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G. Sergi L'idea di Medioevo, Dispense di Storia Medievale

Riassunto del libro completo di introduzione

Tipologia: Dispense

2018/2019

Caricato il 16/03/2019

Utente sconosciuto
Utente sconosciuto 🇮🇹

4.4

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Scarica G. Sergi L'idea di Medioevo e più Dispense in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Introduzione alla nuova edizione: Il Medioevo è parte preponderante della nostra storia: è stato ed è continuamente produttore di rappresentazione, di evocazione, di immaginario. Di fronte al medioevo immaginato sta la realtà della ricerca storica; Nelle prime fasi si pensava che tutti i poteri medievali erano trasmessi con un’investitura feudale. La cultura contemporanea continua ad usare il medioevo come contenitore di luoghi comuni. È utile considerare che, in virtù di alcune categorie (politiche, culturali, di evasione), i principali miti sulla storia medievale siano sopravvissuti nonostante le smentite degli studi: in questo modo si getta un abbozzo di storiografia percettiva. La prima categoria è quella della semplicità, intesa come comunicabilità semplice e come rappresentabilità schematica di un contenuto storico. In Italia risulta efficace sul piano divulgativo la presunta delega tutta feudale dei poteri. Questa tesi ha avuto fortuna tra gli storici del diritto, per i quali soltanto lo Stato poteva decidere una propria diversa organizzazione: pertanto il potere locale medievale è per lo più inteso come feudo, nato da delega dei re. In Germania l’esigenza di semplicità sta nel dare per scontata la coincidenza fra i confini del possesso della terra e quelli della signoria locale. In Inghilterra ha avuto fortuna Walter Scott che rifletteva sul rapporto re-baroni corrispondente all’immaginario comune di feudalesimo: ma anche questa semplice certezza di sta incrinando. Il concetto di semplicità è collegato anche all’immagine della Curtis compatta, a sua volta collegata all’idea di economia “naturale” e chiusa, contrapposta alla rivoluzione commerciale, ai mercati, alla moneta. Alla base della Curtis ci sono le convinzioni dei “minimalisti”, storici dell’economia fra 800-900. L’idea di questi, che nel medioevo l’economia si reggesse sul baratto e non ci fosse circolazione monetaria, soddisfa un bisogno di esotismo che è tipico della categoria del distanziamento, contrapposta a quella dell’assimilazione. Il Medioevo colpisce la cultura corrente se ne sottolinea la distanza, se appare come contenitore di diversità. Nella storiografia percettiva vi è l’attrazione per i temi dell’assimilazione (come si conduceva la vita quotidiana nel passato, quali sentimenti si provavano), ma al qual tempo si è interessati anche da contenuti e risposte di cui si accentua la diversità dal presente sulla base del distanziamento. Il medioevo nella cultura europea occidentale serve a regalare la dimensione dell’esotico senza allontanarsi nello spazio, bensì andando indietro nel tempo. C’è un esotismo positivo e uno negativo: quello dell’economia di sussistenza oppure quello dello ius primae noctis, il presunto diritto del signore medievale di accoppiarsi con la sposa di un suo suddito alla vigilia della prima notte di nozze. Questo è il simbolo di un ricordo falsificato. Difatti, molti studiosi s’impegnarono a smontare il mito di questo presunto diritto, ma i loro studi risultarono inefficaci poiché la cultura di massa, su alcuni temi, non si limitava soltanto a non recepire, ma non ascoltava: questo perché non si vuol perdere, a causa della storia, un frammento di memoria che ha una funzione culturale e sociale. In questo caso la funzione è quella di valorizzare l’attitudine delle comunità locali di contrapporsi al potere. Sempre nella categoria del distanziamento possiamo immettere gli usi del medioevo come contenitore di origini, radici, comportamenti sociali che sono assegnabili a un esotismo né positivo né negativo. Attenendoci a questo contenitore e ai diversi errori ricorrenti su temi quali gli usi del medioevo, si può parlare di una deformazione prospettica, che è tipica della conoscenza umana nei rapporti con la storia: si comprende meglio ciò che è più vicino e si interpreta ciò che è avvenuto nel passato alla luce dei suoi esiti. La deformazione prospettica è tangibile nella storia dei castelli medievali, i quali, per gli interlocutori sono i cosiddetti “castelli residenziali”. Risulta arduo allontanare l’immagine di questo castello “tipico” e sostituirvi quella di un villaggio fortificato. Anche il caso della storia della famiglia è rilevante: la tipica famiglia rurale del medioevo era con padri e figli, e basta, ma nessuno la vi immagina così perché, dopo la rivoluzione industriale, le famiglie rurali erano patriarcali. L’uso di questi miti, da parte dei non medievalisti, ci riconduce a due cause: - la prima è che è naturale che sulle cose non direttamente studiate si attinga alla cultura più sedimentata - la seconda è da cercare nel maggiore schematismo delle soluzioni tradizionali, grazie al quale risulta più comodo il ricorso euristico al medioevo. Possiamo dire, quindi, che le categorie e gli esempi, sopra riportati, confermano che la percezione del senso comune sul medioevo nasce da esperienze disciplinari non medievistiche. C’è dunque una cultura storica non caratterizzata da una ricezione dei progressi scientifici, ma corrispondente con un deposito di conoscenze sedimentate, spesso lontane dalla realtà accertabile del medioevo. 1. Idea di medioevo: il problema Quella di medioevo è una convenzione cronologica che si è consolidata nella cultura comune dell’età moderna e contemporanea. Essa trae origini dalle riflessioni degli umanisti del 400-500, animati dalla speranza di una nuova era di rinascimento. Gli intellettuali hanno definito quest’epoca come epoca “buia”, poiché appena usciti da tempi duri. Di conseguenza, la mente umana immagina i secoli anteriori simili al passato recente, ma spesso il passato più lontano è stato migliore, o almeno diverso. La fama negativa del medioevo dipende molto dalla crisi del Trecento, scenario apocalittico segnato da pestilenze e carestie. Immaginando lo svolgersi del passato come un continuum senza inversioni di rotta, la cultura diffusa fa del medioevo l’ambito d’origine e di provenienza delle forme di vita sociale più estranee alla contemporaneità. Stando a quanto detto sulla deformazione prospettica del passato, molto importante è il concetto del feudalesimo. L’astratto feudalesimo non appartiene al lessico medievale e risulta coniato solo in età moderna. Nel Settecento, i borghesi rivoluzionari definivano in modo spregiativo il feudalesimo come un “residuo medievale”. Dal loro punto di vista non importava che il feudalesimo che essi constatavano non fosse quello classico (vassallatico-beneficiario), ma fosse invece nato da sviluppi ulteriori, legati alla nuova Europa degli Stati nazionali. Gli uomini dell’Illuminismo giudicavano secondo un’ottica prospettica: criticavano un modello sociale osservandolo nella “versione” da loro personalmente vissuta. Così facendo, si rende statica la storia, si cancellano i secoli VIII-XII, i più tipici degli istituti feudali e si inventa un feudalesimo originario diverso da quello che fu in realtà. Ciò che possiamo certamente dire è che la storia medievale non ha l’esclusiva della terminologia feudale. Il medioevo è il periodo che segna la nascita della parola e del concetto di “feudo”. Come ben sappiamo, il medioevo non viene rappresentato per com’è stato, ma si è sempre parlato di un medioevo inventato. Oggi giorno, esso funziona come un “altrove”, con riscontri negativi (povertà, fame pestilenze etc) e positivi (tornei, la vita di corte, elfi e fate, etc.), o come una “premessa” (diversità o di preparazione) dei secoli successivi al XV e di aspetti come il capitalismo, lo Stato moderno, l’ascesa della borghesia. Stando sempre alla strumentalizzazione del medioevo come “premessa” è da ascrivere il ricorso ai secoli premoderni per rintracciarvi le radici, ovvero identità nazionali, regionali e locali. Nazionalismi grandi e piccoli trovano nel medioevo immaginato lo spazio ideale per collocarvi tradizioni speciali, origini mitiche, spunti di identità etniche, nazionali o regionali. Dobbiamo constatare dunque che il medioevo dell’odierna cultura diffusa risente poco delle ricerche degli storici, e risponde invece a esigenze tenaci della psicologia collettiva. È un medioevo essenzialmente tre - quattrocentesco, cupo o luccicante a seconda dell’orientamento ideologico di chi lo evoca. 2. Medioevo: definizione e limiti cronologici L’aggettivo medioevale ha determinato il successo della definizione da cui esso traeva origine: “medio evo”, a poco a poco prevalente rispetto a “età di mezzo”. Nel 1550 Vasari cominciò a usare la periodizzazione tripartita divenuta più consueta (età antica, medievale, moderna). Prima di lui si era già affermata la nozione di una sorta di età di mezzo: le definizioni non sempre erano state chiare, ma il termine medioevo era già stato usano varie volte. all’amministrazione e alla cultura. Dopo l’arrivo dei franchi nella Gallia meridionale si cominciò a celebrare qualche matrimonio misto fra aristocrazia gallo-romana e aristocrazia germanica, ma soprattutto ci fu convergenza fra gli stili di vita dei due ambienti. • L’aristocrazia gallo-romana poteva avviare i propri figli alle carriere militari, assorbendo dalla tradizione germanica modelli di preminenza sociale informati al prestigio delle armi, al valore nel combattimento e alla capacità di comando militare. • L’aristocrazia germanica era indotta a sua volta ad avviare alcuni dei propri figli alle cariche ecclesiastiche, perché constatava l’enorme prestigio e il peso politico-sociale dei vescovi di quelle regioni. Questa riuscita integrazione spiega perché l’Europa sia una costruzione franca. Tutti i popoli germanici, inserendosi progressivamente in varie regioni dell’Europa meridionale, avevano incontrato situazioni nuove rispetto alle loro abitudini. In primo tempo i loro villaggi erano centri provvisori di sfruttamento agricolo e rifugi dopo le spedizioni di razzia. In seguito introdussero il latifondo e le città: • il primo fu considerato dai franchi un elemento imprescindibile nei processi di rafforzamento delle famiglie aristocratiche; • il secondo, con i loro vescovi e le loro cariche civili, imponevano un patrimonio di tradizioni pubbliche ai nuovi dominatori. Inoltre, esponenti delle maggiori famiglia gallo- romane erano stati introdotti a corte nei diversi Regni della Gallia con incarichi legati alla loro cultura e alle nuove esigenze amministrative. Con la dinastia merovingia e quella carolingia riuscì perfettamente l’incontro fra cultura germanica e latina. Si era dunque formato nei primi secoli del medioevo un ceto dirigente misto, di diversa composizione a seconda delle diverse aree di dominazione franca, ma in modo omogeneo rispetto alla scoloritura delle specificità etniche: alcune famiglie erano giunte a dare nomi di tipo germanico a qualcuno dei propri figli e nomi di tipo romano ad altri. Il nuovo ceto dirigente altomedievale era riuscito a conferire alla struttura sociale e alle istituzioni un carattere ibrido: i vincoli personali fra gli uomini della tradizione tribale germanica si intrecciano alle concezioni territoriali del potere. I capi germani, per tradizione, sapevano su quali persone si esercitava il loro potere e non si preoccupavano, invece, di definire su quali territori ed entro quali confini comandavano. Al contrario, la tradizione romana si fondava su municipi e province dalla chiara definizione territoriale: queste concezioni territoriali prevalsero perché erano necessarie per gestire le nuove formazioni politiche. Questo carattere ibrido è il segno dominante del Regno carolingio (si è detto regno e non impero perché gli storici hanno ridimensionato l’importanza dell’anno 800 e della famosa incoronazione imperiale di Carlo Magno. Quella non fu la data di nascita di un impero: la dignità imperiale appare un omaggio alla persona che aveva unificato e con la forza convertito al cattolicesimo l’Europa. Il titolo di imperatore significava solo l’arricchimento di responsabilità simbolico-religiose di un regnum Francorum. La definizione di impero rappresentava un’eredità romana che i Carolingi trasmisero alle età successive, ma restò una definizione per lo più astratta.) 5. L’equazione medioevo-feudalesimo Al medioevo viene applicata l’etichetta di età feudale, usata come corrispettivo qualitativo di una definizione cronologica. Solo i diritti derivanti da specifici contratti feudo-vassallatici erano diritti feudali, ma si definivano diritti feudali anche le bannalità, i diritti sul raccolto, i censi signorili, le prestazioni collegate con l’antica servitù: tutto ciò dunque che dipendeva in realtà dalla consuetudine di soggezione dei contadini al signore del luogo o al proprietario delle terre che essi coltivavano. Nel Settecento: • Montesquieu definì il feudalesimo come un deleterio sistema che prevedeva specie diverse di signoria su una stessa cosa o sulle stesse persone: ciò che egli lamentava è che si perdesse l’unità della conduzione politica e che si producesse una regola tendente all’anarchia e un’anarchia tendente all’ordine e all’armonia. • Voltaire giudicò il feudalesimo come sistema caratteristico di qualunque società in cui un popolo si fosse sovrapposto militarmente a un altro, imponendo la propria aristocrazia armata. • Giambattista Vico, aveva interpretato il feudalesimo come una fase necessaria in tutti i cicli di sviluppo delle civiltà e aveva incluso nel suo sistema qualunque vincolo di dipendenza, anche di contenuto non militare, anche compensato solo con poca terra da coltivare. Nell’Ottocento: • Karl Marx definì un tipo di organizzazione fondiaria e un sistema di rapporti di produzione: una fase precedente al capitalismo. L’idea feudale ne risulta spostata dal piano giuridico-militare al piano economico-sociale, e per feudalesimo si intende la soggezione e lo sfruttamento politico-economico dei contadini: non salariati, costretti all’obbedienza e a varie prestazioni per il fatto di essere inseriti nella grande azienda agraria signorile. Feudalesimo era diventato ormai sinonimo di medioevo. Eppure vari storici si rendevano conto che era difficile trovare un’investitura feudale all’origine di ogni frazionamento politico medievale. Nel Novecento: distinzione fra chi ha un approccio diacronico e chi studia specificamente il medioevo. • Max Weber e Heinrich Mitteis presentarono il feudalesimo come tappa dell’evoluzione storica, a metà strada tra le esperienze di egemonia aristocratica e lo stato amministrativo moderno. • Otto Hintze pose il feudalesimo come una forma di reggimento dei popoli riscontrabile fino al XIX secolo e che sarebbe consistita nel particolarismo adottato da popoli costretti da esperienze esterne a interrompere la normale e graduale evoluzione da situazioni tribali a sistemazioni statali. • Arnold Toynbee definisce il feudalesimo come fase evolutiva, cioè come una reazione a una decadenza dalla quale si prepara e si organizza una rinascita. • Marc Bloch isolò con chiarezza i rapporti vassallatico-feudali in senso proprio, non fece discendere da quei rapporti il moltiplicarsi dei poteri di origine regia, e definì come non feudali i vincoli di dipendenza delle classi inferiori entro le signorie rurali. Fatte queste distinzioni, valorizzò i vincoli vassallatico-beneficiari come la peculiarità del medioevo occidentale. • Boutruche individuò la vera caratteristica della società medievale nei poteri signorili, formatisi dal basso e non delegati feudalmente dall’alto. • François-Louis Ganshof approfondiva i caratteri specifici dell’istituto feudo-vassallatico del mondo franco. Allienati su queste posizioni troviamo gran parte della medievistica francese, tutta quella tedesca ed italiani come Giovanni Tabacco e Cinzio Violante. La Teoria economica del sistema feudale di Witold Kula è un esempio che ha avuto un’enorme efficacia, oltre che nel presentare ben provati meccanismi di sfruttamento della terra e degli uomini, anche nel far rientrare nel campo concettuale del feudalesimo ogni connotazione politico- signorile del latifondo. C’è una spiegazione ben precisa. A Est del fiume Elba sul finire del medioevo si fece sistematico il ricorso a una manodopera rurale soggetta a forti vincoli: i contadini erano dipendenti economici ma erano anche sudditi del latifondista. Questa realtà tardiva e peculiare suggerì a Kula di elaborare un modello con caratteri quali: • il latifondo come isola giurisdizionale • l’obbligo contadino di prestazioni d’opera sulla terra del signore • le limitazioni alla mobilità dei rustici • gli introiti signorili legati all’esercizio di protezione e potere, e non solo alla gestione della terra. Nel mondo contemporaneo, invece, i sociologi e gli storici continuano ad attingere terminologia e concetti feudali dalla cultura corrente e non da chi il feudalesimo lo studia per mestiere. Così facendo, poiché il feudalesimo deve pur avere un’origine, e quell’origine non può che essere medievale, essi proiettano sull’intero medioevo un immagine confusa. Qualunque traccia di funzionamento politico, economico e sociale riconducibile a quell’immaginario va sotto il nome di feudalesimo, interpretata come residuo medievale. Il termine feudalesimo ha due caratteri che ne spiegano la fortuna: uno lessicale e uno concettuale. a) Il carattere lessicale vincente risiede nella sua peculiarità, in una sorta di esotismo temporale che lo rende ben diverso dalla “signoria”. b) Il carattere concettuale vincente è la sua onnicomprensività: un’etichetta con nome specifico da applicare a un contenitore ampio, a una nebulosa di concetti anche diversi fra loro. L’IDEA DI FEUDALESIMO E’ PARTE INTEGRANTE DELL’IDEA DI MEDIOEVO. 6. Il medioevo come infanzia dell’Europa. Nell’idea più diffusa di medioevo hanno avuto fortuna periodi nei confronti dei quali la nostra conoscenza può ricorrere all’assimilazione, cioè alla ricerca di qualcosa di familiare o di confrontabile con le esperienze politiche e sociali attuali. C’è invece disinteresse per i periodi “negativi”, di “disordine”: così nel primo medioevo si vede solo la crisi del modello romano, nei secoli XI-XII la pura dissoluzione. Il concetto di Europa, nato nelle isole dell’Egeo per indicare la Grecia continentale, nel medioevo diventa veicolo di idee di superiorità rispetto a tutto ciò che è esterno, e consente l’elaborazione di un complesso di immagini della diversità. • Beda, nel VII secolo, testimonia la capacità di elaborare nozioni geografiche del tutto distinte da quelle politiche. • Isidoro di Siviglia, monaco del VIII secolo, presenta come un esercito di europei, l’esercito di Carlo Martello che ha sconfitto i musulmani a Poitiers: una battaglia enfatizzata, ma non viene presentata come una vittoria dei franchi, bensì di tutta la civiltà unita dalla religione cristiana e contrapposta all’espansione islamica. Attraverso Isidoro la residua cultura visigota tende a sfumare la predominanza franca sulla Societas Christiana. La grande fortuna del termina Europa si ha nel pieno dell’età carolingia: lo storico Serejski ha contato trenta attestazioni del termine negli anni di Carlo Magno: per tale motivo il termine Europa è divenuto sinonimo di “dominazione di Carlo”. Dopo il IX secolo, le nozioni di Europa si affacciano in modo intermittente, non senza che si tenti di usarle in un modo che prescinde dalla grande dominazione carolingia e si ricollega a considerazioni etnico-geografiche. L’Europa è la vasta sede dei discendenti di Jafet oppure è sinonimo di Occidente. Nel X secolo, Costantino Porfirogenito definisce Europa come le ripartizioni provinciali più occidentali dell’impero bizantino. Fra il X e XI secolo, si sviluppano processi che conferiscono all’Europa un’identità, eliminando al contempo ogni ipotesi di omogeneità etnica, ovvero l’ipotesi di Jafet e l’idea di Europa franca. Il codice di comunicazione dei franchi non era stato l’orgoglio etnico, non era una superiorità etnica quella che volevano affermare: quasi continuassero a federare popoli nuovi con lo stesso stile con cui avevano prima federato se stessi. La chiave di volta era stata la realizzazione di una convivenza fra stili di vita connotati e prima diversificati: quello tribale-militare del mondo germanico e quello culturale-ecclesiastico del mondo latino. Due stili di vita che i franchi non solo avevano accostato, ma avevano promosso a simbiosi, consentendo ai gallo-romani di accedere alle carriere militari e intraprendendo essi stessi carriere vescovili. Quindi l’Europa post-carolingia è un vasto territorio a prevalente tradizione carolingia, ma non è per questo caratterizzata dal dominio assoluto del solo popolo franco. Il superamento dell’arianesimo e la lettura romana dell’esperienza cristiana determinano il sovrapporsi dell’idea di societas Christiana. Il secolo X, dominato dai popoli germanici, dalla presenza ungarica, da movimenti dei popoli slavi, crea una solidarietà europea: gli invasori non sono avvertiti culturalmente come “non europei”. L’Europa si sta consolidando come nozione geografica, nozione poliedrica ed elastica; le missioni di evangelizzazione avevano creato le condizioni per cui viene percepito come europeo chi si converte. curtis e il sistema curtense implicassero un’economia chiusa, fondata sul baratto, ebbe molta fortuna alla fine dell’Ottocento e sostenuta nei primi del Novecento dai minimalisti, ma è stata superata dalle ricerche degli ultimi decenni che hanno verificato una diffusione capillare di mercati settimanali nel corso del X secolo: del resto quell’idea non si poteva conciliare con la provata frammentazione topografica di ogni singola curtis. È vero che da alcune fonti risulta che almeno in sede teorica e progettuale si suggeriva agli amministratori delle maggiori curtes di perseguire obiettivi di autosufficienza, ma quegli obiettivi raramente furono sfiorati. Spesso tutte le forme di pagamento della terra - in natura, denaro, lavoro - coesistevano: la prevalenza dell’una o dell’altra seguiva andamenti irregolari. Non si può dire che nel primo medioevo prevalessero i canoni in natura, sostituiti poi dai canoni in denaro: non c’è un procedere della storia dall’economia naturale all’economia monetaria. Una certa possibilità dei coloni di disporre di denaro, attestata, è conferma dell’esistenza di piccoli mercati locali a cui la famiglia contadina riusciva a portare il proprio prodotto: nelle annate di buone rese o coltivando piccole quote di terra sottratte all’incolto senza che il padrone della curtis se ne accorgesse. La famiglia contadina, d’altronde, disponeva anche di una piccola quota di prodotto che sfuggiva al controllo padronale, che poteva servire ad aumentare il livello dei consumi della famiglia. I contadini avevano ottenuto dal padrone la terra da coltivare con contratti non scritti. I coltivatori del massaricio, in una prima fase storica, erano in prevalenza giuridicamente liberi. Quindi all’origine si può collocare la manodopera servile nel dominicum e la manodopera libera nel massaricium: ma è una situazione fluida, che cambia. I piccoli proprietari si sentivano in costante pericolo: crebbe in loro l’interesse ad appoggiarsi ai grandi possessori che avevano milizie private in grado di garantire un minimo di difesa, attrezzando con fortificazioni le loro aziende agricole. Molti piccoli allodieri fecero la scelta di rinunciare alla piena proprietà in cambio della garanzia di rimanere come affittuari sulle proprie terre, in cambio della possibilità ricevere la protezione di un grande signore e di usufruire delle fortificazioni e delle altre strutture difensive della curtis. Si accomandarono al latifondista. Questi “commendati” donavano la loro proprietà al latifondista mantenendone il dominio utile, cioè il diritto d’uso: diventavano censuari del grande possessore; le loro terre entravano a far parte di un complesso curtense; contribuivano ad accrescere il massaricium. Questa forma di accrescimento delle curtes costituisce una spiegazione aggiuntiva della forma non compatta di molte di esse. La piccola proprietà non sparì mai del tutto ma certamente le curtes della grande proprietà vissero una fase di espansione. Toccato l’acme dello sviluppo, le curtes cominciarono a trasformarsi. Il dominicum si restringeva e il massaricium si ampliava. Sempre più le campagne medievali erano caratterizzate da: servi domestici (rimasti a lavorare sotto le dirette dipendenze del padrone che garantiva loro vitto e alloggio) e servi casati (cui erano affidate quote di massaricium). Tutti questi “fenomeni” determinarono una tendenza all’omogeneizzazione della condizione contadina. Marc Bloch ha definito “servaggio” una condizione magmatica e confusa in cui si trovavano molti dei coltivatori delle campagne medievali. Ciò non esclude che molti liberi fossero integralmente liberi. E d’altra parte si deve escludere che le campagne medievali fossero abitate da “servi della gleba”. Qualche rara attestazione di adscriptus glebae ha colpito l’immaginazione di vari studiosi, i quali diedero una conclusione al servaggio di Bloch: si immaginava che questo avesse come protagonisti uomini in migliore condizione rispetto agli schiavi, ma per i quali la principale limitazione della libertà consisteva nell’obbligo di coltivare i campi a cui le loro vite erano state costrittivamente incardinate. L’idea che le campagne medievali fossero abitate da servi della gleba è sbagliata. Alcuni erano servi e quindi avevano una libertà limitata. Molti altri erano coloni liberi: quando anche costoro erano perseguiti da un tribunale è perché avevano abbandonato i loro campi, e non perché fossero servi della gleba. Erano, invece, perseguiti perché avevano rotto un accordo contrattuale. I padroni non erano contenti di veder saltare la loro programmazione, e visto che una fuga improvvisa poteva lasciare i campi improduttivi per un’intera stagione, egli volevano tutelarsi. La mobilità contadina dei secoli centrali del medioevo non era fatta sempre da servi fuggitivi; erano molti i liberi che cercavano di sottrarsi ai ritmi della grande azienda signorile per cercare fortuna altrove: ma questi non erano servi della gleba, erano individui liberi che avevano rotto un accorto, e quindi giudiziariamente perseguibili. I processi di ampliamento del massaricium e di restringimento del dominicum non si fermano più. I grandi possessori apprezzarono la comodità di avere una riserva signorile molto ristretta, cercavano di stipulare accordi a canone fisso: in tal modo le annate difficili, o di vera carestia, imponevano sacrifici esclusivamente ai coloni e gravavano ben poco sull’economia signorile. Le limitate dimensioni del dominicum rendevano per lo più superflue le corvées e i padroni esigevano in natura e in denaro l’intero pagamento del canone. Questo processo si svolse nel secolo XI: in alcune zone d’Europa la curtis finì già nei primi decenni, in altre soltanto tra la fine del secolo XI e l’inizio del XII. Gli storici affermano che la nozione di curtis non scomparve ma si territorializzò. Ciò significa che la curtis non fu più un’unità aziendale, ma un luogo specifico, zona circoscritta. In questa seconda limitata accezione la parola curtis è sopravvissuta nella toponomastica: Cortemaggiore è il nome di luogo corrispondente al centro della curtis più estesa; Corteregia i nome di luogo corrispondente al caput di un’antica corte fiscale del re; Cortenuova quello di un centro curtense nato in età posteriore rispetto ad altri. Quel centro curtense continuava ad essere azienda signorile ma non più curtense. La ripresa della città, l’iniziativa finanziaria, l’allargarsi di un ceto “borghese” hanno comportato la rivoluzione commerciale dei secoli XII e XIII. Se si può parlare di crisi del Trecento è proprio perché l’Europa aveva manifestato un dinamismo economico interrotto da guerre e pestilenze. La situazione dei secoli IX-XI serve a ridimensionare il carattere rivoluzionario della ripresa economico-commerciale. La moneta non aveva mai cessato di esistere, nella curtis non vigeva l’economia chiusa, i mercati c’erano e non vi si praticava il baratto. Nel XII secolo, l’utile ricavato dalla produzione agraria cominciò a essere reinvestito in nuove imprese e nei commerci: spesso dalla stessa aristocrazia fondiaria e da nuovi ceti urbani che tenevano spesso insieme attività agrarie, artigianali e finanziarie. 8. Il medioevo cristiano. Sugli argomenti ecclesiastici-religiosi si sono costruite indebite correlazioni: • fra il medioevo e l’idea di potenza di una chiesa oscurantista e oppressiva da parte del Settecento illuminista e laico; • fra il medioevo e i livelli massimi di spiritualità da parte di una cultura cattolica contemporanea che ha avuto anche l’anacronistica tendenza a interpretare come “eccezioni” o “crisi” tutti i comportamenti medievali non consoni alla propria sensibilità religiosa. Soffermiamoci sull’universo cattolico: Con l’aggettivo “ecclesiastico” si indica tutto ciò che ha a che fare con l’apparato delle chiese e con la “cura d’anime” della societas christiana, mentre l’aggettivo “religioso” ha un valore più generico. Le sedi vescovili, le pievi, le parrocchie e le cappelle sono “enti ecclesiastici”, i monasteri non lo sono. Quando si vogliono indicare tutte le fondazioni, sia ecclesiastiche sia monastiche, si deve usare “enti religiosi”. I sacerdoti si possono chiamare anche “chierici” o “preti” e i monaci medievali non lo sono: sono dei laici che hanno deciso di condurre vita di preghiera non in solitudine, bensì in comunità, obbedendo a una regola monastica. I centri di vita monastica si possono definire tutti “monasteri”, ma si definiscono “abbazie” solo quelli che hanno un proprio abate. I domenicani e i francescani non si definiscono monaci ma “frati” perché la loro caratteristica non era quella di obbedire a regole monastiche ma a nuove regole fondate sull’impegno socio- religioso nel mondo. Le sedi di questi ordini si definiscono “conventi”. Con il termine “canonici” si indicano tutti quei fedeli che conducono vita comune obbedendo a regole canonicali (Sant’Agostino), orientate verso l’assistenza e l’impegno pastorale: anche i canonici potevano essere laici, ma spesso erano chierici. Le plebes (pievi) sono ripartizioni territoriali ecclesiastiche interne alle diocesi e questa ripartizione era stata curata dalla legislazione di Carlo Magno, mentre si imponeva un’ordinata articolazione per diocesi e un loro sistematico raggruppamento sotto il controllo superiore di un metropolita o arcivescovo. Il termine “cardinali” non indica gli arcivescovi, cioè quei vescovi più importanti che sovraintendono a più diocesi, no. “Cardinale” è quell’ecclesiastico che ha ricevuto in affidamento una delle chiese cardine della diocesi di Roma. Oltre a queste precisazioni terminologiche, sono molte le rettifiche alla cultura comune che occorre fare in tema di storia religiosa del medioevo europeo. Dopo il secolo XII, il papato è un papato monarchico e, solo dopo di allora il papa risulta essere il capo assoluto di tutta la cristianità cattolica. Ma fino al XI non era stato così: il papa aveva un primato d’onore ma non governava la Chiesa. Le singole sedi vescovili erano sovrane, spesso decidevano le forme di governo ecclesiastico in assemblee regionali di vari vescovi e potevano assumere decisioni anche difformi da quelle di Roma o dai vescovi di un’altra regione. Ciò spiega perché nel XII secolo le norme ecclesiastiche fossero numerose e in contraddizione fra loro, tanto da indurre un monaco-giurista, Graziano, a cercare di semplificare e mettere ordine con il suo Decretum (concordia dei canoni discordanti). Prima del XI secolo si parlava di chiese, e non di un’unica chiesa: la Chiesa di Roma tendeva a proporsi come coordinatrice della cristianità, ma prima del 1000 non era quella la sua pratica. Nel secolo XI, Gregorio VII riformò la chiesa, trasformandola in una Chiesa accentrata e monarchica, con la dipendenza da Roma di tutti i vescovi. Ciò rispondeva ad esigenze di razionalizzazione di cui poi il Decretum di Graziano sarebbe stato espressione. Ma era anche una risposta a concezioni nuove della vita religiosa e dell’organizzazione ecclesiastica. Alcuni papi, come Gregorio VII, interpretarono queste esigenze suggerendo che un coordinamento rigoroso di tutta la cristianità avrebbe consentito di contrastare meglio le forme di devianza. La simonìa (la compravendita di cariche ecclesiastiche) era una forma di devianza allora combattuta, così come il nicolaismo (il concubinato dei chierici). Alcuni intellettuali, insieme a Gregorio VII, mirarono ad una riforma, piuttosto che una restaurazione. L’opera di trasformare la Chiesa di Roma in vertice indiscusso di tutta la cristianità cattolica riuscì a Gregorio VII alla fine del XI secolo. Molti vescovi provarono ad opporsi, ma la vicenda fu chiusa nel 1122, con il concordato di Worms fra papa Callisto II e l’imperatore Enrico V: i due grandi poteri universali si riconobbero reciprocamente e concordarono forme di gradimento di entrambi sui vescovi eletti. L’intreccio tra amministrazione civile ed ecclesiastica aveva avuto origine già nel VI secolo. Se da un lato i re garantivano protezione militare ed esenzioni fiscali alle chiese, dall’altro intervenivano nelle elezioni episcopali imponendo loro candidati. Questi vescovi erano molto vicini al potere regio e ciò ne promuoveva la funzione. Nelle aree in cui essi erano egemoni, il potere vescovile finiva per essere una sorta di integratore dell’ordinamento pubblico. Per tutto l’alto medioevo fino all’anno Mille, i vescovi erano personaggi di fiducia del re, per cui si poteva tollerare che nelle zone da loro condizionate l’ordinamento pubblico si interrompesse e i conti non potessero entrare. Quando questa esenzione divenne ufficiale, venne definita come “immunità”. L’immunità non aveva nulla a che fare con la dimensione “feudale” e con i rapporti vassallatico-beneficiari. Vescovi e abati immunisti si attrezzavano con loro milizie, sfruttavano il loro prestigio per mobilitare le popolazioni in caso di pericolo. In fondo i re, nelle aree degli immunisti, sapevano di avere poteri funzionanti che non si ponevano in antagonismo con la corona. Ma c’è da dire che si sa’ che l’immunità pura e semplice non poteva funzionare. Si sviluppa spontaneamente come concreta azione giurisdizionale da parte dell’immunista, e col tempo questa giurisdizione fu riconosciuta con diplomi che non condussero a mutare gli assetti interni di governo. Fra i secoli XII e XIII si avvertì l’esigenza di sostituire al potere collegiale dei consoli un potere esecutivo concentrato nelle mani di una sola persona. Questo è il podestà che dapprima era un cittadino del medesimo comune, poi divenuto un forestiero. Con l’adorazione del podestà, dovevano aver fine la lotta di fazione senza regole, la disordinata occupazione di posti di potere, l’eccessiva flessibilità degli organi di governo rispetto a interessi privati e contingenti. Il XIII secolo fu una grande stagione di mutamenti. Un patrimonio di regole, di concezioni della politica, di modelli istituzionali, non andò perduto quando singoli individui o famiglie si impadronirono del potere nei maggiori comuni italiani, aprendo la stagione delle “signorie cittadine”. Proprio con queste si cominciò a diventare “patrizi” poiché si ricoprivano importanti ruoli funzionariali. Da un lato i nuovi poteri assoluti chiudevano la tradizione democratica e assembleare su cui il comune si era sviluppato, d’altro lato usavano molti degli apparati che quella tradizione assembleare aveva contribuito a costruire. Nel resto d’Europa si trovano scansioni paragonabili all’evoluzione comunale italiana soltando in Francia meridionale. Ma va detto che dovunque vi era la presenza di comuni, autonomi in alcuni casi, meno in altri: in Germania erano più autonome le città imperiali, mentre in Francia le città sottoposte al controllo dei funzionari regi erano meno autonome delle altre. Ma di questi sviluppi comunali sono da sottolineare due differenze dall’Italia: • la prima, è che ogni comune puntava al massimo di autogoverno entro le proprie mura e non aveva ambizioni di costruire un dominio territoriale. • la seconda, è l’assenza di forti mutamenti politici nel corso del Duecento: ognuno di quei comuni si sviluppò gradualmente senza essere teatro né di forti ricambi sociali né di decisivi rivolgimenti istituzionali. Quei comuni avevano meno ambizioni di presentarsi come poteri pubblici e si preoccupavano di regolare la propria coesistenza con chi del potere pubblico era l’interprete più accreditato: un vescovo, un principe territoriale o direttamente il re con i suoi rappresentanti. 10. L’immagine buia del medioevo che finisce. I due secoli finali del medioevo, come sappiamo, sono stati definiti “bui”. Gli uomini della prima età moderna conoscevano quel medioevo e interpretavano allo stesso modo anche i secoli precedenti. Le carestie fecero immaginare un medioevo molto più affamato di quanto non fu in realtà; i processi di ricomposizione territoriale hanno fatto erroneamente ritenere feudalizzati tutti i secoli precedenti. È un medioevo a tinte forti e con contrasti violenti quello che finisce: il Trecento conobbe pestilenze eppure non si fermarono i commerci a lunga distanza e le grandi fiere; le guerre furono gravi, eppure diminuì il bellicismo endemico legato alla precedente minuta frantumazione signorile etc. Si realizzano ricomposizioni politiche con nuovi Stati, come Francia, Inghilterra e Spagna. Quasi ovunque i potenti locali scelsero di mettersi sotto l’ala di un re o di un principe ricorrendo alla tecnica del feudo oblato, cioè donando i propri territori per vederseli restituiti come feudi ereditari: la ricomposizione era feudale, ma i centri di potere diminuirono di numero e si arricchirono di funzioni. Queste ricomposizioni implicano che il passaggio dell’età medievale all’età moderna risulti come il passaggio dalla microconflittualità fra gli uomini alla macroconflittualità fra gli stati. Gli uomini del medioevo determinarono il loro superamento. Furono tipiche espressioni di quest’epoca le esplorazioni, conoscenze scientifiche, esperienze artistiche. Il medioevo fu un’epoca piena di colori, vivace, ritenuta totalmente buia a causa degli umanisti che l’hanno resa negativa e statica, poiché si sono ritenuti discendenti “diretti” di un’astratta memoria dell’antico. 11. L’età della sperimentazione. Secoli centrali, secoli della sperimentazione. Il medioevo è l’età della sperimentazione politico-sociale: esuberante ma con principi travisati. È una lunga fase storica in cui non si crede fideisticamente nella ragione ma neppure esclusivamente nel magico. Non si crede nello Stato come inquadramento concreto del quotidiano ma si evocano ideali di res publica o di Sacro Romano Impero. Si teorizza un ordine celeste che si riflette sulla terra. La sperimentalità si era manifestata nell’incontro latino-germanico; nei modelli bizantini che esportavano in Occidente la cultura greco-ellenistica; nei diversi tipi di accostamento etnico: sia alle complementarità (Regno dei Goti, dove i romani amministravano e i germani combattevano), sia alle convergenze (il regno longobardo del VIII secolo), ma soprattutto alla più vera integrazione, realizzata dai franchi entrati in contatto con il mondo gallo-romano. Sperimentale è stata la costruzione carolingia di un sistema misto, di potere territoriale e di potere personale, di governatori di province di tipo romano (i conti) e di capi militari fedeli del re (vassalli regi). Sperimentale è stata la costruzione dal basso di forme di potere locale: le signorie locali. Queste non erano feudi delegati dall’alto ma neppure territori del latifondo: erano invece ambiti di potere imperniati su nuclei fondiari, ma territorializzati, più compatti e in grado di esercitare egemonia anche sulla piccola proprietà. Nel XI secolo ci furono altre sperimentazioni definite imitative: i conti, per rendere ereditario il loro potere, imitano la concretezza del potere locale dei signori fondiari; ciò mentre i signori, nel costruire i loro ambiti egemonici, imitano il carattere ufficiale del potere dei conti, la loro fiscalità, il loro esercizio della giustizia. La chiesa vescovile di Roma imita la struttura gerarchica dell’impero; a sua volta l’impero dell’età sveva imita la struttura gerarchica della Chiesa. Infinte, anche il comune medievale è un grande sperimentatore perché in alcuni aspetti di convivenza imita le tradizioni delle comunità rurali e perché, nello sviluppo delle proprie istituzioni, inventa il primo politico professionale della storia europea, il podestà. Il rapporto del comune con il proprio contado rimane tradizionale: il comune infatti costruisce signorie collettive e imita il potere dei conti, imponendo ai rustici di obbedire al comune perché da quella stessa città, un tempo, comandava il conte. L’attitudine sperimentale la troviamo, dunque, in tutto l’arco del medioevo. La signoria rurale si presenta prima come vera unità di scomposizione e poi di ricomposizione. Dalla signoria rurale, il dominatus loci delle fonti medievali, sono da sottolineare la spontaneità, la concretezza, la versatilità, l’omogenea distribuzione del modello in quasi tutta Europa. E in certo senso nel dominatus loci vediamo ancora l’efficacia dell’incontro latino-germanico: perché c’è la protezione-oppressione sulle popolazioni e perché c’è la volontà di presentare come pubblici quei poteri signorili. Infine, va detto che la signoria rurale dei secoli centrali del medioevo è la più originale forma sperimentale di un lungo periodo di sperimentazione.
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