alle guerre di espansione volute dal suo predecessore. Tale nuovo corso probabilmente suscitava l'opposizione degli uomini che erano stati vicini a Traiano e al suo orientamento espansionista. Per acquistarsi la pubblica benevolenza Adriano si preoccupò di alleviare il malessere economico cancellando i debiti arretrati contratti a Roma e in Italia con la cassa imperiale, facendo distribuzioni al popolo, reintegrando il patrimonio dei senatori che avevano perduto il censo e proseguendo il programma alimentare traianeo. Adriano, nonostante l’abbandono della politica espansionistica di Traiano, fu un amministratore attento e un riformatore della disciplina militare che, come ci attesta l'Historia Augusta, “avendo di mira più la pace che la guerra tenne in esercizio i soldati come se la guerra fosse imminente”. Da profondo conoscitore dell'esercito ne rinvigorì la disciplina e favorì il reclutamento dei provinciali; per far fronte alla riduzione del numero di reclute italiche creò delle nuove unità, i numeri, formate da soldati che conservavano gli armamenti e i sistemi di combattimento tradizionali delle popolazioni non romanizzate tra le quali erano reclutati. Adriano fu anche uomo di grande cultura e favorì l'arte, la letteratura, le tradizioni e i culti, dimostrando una spiccata predilezione soprattutto per la civiltà ellenica. Fu un appassionato costruttore di palazzi e fondatore di nuove città. A Roma, fece costruire per sé un mausoleo (Castel Sant'Angelo) che faceva concorrenza a quello di Augusto. A Tivoli impressionano ancora i resti della sua villa, che comprendeva una dozzina di grandi complessi per un totale di circa trenta edifici. Il principe volle restituire splendore ad Atene e alle poleis greche, dando impulso alla trasformazione urbanistica e contribuendo alla rivitalizzazione delle istituzioni. Si impegnò nel controllo della situazione finanziaria e dell'amministrazione e incoraggiò la promozione delle élite orientali nel senato di Roma. Adriano passò gran parte del suo regno viaggiando attraverso le province: in Britannia iniziò la costruzione del vallo sull'istmo Tyne-Solway, a difesa della zona meridionale pacificata contro le tribù non romanizzate del nord; passò poi in Gallia, visitò la Spagna, la Mauretania, l'Africa, l'Asia Minore e la Grecia. Trascorse gli anni dal 125 al 129 d.C. tra Roma e l'Africa, dove iniziò la costruzione del fossatum Africae, una serie di fortificazioni che avevano lo scopo di controllare gli spostamenti delle popolazioni nomadi e le attività economiche legate alla transumanza; dal l129 al 134 d.C. intraprese un viaggio dedicato alla Grecia e alle province orientali. Durante il secondo dei grandi viaggi, nel 132 d.C., scoppiò in Palestina una gravissima rivolta, guidata da Simone Bar Kochba che, come un nuovo Messia, si pose a capo di una resistenza fatta per lo più di azioni di guerriglia. La rivolta era stata provocata dall'intenzione di Adriano di assimilare gli Ebrei alle altre popolazioni dell'Impero, manifestatasi attraverso la fondazione sul sito di Gerusalemme della colonia di Aelia Capitolina. Qui Adriano stesso avrebbe dovuto essere oggetto di culto in un tempio dedicato a Giove. La ribellione ebraica fu avvertita come una grave minaccia per l'esistenza dell'Impero, come dimostra la violenta e spietata repressione. Adriano trascorse dodici dei ventuno anni del suo regno fuori da Roma e dall'Italia, acquisendo una conoscenza dettagliata non solo delle diverse situazioni locali ma anche dei meccanismi del funzionamento finanziario e amministrativo dell'Impero. Si preoccupò di dare una forma definitiva alle competenze giurisdizionali dei governatori provinciali, incaricando il giurista Salvio Giuliano di stilare la pubblicazione definitiva dell'editto del pretore, riorganizzò il gruppo dei propri consiglieri, introducendovi sia dei giuristi, sia i due prefetti del pretorio e assimilandolo a un organo di governo. Adriano si adoperò per una efficiente amministrazione della giustizia: l’Italia fu divisa in quattro distretti giudiziari assegnati a senatori di rango consolare, alleggerendo il lavoro dei tribunali di Roma. In questo modo, però, intaccò lo stato privilegiato dell'Italia rispetto alle province e lese la prerogativa giudiziaria del senato, tanto che il suo successore abolì questo provvedimento. Adriano, inoltre, avvertì l'importanza del ceto equestre per l'amministrazione finanziaria e ne riorganizzò la carriera, attraverso tappe di promozione prefissate. Introdusse una distinzione tra carriera civile e militare, una scala di rango definita sulla base del compenso ed estese il campo d'azione dei cavalieri con l'impiego di procuratori equestri. I nuovi funzionari furono impegnati in incarichi relativi all'amministrazione del patrimonio imperiale. Come successore Adriano scelse il console del 136 d.C., Lucio Elio Cesare, che adottò. Morto costui prematuramente, la sua scelta si indirizzo verso il senatore Arrio Antonino, il quale adottò a sua volta Lucio Vero insieme a un nipote della propria moglie, il futuro imperatore Marco Aurelio.  Antonino Pio (138-161 d.C.) A differenza di Adriano, Antonino Pio rinunciò ai grandi viaggi attraverso l'Impero; già nella propria carriera precedente aveva infatti privilegiato gli incarichi amministrativi piuttosto che militari e aveva trascorso gran parte della sua vita in Italia. Si tratta di un periodo privo di grandi avvenimenti, segno positivo delle condizioni generali dell'Impero. Il principe ebbe rapporti buoni con il senato, dal quale riuscì a far divinizzare il suo predecessore; fu, inoltre, un coscienzioso e parsimonioso amministratore. Durante il regno di Antonino non furono recate minacce alla sicurezza dell'Impero. Solo in Mauretania ci fu una ribellione. Per sua volontà il vallo di Adriano in Britannia fu avanzato nella Scozia meridionale. Un retore greco, Elio Aristide, scrisse un elogio dell'Impero romano, da lui celebrato come una sorta di governo ideale dell'universo.  Lo statuto delle città Nell'età di Antonino Pio l'Impero raggiunse l'apogeo del proprio sviluppo e del consenso presso le élile delle province e delle città. Due elementi fondamentali che caratterizzavano la natura dell'Impero romano erano il processo di integrazione dei ceti dirigenti provinciali attraverso il conferimento della cittadinanza romana e il valore attribuito alla vita cittadina nella quale la cultura greca trovava la sua più compiuta espressione. La città rappresentava nel mondo antico il segno distintivo della civiltà rispetto alla rozzezza e alla barbarie. Ovunque ci fossero delle istituzioni cittadine i Romani vi si affidarono per il controllo amministrativo; dove non esisteva questa forma associativa della vita pubblica, essi crearono comunità civiche attraverso un'opera di colonizzazione. Nell’Impero romano vi era dunque una grande varietà di tipologie cittadine e soprattutto una grande diversità di statuti. Civitates in Occidente e poleis in Oriente erano organizzate secondo tre tipologie, a seconda del loro grado di integrazione nello Stato romano: 1) Le città peregrine, cioè quelle preesistenti alla conquista e alla loro riorganizzazione all'interno dell'Impero. All’interno di questo gruppo si distinguono in base al loro status giuridico nei confronti di Roma: a) le città stipendiarie che, sottomesse a Roma, pagano un tributo; b) le città libere, con diritti speciali concessi unilateralmente da Roma: c) le città libere federate, ovvero le città libere che hanno concluso un trattato con Roma su un piede di eguaglianza. 2) I municipi, cioè città cui Roma ha concesso di elevare il loro status precedente di città peregrine e ai cui abitanti è accordato o il diritto latino o quello romano. 3) Le colonie, ovvero città di nuova fondazione con apporto di coloni che godono della cittadinanza romana su terre sottratte a città o a popoli vinti. La colonia adotta il pieno diritto romano ed è organizzata a immagine di Roma. A partire da Claudio le città potevano ricevere lo status di colonia anche come privilegio onorario, senza che ci fosse un effettivo trasferimento nella città di nuovi coloni, ma come riconoscimento del grado di romanizzazione raggiunto dalla comunità. Si realizzava così una gerarchia tra le città tale da favorire lo spirito di emulazione, dato che le città peregrine aspiravano a diventare municipi di diritto latino e questi ultimi desideravano ottenere il diritto romano. Inoltre, sollecitavano il titolo di colonia onoraria. L'evoluzione dello statuto delle singole comunità comportava l'integrazione dei provinciali nell'Impero; ciò poteva avvenire per gradi, privilegiando i ceti dirigenti oppure attraverso il riconoscimento di uno statuto superiore accordato a singole città o a intere regioni. Le città costituivano inoltre il punto di riferimento delle medi, portando con sé la decadenza economica delle città e una profonda crisi morale, dovuta alla diffusa sfiducia nei valori tradizionali. Tali elementi di crisi condussero lo Stato romano a una situazione difficilissima. Furono due le componenti decisive in tale processo: l'esercito all'interno e i barbari all'esterno. L'accresciuta importanza dell'esercito, che si trovò nella condizione di nominare imperatori a suo piacimento, va messa in relazione con l'accentuata pressione dei popoli barbari ai confini, un fenomeno che divenne drammatico a partire dalla metà del III secolo d.C. Un ulteriore elemento di disgregazione era costituito dalla grave situazione economica, dovuta alla necessità di finanziare un esercito sempre più esigente. Il bisogno di reperire risorse per il mantenimento delle legioni determinò la crescita della pressione fiscale e il fenomeno dell'inflazione.  Tendenze assolutistiche È al nuovo ruolo dell'esercito, in particolare, che si deve la trasformazione dell'ideologia del potere imperiale verso forme sempre più assolutistiche. Cambia anche il rapporto tradizionale tra l’imperatore e il senato: ormai l'imperatore, che secondo l'ideologia del Principato augusteo era un princeps rispettoso dell'aristocrazia senatoria, riconosce al senato solo la funzione di organismo burocratico soggetto alla propria autorità assoluta, che dipende sempre più dall’appoggio dell'esercito come base essenziale del potere. Gli imperatori militari di origine illirica, arrivati al potere attraverso una serie di proclamazioni dei loro eserciti, cercarono di far fronte alla gravità della situazione, ma risultarono estranei alla tradizione del regime senatorio. L'adozione del culto solare da parte di questi imperatori si spiega con il fatto che esso era molto popolare nell'esercito ed era quello che si adattava meglio al rafforzamento del potere imperiale in chiave assolutistica.  Il cristianesimo È proprio la crisi morale dell'Impero romano, nel quale si diffonde una progressiva sfiducia nei valori religiosi e civili tradizionali, che favorisce il manifestarsi di nuove tendenze religiose. Il I secolo è l'epoca decisiva per il definitivo costituirsi delle strutture primitive della Chiesa cristiana. Mentre la nuova fede conquista consensi sempre più ampi presso la gente bisognosa di nuovi punti di riferimento, si fa più dura ed evidente l’avversione da parte dell'autorità politica: proprio in un momento di grande difficoltà, quando verso il 250 d.C. il pericolo barbarico si manifestò in tutta la sua gravità, il potere imperiale decise di scatenare la prima grande persecuzione sistematica dei cristiani.  La dinastia dei Severi In seguito all'uccisione di Commodo (192 d.C.), ci fu un periodo di regni effimeri: Pertinace tentò una restaurazione in senso filosenatorio e Didio Giuliano cercò di sostenersi appoggiando le richieste dei pretoriani, la forte milizia di stanza a Roma al servizio diretto dell'imperatore. Si capì subito che la vera lotta per il potere riguardava chi aveva il controllo delle forze militari più ingenti: la competizione era ristretta fra il legato della Pannonia Superiore Settimio Severo, il governatore della Siria Pescennio Nigro e il governatore della Britannia Clodio Albino. Settimio Severo, generale africano, ottenne la vittoria decisiva sui rivali nel 197 d.C. e mosse con i suoi soldati alla volta di Roma. Impossessatosi del potere, diede vita a una dinastia che resse le sorti dell'Impero fino al 235 d.C. grazie alle successioni di Caracalla (211-217 d.C.), Elagabalo (218-222 d.C.) e Alessandro Severo (222-235 d.C.), con il breve intervallo rappresentato dal regno di Macrino (217-218 d.C.). Ha inizio con Settimio Severo quella che viene definita una “monarchia militare”, nella quale l'autorità dell'imperatore si basa sulla forza degli eserciti. Settimio Severo rivolse subito la sua attenzione verso la frontiera orientale, nuovamente minacciata dai Parti. Già alla fine di gennaio del 198 d.C. era riuscito a impadronirsi della capitale nemica, che fu rasa al suolo. Severo portò la frontiera romana al Tigri, ma i suoi obiettivi erano soprattutto propagandistici. Non a caso fu proprio in relazione con il successo conseguito ai danni dei Parti che prese forma il suo progetto dinastico: l'esercito proclamò Augusto il figlio maggiore di Severo, Antonino detto Caracalla, che così si trovò a essere associato al padre; allo stesso tempo il figlio minore, Geta, fu proclamato Cesare; i due avrebbero dovuto regnare in piena concordia, ma non fu così. Negli anni successivi non si segnalano nuove campagne militari rilevanti da parte di Severo, che rimase a lungo a Roma ad amministrare il nuovo regime. Solo nel 208 decise una spedizione in Britannia, dove la situazione era resa precaria dalle incursioni delle tribù dei Caledoni. Le operazioni di difesa dei confini non si erano ancora concluse quando, nel 211 d.C., Severo trovò la morte a York. Sotto di lui era cresciuto il “soldo”, la paga dei soldati, ai quali erano stati concessi diversi privilegi: fu abolito, tra l'altro, il divieto per i legionari di contrarre matrimonio sino a quando si trovavano in servizio. D'altra parte, il carattere assolutistico del regime instaurato da Severo ci viene confermato dall'enorme estensione raggiunta dai suoi beni personali. A Settimio Severo successero i figli M. Aurelio Antonino, più noto come Caracalla, e Geta. Questa nuova diarchia ebbe breve durata perché Caracalla non esitò a far assassinare il fratello. Nel 212 egli dispose la concessione della cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'Impero a eccezione dei cosiddetti dediticii (sudditi, forse da riferire ai barbari non ancora assimilati). Alla base della promulgazione dell’editto di Caracalla non ci fu solo la legalizzazione di una trasformazione di fatto della società romana, ma giocarono probabilmente anche ragioni di carattere fiscale: con tale provvedimento aumentava infatti il numero dei contribuenti. La politica di forti concessioni ai legionari e ai pretoriani richiedeva la disponibilità di sempre maggiori risorse, come è dimostrato da un altro provvedimento da lui preso per fronteggiare la forte inflazione, la coniazione dell’“antoniniano”. Questa moneta aveva il valore nominale di due denari pur avendo il valore effettivo di un denario e mezzo. Anche Caracalla non si sottrasse al disegno ambizioso di condurre una grande campagna in Oriente contro i Parti. Durante questa spedizione, nel 217, fu assassinato durante una congiura militare. Imperatore fu acclamato il prefetto del pretorio Macrino, uno dei capi della congiura. Era la prima volta che un appartenente all'ordine equestre veniva proclamato imperatore, ed è questo un segnale di svolta politica nella formazione dei ceti dirigenti. La progressiva sfiducia nell'aristocrazia muove gli imperatori a potenziare il ruolo dei cavalieri, cui verranno affidati i comandi militari e l'amministrazione delle province. Tuttavia, l'opposizione del senato e la scontentezza dello stesso esercito che lo aveva portato al potere, insoddisfatto della pace da lui stipulata con i Parti, fecero sì che il regno di Macrino durasse un solo anno. C'è anche un altro aspetto che emerge durante la dinastia dei Severi, e cioè l'importanza del ruolo svolto da alcune figure femminili di rilievo, quali la moglie di Settimio, Giulia Domna, e la sorella di quest'ultima, Giulia Mesa. A Giulia Mesa riuscì di far sì che l'esercito, ucciso Macrino, acclamasse nel 218 d.C. imperatore un suo nipote, Vario Avito Bassiano, meglio noto come Elagabalo. Il regno di questo ragazzino, arrivato quattordicenne al trono imperiale, segna uno dei momenti più oscuri della storia imperiale del Ill secolo d.C. A parte le sue innumerevoli stranezze, che comportarono lo sperpero di ingenti risorse, Elagabalo è ricordato soprattutto per il suo intenso misticismo e per il tentativo di imporre come religione di Stato un culto esotico e stravagante, quello del dio Sole venerato in Siria. Elagabalo arrivò al punto di portare a Roma il suo simulacro e di fargli erigere un tempio sul Palatino. Di fronte al risentimento generale, la stessa Giulia Mesa impose al nipote di associare al potere il cugino Bassiano. Ma questa soluzione non impedì che si organizzasse una congiura: nel 222 d.C. Elagabalo fu assassinato dai pretoriani, che proclamarono imperatore il cugino Bassiano, che gli successe con il nome di Severo Alessandro. Anche Severo Alessandro non era che un ragazzino al momento in cui salì al potere, ma il suo regno trasse profitto dal fatto che l'azione di governo fu in mano, almeno per i primi anni, al grande giurista Ulpiano, che deteneva la carica di prefetto del pretorio. All'azione di quest'ultimo si deve se, dopo un lungo periodo di conflittualità, i rapporti tra imperatore e senato tornarono a essere improntati a uno spirito di collaborazione. Durante il regno di Severo Alessandro si verificò un evento di fondamentale importanza. Nel 224 d.C., in Persia, alla dinastia partica degli Arsacidi era succeduta quella dei Sasanidi. I Persiani scatenarono un'offensiva contro la Mesopotamia romana arrivando a minacciare anche la Siria. L'intervento di Severo in Oriente, anche se non risolutivo, riuscì a bloccare l'offensiva nemica. L'imperatore era appena rientrato a Roma che fu chiamato in Gallia, minacciata a sua volta da incursioni di popolazioni barbariche. Nel 235 d.C., mentre era impegnato a fronteggiare questa nuova situazione di crisi, fu assassinato a Magonza insieme alla madre nel corso di una nuova congiura dei militari, che lo accusavano di cercare di trattare coi barbari anziché combatterli. Finiva così la storia della dinastia dei Severi che aveva provocato un indebolimento della classe dirigente tradizionale e accentuato la forza dell'esercito, divenuto padrone dei destini dell'Impero.  L’anarchia militare Al posto di Alessandro Severo l'esercito proclamò imperatore un ufficiale di origine tracia, Massimino. Con il suo regno incomincia l'epoca di massima crisi: questo periodo, nel quale si succedono circa venti imperatori, viene definito come la fase dell'“anarchia militare” (235-284 d.C.). Massimino ottenne comunque dei successi nelle sue campagne contro i barbari, in particolare contro gli Alamanni. La durezza del suo regime, che impose una forte pressione fiscale per far fronte alla grave situazione militare in cui si trovava l’Impero, spiega la ritrovata forza di coesione del senato, che giunse a dichiararlo nemico dello Stato. Il senato aderì subito alla proclamazione dell'anziano Gordiano, proconsole in Africa, che si associò il figlio. Quando la rivolta fu repressa dai soldati fedeli a Massimino e i due Gordiani trovarono la morte, il senato affidò il governo dello Stato a venti consolari al cui interno furono prescelti come Augusti Pupieno e Balbino. Nel 238 d.C. Massimino mosse alla volta dell'Italia ma cadde assassinato dai suoi stessi soldati ad Aquileia. Massimino fu il primo imperatore a non recarsi a Roma. A Roma Pupieno e Balbino furono uccisi dai pretoriani, che proclamarono Augusto il nipote di Gordiano I, Gordiano III. Le sorti dell'Impero furono rette fino al 243 d.C. per conto di Gordiano III, dal valoroso prefetto del pretorio Timisiteo, che era anche suo suocero. Alla morte di Gordiano III nel 244 d.C. nel corso di una campagna contro la Persia, fu acclamato imperatore Filippo detto l’Arabo. Filippo si affrettò a stipulare una pace con il re dei Persiani Sapore, che aveva ripreso l'iniziativa sul fronte orientale. Nel 248 d.C. celebrò con grande enfasi il millenario di Roma. Malgrado alcuni successi conseguiti nella difesa delle frontiere, anche il regno di Filippo terminò in modo cruento. L'esercito acclamò imperatore al suo posto il suo prefetto urbano, il senatore Messio Decio. Il suo breve regno (249-251 d.C.) è caratterizzato da un'evidente volontà di rafforzare l'osservanza dei culti tradizionali, tra cui quello ufficiale dell'imperatore, inteso come strumento di coesione interna. Questo significava di fatto per i cristiani una forte discriminazione; Decio, responsabile di una violenta persecuzione contro i cristiani scatenata nel 250/251, ci è stato presentato nelle fonti cristiane come una sorta di mostro. Decio morì nei Balcani nel 251 d.C., combattendo contro i Goti. La sua morte avvenne mentre l’Impero si trovava minacciato su più fronti. Sul confine gallico e su quello germanico premevano le popolazioni degli Alamanni e dei Franchi; la frontiera del basso Danubio era attaccata dai Goti mentre in Oriente i Persiani si stavano impadronendo della Siria. Valeriano (253-260 d.C.), un anziano senatore, arrivò al trono imperiale dopo una serie di effimeri imperatori militari. Data la gravità e l'incertezza della situazione, Valeriano ebbe l'accortezza di associare immediatamente al potere il figlio Gallieno e di decentrare il governo dell'Impero: infatti, egli affidò a Gallieno il compito di difendere le province occidentali. La sua campagna contro i Persiani finì tragicamente: Valeriano fu sconfitto a Edessa e fatto prigioniero dal re Sapore. Gallieno, rimasto da solo a reggere l'Impero tra il 260 e il 268 d.C., riuscì a bloccare l'avanzata degli Alamanni e dei Goti, anche se fu costretto ad arretrare tutta la linea di frontiera al Danubio, con la perdita della Dacia. Di fronte alle ribellioni degli usurpatori e alle tendenze delle province a governarsi da sole, Gallieno dovette tollerare che all'interno dell'Impero si formassero due regni separatisti: quello delle Gallie, retto da Postumo ed esteso anche alla Spagna e alla Britannia, e quello di Palmira, comprendente la Siria, la Palestina e la Mesopotamia, con a capo Odenato. Per porre rimedio alle continue ribellioni dei comandanti militari di estrazione senatoria, sottrasse il comando delle legioni ai senatori e lo affidò ai cavalieri. Una novità riguardò anche la concezione strategica di difesa dei confini: invece di dislocare tutte le truppe lungo la frontiera, privilegiò la concentrazione di alcuni contingenti all'interno del territorio imperiale con la funzione di unità mobili di difesa.  Gli imperatori illirici L'uccisione di Gallieno (268 d.C.) portò al potere il suo comandante della cavalleria. Claudio II (268-270 d.C.) è il primo di una serie di imperatori detti “illirici” perché originari di quella regione. Claudio conseguì due importanti successi, uno contro gli Alamanni, che avevano invaso la pianura padana, e un altro contro i Goti, che erano giunti a occupare Atene. Morto Claudio II di peste, la sua opera fu completata da Aureliano (270-275 d.C.) che riuscì ad avere ragione delle popolazioni barbariche che erano penetrate nella pianura padana. Aureliano fece costruire un’imponente cinta muraria intorno a Roma, che consisteva in un perimetro di oltre 18 km con uno spessore di quattro metri. Riuscì a sottomettere i due Stati autonomi che si erano costituiti negli anni precedenti: nel 272 d.C. si impadronì in Siria della città di Palmira dopo aver sconfitto le forze condotte dalla regina Zenobia e nel 274 d.C. fu sconfitto anche l'ultimo sovrano del regno separatista delle Gallie, Tetrico. L'unità dell'Impero risultava così ricostituita. Aureliano ebbe il merito di restituire un certo prestigio alla figura del sovrano: promosse una riorganizzazione dello Stato in tutti i settori essenziali della vita economica e diede impulso al processo di divinizzazione del monarca. Tra l'altro impose l'inquadramento, alle dipendenze dello Stato, delle associazioni professionali, come quelle degli armatori di navi, che svolgevano compiti di primaria importanza. Significativa è anche la sua riforma monetaria: egli introdusse una nuova moneta, chiamata ancora “antoniniano”, ma che doveva sostituire la precedente. In campo religioso l'introduzione del culto ufficiale di Sol invictus, identificato con Mitra, voleva significare il rafforzamento dell'autorità imperiale: l'autocrazia militare si avvicinava così a una forma di teocrazia e il culto solare si identificava col culto dell'imperatore. Ucciso Aureliano nel 275 d.C., alla vigilia di una nuova campagna contro i Persiani, ci fu il breve regno dell'imperatore senatorio Tacito (275- 276 d.C.). Durante il successivo governo di Probo (276-282 d.C.), si ebbero vari pronunciamenti militari e una rinnovata pressione barbarica sulla frontiera renana e danubiana. Probo riuscì a ottenere significativi successi su questi fronti, ma fu ucciso mentre preparava una campagna contro la Persia. Il suo successore, il prefetto del pretorio Caro, condusse a felice compimento tale campagna conquistando la capitale nemica, Ctesifonte. Nonostante questo, anch'egli venne ucciso nel corso di una congiura militare. Stessa sorte toccò ai figli Numeriano e Carino. Alla fine, salì al potere nel 285 d.C. Diocleziano.  Diocleziano e il Dominato Con il regno di Diocleziano (284-305 d.C.) si chiude la crisi del III secolo. Si tratta di un'età di riforme e di novità, a cominciare da quella che dava una diversa organizzazione al potere imperiale centrale; a partire da questo momento si fa iniziare la fase del “Dominato”, rispetto a quella precedente detta “Principato”. Il regno di Diocleziano è contraddistinto da una forte volontà restauratrice dello Stato a tutti i livelli, politico-militare, amministrativo ed economico. Probabilmente per garantire una migliore difesa alle regioni più minacciate, Diocleziano stabilì la propria sede in Oriente, a Nicomedia, capitale della Bitinia. Del resto, l’Oriente appariva economicamente più solido dell'Occidente. Si deve peraltro mettere in rilievo come l'ideologia conservatrice che ispirò le sue riforme ebbe come esito una serie di misure che, nel lungo periodo, riorganizzarono la compagine imperiale su basi diverse rispetto a quelle originarie. Tra le varie riforme è di particolare importanza quella che riguarda il potere imperiale. Diocleziano concepì un sistema in base al quale al vertice dell'Impero c'era un collegio imperiale composto da quattro monarchi, detti tetrarchi, due dei quali (Augusti) erano di rango superiore ai secondi (Cesari). Tale sistema aveva come fine quello di fronteggiare meglio le varie crisi regionali una diversa dislocazione del potere imperiale. L’allestimento di una nuova capitale nel sito dell'antica Bisanzio, in una posizione strategicamente importante all'ingresso del mar Nero, era anche un riconoscimento all'importanza dell’Oriente all'interno dell'Impero. Costantinopoli fu dotata nel corso degli anni di tutte le strutture che la dovevano equiparare a Roma. Ebbe anche un suo senato, all'inizio composto da soli 300 membri che divennero poi quasi 2.000. L'assemblea costantinopolitana però non conseguì mai il prestigio di quella romana. Quale fosse l'idea che Costantino avesse della propria funzione rispetto all'Impero e rispetto alla Chiesa cristiana ci è chiarito dal vescovo Eusebio di Cesarea, autore di una Storia Ecclesiastica e di una Vita di Costantino: la sua teologia politica è incentrata sulla figura del primo imperatore cristiano. L'imperatore è presentato come “vescovo di quelli che sono fuori”, cioè di coloro che si trovano “al di fuori della Chiesa”; dunque, dei laici. Tale particolare posizione ne rese legittima la sepoltura nella basilica di S. Sofia a Costantinopoli come “uguale degli apostoli”. Tuttavia, il mantenimento di usi tradizionali è tollerato, a condizione che non sia in contrasto inconciliabile con i principi cristiani. Tra le riforme attuate da Costantino, una delle più significative riguarda l'esercito: a lui si deve la creazione di un consistente esercito mobile, detto comitatus perché “accompagnava” l’imperatore. I soldati che ne facevano parte ricevevano una paga più alta rispetto agli altri. Così i soldati collocati sulla frontiera, il limes, finivano per essere soldati di second'ordine, di scarsa esperienza e mal pagati. Il comando dell'esercito mobile fu affidato a due generali, uno della cavalleria e uno della fanteria. Il problema militare non fu però superato. L'esercito mancava di soldati. Per questo, si ridusse l'altezza richiesta alle reclute, si incrementò la caccia ai disertori, si rafforzò l'ereditarietà della professione militare e si concessero privilegi ai veterani per attirare dei volontari. Ma poiché le varie categorie di lavoratori erano a loro volta vincolate alla loro condizione, i soldati finirono per essere reclutati sempre più tra i barbari che premevano alle frontiere piuttosto che tra i contadini. La minaccia barbarica era così grave da non consentire soluzioni definitive. Lo Stato la fronteggiò come poteva, combattendo i barbari con l'impiego di tutte le risorse di un apparato militare che Diocleziano e Costantino avevano ristrutturato e mediante una politica di assorbimento nei quadri dell'organismo imperiale, dalla quale derivò una disomogenea “barbarizzazione” della società. Lo storico latino Ammiano Marcellino ci descrive due battaglie decisive: la vittoria di Giuliano Cesare a Strasburgo nel 357 d.C. sugli Alamanni e il tragico episodio di Adrianopoli del 378 d.C., quando la disfatta e la morte dell'imperatore Valente a opera dei Goti consentirono la penetrazione nell'area balcanica di molte decine di migliaia di barbari e crearono le premesse di negoziati con l'imperatore Teodosio (sfociati nel 382 in un vero trattato) con il quale i Goti erano accettati ufficialmente in Tracia e in altre regioni.  La morte di Costantino e la fine della dinastia costantiniana Costantino ricevette il battesimo solo in punto di morte. Nell'uso dell'epoca ricevere il battesimo in punto di morte era considerato un modo per essere sicuri della vita eterna. A battezzare Costantino fu il vescovo della città, Eusebio. La morte arrivò durante la festa di Pentecoste del 337 d.C. Costantino, che dopo il battesimo aveva rifiutato di indossare di nuovo la porpora, l'aveva attesa vestito di bianco. Nella chiesa dedicata ai Santi Apostoli egli aveva fatto collocare dodici cenotafi1, sei da una parte e sei dall'altra. Al centro c'era un sarcofago riservato per lui, che peraltro moriva conservando la carica di pontefice massimo, di capo supremo della religione pagana. Lo sguardo di Costantino era costantemente rivolto al cielo. Una moneta di consacrazione, coniata dopo la sua morte, è indicativa di come la tradizione, che prevedeva la divinizzazione dell'imperatore defunto, potesse venire rinnovata dal cristianesimo. Sorprende che, a fronte di un'opera di riforma così sistematica dello Stato, Costantino non abbia affrontato in modo coerente il problema della successione: solo a livello di pura ipotesi si può supporre che, con la creazione di più prefetture del pretorio, egli prevedesse per ciascuna il governo di uno dei suoi figli e forse anche uno dei due nipoti. Tuttavia, una simile soluzione poteva essere valida al massimo per l'immediato e lasciava insoluti i problemi di fondo. Le fonti sembrano essere attendibili nel riflettere un clima di reale incertezza. La partecipazione dei figli alla dignità imperiale lascia intravvedere il possibile ritorno a un potere retto da una pluralità di sovrani. Tuttavia, non è chiaro quale forma di sistemazione concreta l'impero dovesse assumere. Un collegio imperiale formato da sovrani posti tutti sullo stesso piano è poco plausibile: Costantino aveva concepito la sua missione come un ristabilimento dell'unità dell'Impero attraverso il regno di un solo imperatore. Quel che è certo è che i soldati non si dimostrarono sensibili alle sottigliezze della politica. La loro scelta era a favore del principio di una rigida successione dinastica. Alla morte di Costantino, i nipoti del defunto sovrano, che potevano rappresentare un'alternativa alla successione, furono eliminati. Costantino II (cui fu attribuito il governo delle Gallie, della Britannia e della Spagna), Costante (cui furono riservate l’Italia e l'Africa) e Costanzo (cui toccò l'Oriente) raggiunsero un accordo per il governo congiunto dell'Impero, che però si rivelò assai precario. Già nel 340 d.C. Costantino II pagava con la vita l'incursione compiuta nei territori affidati al governo di Costante. Quest'ultimo moriva a sua volta nel 350 1 Monumento sepolcrale che viene eretto in un famedio, in una chiesa ecc. per ricordare una persona o un gruppo di persone sepolte in altro luogo. d.C. per mano di un usurpatore, Magnenzio. Rimasto unico imperatore, Costanzo II fu costretto a cercare un collega cui affidare il governo dell'Occidente: la scelta cadde sul cugino Giuliano, nominato Cesare nel 355 d.C., che riuscì a garantire la sicurezza delle Gallie grazie a un successo ottenuto sugli Alamanni a Strasburgo. La sua proclamazione imperiale nel 360 d.C. da parte dell'esercito gallico sembrò condurre l'Impero verso un nuovo conflitto fratricida, prevenuto solo dalla morte repentina di Costanzo nel 361 d.C. Giuliano regnò come imperatore unico per diciotto mesi, quando perì nel corso di una campagna contro i Persiani. Il suo regno è ricordato soprattutto per un effimero tentativo di reintrodurre la religione pagana. Giuliano aveva elaborato un programma di ampio respiro che aveva i propri capisaldi in un’amministrazione efficiente e nella rivitalizzazione del ruolo delle città. Tuttavia, questo progetto si scontrò con due difficoltà di diversa portata. La prima era rappresentata dalla guerra contro i Persiani, la seconda scaturiva dalle tensioni determinate dal suo progetto di restaurare il paganesimo, che si tradusse nell'abrogazione dei privilegi fiscali che da Costantino in poi erano stati concessi alla chiesa cristiana; questo determinò resistenze e attriti e non incontrò un'accoglienza favorevole neppure presso gli stessi pagani. Il turbolento periodo trascorso da Giuliano ad Antiochia alla vigilia della partenza della campagna contro la Persia è indicativo. La città soffriva di una crisi economica determinata dalle speculazioni dei proprietari terrieri che era aggravata dalla concentrazione di soldati. Lo stile austero di Giuliano, che non seppe accogliere le esigenze degli abitanti, provocò una grave crisi tra lui e gli Antiocheni che salutarono la sua partenza con sollievo. Si estingueva così nel segno della sconfitta, della divisione e del conflitto religioso la dinastia costantiniana.  Dalla morte di Giuliano a Teodosio Magno In generale, per quanto riguarda la storia politica, l'Impero romano nel IV secolo d.C. presenta una relativa stabilità dal punto di vista interno. Fino alla morte di Teodosio, nel 395 d.C., l’unità dell'Impero è preservata. Anche il problema barbarico fu a lungo tenuto sotto controllo. La morte di Giuliano in territorio persiano richiese a un tempo la nomina di un successore e una rapida soluzione del conflitto. Dopo il breve regno di transizione di Gioviano, che stipulò una pace con i Persiani, nel 364 d.C. fu acclamato imperatore Valentiniano, che si associò nel potere il fratello Valente, cui affidò il governo dell'Oriente. Tale decisione fu un passo importante lungo la via che portò alla separazione della parte occidentale da quella orientale dell’Impero. Per fronteggiare meglio il pericolo barbarico, Valentiniano scelse di risiedere a Treviri mentre Valente risiedeva a Costantinopoli. Valentiniano si segnala, all'interno, per una politica di tolleranza religiosa e di sostegno delle classi più umili. Il suo regno è importante soprattutto per un efficace contenimento dei barbari che premevano alle frontiere. Valentiniano I riuscì a difendere il confine renano-danubiano contro Alamanni, Franchi e Burgundi e a stabilizzare le frontiere con un articolato sistema di fortificazioni. Represse con successo la rivolta di Firmo, capo di una tribù maura in Africa. Alla sua morte (375 d.C.) gli successe sul trono il figlio Graziano; fu proclamato Augusto anche il fratello minore Valentiniano II anche se aveva solo quattro anni. Nel frattempo, a Valente, la cui azione di governo fu assai meno positiva di quella del fratello, toccò di affrontare una situazione molto difficile. L'Europa centro-orientale si trovava sconvolta dall'incursione di una popolazione nomade, gli Unni, che avevano abbandonato le loro sedi abituali in Asia e sottoponevano a una pressione molto forte i Goti. Questi ultimi a loro volta premevano sulla frontiera danubiana. Falliti vari tentativi di insediarli pacificamente entro i confini, quando irruppero in Tracia Valente li affrontò in una battaglia campale. La sconfitta da lui patita ad Adrianopoli nel 378 d.C. è di estrema gravità e rappresenta uno degli episodi che annunciano la fine dell'Impero romano d'Occidente. Alla consapevolezza del declino delle capacità dell'esercito di fronteggiare la situazione fa da riscontro la sua progressiva barbarizzazione. Dopo Adrianopoli, la convivenza con i barbari diventa un tema centrale di dibattito, soprattutto in Oriente, in ragione della politica di collaborazione promossa da Teodosio. Graziano, rimasto imperatore da solo con il piccolo Valentiniano II, chiamò un generale spagnolo, Teodosio, a condividere con lui il governo dell'Impero. Il suo compito era quello di far fronte alla situazione che si era creata in Oriente. Teodosio, consapevole dell'impossibilità di ricacciare i Goti al di là del Danubio, concluse nel 382 d.C. un accordo con il loro capo Fritigerno. La particolarità di questo trattato risiede nel fatto che i Goti ricevevano delle terre all'interno dell'Impero come popolazione autonoma: essi erano detti infatti foederati (in quanto vincolati da un foedus, un trattato) e mantenevano i loro capi e le loro leggi, pur essendo tenuti a fornire dei soldati in caso di necessità. Intanto, in Occidente le cose si andavano complicando. Nel 383 d.C. ci fu un'usurpazione in Britannia da parte di un ufficiale spagnolo, Magno Massimo. Quando questi invase la Gallia, Graziano, si tolse la vita. Massimo regnò per qualche anno sulla Gallia: la sua invasione dell'Italia, dove governava Giustina, provocò la risposta di Teodosio che sconfisse Massimo nel 388 d.C. La situazione si era appena ristabilita quando il generale franco Arbogaste fece assassinare, nel 392 d.C., Valentiniano II che era stato affidato alla sua tutela. Arbogaste fece nominare imperatore Eugenio. Teodosio intervenne di persona in Italia nel 394 d.C. e sconfisse Eugenio. Teodosio manifestò una particolare attenzione per il problema religioso. Fondamentale è l'editto del 380 d.C., con il quale la religione cristiana veniva elevata al rango di religione ufficiale dell'Impero. Nel 381 d.C. Teodosio convocò un concilio ecumenico a Costantinopoli, che ribadì il credo niceno e promulgò una legislazione sempre più severa nei confronti dei seguaci del paganesimo, malgrado le proteste e un tentativo di reazione da parte del senato di Roma. Un protagonista degli ultimi decenni del IV secolo d.C., e soprattutto del regno di Teodosio, è il vescovo di Milano, sant'Ambrogio. Figlio di un prefetto del pretorio, fu acclamato vescovo di Milano nel 374 d.C. Ambrogio affrontò con successo i tentativi dell'ariana Giustina di ottenere riconoscimenti per la sua confessione e non esitò a imporre la propria autorità anche a Teodosio. Quando l'imperatore punì un vescovo di una località della Mesopotamia per aver incendiato una sinagoga ebraica, egli lo costrinse a ritornare sulla decisione minacciandolo di sanzioni spirituali. Nel Natale del 390 d.C. Ambrogio impose a Teodosio una penitenza pubblica per riammetterlo nella comunità cristiana, dovuta alla strage che l'imperatore aveva ordinato a Tessalonica a seguito di una sommossa popolare.  La vittoria del cristianesimo e la risposta pagana La svolta costantiniana a favore del cristianesimo è corroborata dalla legislazione antipagana degli imperatori successivi che culmina in quella di Teodosio. Il trionfo del cristianesimo porta con sé novità nella politica come nella società. La risposta pagana si situa su un piano culturale: a Roma ha un centro di coagulo nell'aristocrazia senatoria, che difende il paganesimo anche per tutelare la propria identità politica. Lo stesso tentativo di ripristinare l’antica religione da parte di Giuliano insiste sulla polemica culturale nei confronti del cristianesimo. Nel suo insuccesso, dovuto anche alla volontà di imporre un credo astruso e una forma di religiosità molto rigorosa, si riconoscono motivazioni ideali che faranno della sua figura quella di un eroe, quasi un santo pagano.  La crisi economica Tra il II e il III secolo d.C. la trasformazione nei sistemi di gestione delle aziende agrarie cui si assiste può essere considerata manifestazione di una crisi in atto. La villa schiavistica aveva esaurito il suo ciclo come centro produttivo autonomo. Molte ville venivano abbandonate e la produzione tendeva a essere decentrata su varie unità minori, sulle quali predomina la conduzione indiretta, tramite grandi e piccoli affittuari. Si tratta di un processo che con il tempo porta a un mercato più limitato, che si indirizza verso una dimensione regionale. Le incursioni barbariche determinarono, con la rottura del limes, la chiusura dei circuiti commerciali mediterranei. La graduale sostituzione della Betica con l'Africa settentrionale per il rifornimento oleario fu dovuta al nuovo asse che si era venuto creando tra Roma e le province africane in risposta al fabbisogno alimentare della capitale. Il tipo di Stato che alla fine emerge è caratterizzato da una maggiore pressione coercitiva sulla società, da un irrigidimento a tutti i livelli dell'articolazione sociale. Nelle campagne compare una figura nuova, almeno sul piano giuridico, di un coltivatore (colono), di stato libero ma di fatto vincolato alla sede in cui lavora, assimilabile quindi per molti aspetti a uno schiavo. La riforma dello Stato romano come risposta alla crisi che aveva travagliato l’Impero per buona parte del III secolo si situa a livelli diversi. Le innovazioni introdotte da Diocleziano sono importanti: tra queste, c'è la perdita da parte dell'Italia della sua posizione privilegiata dal punto di vista fiscale e la sua equiparazione di fatto alle altre province. Conseguenze importanti per l'economia e per la gestione agraria ebbe anche l'istituzione di più capitali che corrispondevano alle aree strategicamente più importanti. Sin dalla fine del III secolo d.C., Roma cessò di essere residenza dell'imperatore quando Massimiano trasferì la sua residenza a Milano. Tale trasferimento creò in questa città un accresciuto fabbisogno, dovuto alla presenza in essa del personale burocratico e dei soldati. Le accentuate esigenze fiscali producevano però distorsioni, oltre che nel regime economico, anche nelle relazioni sociali. Una circolazione limitata di beni fu garantita dall'emergere di nuove classi sociali, magistrati e funzionari statali, ecclesiastici e altri, che mantenevano un alto livello di potere d'acquisto. La frammentazione politica seguita alle invasioni barbariche provocò nel V secolo d.C. la definitiva rottura delle relazioni commerciali all'interno del Mediterraneo, che determinarono un rapido abbassamento delle condizioni di vita e un netto declino demografico.  Che cosa si intende per “Tarda Antichità” Il limite cronologico tra Antichità e Medioevo si è indebolito sempre di più, mentre maggiore considerazione hanno avuto gli elementi di continuità. La periodizzazione storica ne ha guadagnato alla fine, se non una nuova età, almeno un’epoca dai caratteri abbastanza definiti. Si è venuta consolidando nella coscienza storiografica l'idea di una Tarda Antichità con caratteri originali e distintivi, tali da farle meritare una piena autonomia come periodo storico. Già nel nome stesso di “Tarda Antichità” e non più di “Basso Impero” si riflette l’immagine di un'epoca portatrice di valori positivi, che non risulterebbero comprensibili se fossero inseriti in un contesto di semplice decadenza. La questione in realtà non è così semplice. Come momento conclusivo dell'età tardoantica si è accettata l'invasione longobarda per l'Occidente (568 d.C.) e la fine del regno di Giustiniano per l'Oriente (565 d.C.), perché allora viene meno ogni riecheggiamento dell'arte classica. Più controversa è la fissazione del momento iniziale. La tetrarchia, il regno di Costantino o l'età severiana, erano visti come spartiacque di due epoche accostabili tra loro, seppure caratterizzate da elementi chiaramente distintivi. complessi equilibri dell'Impero alla fine del IV secolo d.C. Simmaco in fondo chiede solo tolleranza. Ambrogio, che persegue un’idea ben precisa del ruolo della Chiesa, la rifiuta. LA FINE DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE E BISANZIO LA FINE DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE  L’impero romano e i barbari Attorno alla metà del IV secolo d.C. i Goti erano la forza predominante nella regione del Ponto, operando nei due raggruppamenti fondamentali dei Greutungi e dei Tervingi. I primi erano insediati a est del Dniester, mentre i secondi avevano le loro sedi a ovest del fiume. Per buona parte del IV secolo d.C. le relazioni tra Roma e i Goti furono condizionate dal trattato di pace di Costantino del 332 d.C., che faceva dei Goti Tervingi uno Stato-cliente dei Romani. Il trattato del 332 d.C. poneva le condizioni per l'impiego di barbari goti come soldati al servizio di Roma. La stabilità delle relazioni romano-gotiche fino a poco dopo il 360 d.C. è da ritenersi sicura. La situazione ebbe una svolta drammatica quando i vari regni gotici entrarono a loro volta in crisi per la pressione esercitata su di loro dagli Unni, che avevano distrutto le loro terre più settentrionali. Questa pressione spiega perché, nel 376 d.C., i Tervingi facessero richiesta di essere accolti a sud del Danubio, nella Tracia, giudicata un rifugio idoneo perché terra fertile e al di là della portata degli Unni. L'accordo allora stipulato tra i Romani e i Goti, autorizzati a insediarsi all'interno delle frontiere imperiali in cambio di un impegno a fornire soldati in caso di necessità, rappresenta una novità rilevante nella politica romana perché non scaturiva da un successo militare. Il disastro di Adrianopoli del 378 d.C., in cui trova la morte lo stesso imperatore Valente, è una delle pagine più drammatiche della storia del Tardo Impero e le sue conseguenze sono decisive per la sopravvivenza dell'Impero romano. Il trattato del 682 d.C., con cui si chiude questa fase critica, finì per consentire l'insediamento di Goti in Tacia, all’interno dunque delle frontiere dell'Impero romano: come contropartita è probabile che, oltre al pagamento di tasse, sia da mettere in conto la prestazione di servizio militare. Oltre agli aspetti militari, questa situazione aveva anche importanti risvolti sociali. L'integrazione di individui, tribù e popolazioni è stata una prassi usuale di Roma, ma è soprattutto nell’esercito che si nota una presenza sempre più massiccia di Germani. Il processo in virtù del quale le cosiddette tribù barbariche erano state insediate a vario titolo sul territorio imperiale romano era iniziato con Marco Aurelio. Da questo momento in poi gli imperatori romani si appoggiarono sempre più alle truppe germaniche e ai loro capi. L'influsso dei Germani sulla politica interna romana si basa quasi esclusivamente sulla loro posizione guadagnata all'interno della gerarchia militare: è incerto se abbiano occupato cariche anche nell'amministrazione civile. Nell'esercito le possibilità di carriera non erano vincolate all'appartenenza a un ordine, ma si basavano sulle capacità personali e sul favore imperiale. L'esclusione dei senatori dai comandi militari, inoltre, ebbe come conseguenza il cambiamento della base sociale di reclutamento degli ufficiali. L'impiego di barbari come coloni su terre dell’Impero risale fino all'età di Marco Aurelio e prosegue con alterne vicende. A Costantino forse si deve il primo insediamento di nuclei consistenti di barbari entro i confini dell'Impero. Già negli anni successivi sono infatti attestate ripetute assegnazioni di terre in Italia, e la presenza di insediamenti barbarici ha lasciato talvolta traccia nella toponomastica. Dunque, l'Italia settentrionale e centrale nel corso del IV secolo d.C. conobbe una serie di accantonamenti di barbari come risultato di una politica mirata e di accordi pacifici. La caratteristica precipua di questi accantonamenti è di avvenire sulla base di gruppi etnici compatti. La regolarità di tale prassi sembra essere alla base di una legge che risale alla fine del IV secolo d.C., con la quale si raccomanda di impedire che i barbari occupino un'estensione di terra pubblica superiore a quanto loro consentito. Solo eccezionalmente, tuttavia, veniva concessa a queste categoria di barbari la cittadinanza romana. Almeno fino alla sconfitta di Adrianopoli sembra chiara la volontà degli imperatori di perseguire due finalità ugualmente vitali, vale a dire reclutare barbari per la terra e per l'esercito e mantenere la reciproca estraneità fra barbari e Romani. In un primo momento, a fronte del massiccio insediamento di barbari che si stava realizzando, si cercò di impedire le unioni miste al fine di ostacolare l'integrazione dei nuovi arrivati. Un altro problema riguarda la durata e l'efficacia del divieto, stabilito da Valentiniano I, che prevedeva una grave sanzione per i trasgressori. È possibile che si sia trattato di un provvedimento di breve durata, vanificata dalle continue deroghe. La legge di Valentiniano, inoltre, non sembra aver conosciuto alcuna applicazione in Oriente. In Occidente il problema barbarico era avvertito in termini assai diversi che non in Oriente. Mentre qui esso aveva forti implicazioni di carattere religioso, in Occidente erano prevalenti i risvolti di carattere politico-sociale ed etnici.  Cristianesimo e mondo barbarico Una considerazione particolare deve essere riservata alla risposta dalla Chiesa alla questione barbarica, così come risulta dalla patristica e dai decreti conciliari. In tema di matrimonio questi ultimi si limitano a sconsigliare i matrimoni misti, che tuttavia non sono considerati illegittimi. È solo la disparità di culto che sconsiglia tali unioni miste. Comunque, le delibere conciliari non si interessano dei barbari in quanto tali, ma solo indirettamente, quando si occupano di eresie e di eretici. Un esempio è fornito da una lettera inviata da Ambrogio nel 385 d.C. al vescovo Vigilio, appena insediato sulla cattedra episcopale di Trento, quando era in una fase di contrapposizione con la corte imperiale dominata da Giustina, di fede ariana, madre dell'imperatore Valentiniano II. Gran parte del programma pastorale contenuto nella lettera è dedicato alla disparità di culto tra i nubendi. Ambrogio assume una posizione particolarmente dura. Peraltro, il suo atteggiamento muta quando deve intrattenere relazioni con alte personalità barbariche: allorché sono in gioco questioni di natura politica, egli prescinde completamente dalla fede religiosa. In generale Ambrogio è conciliante e disponibile verso i barbari, quando ne rileva l'utilità per funzioni di difesa. Ci sono anche altri indizi che suggeriscono l'accresciuta rilevanza del problema barbarico proprio come problema di integrazione ai vari livelli sociali. Tre leggi, emanate dal figlio e successore di Teodosio in Occidente, Onorio, comminano gravi pene a chiunque, libero o schiavo, assuma modi di vestire e di acconciarsi propri dei barbari. La maggior presenza barbarica all’interno dell'Impero romano è un chiaro effetto degli sviluppi della politica teodosiana. Il risultato più importante del trattato del 382 d.C. fu quello di far sì che i Goti venissero insediati da Teodosio nella zona di frontiera danubiana nella Mesia Inferiore e in Tracia. L’aspetto delicato di questo insediamento risiede nel fatto che i Goti dovettero continuare a mantenere la loro struttura tribale: essi erano tenuti a pagare delle tasse e a prestare servizio militare, che però doveva consistere nella partecipazione, in unità compatte, a campagne straordinarie.  La divisione dell’Impero; Stilicone Con la morte di Teodosio nel 395 d.C., l'Impero romano fu diviso in due parti tra i suoi due figli, Arcadio (Oriente) e Onorio (Occidente). Non solo c'erano due imperatori, ma si crearono anche due corti, due amministrazioni, due eserciti autonomi. A partire da questo momento l'ideologia unitaria fu nei fatti piegata agli interessi che di volta in volta riguardavano ciascuna delle due parti. L'esito di tale smembramento risultò rovinoso per l'Occidente, minacciato dalle sempre più frequenti e pericolose incursioni barbariche mentre l'Oriente, superata la crisi gotica del 378 d.C., doveva fronteggiare il nemico persiano. Nelle intenzioni di Teodosio, il principio unitario doveva essere mantenuto vivo dal generale Stilicone, cui affidò in tutela i due figli. Il compito di Stilicone però si rivelò impossibile da realizzarsi, in ragione del costante aggravarsi della situazione militare. Nel 398 d.C. Silicone riuscì a reprimere la rivolta suscitata in Africa da un principe mauro, Gildone, ma all'inizio del V secolo d.C. una serie di invasioni barbariche scosse l'Impero fin nelle sue fondamenta. Nel 402 e nel 406 d.C. anche l'talia fu invasa dai Goti, guidati da Alarico e da Radagaiso. In entrambi i casi Stilicone riuscì a fermare la loro avanzata. Ma alla fine del 406 d.C. la frontiera renana fu travolta da numerose popolazioni germaniche: Vandali, Alamanni, Burgundi, Franchi, Svevi e Alani dilagarono verso la Gallia meridionale. Mentre la Britannia si staccava dall'Impero, Vandali, Alani e Svevi varcavano i Pirenei e si stabilivano in Spagna. In una situazione di questo genere era inevitabile che Stilicone cercasse una soluzione di compromesso almeno con i Goti che minacciavano direttamente l'Italia. Il suo piano suscitò la violenta reazione di una parte della corte imperiale, che nel frattempo si era trasferita a Ravenna. Lo stesso Onorio si schierò contro Stilicone che, accusato di intesa con i barbari, fu messo a morte a Ravenna nel 408 d.C.  Il sacco di Roma Le conseguenze di quest'atto insensato, che privava l'Occidente del suo migliore difensore, si fecero sentire immediatamente. L'Italia fu abbandonata alla mercé di Alarico, che nell'agosto del 410 d.C. entrò in Roma e la saccheggiò. Era la prima volta, dai tempi dell'incendio gallico del 390 a.C., che la città cadeva in mano ai suoi nemici e i pagani ne trassero spunto per attribuire la responsabilità dell'evento ai cristiani che avevano imposto l'abbandono degli antichi riti. Dopo aver saccheggiato Roma, Alarico si diresse verso il sud dell'Italia, portando con sé come ostaggio la sorella di Onorio, Galla Placidia. La morte improvvisa di Alarico risparmiò ulteriori traversie all'Italia: i Goti si ritirarono nella Gallia meridionale, dove dettero vita a uno Stato vero e proprio, con capitale Tolosa. Il successore di Alarico, Ataulfo, sposò Galla Placidia, che divenne regina dei Visigoti. Si trattò però di una soluzione fragilissima: Ataulfo fu costretto a trovare per il proprio popolo una sede oltre i Pirenei e nel 415 d.C. fu assassinato. Poco dopo anche i Burgundi diedero vita a un regno autonomo. Un ruolo in Occidente importante fu svolto dal generale Flavio Costanzo, che sposò Galla Placidia e nel 421 d.C. si fece proclamare imperatore; tuttavia, morì nell'autunno dello stesso anno, prima ancora di ottenere il riconoscimento della propria sovranità da parte della corte di Costantinopoli. Nell'autunno del 425 d.C. alla testa dell'Impero d'Occidente fu insediato suo figlio, Valentiniano III, dopo che alla morte di Onorio il potere era caduto nelle mani di un usurpatore. Era un successo della dinastia teodosiana, che riusciva così a ristabilire la propria sovranità su entrambe le parti dell'Impero. Valentiniano, in realtà, era un bambino di soli sei anni che era stato portato dalla madre, Galla Placidia, a Costantinopoli già prima della morte di Onorio. Era lei, quindi, che reggeva le sorti dell'Occidente attraverso il generale Ezio, che proseguiva la stessa politica di utilizzazione dei barbari per la difesa dell'Impero già tentata da Stilicone.  Vandali e Unni I Vandali posero fine alla storia dell'Africa romana: nel 429 d.C. passarono dalla Spagna in Africa attraverso lo stretto di Gibilterra. In breve tempo occuparono un lungo tratto di costa. Nel 430 d.C., mentre assediavano la città di Ippona, morì il vescovo della città, sant'Agostino. Nel 439 d.C. cadde anche Cartagine e il re vandalo Genserico ottenne il riconoscimento del suo regno da parte della corte ravennate. Il regno dei Vandali, però, non riuscì mai a organizzarsi su basi stabili. Privo di una forte coesione interna, il regno vandalico durò poco più di un secolo: fu conquistato da Giustiniano nel 534 d.C. e inglobato nell'Impero d'Oriente. Dalla Pannonia, dove si erano insediati, incombeva il pericolo rappresentato dagli Unni, guidati da Attila. In un primo tempo si diressero contro l’Oriente penetrando sin nella Grecia centrale, ma in seguito indirizzarono le loro mire verso Occidente dove regnava Valentiniano II. Dopo aver invaso la Gallia, gli Unni furono sconfitti da Ezio, nel 451 d.C.. Quando Attila nel 452 d.C. mosse alla volta dell'Italia si verificò un evento inatteso. Gli Unni, forse anche perché minacciati alle spalle dall'imperatore di Bisanzio, Marciano, lasciarono la penisola dopo aver incontrato nei pressi del Mincio una delegazione guidata dal papa Leone I. La morte di Attila, avvenuta l'anno dopo, provocò la rapida dissoluzione del suo regno.  La fine dell’Impero romano d’Occidente Malgrado la fortunata conclusione della crisi unna, la situazione dell'Impero rimaneva precaria. Tra l'altro, l'Occidente si privò del suo più valido difensore. Anche Ezio fu ucciso nel 454 d.C. dopo essere caduto in disgrazia presso Valentiniano. Le conseguenze furono immediate. Valentiniano III fu assassinato l'anno dopo, senza che il mandante di quell'omicidio, il senatore Petronio Massimo, riuscisse a consolidare il proprio potere. Nel 455 d.C. Roma fu saccheggiata per la seconda volta, questa volta a opera del re dei Vandali Genserico con cui, nel 435 d.C., Valentiniano II aveva concluso un trattato che gli riconosceva il diritto di stabilirsi nelle province romane dell'Africa settentrionale. Petronio fu ucciso dalla folla e al suo posto fu eletto imperatore un altro senatore, Eparchio Avito, che fu deposto poco dopo e consacrato vescovo di Piacenza. Mancavano le forze per tentare una reazione che potesse avere qualche concreta possibilità di successo. Maggioriano, che fu imperatore dal 457 al 461 d.C., è l'ultimo detentore del potere in Occidente che abbia tentato una riscossa militare, oltre ad avviare qualche riforma capace di alleviare la grave crisi sociale ed economica. Da quel momento sul trono di Ravenna si succedettero imperatori sempre più effimeri e privi di vero potere, in balia dei vari contingenti barbarici che di volta in volta li proclamavano imperatori. Nel 461 d.C. Maggioriano fu eliminato da un generale barbaro, Ricimero. L'imperatore voluto da Costantinopoli, Antemio, nel 472 d.C. fu assediato a Roma da Ricimero stesso e da un altro candidato da lui sostenuto, Olibrio. Scomparsi sia Ricimero sia Olibrio, dopo un periodo di vacanza sul trono imperiale, nel 474 d.C. l'imperatore d'Oriente, Zenone, nominò imperatore Giulio Nepote. Contro Nepote si ribellò un altro generale, Oreste. La fine dell'Impero romano d'Occidente si ebbe nel 476 d.C. quando Romolo, il figlio che Oreste aveva insediato sul trono imperiale, fu scacciato da un capo barbarico, lo sciro Odoacre. Quest’ultimo, però, non rivendicò per sé il titolo di imperatore, ma rimise le insegne del potere a Zenone accontentandosi del titolo di re del suo popolo.  Sant’Agostino e il problema della caduta dell’Impero romano Il declino e la caduta dell'Impero romano rappresentano un controverso problema storiografico. Due sono i tipi di spiegazione che si è cercato di dare per la caduta dell'Impero romano, uno monocausale e uno pluricausale. 1) Una spiegazione monocausale punta a individuare una ragione fondamentale per la crisi, interna o esterna all'Impero stesso, come la crisi economica e politica o il successo del cristianesimo all'interno, oppure la pressione dei barbari all’esterno. 2) Una spiegazione pluricausale privilegia la ricerca dei fattori che, in parallelo, possono aver determinato il declino dell'Impero, come la crisi economica determinata dalla necessità di distrarre risorse sempre crescenti per fronteggiare la minaccia barbarica. Il problema della fine dell'Impero romano, in realtà, era già avvertito dai contemporanei. L'Africa romana godette ancora di un ventennio di prosperità e di libertà dopo la caduta di Roma nelle mani di Alarico nel 410 d.C. Molti furono i senatori e i nobili romani che decisero di trovarvi scampo. Agostino, vescovo di Ippona, si trovò nella necessità di rispondere all'attacco frontale recato dai pagani con le loro tesi sulla responsabilità dei cristiani per il sacco di Roma e la crisi dell'Impero. I contemporanei avevano avvertito l'aspetto epocale di un evento che veniva interpretato in modo diverso a seconda delle convinzioni filosofiche e religiose: il dato di fatto drammatico era che Roma era caduta in mano a un'orda barbarica otto secoli dopo la presa della città da parte dei Galli. A Cartagine, inoltre, Agostino era chiamato a un confronto intellettuale con gli esponenti dell'élite colta presente nella città africana e a far fronte alle incertezze dei cristiani da poco convertiti. Il pericolo era che costoro, nei momenti di necessità, tornassero alle pratiche sacrileghe che si erano impegnati di abiurare. Ma prima di tutto veniva la “città”, da intendersi nel senso di comunità, di collettività di quanti possono appartenere a scelta a Dio o al demonio. Il trattato di Agostino Sulla città di Dio, in 22 libri, vuole rispondere a questo genere di preoccupazioni. Se le due città (terrena e celeste), nel pensiero agostiniano hanno un valore metafisico ed escatologico, per cui non tempo a contendere le proprie terre ai barbari. Il V secolo d.C. rappresentò quindi per l'aristocrazia gallo- romana un'epoca di grave crisi. Una delle opzioni possibili, nel venir meno della carriera secolare, era la ricerca di un'alta carica ecclesiastica. Lo status aristocratico risultava ancor più dipendente dal senso di superiorità che scaturiva da un comune apprezzamento della cultura classica, che impressionava i barbari e contribuiva a limitarne arbitrio e oppressività. Tra gli esempi delle situazioni che potevano vivere i nobili gallo-romani c'è quella del nipote di Ausonio, Paolino detto di Pella. Persi i beni e i privilegi del proprio status all'indomani dell'invasione del 406/407 d.C., Paolino tenta la collaborazione con gli occupanti. Ma tutto è ormai precario e anche la “pace gotica” da lui ricercata non lo preserva da ulteriori prove. Paolino troverà conforto solo quando, alla fine della sua esistenza, ritiratosi nell'ultima proprietà rimastagli, si affida alla fede. Nell'incertezza della situazione la contiguità tra carriera politica e carriera ecclesiastica appare comprensibile. Il caso di Sidonio Apollinare, nominato vescovo di Clermont nel 469 d.C., appare indicativo. Il momento unificante dell'esistenza di Sidonio Apollinare, passato dalle più alte cariche politiche al soglio episcopale, è l'attività letteraria. Non senza compiacimento, e con una voluta sottovalutazione della contingenza politica, Sidonio dice in una lettera di essere arrivato alla prefettura urbana del 468 d.C. “per un colpo di penna”. Non sorprende che il 469 d.C., l'anno della sua consacrazione, sia quello della pubblicazione dei primi due libri delle epistole e dei carmina. A differenza dei suoi predecessori, scrive in una società provinciale e cristiana: ma poiché non ricerca un modello cristiano, le affinità maggiori sono con il pagano Quinto Aurelio Simmaco, con il quale è accomunato dalla volontà di attuare un’opera di patronato e di tenere aperti canali di comunicazione. Anche se Sidonio non riuscì a impedire la presa di Clermont da parte del re goto Eurico nel 475 d.C., la forte guida morale e politica della città da parte di un uomo che non aveva pratica d'armi resta un episodio significativo dell'autocoscienza senatoria nelle vicende conclusive della “libertà” romana.  L’integrazione tra Romani e barbari nei nuovi regni Abbiamo già avuto modo di vedere che, in Gallia, Sidonio Apollinare si trovò coinvolto negli avvenimenti che segnano le ultime resistenze dell'Impero di fronte alla crescente potenza del regno goto insediato nella parte meridionale del paese. Sidonio appare diviso, nei confronti dell'invasore, tra un atteggiamento tradizionalista e l'attrattiva suscitata dalla nuova monarchia. Auspicò la fusione tra la cultura romana e la potenza militare gota: si sforzò di garantire in Gallia la continuità romano-gotica. Nel VI secolo d.C. un ruolo decisivo nell'evoluzione dell'idea dei Goti, da nemici del mondo romano a quella di fondatori del “regno gotico d'Italia”, è svolta da Cassiodoro, senatore romano e ministro di Teoderico, soprattutto attraverso la sua opera storica. Cassiodoro si sforzò di trasporre l'ideologia romana nelle realtà politiche del regno ostrogotico. Teoderico è presentato come il successore degli imperatori romani e il regno ostrogotico come il prolungamento dell'Impero romano d'Occidente. Nella sua Cronica Cassiodoro equipara il re goto agli imperatori romani. La rottura rappresentata da Odoacre è minimizzata. Gli ultimi capitoli dell'opera, dedicati a Teoderico, sono concepiti come un elogio del sovrano. Nella Storia dei Goti, perduta, ma che ci è nota attraverso un riassunto posteriore, e nella raccolta dei testi ufficiali di Teoderico da lui stesso redatti, le Varie, Cassiodoro si sforza di dimostrare il carattere romano della nuova comunità politica. In altri termini egli esprime l'idea di una “nazione” romano-gotica. La decisione di Cassiodoro di scrivere una Storia dei Goti rappresenta una novità rispetto alla tradizionale storiografia latina. Essa implica una doppia apertura: da una parte si trattava di concepire i Goti e il loro passato al di fuori del quadro dell'Impero e della storia romana, in cui figuravano come barbari, dall'altra ci si disponeva a considerarli in termini a essi propri, come una nazione dall'origine lontana nel tempo e nello spazio. Questo significava adattare a un popolo che aveva causato la rovina dell'Impero il genere storiografico riservato sino ad allora a Roma e all'Impero. Proprio per realizzare questa esigenza nasceva un nuovo genere letterario: quello di una storia nazionale scaturita dall'antica storiografia romana.  Il monachesimo Una delle conseguenze delle invasioni germaniche nel V secolo d.C. fu l'affermarsi del monachesimo in varie forme. C'erano comunità di religiosi che vivevano attorno al loro vescovo (es. Ippona) e c'erano poi delle vere e proprie fondazioni monastiche che si susseguirono a distanza di pochi anni l'una dall'altra. Le più importanti furono quelle del monastero di Lérins, sulle isolette prospicenti la costa della Gallia meridionale, e di san Vittore di Marsiglia da parte di sant'Onorato e Giovanni Cassiano. Questo monachesimo provenzale si caratterizza per una mescolanza tra vita in solitudine e in comunità e per le forme moderate di ascesi. Il successo del monastero di Lérins fu notevole: esso accolse molti aristocratici gallici in fuga e divenne presto, insieme a quello di san Vittore, un vivaio di vescovi. Attraverso gli sconvolgimenti prodotti dalle invasioni dei barbari sorgeva così un nuovo mondo che presentava non secondari aspetti di continuità con quello precedente. I monasteri ebbero inoltre una funzione importante come centri di cultura. Con la fine dell'Impero romano in Occidente era entrato in crisi anche il sistema scolastico. Mentre la cultura classica si conservò solo negli ambienti dell'aristocrazia laica, l'istruzione cristiana avvertiva l'inconciliabilità dei valori morali del cristianesimo con quelli degli scrittori pagani. La conoscenza del greco scomparve quasi del tutto e la cultura che sopravvisse era legata solo alla lingua latina. Si ebbero tentativi di conciliazione tra cultura pagana classica e spiritualità cristiana. I libri della Bibbia furono adattati in esametri. Una versione metrica degli Atti degli Apostoli ebbe un grande successo. Nel VI secolo d.C., venuta definitivamente meno qualsiasi forma di Istruzione pubblica, gli unici centri di vita culturale e di istruzione furono i monasteri. In Occidente non esistevano scuole superiori cristiane. Questa carenza fu affrontata da Cassiodoro che aveva abbracciato la vita monastica ritirandosi a Vivarium, in Calabria, dove fondò un monastero. Già nel corso della sua attività pubblica egli aveva cercato di fondare a Roma un centro di alta cultura religiosa, raccogliendo fondi per reclutare maestri pagani. Questo progetto, unico nel suo genere, mirava alla costituzione di una sorta di “università cristiana”; anche se l'idea non fu realizzata, a causa dell'insorgere della guerra goto-bizantina, essa risulta significativa. Cassiodoro riprese il suo progetto nel monastero di Vivarium, dove fece trasportare una parte della sua biblioteca personale che aveva a Roma e che arricchì con acquisti e con il lavoro dei copisti che ospitava. Nel programma educativo del monastero, Cassiodoro dava grande spazio alla grammatica che, con la poesia e la retorica, erano le principali componenti della cultura classica sopravvissute alla chiusura delle scuole. I monaci di Vivarium erano tenuti a farsi una cultura religiosa, che sapesse impiegare le regole e i metodi dei commentatori cristiani. Il monastero di Cassiodoro non sopravvisse alla morte del suo fondatore (583 d.C.) ma molte delle idee da lui sostenute saranno riprese in futuro. All'incirca contemporaneo di Cassiodoro è san Benedetto, il fondatore della vita monastica in Occidente. Anche se alla base della sua conversione alla vita ascetica c'era il rifiuto di ogni commistione con lo studio della letteratura pagana, nell'organizzazione monastica benedettina è lasciato spazio alla cultura, almeno allo scopo di far sì che i monaci sapessero leggere le Scritture. Questa risulterà una via importante per la trasmissione del sapere. Il monachesimo si dovette dare sin dalle origini un programma educativo originale per trasformare gli uomini che si volevano mettere al servizio esclusivo di Dio. All'interno dei monasteri il giovane monaco riceveva una preparazione religiosa. La necessità di una formazione adeguata anche per il clero fece sì che sorgessero delle apposite scuole episcopali e presbiterali.  Le trasformazioni della città alla fine del mondo antico Le trasformazioni conosciute dalla città romana tra la fine del mondo antico e l'Alto Medioevo sono diverse a seconda delle varie aree geografiche. In Italia, dove la presenza della tradizione urbanistica romana è particolarmente forte, gli elementi di continuità e discontinuità si intrecciano in modo peculiare. In molte città dell'Italia settentrionale, la rete viaria romana si è come fossilizzata in quella moderna. D’altra parte, nelle zone interne dell'Italia centro-meridionale la serie di paesi o villaggi posti su colline o bastioni naturali, a fronte di una campagna che non conserva più tracce di insediamenti rurali romani o tardoromani, sta a indicare che in età medievale ci fu in queste aree un processo insediativo diverso rispetto al passato. Nella maggior parte delle città il Foro romano continuò a svolgere la sua funzione di centro economico in quanto sede del mercato, ma perse il suo ruolo di direzione politica con il venir meno dei consigli cittadini. Con il Medioevo si affermano in alternativa il palazzo regio e la cattedrale, che riflettono i principali poteri di ogni città, quello statale e quello vescovile. Già la città tardoantica aveva visto al suo interno la trascrizione urbanistica derivante da un processo di dislocazione del potere. Milano, capitale imperiale tra la fine del III e l’inizio del V secolo d.C., ne è un buon esempio. Ambrogio si servì del proprio episcopato per darle le caratteristiche anche di capitale cristiana. Il contributo più duraturo del vescovo milanese sta proprio nell'aver fondato, al di fuori delle mura cittadine, la Basilica Ambrosiana, la Basilica Apostolorum e la Basilica Virginum (San Simpliciano). In generale l'età tardoantica è caratterizzata dalla costruzione di chiese di notevoli proporzioni non solo nelle capitali, ma anche in città minori. Questi primi edifici ecclesiastici erano costruiti o all'interno delle città, come cattedrali o centri di culto minori, oppure al di fuori di esse, sopra le tombe dei martiri sepolti nei cimiteri romani. La differenza con l'età altomedievale è sensibile. La fondazione più comune in età altomedievale non è infatti una chiesa cimiteriale o una grande aula all'interno delle mura, ma una piccola fondazione all'interno dell'area edificata, associata spesso a un piccolo monastero privato o a un istituzione caritatevole. In generale, inoltre, le chiese altomedievali si distinguono per le loro piccole dimensioni. Le cattedrali furono collocate sin dall'inizio in zone all'interno delle mura. L'acquisizione di terreno edificabile da parte della Chiesa non dovette però essere facile. La disponibilità di tale spazio fu il risultato di un processo complesso nel quale entrava in gioco il patronato cristiano, a sua volta il risultato dell'azione di privati e dello Stato. Le nuove cattedrali, infatti, dovevano trovar posto in aree occupate da edifici preesistenti. Lo Stato aveva a sua disposizione un fattore decisivo: la terra. È evidente che, con il suo aiuto, era più facile acquisire spazi importanti allinterno del circuito delle mura. C’è una coincidenza significativa che riguarda proprio le due città capitali della Gallia tra IV e V secolo d.C., Treviri e Arles. A Treviri la cosiddetta “cattedrale doppia” fu costruita dentro le mura cittadine quando la città era residenza imperiale. Ad Arles il trasferimento della sede della cattedrale da una zona periferica a un'altra centrale, nei pressi del foro, va posto proprio in relazione al suo nuovo rango di capitale della Gallia e di residenza occasionale degli imperatori. La costruzione delle mura avviene in un periodo in cui un po' dovunque, in tutto l'Occidente, si verifica un'intensa costruzione di chiese episcopali. È questo il momento in cui le mura cittadine diventano una componente essenziale nell’iconografia delle città. Certe scelte di edilizia ecclesiastica risultarono determinanti nel trasformare, oltre all'aspetto monumentale, le infrastrutture romane delle città.  Un nuovo tipo di alimentazione Anche nell'ambito delle abitudini alimentari si osserva una cesura alla fine del mondo antico. Ogni regime alimentare presuppone uno stretto rapporto con il sistema produttivo. In Occidente la fine dell'Impero romano segnò un regresso di tutte le colture che avevano il loro centro di organizzazione nel sistema razionale della villa e che potevano contare su una fitta rete commerciale; questa era sorretta da una vivace economia monetaria che abbracciava tutto il Mediterraneo. Il declino della vita urbana e il progressivo allontanarsi delle attività produttive dalle regioni costiere significò una riduzione delle colture dei cereali, della vite e dell'olivo. La base dell'alimentazione in età romana era rappresentata dalla compresenza di grano, olio e vino, integrati da formaggio o da altri latticini e dalla carne. A questo regime, “modello” alimentare classico, si contrapponeva quello tipico delle popolazioni barbariche stanziate ai confini orientali e settentrionali dell'Impero. Tali popolazioni, vivendo in condizioni climatiche più umide e fredde e avendo adottato solo parzialmente un sistema di vita stanziale, avevano un'economia nella quale i cereali e gli ortaggi integravano i prodotti fondamentali del bosco e della foresta; un posto preponderante nella dieta era rappresentato dalla carne di cacciagione. I cereali nel mondo germanico servivano soprattutto alla produzione della birra, la bevanda che era il corrispettivo nordico del vino. A diffondere la conoscenza del pane e del vino e a propagandarne l’importanza fu poi la Chiesa nella sua opera di evangelizzazione dell’Europa settentrionale. Pane e vino sono, oltre che presenti nella simbologia liturgica, componenti essenziali della tradizionale dieta cristiana che veniva osservata e diffusa dai monasteri. La struttura ben organizzata del paesaggio agrario dell'Europa occidentale andò incontro a una forte decadenza. Nell'area mediterranea le crescenti difficoltà della vita urbana provocarono un declino demografico, con il conseguente restringimento delle aree sottoposte a coltivazione. Si assiste a una drastica riduzione della policoltura, ovvero l'intreccio tra coltivazioni diverse, quelle estensive, dei cereali, e quelle specializzate e intensive della vite e dell'olivo. Zone prima coltivate divennero con il passare del tempo abbandonate, anche per l'insorgere della malaria, prodotta dall'acqua dei fiumi che, non più controllati e imbrigliati dai sistemi di irrigazione, ristagnavano dopo aver invaso le pianure costiere. La conseguenza di questi fenomeni fu così un crescente abbandono delle colture che necessitavano del clima mite del Mediterraneo, a favore di un ritorno all'economia di montagna, quella silvo-pastorale nella quale aveva un posto considerevole la transumanza. Questo sistema economico si impose anche nell'area mediterranea durante i primi secoli del Medioevo. Più che un'adozione del modello germanico si deve vedere nell'affermazione di questo sistema economico il risultato della crisi politica che investì anche le strutture produttive. Il declino demografico favorì l'impaludamento di molte zone costiere e l'allargarsi del territorio incolto. Proprio gli spazi incolti si rivelarono ben presto una risorsa importante di sostentamento. I pascoli servivano all'allevamento del bestiame, tenuto per lo più allo stato brado, mentre i querceti venivano struttati in quanto le ghiande fornivano il cibo per i suini. Oltre ai maiali erano allevate pecore e capre, che però venivano utilizzate soprattutto per ricavarne lana e latte. L'allevamento ovino era preponderante, anche per ragioni climatiche, nell'Italia centro-meridionale. L’animale da carne rimaneva comunque essenzialmente il maiale, che forniva una fonte di approvvigionamento sufficiente per tutto l'anno. I bovini e gli equini erano molto scarsi e per questo riservati al lavoro agricolo o ai trasporti.  L’Italia durante la guerra tra Goti e Bizantini L'età di Teoderico (488-526 d.C.) aveva significato un periodo di relativa ripresa economica per l’Italia. L'agricoltura e il commercio poterono profittare del periodo di pace e di una migliorata viabilità. Anche i centri urbani presentano indizi di una rinnovata vitalità grazie all'impegno di Teoderico nel restauro degli edifici in rovina. La guerra greco-gotica, con i suoi spostamenti di truppe da una parte all'altra della penisola, vanificò la possibilità che la ripresa si consolidasse. Il periodo più duro della guerra andò dal 541 al 552 d.C., con l'arrivo del generale bizantino Narsete. L'incertezza nell'esito della guerra induceva gli occupanti del momento, Bizantini o Goti che fossero, a ogni sorta di arbitrio a spese della popolazione locale. Le città, in cui si concentrava la resistenza ostrogota, subirono gravi distruzioni del tessuto urbano, mentre la fame provocava a sua volta un drammatico calo demografico. BISANZIO  L’Impero d’Oriente fino al regno di Giustiniano Le vicende dell'Impero d'Oriente risultano del tutto distinte da quelle dell'Occidente a partire dal 395 d.C., dal momento, cioè, della divisione dell'Impero da parte di Teodosio I tra i suoi figli. Nella storiografia moderna si parla infatti di “storia bizantina”, in quanto storia con caratteristiche sue proprie, il cui inizio e la cui fine (330- bizantina ebbe una sua originalità, che si espresse attraverso il filtro rappresentato dalla rielaborazione dei modelli classici che venivano selezionati, utilizzati e conservati.  La Chiesa bizantina Nel mondo bizantino un ruolo di grande rilievo fu svolto dalla Chiesa. La funzione pubblica dei vescovi e l'importanza da loro assunta all'interno delle città era una caratteristica della vita urbana che in Oriente, a differenza che in Occidente, proseguiva senza intralci. C'era una precisa gerarchia, che corrispondeva al livello di importanza delle varie sedi. Nelle città operavano i vescovi, nei capoluoghi di provincia i metropoliti, nelle città importanti gli arcivescovi, mentre i vescovi delle tre maggiori città dell'Impero, Costantinopoli, Antiochia e Alessandria, assunsero il titolo di patriarca. Il patriarca doveva in teoria essere eletto dal clero, dal popolo della sua città e dai metropoliti; in realtà, la sua nomina era di stretta competenza dell’imperatore. Normalmente il vescovo veniva eletto dal clero e dagli uomini più in vista della sua diocesi. A un livello politico-istituzionale il vincolo tra Stato e Chiesa recò senza dubbio vantaggi tanto all'uno come all'altra ma con alcuni inconvenienti. La Chiesa cadde sotto la tutela dello Stato, mentre quest’ultimo fu coinvolto direttamente nelle controversie teologiche e dottrinali. Per passare dal livello delle alte gerarchie ecclesiastiche a quello della diffusione della religione nella società, è opportuno ricordare la grande importanza che ebbero i monasteri. In origine, il monachesimo bizantino ebbe una dimensione anarchica, essendo concepito come un rifiuto della civiltà urbana e dalla società. Il monachesimo e l'ascetismo apparivano come l'unica via di ricerca della perfezione cristiana rimasta dopo che la conversione di Costantino aveva tolto la possibilità del martirio. Quasi tutti i più importanti santi bizantini sino al XV secolo sono stati monaci. La copiosa letteratura agiografica, ci documenta con molta ricchezza quanto importante fosse l'esempio dei santi-monaci nella società bizantina. La contrapposizione tra carica episcopale e condizione monastica rimase sempre molto viva. Non va dimenticato inoltre il ruolo giocato da singoli individui, gli “uomini santi”. Si tratta di figure carismatiche, capaci di fungere da mediatori in situazioni difficili all'interno di un villaggio ma anche tra il mondo del soprannaturale e quello sensibile. Per capire la peculiarità dell'Impero bizantino si devono prendere in considerazione le dispute teologiche che in taluni momenti costituirono dei fattori di grave crisi. In un certo senso si può dire che le controversie religiose nascono e si sviluppano insieme all'Impero d'Oriente. Già il primo imperatore cristiano, Costantino, dovette convocare un concilio ecumenico a Nicea per procedere alla condanna dell'eresia ariana, che negava la natura divina alla persona di Cristo. Due furono le scuole teologiche che si contrapponevano in modo netto: 1) una era quella di Antiochia, più razionalista, che, privilegiando la natura umana di Gesù, sosteneva che Maria non poteva dirsi “madre di Dio”, ma solo “madre di Cristo”, in quanto in Cristo coesistono due nature distinte; 2) l'altra scuola invece, quella mistica di Alessandria, affermava la piena unità della natura divina e umana di Gesù. La controversia cristologica ha quest'origine. Quando un esponente della scuola antiochena, Nestorio, divenne patriarca di Costantinopoli (428 d.C.), le sue posizioni teologiche suscitarono la reazione del vescovo di Alessandria, Cirillo. Quest'ultimo riuscì a far prevalere le sue posizioni in un concilio convocato a Efeso. Un'ulteriore eresia, propagandata da Eutiche, un esponente della scuola alessandrina, sosteneva che Cristo aveva solo la natura divina e fu condannata dal concilio di Calcedonia (451 d.C.).  L’assistenza verso i poveri nel mondo bizantino Già nei primi secoli dell' Impero bizantino furono create delle specifiche istituzioni assistenziali. La legislazione di Giustiniano realizzò il completamento della delega dell'assistenza dallo Stato alla Chiesa da cui derivò il regime speciale dei beni ecclesiastici. Il ricorso al greco nella legislazione giustinianea consente distinzioni terminologiche che si prestano bene all’analisi sociale. I termini greci per indicare il povero sono due, pénes e ptochós. Il pénes è il “povero” in senso giuridico, è il debole nella rete dei rapporti sociali e giudiziari. Lo ptochós è il povero sprovvisto degli indispensabili mezzi di sostentamento, che si offre alle iniziative caritatevoli del prossimo. Nella legislazione giustinianea fu riservato un notevole spazio ai poveri: essi furono guardati come una categoria sociale il cui statuto giuridico era determinato da una collocazione che si afferma sempre più chiaramente nell'ordine economico. Proprio per questo si rese necessaria una definizione giuridica della povertà per giustificare alcune misure politiche e i privilegi e le limitazioni che determinano la condizione speciale dei beni ecclesiastici e, con essa, l'eccezionale potenza economica della Chiesa. La legislazione si preoccupò soprattutto dei riflessi che la povertà e l’impoverimento potevano avere anche sull'ordine pubblico. L'afflusso disordinato degli uomini nelle grandi città e nella capitale era destinato a far crescere le file dei “poveri”. Questo fenomeno significava l'assembramento di una massa amorfa, declassata, caratterizzata solo dal non essere e dal non avere. Diverse misure furono indirizzate a porre un argine allo scandalo morale, al disordine urbano, allo sciupio di energie produttive rappresentato dall'afflusso di uomini poveri ma validi a Costantinopoli. In un testo del 539 d.C., si prescriveva che i poveri validi di origine non costantinopolitana fossero rinviati nelle campagne a lavorare la terra, mentre i poveri originari della capitale dovevano essere impiegati in attività di interesse pubblico. Quanto ai poveri invalidi, la legislazione di Giustiniano organizzò quelle forme di filantropia che erano state una delle manifestazioni tipiche della virtù imperiale. I vecchi trovarono accoglienza in luoghi di ricovero, mentre per gli orfani si allestirono orfanotrofi. I neonati abbandonati furono accolti in strutture paragonabili ad “asili-nido”. Si predisposero poi luoghi di ricovero per gli stranieri, per i poveri in generale e ospedali per i malati. La legge favorì tanto la costituzione, presso le chiese e i monasteri, di un patrimonio destinato ai poveri quanto la costruzione di edifici a scopo assistenziale. I beni della Chiesa non potevano essere alienati e godevano di privilegi fiscali sotto forma di rendita o di immunità.  La fine del mondo antico Il regime imperiale creato da Augusto si fondava su un potere personale che cercava il riconoscimento del popolo romano secondo i consolidati meccanismi legali dell’ordinamento repubblicano. Nel rispetto formale della legalità costituzionale egli riuscì a incidere in modo determinante sulle istituzioni, fino a definire un nuovo assetto dello Stato. Rispetto ai senatori era un primo tra uguali e un “concittadino” tra gli altri cittadini. A livello di funzioni svolgeva quelle di comandante in capo dell'esercito, di giudice supremo e di fonte del diritto. Il suo governo era personale, esercitato con l'aiuto di un gruppo di collaboratori, di amici. La crisi del III secolo, trasformò l'imperatore in un soldato professionista, un autocrate dallo status sovrumano. Esso fu riconosciuto e sanzionato dal cristianesimo che ne fece un delegato di Dio in terra. La sacralizzazione della figura dell'imperatore aveva peraltro dietro di sé una lunga storia. Il contributo della Tarda Antichità all'evoluzione del pensiero politico è decisivo. L'imperatore era riconosciuto tale per “grazia divina”. Il sovrano aveva l'esigenza di una dimensione sacrale, sanzionata da un'investitura dall'alto che lo ponesse al di sopra dei suoi simili. L'Impero bizantino fece propria questa ideologia. In Occidente, invece, nei nuovi regni creatisi a seguito delle invasioni barbariche, si realizzarono presto le condizioni per un'organizzazione del tutto nuova dell'economia e della politica. I contemporanei avvertirono la prima cesura rappresentata dalle invasioni barbariche e dal sorgere di Stati che avevano un debole collegamento con le strutture politiche e le tradizioni culturali dell'Impero romano. Un nobile gallico, Rutilio Namaziano, che rientrava per mare da Roma nella sua patria, la Narbonense, si sente preso dall'angoscia contemplando il paesaggio costiero che ha agio di osservare dalla nave. In realtà, celebra la fine del “suo” mondo, delle “sue” città. Iniziava così il “Medioevo”. La società risentì delle trasformazioni del quadro politico: la civiltà da urbana divenne prevalentemente rurale e l'economia naturale iniziò a predominare su quella monetaria. I regni romano-barbarici all’inizio si organizzarono attorno alla figura di capi militari alla testa di una varietà di gruppi etnici e linguistici. Colpisce che questi re, in mancanza di un'autonoma cultura politica, ricevevano titoli latini e in latino emanavano leggi, diplomi e ogni genere di atto amministrativo. Utilizzavano, cioè, un vero e proprio “vocabolario di Stato latino”. È il segno di una recuperata continuità che è premessa importante della successiva evoluzione dell'Occidente. Più grave fu la frattura determinata dall'espansionismo arabo nel corso del VII secolo. Una delle grandi realizzazioni dell'Impero romano era stata l'unificazione politica del Mediterraneo e la sua pacificazione. Tra la fine del VI e l'inizio del VII secolo questo quadro risulta compromesso. Da una parte l'Impero bizantino non fu più in grado di svolgere una politica attiva in Occidente. L'Italia fu occupata stabilmente dai Longobardi. Ma il vero fatto nuovo è rappresentato dal dinamismo degli Arabi che, sospinti dalla forza della religione predicata da Maometto, occuparono in breve tempo l'Africa settentrionale e parte del Vicino Oriente. All’interno dello stesso mondo cristiano a livello di culto le differenze dottrinali tra Costantinopoli e il papato romano si fecero sempre più gravi. Si perse così anche l'ultimo fattore di unificazione ereditato dal mondo antico, quello religioso.
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